GAGGINI                                           via Giuseppe Gaggini

 

 

TARGA: via Giuseppe Gaggini – scultore – secolo XIX

                                                          

 

QUARTIERE  ANTICO: Canto

 da Vinzoni 1757. Ipotetico tracciato in verde; tra, in celeste, strada della Marina (v. San Pier d’Arena); fucsia, v.Bombrini; e giallo v. AnticaFiumara

 

N° IMMATRICOLAZIONE:  2779

 Dal Pagano/1961

 

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA - n°:   27440

UNITÁ URBANISTICA: 26 - SAMPIERDARENA

 

 

   Da Google 2007-In verde, via G.Gaggini; in fucsia via Bombrini; in giallo via Antica Fiumara; in rosso parte di via Operai   

CAP:   16149                                                                                                        

PARROCCHIA:  s.M. della Cella

 

STRUTTURA:   da via Bombrini, a via Fiumara; senso unico.

 

STORIA:  nacque come piazza Ammiraglio Sivori, a fine secolo 1800. Nell’adattamento,  tra case preesistenti e l’Ansaldo in continua fame di spazio, il nome (e la qualifica), vennero cambiate con delibera del podestà il 19 ago.1935, dedicandola allo scultore.

Su alcuni testi (Novella, p.es.) e ancora nell’ elenco delle strade della  toponomastica comunale del 1986, viene chiamato erroneamente “G.B.” o  Gaggino.

   

     

1999 – facciata del proiettificio vista da via Gaggini

             

1999                                                           2008

CIVICI

2007 – NERI   =  1

            ROSSI =   da 1r a 9r       e  4r (manca il 2r)

 

Nel Pagano /1940 al 5r c’è solo un’osteria, di Oddone Giuseppina. La strada andava via Fiumara a via Bombrini.

Nel 1961 aveva un negozio: al 3r panificio di Cetta I.; e Mantelli Antonio che si interessava di ‘bitumi’.

 


DEDICATA allo scultore genovese,  nato il 25 apr.1791, e morto in città il 02 magg.1867.

 La famiglia, Alcuni testi la riportano con una sola   g = Gagini; originaria (XV-XVI secolo) di Bissone  paese sul lago di Lugano (oggi in Svizzera, ma allora soggetto alla diocesi di Como), fu quasi totalmente composta da scultori – allora detti scarpellatori, ovvero lapicidi o scalpellini - tutti poi riconosciuti di fama internazionale. 


Da un diploma del 713 dC., la valle lombarda venne designata “valle Antelamo”: così, tutti i maestri venuti a Genova dal comasco, valle d’Intelvi, e dalla alta Lombardia in generale, assunsero il nome generico di Antelami, o ‘maestri Antelami’. Molti abitavano vicini tra loro, prevalentemente nella contrada di Piccapietra). Dei pervenuti nel quattrocento a Genova, un ramo –sicuramente dal 1448- si spostò ulteriormente a Palermo, ove in terra sicula diede i frutti più conosciuti sotto il nome di Gagini.

Il ramo rimasto a Genova, iniziato o con Domenico di Pietro (nato 1425 c.a, ed attivo a Genova dal 1448; suo è il s.Giorgio visibile come sovrapporta in via Luccoli; e sua la scultura nella cappella di san Giovanni Battista in san Lorenzo. O.Grosso, nel 1939 ancora lo chiama “Bissoni”; dopo aver lavorato anche a Napoli, morì a Palermo nel 1492) o con un Beltrame (morto nel 1470), trovò ambiente molto favorevole alla propria arte, essendo in aumento la domanda e la commissione di sculture (per ornare cappelle gentilizie, tombe e decorazioni di ville) unico mezzo allora per comunicare al mondo l’importanza di una famiglia preminente nel campo commerciale e/o contemporaneamente inserita nel campo politico. Forse Domenico si portò dietro il figlio Antonello, nato a Palermo e diventato famoso con opere nel Duomo ed in s.Zita)

Il Nostro, nacque da Bernardo e da Geronima Daneri nella zona del Carmine, in un momento politicamente tragico per la nostra Repubblica.

Fu l’ultimo della discendenza,  conosciuto anche come Giuseppe IV.

Restato orfano del padre (anch’egli iscritto all’ordine degli scultori dal 1792, e da cui apprese le prime nozioni dell’arte) ancora giovanissimo, appena dodicenne, entrò “in bottega” di Nicolò Traverso, distinguendosi subito tra tutti i suoi allevi, vincendo alcune medaglie di pregio (nel 1806 –quindicenne- una grande medaglia d’argento dell’Accademia per un modello dell’Ercole Farnese; nel 1812 medaglia d’oro per una statua di san Matteo; nel 1813 il “premio Canova”, consistente in due medaglie d’oro di venti zecchini  (istituito dal grande artista, con i proventi del marchesato d’Ischia, e da offrirsi a quel giovane scultore (da scegliersi tra le varie Accademie italiane)  che meglio avesse eseguito un modello in creta); il disegno di una piazza d’armi da spianarsi negli orti di san Vincenzo).

Compiuti gli studi alla scuola ligustica (dopo essere stato anche alla Brera di Milano per vincere un nuovo premio il 25 ago.1814 con un bassorilievo raffigurante ‘la morte di Priamo’; la statua è ancora là conservata), vinse - nel tempo della sconfitta di Napoleone e su sei candidati - il premio dell’Accademia (stanziato sulle rendite della Ligustica, valutate quando tutti gli istituti di pubblico insegnamento  furono raccolti in una struttura unica presieduta da un senatore) consistente in un soggiorno pagato a Roma per perfezionamento (fu lui il primo ed ultimo, scelto dal governo della Repubblica Ligure). Durante il soggiorno nella non ancora capitale, poté seguire da allievo le opere del Canova e nel 1817 ricevere dal maestro un secondo premio di 60 zecchini d’oro; nonché frequentare altri artisti genovesi tra cui i pittori Camuccini, Fontana, Baratta, GB.Monti, l’architetto Laverneda e lo scultore Thorwaldsen.

Tornato a Genova  con una discreta fama, aprì  lo studio in Sottoripa (nello stesso caseggiato ove era l’Hotel de la Ville) e fu subito assunto per varie opere, sostenuto e valutato dal march. Marcello Durazzo (di maggiore rilievo, un busto di Ottavio Assarotti per la chiesa dei Sordomuti (1818); due Angeli per la cappella del SS.Sacramento  ordinata dal marchese Luigi Lercari nel Duomo di san Lorenzo (1821): quest’opera fu per Genova una rivelazione, e gli aprì la strada ad onori e ricchezza; un medaglione del doge Giuseppe Doria da Massanova, per la chiesa del Conservatorio delle Figlie di san Giuseppe (1822); una statua per l’ospedale di Pammatone (1823)). In quest’ultimo stesso anno, alla morte del suo amato  maestro Nicolò Traverso (dal quale ricevette una congrua eredità), ne scolpì in marmo l’effige, conservata all’Accademia, traendola da un autoritratto in creta.

Superando la rigida educazione classicistica con l’adozione di forme più romantiche, conquistò sempre più fama scolpendo numerose opere sia per incarico pubblico, che per commissioni private (figure allegoriche per il mausoleo eretto in Cattedrale  in memoria di Vittorio Emanuele I; un busto di Pio VII per l’Episcopio di Savona; una statua di Giuseppe Gandolfo per l’Albergo dei Poveri; le statue di sant’Anna e Gioacchino per il santuario di NS dell’Acquasanta; al Carlo Felice la gigantesca statua del “genio dell’armonia” 1829, che fu posta alla sommità dell’acroterio;  delle plastiche per Tursi; delle sculture decorative per il palazzo Faraggiana -ora demolito- in piazza Acquaverde). Altre opere furono i leoni per l’epigrafe e lo stemma sabaudo per la Porta della Lanterna; i medaglioni di Giano e Colombo per una lapide murata in Porto-Franco a cura della camera di Commercio per perpetuare il ricordo delle franchigie concesse dai reali torinesi; le sculture per il catafalco per la messa in Duomo in memoria di Carlo Felice; una fontana per la piazza antistante la parrocchiale di Novi ed un’altra per la città di Avana; i quattro evangelisti per il pulpito in una chiesa di Porto Torres  ; per arredare il palazzo Gropallo allo Zerbino, scolpì i busti di Clelia Durazzo, di Camilla DeMari Durazzo (di essa anche il monumento nella chiesa di san Bartolomeo degli Armeni); di Gerolamo Serra, storico genovese, riprodusse il busto; per la villa delle Peschiere eseguì due fauni e le statue delle quattro stagioni (scomparse quando fu ristrutturata la strada) .

Fu inaugurata nel 1829 una statua da lui scolpita per l’avv. Gandolfo Giuseppe, posta nel corridoio dell’Albergo dei Poveri

Nel 1830 (scelto a confronto con gli scultori Giovanni Barabino ed Ignazio Peschiera) fu chiamato a dirigere la scuola di scultura dell’Accademia Ligustica (dal 1831 in piazza san Domenicoattuale DeFerrari-) divenendo il maggiore esponente del classicismo: tenne questo incarico fino al 1836, quando venne chiamato dal re Carlo Alberto alla corte torinese –già ospite a Genova ed ammiratore delle opere del Gaggini ( tra tutto un fregio ispirato al trionfo di Marcello, rimosso nel 1900 della sala rotonda dell’Accademia per ammodernamenti della stessa. Per Palazzo reale scolpì un busto in marmo di Carlo Alberto (1836).

Si trasferì (1837), impegnandosi a dirigere tutti i lavori scultorei per la reggia nella carica di ‘scultore di corte’, fino all’onore della cattedra di insegnante all’Accademia Albertina e di Cavaliere mauriziano  (per Racconigi, nella villa:   una belle statua di Pomona, il caminetto, l’altare nella cappella, gli ornati di alcune sale; nel parco: la statua dell’Immacolata, la cascina gotica, le serre, la fontana centrale, le statue di sant’Ignazio e Francesco d’Assisi per la cappella di sant’Alberto. Per la cappella reale nella chiesa di NS delle Grazie, scolpì l’altare. A Pollenzo, nel prato antistante palazzo reale, adornò la base della grande croce con le statue dei dodici apostoli. Nella Reggia di Torino, una Diana cacciatrice, dei bassorilievi allegorici riferiti alle città di Alessandria, Casale, Novara, Genova; il busto di Corrado di Monferrato; molte sculture decorative nella sala del trono, del consiglio ed in quelle da pranzo e da ballo; l’altare nella chiesa parrocchiale di Torre Pellice, voluta da Carlo Alberto per esaudire una volontà popolare; nel Camposanto torinese (1848) il monumento funebre al marchese Felice di san Tomaso e quello della famiglia Solei;  nello stesso anno scolpì un monumento del principe Tomaso di Savoia per la cappella della sacra Sindone; nel 1849 una statua di Vittorio Emanuele I  che venne regalata alla città di Genova da Carlo Alberto: causa però la sommossa che funestò i rapporti tra genovesi ed i Savoia, la grande scultura rimase nei magazzini comunali  finché nel 1869 fu rispedita a Torino ove fu innalzata di fronte al tempio della Gran Madre di Dio).

Sue opere sono all’Accademia delle B.A. in De Ferrari, tra cui il busto del maestro N.Traverso 

Tornato a Genova ospite del nipote Bernardo, anche lui scultore, nel 1856 intervenne nel monumento a C.Colombo (la prima pietra del complesso fu posta solennemente nel 1846; l’inaugurazione finale avvenne nel 1862), producendo la statua della “Nautica”, ed un bassorilievo posto alla base, con la  rappresentazione di “Colombo al congresso di Salamanca” (il cui modello originale è conservato all’Accademia).

Questa opera, è ufficialmente considerata l’ultima, di grande proporzioni, anche se continuò a lavorare instancabilmente, praticamente sino alla morte il 2 magg.1867  (a Staglieno la tomba del sen. Sebastiano Balduino; dei Nicora, di Giacomo Gamba, di Santo Villa; nella villa Rostand a Pegli l’Immacolata per la cappella; nel palazzo Sauli il busto di Alessandro; un monumento funebre privato, trasportato a Tepic in Messico)

Fu sepolto a Staglieno,  nel porticato superiore a ponente; viene ricordato con un monumento marmoreo scolpito dal suo allievo prediletto Giuseppe Dini , che eternò a memoria l’effige del maestro.

Anche in Genova erano avvenute le trasformazioni e gli ampliamenti  suggeriti da nuove esigenze edilizie e dell’arte espressiva in genere;  di rimando la frequentazione e valorizzazione di nuovi artisti e nuove idee. Suo merito è aver saputo cogliere il momento del distacco da forme rigidamente neoclassiche e rinascimentali, per maturarle in forme più elastiche, sciolte, di gestualità con più ampio e nuovo respiro, proprie dell’epoca post del Rinascimento, gotica lombarda. 

Coerente con lo spirito ligure, generalmente sobrio, di poche parole, usi a raccogliere glorie in silenzio, diventa facile  per il critico superficiale, classificare “secondario” questo artista, solo perché non uso a clamorose affermazioni delle sue opere; in realtà per il talento e straordinaria abilità, è da porre ai primi posti tra gli scultori italiani dell’ottocento.

   È conosciuto un omonimo Giuseppe Gagini, scultore, vissuto a Genova nel seicento (1643 c.a-1713), ovviamente anche lui membro della grande famiglia di origine lombarda, produttore assieme al fratello Giacomo di altari e di, unico firmato, un busto di Apollo conservato nella collezione austriaca del principe  Johann Adam Liechtenstein.

BIBLIOGRAFIA-

* riportano  il nome GB , e non Giuseppe.

-Alizeri-Notizie dei Professori del disegno…-Sambolino-1864-vol.I-pag.435

-Archivio Storico Comunale Toponomastica, scheda

-AA.VV.-Annuario guida arcivescovato-ed.1994-pag.407-ed./2002-pag.444

-*AA.VV.-Stradario del Comune di Genova anno 1953-pag.81

-AA.VV.-Scultura a Genova e Liguria-Carige-vol.II-pag. 331.474.516

-Bernini D.-Genova e i genovesi a Palermo-Sagep.1978-pag.61  

-CervettoLA-I Gaggini da Bissone e le loro opere-Hoepli-1903

-Enciclopedia Motta

-Enciclopedia Sonzogno 

-‘Genova’ rivista municipale–nov.1937 (XVI)-pag.32

-Grosso.Bonzi.Marcenaro-Le casacce e la scultura…-Goffi.1939-p.34

-Internet-Google Earth-

-Lamponi M.-Sampierdarena-LibroPiù 2002- pag. 106

-Milano C-Genova e l’Europa continentale-Fond.Carige.2004-pag.178

-*Novella P-strade di Genova-Manoscritto bib.Berio.1900-pag. 16

-Pagano/1933.pag.246--/1940-pag. 24--/1961-pag.216

-*Pastorino.Vigliero-Dizionario delle strade di Ge.-Tolozzi.’85-pag.758

-Poleggi E: &C-Atlante di Genova-Marsilio.1995-tav.33

-*Telecom cartina  

 

GALATA                                                     via Galata

 

 

   Primo documento sul quale appare citata la strada è datato 1867, riferito quale località di decesso (su 68 in tutto) di tre casi di colera.

  È il nome che ha preceduto - fino agli inizi del 1900 - la attuale dedica      “via Pietro Chiesa”, in piena zona della Coscia: per un cittadino sampierdarenesefino al 1900 era una strada ‘cornice’ sulla marina, una strada di lavoro duro;  punto di incrocio fondamentale per il traffico in tutti i sensi: navale, viario, ferroviario, tranviario, artigianale, commerciale, doganale,  culinario e non ultimo anche ludico (a contendere pacificamente l’uso della spiaggia ai pescatori, iniziarono a nascere i bagni: i Margherita, furono i primi stabilimenti eretti con concezione ‘moderna’, e come tali frequentatissimi anche dai ‘foresti’ piemontesi e lombardi; ideatori e proprietari furono Carlo Lagorara, Ambrogio Cabella e Faccina Bruni, rispettivamente console, presidente dei Minolli  e spedizioniere; la loro società si sciolse nel 1872, ma aveva dato l’avvio all’utilizzo dell’arenile per numerose  eguali e fiorenti iniziative).

STORIA: 

nel regio decreto del 1875, viene chiamata “primo tratto della Strada della marina”; strada che dalla zona della Coscia (casa Lanzetta)  arrivava sino alla Crosa Larga (casa Morando che compare ancora nell’elenco sotto, ma non più all’estremo della strada).

 

   Dal Pagano 1902 segnaliamo gli esercizi commerciali: al 15 Borzone Vincenzo, succes. a Casanova Luigi, ha segheria idraulica, tel 773, ed è negoziante di legnami da costruzione;--- 15 anche il demolitore di bastimenti Bertorello Angelo(citato anche nel Pasgano/12; nel 1919 non c’è più, ma esistono altri due Bertorello demolitori (figli?), Salvatore e GB, in sedi diverse: via Manin e via Carducci);---al 19, il deposito di petrolio della Società Americana per il Petrolio, tel. 653 (ultima volta compare nel Pagano/1919)---19 Panizzardi e C. si interessavano di olio minerate, tel. 682;---; 22 cascami, cotoni e carbone minerale di Specher William, tel. 459, al civ.83r (presente ancora nel 1925 quando la via si chiamerà P.Chiesa; ed il civico trasformato in 75r);--- 25 Colombo GB e Figlio, succ. Montaldo, hanno una fabbrica di pasta alimentare. L’azienda posta in cima alla via, andò a fuoco: la casa con gli asciugatoi andò distrutta “come paglia” e con essa anche l’abitazione di chi viveva ai piani superiori (l’uso di candele, le case di legno e l’assenza di un servizio pompieri dovevano essere abbinamento facile per innescare simili disastri);---

   Nel 1906, viene proposto all’amministrazione comunale il nuovo nome di “via Galata” , da dare al tratto di strada che “da  via Cristoforo Colombo arriva fino ai magazzini Carpaneto, verso i bagni Margherita”…” sino al Tunnel“ . Un censimento di quegli anni  segnala proprietari di immobili i sigg. Carpaneto Giuseppe all’ 1 ; Carpaneto Giacomo al 1a ; Garibaldi e Copello al 2,2a,2b ; Croce e C al 9 ; Bertorello al 10, 23 e 24 ; fratelli Testa ; marchese Pallavicini ai n.i dal 12 al 17; Carlo Invrea e C al 18 e 19 ; casa Danovaro al 20 e 21Casanova Luigi al 22; Paganetto Clelia al 25 ; Morando Giovanni al 26 ; vedova Bertorello e C al 27 ; Macciò GB e C al 28.

    Nel Pagano/1908 con segheria idraulica al 15 ci sarà fino al 1912 Borzone Vincenzo (e success a Casanova Luigi (vedilo nel 1906))(Nel Pagano 1919 è citato come succeduto -ma al civ. 23- dai f.lli Gardino; e questi nel 1920 sono –con segheria- al civ. 21 di via P.Chiesa);---  al 19 Panizzardi e C. (nel Pagano/12 c’è; nel 19 non c’è più) –tel.682- si interessava di olio( minerale e d’oliva) ---

   Nel 1910,  ufficializzata la titolazione, si precisava che andava dalla galleria del Faro all’incrocio con via C.Colombo’, ed aveva i civv. sino al 6 e 43, poi corretti a penna, 8 e 43.

    

senza case a mare                                              e senza illuminazione elettrica                                  

 

 

    Nel Pagano 1911 e 12 appaiono oltre quelli del 1908,  63r commestibili di Rossi Ersilia.  Nel Pagano/1919 compare nuovo al civ. 1  il negoziante di legnami Leiss Paride¡. 

    Il Pagano 1925 include al 63r il negozio di commestibili di Rossi Ersilia.

   Nella strada con questo nome,  nacque il club dei Carbonai.

   Attualmente via Galata è in Portoria.

   

DEDICATA al sobborgo di Istambul, quale antichissima sede di insediamento genovese:  dal medioevo infatti, i fondaci concessi ai genovesi  favorirono il reciproco fiorire di commercio e accrebbero la fama dell’abilità dei nostri marinai.

La città di Costantinopoli fu da sempre soggetta a lotte e conquiste di popoli locali e viciniori, posta come è in posizione cruciale per i traffici verso l’est. Così anche i genovesi, possessori delle navi, si inserirono di forza nel gioco commerciale, ottenendo dal Barbarossa (alleato con AdrianoIV ed Emanuele imperatore d’Oriente) con controscambio di sicurezza e protezione, libero transito nei possessi dell’impero bizantino, traffici commerciali, favori doganali e concessioni di attracchi: nel 1162, già oltre trecento erano i cittadini genovesi stabiliti in città: con alti e bassi delle fortune, relativi all’instabilità politica, nel 1193 l’ambasciatore Guido Spinola  concluse con l’imperatore sempre più favorevoli trattati di alleanza.

Nel  1203 la città fu aggredita dai veneziani che erano al seguito della IV crociata; essi conquistarono la città,  saccheggiandola  e annettendosi gran parte della città stessa, dei porti vicini e le  isole vicine,  iniziando il periodo definito “impero latino di Oriente”, durato però solo una cinquantina d’anni. 

Nel  1261 l’imperatore greco di Nicea, Michele VIII Paleologo restaurò l’impero greco sulla zona, aiutato dai genovesi; per gratitudine  stese un trattato - detto di Ninfeo - con cui, concesse loro  il predominio sui veneziani assegnando la signoria di Galata (posta a sud della città, sulla costa settentrionale del Corno d’Oro) con la piena libertà di attracco alle loro navi.  Sei anni dopo, anche a Pera, posta nella zona più a nord e nell’interno dello stretto,  i genovesi entrarono in possesso di  un’ altra colonia che  fortificarono:  con queste basi,  era loro possibile controllare  tutto il passaggio del Bosforo. Quindi tutto il mar Nero (ove a Caffa -in Crimea- era un’altra importantissima colonia)  e quanto oltre in oriente, era sotto stretto controllo della flotta genovese, con enormi vantaggi per la città madre (seppur sempre in battibecco con i veneziani).

Da allora Genova curò questa colonia, come preziosa e commercialmente fondamentale, sia a livello amministrativo che  architettonico (si ricorda tra i magnifici monumenti, la “torre di Cristo”, ancor oggi chiamata “torre dei genovesi”,  eretta nel 1446, utile per il controllo della zona sia del mare, che degli incendi a terra). Le colonie, autonome, erano governate da un Podestà, aiutato da due Capitani del popolo.

Nel 1395 iniziarono a comparire i turchi: accettando umilianti condizioni, si dovette concedere loro una parte di territorio; lo stesso nel 1424; ma non si riuscì  purtroppo a fermare l’orda dei seguaci di Maometto II, che nel maggio 1453 assalirono la colonia, difesa da 7mila soldati comandati da Giovanni Giustiniani, affiancato dall’imperatore Costantino V. Tutta la città cadde il 29 maggio in mano mussulmana,  da allora essi la chiamarono  Istambul. E Genova ne subì un grave ed irrimediabile  danno economico e di immagine, sottolineando l’incapacità della città madre di proteggere  in qualsiasi evenienza  così lontane colonie.

La presenza dei genovesi a Galata e nelle zone vicine, è stata ampiamente studiata da molti storici, per l’importanza e la ricchezza che questa civiltà lasciò nel territorio, mai più eguagliata malgrado i tentativi degli stessi turchi di rifavorire i traffici commerciali .

É storia recente (genn.1986),  il ricupero di un ingente tesoro in monete d’oro genovesi, durante il dragaggio del fondo, nei pressi degli antichi attracchi di Galata.

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale  

-Enciclopedia Somzogno

-Favretto G.-Sampierdarena 1864-1914 mutualismo e...-Ames.2005-p.169  

-Il Secolo XIX dell’ago.2000 

-Novella P.-Strade di Genova-manoscritto bibl.Berio.1930-pag.18

-Pagano 1908   - pagg. 873-9

-Pastorino.Vigliero-Dizionario delle strade di Ge.Tolozzi.1985-pag.760

-Pescio A.-I nomi delle strade di Genova-Forni.1986-pag.148.267

 


GALILEI                                            vico Galileo Galilei

 

  Non è  più a Sampierdarena, ma a san Fruttuoso.

  Corrispondeva alla attuale  salita Dante Conte

  In modo errato, agli inizi del 1900, viene segnalato  dal Novella come “vico” iniziante “dalla scalinata Cesare Beccaria”; forse potrebbe corrispondere al vico poi dedicato a Galileo Ferraris e poi infine intestato ad A.Issel; ma appare ovvio pensare ad un errore del Novella.

  Infatti nell’elenco stradale del 1910 edito dal Comune di San Pier d’Arena, il nome dello studioso viene inserito posteriormente a penna come:  “Galileo Galilei salita (già salita san Bartolomeo)”, con itinerario “dalla via san Bartolomeo alla via Promontorio” con civici sino al 7 e 10 (quindi sino all’incrocio con vico Imperiale oggi salita S.Rosa superiore).

  È del 17.5.1911 una lettera di protesta indirizzata al Prefetto, dell’abate di Promontorio don Brizzolara contrario alla variazione “della via del quartiere principale di Promontorio che porta il glorioso nome dell’apostolo e martire san Bartolomeo titolare dell’antica abbazia del Fossato e patrono della parrocchia, sostituendovi il nome di  Galileo Galilei – mutazione che non ha altra ragione che quella di abolire le glorie del cristianesimo e della civiltà cristiana, di cui i santi apostoli furono gli intrepidi banditori”. Ed è di quegli stessi anni  un appunto dello stesso sacerdote scritto su un fascicolo intestandolo “per fontanile in capo alla salita Galileo Galilei” riportante la diatriba nata nel 1903 col Municipio (sindaco Nino Ronco) per il fontanile pubblico posto vicino all’abbazia in ‘salita s.Bartolomeo’ che il Municipio disse non poter riparare causa l’elevato prezzo (lire 3000 a fronte di una controvalutazione fatta dal prete di lire  670), per cui aveva chiesto contributo degli abitanti. Nella descrizione il sacerdote scrive anche :”fontanile pubblico che si trova sopra la Chiesa della costa in cime alla salita di S.Antonino”. Quindi è quel fontanile che è stato distrutto alla biforcazione della strada.

  Nel 1927 all’atto della formazione della Grande Genova, ben 5 delegazioni avevano una strada intestata al fisico: il Centro, Sestri, Rivarolo, e Voltri. La nostra era classificata di sesta categoria.

  Nel 1933 si conferma  e si precisa: ”posta tra via san Bartolomeo e via Promontorio-via E.DeAmicis“,  con civici neri sino al 7 e 8; restando sempre di 6a categoria.

  Un cartoncino del nov.1935 reclamizza ‘Francesco Doero / apparecchi radio / riparazioni – trasformazioni / amplificatori di Potenza / salita G.Galilei, 8 / Sampierdarena’.

  Con delibera del podestà, il 19 ago.1935 divenne salita D.Conte, che ora arriva a ‘salita Promontorio’.

DEDICATA al geniale matematico nato a Pisa il 15 febbr.1564

Primogenito di sette figli di  Ammananti Giulia e di Vincenzo (un suonatore di liuto e violino;  compositore di musica;  mise in musica il canto della Divina Commedia relativa al conte Ugolino; e scrittore di un trattato sulla musica antica e moderna: tutte attività assai poco lucrose).

   Fin da giovane, dopo un tentativo di farlo frate a Vallombrosa, dal padre fu avviato alla medicina; ma lui boicottò questa via professionale sentendosi portato agli studi della fisica e matematica (molto, arguendo e studiando da solo).    Diede così un contributo determinante per lo sviluppo della civiltà, divenendo protagonista della storia scientifica mondiale.

   Di carattere squisitamente toscano, un pò attaccabrighe e turbolento, un pò polemico e superbo, un pò velenoso ed arrogante, però geniale. Adottò un metodo di studio allora innovativo, basato su varie fasi: dapprima l’osservazione dei fenomeni e raccolta dei dati; per ragionare sulle varie possibilità ed aprirsi alle ipotesi sia causali che conseguenziali più logiche; da concludere poi con l’affermazione più esatta e valida; dopo aver possibilmente sperimentato l’evento. Questo modo di studiare migliorava le tecniche precedenti, basate sulle prime due fasi, creando – aggiungendo la terza - il “metodo sperimentale scientifico”, ovvero non l’osservazione a tavolino ma la verifica di come è fatta la realtà: non esisteva prima, mentre  è facile oggi perché tutt’ora è in atto quale unico sistema ritenuto valido per tutte le conquiste scientifiche che l’uomo ha fatto dopo di lui, e che riuscirà a fare.

   Così a lui diciannovenne, si deve la prima invenzione di una macchina utile per misurare la frequenza e le variazioni del polso; poi verranno la rilevazione dell’isocronismo del pendolo; e tre anni dopo la costruzione di una  bilancia idrostatica (utile per determinare il peso specifico dei corpi solidi).

   A 25 anni scrisse il suo primo libro ‘De motu’ prendendo lo spunto di confutare una tesi aristotelica sul movimento dei corpi e dimostrandola con i famosi pesi lasciati cadere dalla torre di Pisa.    I suoi studi gli valsero essere nominato quell’anno cattedratico di matematica nella sua città occupando questo incarico per tre anni. Poi nel 1592 Venezia lo insignì di eguale cattedra a Padova e là si trasferì fino al 1610. Qui si unì con Marina Gamba che nei 10 anni di convivenza gli dette (nei registri compare ‘padre incerto’) 2 figlie (poi ambedue suore) ed un maschio.

   Era a Padova il 7 genn 1610 alle tre di notte, al freddo dell'inverno, alla luce fioca ed oscillante di una candela necessaria per prendere appunti, quando vide tre luci intorno al pianeta Giove: nuovi pianeti, stelle? Ma, ragionando, avevano un moto troppo veloce ed anterogrado, per non essere altro che dei semplici satelliti: non solo la terra, ma anche Giove aveva dei satelliti. Saltava la teoria tolemaica e diventavano inutili tutti gli epicicli e misuratori delle stelle, mirati a giustificare la teoria suddetta.

Tolomeo (al secolo Claudio Tolomeo vissuto nel II secolo ad Alessandria d’Egitto; scrisse in 13 libri il Mathematike syntaxis –in arabo, Almagesto-) - per giustificare il movimento apparente degli astri determinò che la terra era il perno attorno alla quale ruotavano tutte le altre sfere: ovvero la terra posta ferma ed al centro e attorno a lei ruota l’universo. Dagli studi degli egizi ed arabi, poi nella antica Grecia, era divenuta unica accettata anche dalla Chiesa l'architettura cosmica di Tolomeo in quanto i suoi studiosi avevano trovato con essa parallelismi ritenuti validi per spiegare i vari passi della Bibbia.

Quindi, ancora al tempo di Galilei, unica e imposta per legge,  era questa concezione del cosmo (in contrasto con quella neonascente eliocentrica Copernicana innovativa ma non provata). E logicamente di conseguenza, ma soprattutto per l’Inquisizione, l’ accusa - per chiunque affermasse diverso - era di eresia: ovvero arresto, tortura e rogo (e con questo tribunale, per motivi diversi ma fuorvianti, oltre Galilei, ne fecero le spese G.Bruno, G.Keplero e tanti altri).

Con cannocchiale più potente ancora scoprì - in totale - quattro satelliti (sui oltre sessanta, che sono) e li chiamò Medicei, in onore del suo mecenate.

In quegli anni, nel suo laboratorio realizzò diversi strumenti tra i quali un termometro (con vino per liquido: il mercurio verrà introdotto 60 anni dopo) ed un perfezionamento e potenziamento del cannocchialequando Galilei fu posto in cattedra a titolo onorifico (senza obbligo di lezioni), nominato primo matematico a Pisa, regalò a Cosimo II dei Medici, anche lui curioso studioso del cielo - questo cannocchiale (6 cm. di diametro, lungo un metro, con lenti molate a mano ed incastonate nel legno da valenti incisori, che potenziava l'occhio umano di 20 volte, rendendolo capace di vedere dal campanile di s.Marco a Venezia una vela in mare, molte ore prima dell'avvistamento ad occhio nudo), che già esisteva, ma  portandolo a trenta e più ingrandimenti.

Iniziò l’era dei telescopi e per lui la grande passione per l’astronomia: con esso scoprì novità  riguardanti la luna; ma più lontano, come detto, confermò ancora l’esistenza dei 4 satelliti di Giove, le fasi di Venere,  le macchie solari e la rotazione del sole sul proprio asse,  l’anello di Saturno Per capire la passione utile è parlare delle innumerevoli notti passate insonni per osservare il cielo: già in questa prima fatica, si intravede le personalità dello studioso.

   Capace di scrivere sia in toni strettamente scientifici, ma anche con spirito artistico spiccato, diede alle stampe moltissimi saggi, tutti basilari per le ricerche e gli studi  astrofisici e meccanici futuri.

   Le sue osservazioni sulle leggi che regolano il movimento dei corpi per effetto del loro peso, lo convinsero della ragionevolezza della teoria copernicana contro quella aristotelico-tolemaica. Per aver supportato questo principio, fu denunziato all’Inquisizione; ed a Roma, fu diffidato dal proseguire queste ricerche.    Quando nel 1623 venne eletto papa Urbano VIII (che pareva più disponibile e   quindi con una apertura mentale più capace a capire le nuove possibilità scientifiche), il Galilei si ritenne libero di riprendere gli studi in tale direzione: l’accusa fu di non aver tenuto fede alle imposizioni dategli dal Papa ed alla sua parola data di obbedienza.

   Così l’anno dopo 1624  (69enne) dovette ricomparire a Roma davanti al tribunale del Santo Uffizio,  sospettato di eresia.  Difese contro le credenze dell’epoca, ma senza energia nascondendosi dietro ‘il non aver capito’ la sua idea eliocentrica (scrisse che le Sacre Scritture non possono errare, ma può rivelarsi un errore che l’espositore si fermi al puro significato delle parole e ad una ferrea ed univoca interpretazione=questo offrì il fianco all’accusa, non essendo lui un religioso). In sostanza non fu capito né accettato dai cardinali giudicanti che lo valutarono studioso assai pericoloso e deviante; e con questo giudizio, malgrado l’età, la bravura, la protezione di altri cardinali, lo condannarono alla abiura (che fece) ed al carcere a vita; la pena fu poi commutata nell’isolamento e preghiera penitenziale, relegandolo in Siena.

Pubblicò il suo testo più importante nel 1632 intitolato ‘Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo’ (ove nella premessa aveva apertamente professato subordinazione a quando avrebbe disposto la Santa Sede circa la verità religiosa. La  novità espressa nel libro, coerente con il suo metodo di studio, consisteva nell’affermare –anticipando il concetto poi unanimamente accettato nel secolo dopo del rinascimento- che per arrivare alla verità sulla natura, occorre iniziare con -unica fonte- l’ osservazione dei fatti già veduti ed acquisiti. Un equivoco interpretativo dei giudicanti fu che il metodo fosse mirato anche alla verità spirituale, basata sulla fede).

Nel 1634 morì la sua figlia prediletta Virginia, che aveva preso i voti divenendo suor Maria Celeste: alle due disgrazie contemporanee, si sommò una grave disfunzione visiva da divenire pressoché cieco; esse diedero al suo pur forte carattere un trauma che non fu mai superato, anche se da quella specie di segregazione lo sottrasse l’arcivescovo Ascanio Piccolomini, più sensibile alla genialità dello scienziato. Lo portò ed ospitò ad Arcetri nella sua sontuosa villa, ove accompagnato da alcuni suoi allievi, poté proseguire studi di astronomia (1637: la librazione della luna) e di matematica (pubblicando un altro trattato mirato alle nuove scienze attinenti alla meccanica ed al movimento).

   Morì ad Arcetri l’8 genn.1642 Altri scrive 8.01.1640

Nicolò Barabino – Galilei in Arcetri

 

  Si scrive che un dito dello scienziato è conservato – come una reliquia - nel museo di Storia e della Scienza di Firenze.

   Il premio Nobel per la fisica Arno Penzias, riconosce che non sempre Galilei era dalla parte della ragione: per esempio erano sbagliate le teorie sulle maree; mentre le speculazioni sul cosmo si sono rivelate giuste ma senza poterle provare (le prove le portò Newton molto dopo).

   Ma non dobbiamo disconoscere, che solo con lui, l’uomo studioso ha dato una svolta decisiva alla ‘scienza dimostrata’,  di fronte alla fantasia della ricerca: senza il suo metodo di ragionamento e rigore logico di base, oggi – dopo solo quattro secoli, rispetto ai 400 che l’uomo è sulla terra - non ci sarebbero la radio gli aerei, gli astronauti, ecc. E questa multivalenza - del predominio della scienza e del rigore logico - è altra sua genilità: coinvolge gli astri, le acque, la meteorologia (termometro e barometro), i pendoli (esistevano solo le meridiane allora) e la musica, il linguaggio, ...l’infinito. 

  Essendo inizialmente un teorico – come tutti gli studiosi sino ad allora - ovviamente in buona parte 'tirò ad indovinare' e per sostenersi ebbe necessità di essere furbo: innanzi tutto esaltare le sue idee e – forse - cercare di mettere in ombra quelle degli altri; ed in secondo luogo essere politico: questo lo dimostrò al processo dove seppe togliersi dal conflitto “tra scienza e religione” (l'equivoco nasceva perché i religiosi volevano dire come è il mondo, e spiegare perché era tale, sulla base degli studi sulla Bibbia). Ma a lui dobbiamo che è stato il primo al mondo che ha imposto il ragionamento scientifico per arrivare alla conclusione: la Natura ha delle leggi fondamentali, e solo ragionando sulla loro base si arriva a conoscere come è fatto il mondo. Galilei, anche se non scoprì quste leggi, le intuì, e sulla loro base  iniziò a dedurre buona parte delle prime verità sul mondo, arrivando a conclusioni a volte anche contrastanti con la deduzione religiosa che era priva di fondamento scientifico anche se dava l’illusione di essere LA verità.

Lui stesso ha spiegato che “la scienza descrive le cose del mondo (per esempio come si muove); la religione spiega il perché; ambedue in modo complementare e funzionale purché ciascuna non travalichi la posizione dell'altra, altrimenti sorgono problemi.  Ma senza il suo ‘sbloccare’ il modo di ragionare di allora,  sicuramente oggi saremmo ancora legati ai problemi della sola terra, e quindi senza le enormi invenzioni tecnologiche.

 Il 31 ottobre 1992 papa Paolo GiovanniII dopo 13 anni di studi, riaprì il caso Galilei e lo concluse con l’assoluzione e le scuse della Chiesa: fu riconosciuto che i teologi di allora sbagliarono ritenendo le sacre Scritture da leggersi alla lettera e non con interpretazione, e che reciprocamente la scienza non deve entrare in conflitto con la fede.

   Nel 1989 la Nasa spedì nello spazio verso Giove alla velocità di 31mila miglie/h una sonda chiamata Galileo e costata 2000miliardi di lire. Dopo sei anni iniziò a trasmettere dati, continuando per altri otto: infatti nel totale percorso di 4miliardi e 630milioni di chilometri, il 21 settembre 2003 entrò in orbita al pianeta Giove e dopo averne attraversando l’atmosfera, andò a sciantarsi al suolo trasmettendo dati sino all’ultimo istante.

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale

-Archivio Storico Comunale Toponomastica - scheda 1976

-DeLandolina GC.-Sampierdarena –Rinascenza.1922-pag.41

-Enciclopedia Sonzogno  

-Il Giornale-quotidiano, del 28.9.08 + 24.03.09

-Il Secolo XIX del 19.09.03

-Novella P.-Strade di Ge.-Manoscritto bibl,Berio.1930-pag.17

-Pagano/1933- pag. 246

-Reston J.-Galileo-Piemme.2001.-ritratto

 


GALOPPINI                                             piazza Galoppini

 

 

Non ha mai avuto l’onore del riconoscimento ufficiale, trattandosi di un popolare punto di riferimento negli anni 1930, relativi all’omonimo stabilimento i muri dello stabilimento sono quelli ancora presenti e limitanti a levante la via Castelli per la lavorazione della latta e sua illustrazione e quindi per confezionare scatole da conserva , sito in via A.Castelli (di fianco a ponente dello  stabilimento con identico scopo gestito da  M. Diana (più famoso perché divenne sindaco di San Pier d’Arena fino al passaggio della città nella Grande Genova), dapprima associato ad un  Massardo: il sottopasso ferroviario subito dopo a levante di quello di via Castelli fu chiamato a fine 1800  dalle ferrovie dapprima -e non si sa perché se non forse riferito a qualche società di mutuo soccorso o circolo ricreativo- ‘strada priv. Cuore ed Arte’, poi ‘Massardo’ ed infine negli anni ’30 ‘Massardo-Diana’), ma aperto in via Vittorio Emanuele tramite uno dei sottopassi ferroviari corrispondenti e che si chiamava appunto ‘sottovia fratelli Galoppini’). Vicino doveva esserci un altro stabilimento, di un Dellepiane, perché il sottovia ferroviario appare a volte intestato anche a lui.

Un cartoncino reclame di Eugenio Armanino nel 1934 venditore di olio d’oliva e di semi/saponi, si colloca in ‘via Vittorio Emanuele, 23 / (Corte Galoppini)’.

Poiché a nord della strada ferrata, di fronte al lungo edificio della fabbrica, ancora non c’erano i palazzi attuali (i civv.2 e 4), ed ormai invece erano stati disfatti i confini dei giardini della villa Grimaldi di Gerace aperta poco sopra in via Daste, esisteva in quegli anni un largo spiazzo privato, proprietà dei Galoppini,  ove i ragazzi potevano giocare e le maestranze potevano riversarsi nei momenti di intervallo, facendo acquistare alla zona  una autonomia di riferimento propria. Era il più importante posto per giocare perché più vasto e più centrale: vi arrivavano di gran corsa – per prenotare lo spazio posando gli oggetti personali - soprattutti gli studenti dalla villa Scassi:  al pallone (quando mai di gomma o di cuoio con la cucitura, roba da professionisti) si potevano organizzare tre confronti insieme, alla lippa, allo scrollino, o alla cavallina . Si narra che l’allenatore della Sampierdarenese Rumbold, trascorresse ore a guardare in cerca –novello talent scout- di chi aveva la sioltezza del probabile atleta; e pare che molti giocatori delle prime squadre, siano nati così.

 

DEDICATA ai proprietari della fabbrica, fratelli sigg. Galoppini, con soc.an.  sita nel 1902 in vico Carlone 4r a Genova, e qui da noi aperta in via V.Emanuele al 32a (telefono: 425 !). L’azienda aveva anche una succursale in via san Bartolomeo del Fossato al 28.

  Uno dei due titolari è più noto perché maggiormente partecipe della vita mondana ed attiva della San Pier d ‘ Arena di allora; ma nessuno dei due coprì cariche pubbliche (come invece il vicino Diana), né meritò particolari attenzioni se non quella di aver dato lavoro a molti operai. Vedere la foto di quest’ultimo, a ‘via Orsolino’ , riferita allo Splendor.

Un libro storico, edito nel 1898, fu prenotato da Galoppini Vittorio di Sampierdarena 

        

Galoppini al Modena, con Diana (a dx) e S.

Frugone  il padrone dello Splendor (a sin)

 

BIBLIOGRAFIA

-Annuario Genovese del sig. Regina-anno 1902

-Archivio S. Ferrovie Stato

-Gazzettino Sampierdarenese:  4/90.5

-Lorigiola D.-Cronistoria documentata 1849-Palmieri.1898-pag.338

-Pagano annuario/1933-pag.1179;    /1961-pag.219

-Sborgi F.-1770-1860 pittura neoclassica e romantica in Li.-1975-p150.
GANDOLFI                                             piazza Francesco Gandolfi

 

 

 da Pagano 1967-8

   Corrispondeva alla piazzetta che è alla sommità di corso A.Martinetti (allora, dei Colli) dove si divideva proseguendo verso levante con via alla Porta degli Angeli e deviando verso il mare con via Promontorio.

Delimitata da palazzi vetusti, il più vecchio ha sicuramente almeno quattrocento anni.

   STORIA La piazzetta è collocata centralment,e sulla antichissima via Postumia-Aurelia (quindi per intendersi anteriore a duemila anni fa) con, a ponente il tratto chiamato strada alla Pietra e ad oriente senza nome diverso sino alle antiche mura di Genova.  

Da subito dopo il 1910, il nome titolare fu ‘piazza Antonio Mosto’; e tale era ancora nel 1933,  quando aveva civv. fino a 7 ed 8.

   Il 19 ago 1935, smorzata l’enfasi dell’ epopea garibaldina e per necessità di eliminare i doppioni dei nomi con le strade del Centro, avvenne come uno scambio: Mosto andò a Genova per una strada  d’Albaro, e il pittore (ricordato in Chiavari) venne qui, per delibera del podestà ebbe il n° di immatricolazione: 2780.

 

Nel Pagano/40 è ancora assegnata a Sampierdarena, scrivendo che era pittore, 1826-1878, da corso dei Colli a Porta Angeli;  e con, numero nero (non scritto) l’Opera Pia Ospizio  Scaniglia; e numero rosso: l’ 1r  di Bianchetti Laura che vende ceri.


   Per sessant’anni non ha subito variazioni di rilievo, escluso l’applicazione di una lapide da parte dell’ANPI-Sampierdarena relativa agli anni 1943-1945, che recita  “Per l’avvenire luminoso della patria – per la grandezza di un ideale – perirono trucidati dai nazifascisti- i partigiani – Andreani Amedeo, Lavelli Ugo, Lertora GB, Massa Antonio, Parodi Adriano”.


  Nel 1998, ci si è accorti che la denominazione era stata soppressa dalla toponomastica cittadina, ed al suo posto, in base ad una delibera comunale già del 25 agosto 1975 , si è fatto continuare corso L. Martinetti.

===civ. 1 soppresso nel 1972 perché murato. All’1r nel 1950 lavorava Pruzzo N.  che produceva ceri, candele e lumini, con ovvio rapporto professionale col vicino cimitero.

===civ.2 fu soppresso nel 1950 perché secondario al 4 .

===civ. 2r sino al 1963 c’era una osteria, in quell’anno chiamata ‘Pesce P.’ (che però  nel Pagano 1950 non c’è).

===civ.4  diroccato nel 1972, fu rifatto alla fine degli anni ’90; dava accesso all’ Opera Pia Scaniglia-Tubino. Viene descritto in via Porta degli  Angeli

===civv.3,6,8  verranno descritti in corso L.Martinetti (rispettivamente  145, 149*** , 147).

===civ. 5  (oggi 149) Il palazzo è vincolato dalla Soprintendenza per i beni architettonici.  Erano le stalle e la casa colonica dipendenti dalla villa soprastante Scaniglia-Tubino, quando corso Martinetti non esisteva come ‘taglio’ del colle, la strada passava sotto il voltino ed il terreno degradava dalla villa alla casa


 


Nel 1984 un privato aveva chiesto in acquisto l’immobile che sovrasta la piazza, ormai giunto  al pericoloso limite del crollo spontaneo; ma ebbe parere negativo del Consiglio di Circoscrizione.


Per evitare ingressi  equivoci di tossicodipedenti o clandestini, furono murate tutte le entrate e finestre fino al 1992 quando il Comune pensò di alienarlo per ricuperare risorse. Però poi fu deciso affidare la ristrutturazione ad Arte (ex IACP) che completò il lavoro arricchendo l’immobile di box privati.  A lavori finiti dopo quattro anni, nel 2003 non era ancora stato messo in atto il bando.   Ma nell’anno subito dopo fu completata l’assegnazione.

 

DEDICATA


al pittore, nato a Chiavari il 9 lug.1824 (altri dicono 8 luglio; e     -come era scritto sulla targa- 1826). Aveva due fratelli e 4 sorelle. Famiglia benestante, con villa in campagna; e colta.

Appresi i primi rudimenti artistici (dal padre avv. Gio Cristoforo - pittore dilettante, sindaco della città, noto numismatico),  e  dalla  madre  Teresa

 


Solari (famiglia di ascendenza dal SacroRomanoImpero; e, lei, sorella di un beato gesuita) e da una maestra di disegno Rosa Carrea Bacigalupo.

A 10 anni fu iscritto all’Accademia Ligustica di Genova, allora diretta da Baratta e poi da Fontana. Ribelle al noviziato imposto dai maestri, fu giudicato di scarse possibilità di riuscita e particolarmente indisciplinato; fu così espulso dalla scuola.  Dopo tre anni, il padre riuscì a farlo riammettere, permettendo così di frequentare per altri tre anni i corsi,  finché nel 1840 si trasferì a Firenze, dove –predisposto per natura alla cultura romantica (caratterizzata dalla trasformazione di eventi storici in drammi personali : una pittura di storia e di affetti) - fu iniziato dal maestro Giuseppe Bezzuoli  al verismo e  romanticismo, slegandolo definitivamente dagli insegnamenti rigidi del conservatorismo ed accademismo classico genovse.

Trasferitosi a Roma, nel marzo 1848 –ventiquattrenne- allo scoppio della prima guerra di indipendenza, preferì seguire – in un battaglione di studenti - i Volontari pontifici che combatterono a Goito ed a Cornuda (9 mag.48: sconfitti dagli austriaci, dovettero ritirarsi; il pittore fu decorato al merito).  


 

Nel 1849 si trasferì definitivamente a Genova andando ad abitare in via s.Luca, e dal 1850 - divenendo Accademico della Ligustica - fu costantemente presente a tutte le esposizioni della Promotrice.


Produsse, nel 1860, un ‘GioLuigi Fieschi svela la congiura alla moglie’ che fu premiato l’anno dopo con medaglia d’oro a Firenze. Seppur viaggiando molto, mantenne stretti legami con tutti i colleghi conosciuti, ed aderì alla “scuola grigia” (nello studio di GB Villa a Fassolo, assieme al Rayper, Rota, Scanzi e Bertelli; cosi detta per il rifiuto dei colori scuri, come dettato dai vecchi insegnamenti accademici, prediligendo una luminosità più naturale: questo modo di esprimersi sulle tele dettò dapprima scandalo tra la critica, ma ben presto anche riconoscimenti e medaglie d’oro).

Nel 1858 morì giovane una allieva pittrice verso la quale il Nostro aveva nutrito sincero affetto. Preciso, nel retro di ogni quadro o disegno  poneva la data ed annotazioni tipo ‘momento di mia somma tristezza’

Artisticamente, dopo il contrastato rifiuto  alle rigide codificazioni accademiche genovesi (la scuola era legata alla tradizione ma aperta all’evoluzione; con un piede nell’arte conservatrice ed uno innovatore, pari alla scuola fiorentina e piemontese, in parallelo con N.Barabino), si pose in primo piano nell’ambiente ligure  promovendo in Accademia la scuola di paesaggio (anche se raramente si applicò a tale pittura) e segnando con Luxoro, in contrapposto con Isola,  il passaggio dal romanticismo  al primo  naturalismo, al paesaggio dal vero. La critica fu tendenzialmente severa nei suoi  confronti spesso giudicando i lavori mancanti di una precisa dignità; ma apprezzati per i particolari effetti di luce, per l’uso del colore quale elemento costruttivo del quadro e non di riempimento, per la penetrazione del carattere –specie nei ritratti-.

Dipinse ritratti (definiti tra i migliori di quei tempi), acquarelli e tanti affreschi (il primo, datato 1856 in s.Ambrogio di Voltri; alla stazione di Principe dipinse -1859- lo stemma di Genova circondato da figure allegoriche; sulla volta dell’aula del Consiglio a Tursi (1862): “Colombo dinanzi ai reali, al rientro in Spagna”; in varie chiese (ad Albissola; nella chiesa di Pernambuco un’san Michele che inabissa Lucifero’; Varazze -1860-; Voltri; (1868) cattedrale e santuario di N.S.dell’Orto in Chiavari: ‘posa nel 1613 della prima pietra del santuario’ e ‘Benedetto Borzone dipinge l’immagine della Madonna’; ‘Allegoria della proclamazione della Madonna dell’Orto a patrona della città e del distretto’); nel palazzo Cambiaso raffigurò un ‘doge’ della famiglia  ed un ‘Guglielmo Embriaco a Cesarea’). Suoi quadri sono nell’ Istituto Mazziniano del Risorgimento; nella civica Galleria d’Arte Moderna di Nervi (da un tema storico letterario ‘Lisa e Laudomia de’ Lapi’); nell’ Accademia Ligustica (un bozzetto del 1861-2 ad olio su tela già proprietà del march. Gerolamo Gavotti,  raffigurante ‘C.Colombo che prende possesso della terra scoperta’; ed un ritratto ad olio su tela del direttore della scuola di incisione dell’Accademia Raffaello Granara(1837-1884)); nel museo Luxoro; presso privati (march.Pallavicini; Bozano-Gandolfi).

Morì quarantanovenne, a Genova il 31 agosto 1873. La salma fu sepolta nel cimitero di Maxena, sopra Chiavari ove esiste la tomba di famiglia.

 

BIBLIOGRAFIA

-AA.VV.-La pittura a Genova e in Liguria-Sagep-1987-pag.396.430.515

-AA.VV.-il museo dell’Accademia L.di B.A.-Stringa.1983- pag.68.293ritratto

-Alizeri-Professori di disegno in Liguria-Sambolino-1866-vol.III.437

-Archivio Storico Comunale – Toponomastica, Scheda 2001

-Bruno GF-la pittura in Liguria dal 1850-Stringa 1982-11.447

-Bruno G.&C-Il museo dell’Accademia L.-Stringa-Carige-1983-68.273-4foto.

-Castagna –Guida storico artistica di Genova. 1970 -

-Enciclopedia Motta

-Enciclopedia Sonzogno  

-Gazzettino Sampierdarenese:  1/92.3   +   6/92.5

-‘Genova’ rivista Municipale: 1/34.8  +  marzo/37-XV.30 

-Grosso O.-Francesco Gandolfi-Rivista Assoc ACompagna-n°3/28- pag.5

-Pagano 1940- pag.296

-Pastorino Vigliero-Dizion. delle strade di Genova- Tolozzi 1985-pag.769foto

-Ragazzi&Corallo-Chiavari-Sagep-1982-pag.102.139.148

 


 

GARAVENTA                                   via Lorenzo Garaventa

 

Denominazione proposta ma non accettata, da destinare ad “un tratto da via Andrea Doria (via Giovanetti), dalla Chiesa, formante un vico di fronte ad essa, ed una piazzetta a notte “

DEDICATA al sacerdote che per primo nel 1757  aprì ai giovani una scuola “per carità”. Per suo merito ed interessamento, con la collaborazione anche dell’abate Franzoni e dell’arcivescovo Saporiti, si aprirono in città numerosi istituti scolastici gratuiti, in genere gestiti da sacerdoti animati dallo stesso spirito.

Morì poverissimo nell’ospedale Pammatone il 13 gen.1783 e sepolto in santo Stefano a spese della Repubblica.

Più famoso, il nipote Nicolò, che nel secolo successivo trovò maggiore fortuna e clamore storico, aprendo la “scuola redenzione” (1883) per l’apprendimento di un mestiere da parte dei ragazzi orfani o abbandonati, e che divennero marinaretti dopo aver trovato sede in un brigantino in disarmo.

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale

-Pastorino Vigliero-Dizion. Delle strade di Genova.Tolozzi 1985-pag.771

 

-Non trovato su ES ed EM
GARBO                                 via del Garbo

 

 

percorrendo verso nord la salita Forte Crocetta, non appena superata la porta esterna, laterale al ponte levatoio (laddove è una casetta, costruita per il Dazio), si continua con un sentiero tutt’ora in terra battuta a cui venne dato il nome non ufficializzato di ‘via del Garbo’ (perché ufficializzata è una via che sale da via Vezzani di Rivarolo e arriva al Garbo; mentre la ‘salita al Garbo’ va dalla stessa via Vezzani a via Begato).

   Questa invece procede in costa, ed arriva dal mare al Santuario sotto forma di mulattiera. Essa era nel territorio di San Pier d’Arena solo per il primo tratto, sino all’incrocio col primo torrente (che dall’alto scende verso la Pietra –da cui prende il nome- ovvero fino a  dove ora è la metropolitana di ‘via Brin’), che segnava, sino a dopo l’ultima guerra,  il punto di confine con Rivarolo. 

   DeLandolina/1922 conferma che in quell’anno la via del Garbo era strada sampierdarenese.  Aggiunge che la parola in dialetto significa ‘buco’;  il che gli ricorda le caverne dei primi abitanti trogloditi liguri.

Un’altra leggenda è narrata, anch’essa riferita al ‘garbo=buco’,  in un tronco di castagno: un bimbo vi aveva trovato una tavoletta con l’immagine della Madonna e se l’era presa; ma l’indomani la ritrovò nello stesso buco, mentre era scomparsa dove l’aveva messa. Ripetuto il giochetto, si interpretò che Ella voleva rimanere in quel posto, appunto nel garbo, che fu estirpato e ricollocato con l’immagine sacra (sulla quale sta inciso “Sancta Maria de lo Garb . Amen“)  sotto l’altare maggiore della chiesa che fu eretta negli anni del 1365. La scena è riprodotta in un affresco, dipinto da GB Traverso sulla volta della chiesa.

La Vigliero riferisce la leggenda sopra, e di  due documenti, uno datato 1401 che cita “villa Carbi” per indicare la zona; più netto il secondo, 1413 nel quale – concessione in locazione di una terra sul quuale si cita: “sotto la chiesa di Garbo” -

   Grillo non ne spiega l’origine e segnala solo che era di giurisdizione di Rivarolo.

 

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunalecartina  +

-DeLandolina GC.-Sampierdarena Rinascenza.1922- pag.42

-Grillo F.-Origine storica delle località...-Calasanzio.1964-pag.109

-Vigliero BM-Dizionario delle strade di Genova-Compagn.DeiLibrai 1985-


 

GARIBALDI                                    scalinata Garibaldi

 

 

Fu il primo nome dato alla ‘scalinata Belvedere’, fino all’anno 1900; in questa data, un commissario straordinario addetto al censimento delle strade, piazze e vicoli della città,  propose alla giunta comunale il cambio. Evidentemente questo fu accettato e, da allora,  è come adesso.

BIBLIOGRAFIA

Archivio Storico Comunale.


 

GARIBALDI                                            via  Garibaldi

 

 

 

da Vinzoni, 1757. Presunto tracciato                                                    da G.Brusco - progetto

 

Non più a Sampierdarena; attualmente è nella zona della Maddalena.

Corrisponde all’attuale via A.Pacinotti.

Nella carta del Vinzoni, 1757, ancora non c’è traccia di questa strada.

Conosciamo progetti di pochi anni dopo - fine settecento - di rettificazione stradali, intesi a collegare la marina del Canto con la parrocchia a san Martino, evitando il centro del borgo; affinché il traffico trovasse maggiore snellimento nell’usare una strada periferica anziché passare dal centro. Di questi progetti, due i più conosciuti:  quello della seconda metà del XVIII secolo, che dalla Piazza del Vento di via Fiumara passava proprio davanti alla abbazia di san Martino e proseguiva diritta verso la zona della Pietra; e lo stesso  progetto, ripreso e frmato da Giacomo Brusco, nel 1781 (ma neanche lui realizzato), che dalla via al Ponte arrivava alla Palmetta, con un preventivo di spesa di 13.080 lire (meno di altro progetto mirato ad allargare l’attuale via C.Rolando, in quanto con opere di ‘non gran spesa’).

Presumo che la strada fu aperta negli anni tra il 1805 ed il 1830 ovvero, o negli ultimi anni francesi, in corrispondenza dell’ abbandono delle proprietà terriere da parte della aristocrazia =o, al limite, in epoca dei primi anni del potere dei Savoia - quando prati ed orti non erano più prezioso possedimento privato.  

Negli anni 1850, la strada c’è già, ovviamente in terra battuta e viene chiamata “Strada reale” (come tutte le strade neoformate, in età regno di Sardegna dei Savoia). FRispetgto questa strada, la zona a ponente e fino al torrente, diverrà territorio di espansione dell’Ansaldo (che - alla fine - pervenne a costeggiare la strada). Nella zona a levante, in quell’anno si fa domanda di erigere capannoni per una fonderia Ghersi & C. (più a mare di dove si incrocia via Avio) approvata a dic di quell’anno. Nel frattempo venne  assestata ed allargata; e così, dapprima chiamata semplicemente “via Nuova“ (così è chiamata nel regio decreto del 1857, riconosciuta come terzo tratto della lunga “strada della Marina”: quello che dal Canto  arrivava alla casa Ferrando (vedi carta Vinzoni, sulla strada che poi si chiamerà s.Cristoforo) vicino al ponte di Cornigliano, in zona che diverrà ‘della Crociera’.

via Garibaldi è chiamata “Strada Reale”- In alto a destra

è scritto: zona di SPd’Arena detta ‘al Canto’ ove si vorrà

costruire la fonderia Ghersi (al centro, più chiara)

    Al civ.5 in quegli anni vi abitava Robertson; mentre al civ.12 (circa dove c’erano gli uffici dell’Enel) abitava Wilson: ambedue industriali che avevano aperto una fonderia in città.  Quest’ultima palazzina fu poi abitazione di Morasso Luigi che fu proprietario di magazzini di grosse proporzioni, visto che possedeva un proprio distaccamento della linea ferroviaria e localizzati nell’angolo tra via Fiumara e via Principale Comunale, e che il 21 maggio1865 –quando al comune di San Pier d’Arena venne conferito il titolo di città- era assessore sotto il sindaco Nicolò Montano.

    Nella decade successiva al 1860 Enrico Scerno aprì sulla strada una piccola fabbrica di chinino e biacca trasformata poi - in società con Gismondi Carlo-- in raffineria di salnitro. La Scerno aveva una trentina di operai. L’azienda si era contemporaneamente dedicata anche  alla estrazione di olio da semi, trovando in questo ramo una vigorosa espansione (raddoppiando il capitale in pochi anni, e passando da 40 a 600 operai nel 1888); ebbe un crollo in quell’anno causa la rinuncia forzata all’esportazione del prodotto ed al crollo di due banche cittadine. Dopo una temporanea chiusura riprese con 305 operai migliorando le strutture dotate di motori ad energia elettrica, divenendo la più grossa società ligure nel ramo oleario.  Dopo circa quarant’anni di attività subentrò il figlio Fausto; nel 1898 la società comperò un molino a Pegli che cedette ai Molini Alta Italia in cambio di loro azioni (aprendo così nuovo indirizzo di investimenti e creando un nucleo -composto da quattro grosse società: MoliniAltaItalia, Molini Liguri e SemoleriaItaliana- che costituì un vasto impero nella lavorazione dei cereali); nel 1899 divenne soc. per azioni; nel 1907 raddoppiò il capitale a 3,6milioni di lire rinunciando gradatamente alle attività nel campo alimentare (vendendo i due oleifici ed il dock sampierdarenesi cessò ogni fabbricazione e commercio di olii vegetali) e consolidandosi in azienda chimica: formando la ‘Nitrum Scerno Gismondi & C.’ produttrice di salnitro e lavorazione dello zolfo, ma sempre agganciata finanziariamente alla grossa holding alimentare. Nel Pagano/1911 compare alla voce ‘nitri (raffinat.), via Garibaldi, 12). Nel 1913, divenuta soc.an.Nitrum S.G.&C., con 3,6milioni di capitale (compartecipazione finanziaria di banche e privati) e 2 stabilimenti, era ancora la più grossa delle 4 società liguri nel campo chimico, con ampliamento alla produzione dei concimi e fertilizzanti.

   Datata 7 ottobre 1890 la richiesta al Sindaco di potersi ampliare, da parte del direttore della ‘ditta Agostino Oneto &C’ (vedi a piazza Saponiera’), fabbrica di saponi comuni (uso industriale e domestico) e per toeletta, posta al civ. 14. Il disegno dell’opera aggiunta era datato 1875 quando era ancora vivo il titolare, prevedeva ultimare un locale a tramontana del fabbricato principale prospiciente via Garibaldi. Lo stesso Agostino Oneto, (consigliere comunale nel 1882; la sua carta da lettere –ai due lati del nome- riportava un disegno di un veliero da una parte e di un pezzo di sapone dall’altro) presentò al sindaco il progetto degli ing. Salvatore Bruno e Luigi Macciò che prevedeva un nuovo impianto ferroviario con scalo merci, allacciamento al porto e raccordo con la linea di Torino al fine di decongestionare il traffico su rotaie divenuto caotico e convulso a livello di s.Benigno 

   A fine 1800 assunse inizialmente il nome di via Garibaldi (con il solo cognome, senza il nome Giuseppe) sia il tratto che dal Canto proseguiva via C.Colombo ed arrivava fino alla Crociera, con al civ.5 l’emporio Carpaneto e vicino la “crosa dei Lavatoi”, sia anche la via che continuava diritta verso l’interno, dalla Crociera alla “Piccola Velocità”(via Spataro), con la raffineria Zuccheri; mentre dalla Crociera al Ponte si lasciava il nome alla diretta est-ovest: via san Cristoforo (poi divenuta C.Battisti e ancora dopo via Degola -vedi)

Corrisponde uguale nei primi elenchi comunali del primo decennio del 1900; come sopra, era:  prosecuzione verso ponente di via C.Colombo (via San Pier d’Arena), fino all’incrocio alla Crociera; e, chiamata ‘superiore’ la  continuazione a nord fino allo “scalo Piccola Velocità”, “in mezzo a stabilimenti industriali” (oggi, via Spataro).

Aveva civv. sino al 27 e 42. Risultano proprietari in quegli anni (tra parentesi, spiegazioni dello scrivente; e la data del Pagano ove compaiono l’ultima volta): del civ.1 e 3 casa Tuo, Daste e C. ; 2a 2b Morando Raffaele ; 5 Carpaneto GB ; 6 Parodi e C ; 8 Viale e C ; 6a, 7 Castello Salvatore; 9 Castello Gaetano ; 10 Grosso Francesco ; 10, 11, 12, 12a, 12b eredi Morasso (attuale Enel) 13 Merello GB e C ; 14, 14a Oneto e C ; 14a Mejer ; 15 Pastorino (Carlo) ed emporio Carpaneto GB (il palazzotto sul lato a ponente della via, attuale sede della Coop7, eretto come villa seicentesca); 17 Bruzzone Catterina; 17a,17b fratelli Mongiardino; 17c Ravano Pietro; 18 Rapallino e C; 19 Pittaluga Antonio; 20,21,22 Enrica Peirano; 23 Scerno e G.  fabbrica olio.

   Rolla - 1902

 

Il Pagano 1902   segnala queste attività: civ.1Storace, Rolla e C.”, tel 906, negozio di metalli (posta vicino all’emporio Carpaneto, divenne una fabbrica di tubi di piombo e stagno. Ancora nel 1925 era  “soc.an.Rolla, Traverso & Storace”  tel.41339 e 41340 attiva come acciaieria, lavor.metalli, fabbr. e negoz pallini da caccia, tubi ferro e piombo)---2 pizzicagnolo Biassa Dante; (attivo fino al 1911);--- 2A Morando Raffaele (anche lui presente fino al 1911) appaltatore di costruzioni;---2B negozio tessuti di Covati Giacomo e Moglie (1911);---  12 Scerno, Giusmondi e C. indusytria chimica per raffinare i Nitri e lavorare l’olio di cocco e di sesame;---14 Oneto Agostino e C. fabbrica di sapone, tel. 815 (vedi pag. precedente); non specificato il civico: il negozio di carrube dei f.lli Verroggio (1911);--- Tudor (1912) società genovese di Elettricità (energia p. luce).

   Sul Pagano/1908  troviamo (anche 1911-12): al civ. 1 negoz.di metalli e tubi di ferro e piombo  di Storace, Rolla e C.(deposito ferro e acciaio anche nel 1925; telef.n.906, poi 41340;--- al 12 Scerno, Gismondi e C., ‘raffinat. nitri’ (1911);-- al 14, fabbrica saponi ed oleificio Pavese (tel.815)(1911);-

   Nel 1910, l’elenco ufficiale delle vie cittadine, evidenzia ‘via Garibaldi , da via C.Colombo allo scalo Piccola velocità’, con civv. sino a 27 e 42.

   

inizio a mare

   

 

 

con lume a gas                                                          dopo il capannone a sin., sbucava via Operai

 Nel Pagano 1911, 12, 1925 ci sono in più: civ.14  Oleifici Nazionali (1925);---  al 19r il fornaio Parodi Carlo (1925);--- al 31r le fonderie di Parda Michele (1925, una delle 5  in città; nel 1921 non c’era;--- civ.59-61r l’osteria di Zanetta Pietro;--- 67r  Fustinoni A.G. di Agostino gestisce fino al 1925 un magazzino per depositi (docks);---  non specificato il civico: l’ebanista Danovaro Lorenzo (1925) (nel 1925 diventerà Danovaro Giuseppe fabbrica mobili in legno, via Garibaldi Superiore);--- il tabacchino Porcile Nicolò (1925) con la rivendita n.9

   Nel 1921 una tassa comunale straordinaria raggiunge alcune aziende cittadine ubicate nella strada, come al civ. 2 lo stabilimento della soc. an. Esercizio Molini¨, tel.41337. non specificato il civico: l’OEG (Officine elettriche genovesi, evidentemente subentrate in questa sede all’abitazione dei Marasso ed all’attività della Tudor,  nel primo ventennio dl secolo. L’OEG era nata nell’aprile 1895 da un capitale interamente tedesco che rilevò la primitiva ‘Società genovese di elettricità’ a sua volta nata nel 1891 come emanazione dell’ ‘Acquedotto DeFerrari-Galliera. Nel giro di pochi anni, ovvero nei primi anni del 1900, San Pier d’Arena fu quasi completamente illuminata. Nel 1925 è officina di produzione, al civ. 13, tel.42034-5, assieme ad altra privata in via Argine. Progressivamente anche loro allargarono gli spazi, sacrificando il saponificio Oneto e buona parte delle scuderie di Carpaneto); e  la soc. Ligure Lombarda (sia jutificio che fabbrica di marmellata e raffineria. Nel 1925 come ‘raffinat.zucchero’ è al civ. 34, tel. 41380-1).

    Nell’elenco   pubblicato nel 1927 quando appena formata la Grande Genova, il nome del generale appare presente in una via del Centro  e di ben 11 delegazioni: Borzoli, Nervi, Pegli, Pontedecimo, Rivarolo, S.P.d’Arena, Sestri, Voltri,  Cornigliano, Prà, Quarto. La nostra era classificata di terza categoria. Ovvia la sostituzione, a vantaggio del Centro.

      

   

Crociera - con antica villa nella via Pieragostini    palazzo, nel cui retro scorre via Alberto di B.

 

  

la Crociera

Nella Guida Costa/1928 ancora esiste la strada così titolata. Vi è descritta al civ. 36 il “Servizio automobilistico Sampierdarena-Coronata”

Nel gennaio 1932 fu appaltata la pavimentazione, preventivando una spesa di 693mila lire, da far completare da 20 operai in due mesi.

      

 

   Nel Pagano 1933 vi vengono segnalati: al 4r la stiratoria di Meudes Lina; 31r la fonderia di Parda Michele; al 57r Soc.Italiana Importazione olii Clarentj; al 59-61r i vinai Scarsi Sebastiano e Zanetta Pietro; all’87r il pasticciere (drogheria, confetteria, bar) di D’Oria Emanuel. Non precisato dove lo stabilimento della soc. Esercizio Molini; e ‘in via Garibaldi superiore’ (oggi via Spataro) fabbrica mobili in legno di Danovaro Francesco (già presente come Danovaro Giuseppo dal 1912).

    Tale rimase  sino al 19 ago.1935 quando per delibera del podestà, divenne via A.Pacinotti, da via N.Barabino a via G.Tavani; di 3.a categoria e con civv. sino a 27 e 36. In quest’anno fu completata dall’impresa Dighero – assieme a via C.Battisti - la pavimentazione con pietre di granito (6500 mq), costata al comune 560mila lire.

   Per innumerevoli anni la strada è stata percorsa da linea ferroviaria (che collegava il porto con le varie grandi aziende) e da linea tranviaria (solo la linea che proveniva da ponente, in quanto quella inversa procedeva lungo via Cavour-Dondero).

 

 

 

 

 

 

 

 

DEDICATA al Ligure, detto Eroe dei due mondi.


 

Nato a Nizza (era dei Savoia; quindi prima che fosse ceduta =1860, alla Francia) il 4 luglio 1807 da Domenico  un marinaio di Chiavari (originari di Ne, in val Graveglia) divenuto capitano di cabotaggio e da Rosa Raimondi (o Raimondo) una popolana donna di Loano). Secondogenito, aveva prima Angelo, poi Michele e Felice; ultima Teresa morta in tenera età. Morto 74enne a Caprera il 2 giugno 1882.


Figlio. Considerata la mentalità di allora, tanto normale non doveva essere; se non altro fonte di pesanti ansie e mortificazioni per la madre (lo difese e lo protesse, ma possiamo immaginare le pene che avrà sofferto, le preghiere che avrà recitato in chiesa, gli sguardi e commenti dei conoscenti, per quello scapestrato senza Dio che –ovunque andava- c’era una rivoluzione o una guerra), e di cocenti delusioni per il padre (che se non potè farne un medico o avvocato, forse avrebbe accettato un mite pescatore o -che fortuna per lui!- un commesso).Ma anche i normali lavoratori, se da un lato apprezzavano la sua ‘carriera’ di marinaio, dall’altro lo classificavano un avventuriero (spedizioni militari nella lontana America; appartenente alla Giovine Italia; che in Italia i faceva chiamare Giovanni Borel o Cicombroto – falso nome con il quale si era imbarcato sulla fregata De Geneys con il recondito scopo di sollevare la città repubblicana contro i Savoia).

Invece lo spirito indomito e ribelle, le sue idee preveggenti in un mondo ancora chiuso, bigotto ed ottuso, lo condussero a vivere una vita errabonda ed a continuo contatto con l’estremo pericolo, ai limiti se non decisamente fuori della legalità e lontano dalla religione (non poteva essere diversamente, partendo da idee in netto contrasto con la pressoché totale e mondiale presenza di case regnanti o dittature militari; e quindi ben lontano dall’appoggio dei più, benpensanti e baciapile; ma ciò appare ovvio essendo la Chiesa ancora profondamente legata al potere temporale ed ostile al concetto di libertà individuale). Al di là degli enfatismi, dobbiamo riconoscergli  - sempre per la mentalità di quei tempi - una notevole faccia tosta, caparbietà e temerarietà: furono queste caratteristiche  che gli accomunarono tutti i giovani che desideravano un cambiamento, una grossa scossa al sedentarismo politico ed alle scelte dei sovrani, fatte da conservatori sempre a scapito del popolino e miranti a reprimere le innovazioni della rivoluzione francese.

Fin da piccolo, divenuto marinaio e messosi in giro per il mondo (1821 mozzo (iscritto al registro) sulla Costanza, a Odessa e Taganrog; 1830 primo ufficiale con camoglino Antonio Casabona; 1832 patente di capitano di 2ª classe sul Clorinda e Mar Nero: battesimo del fuoco quando respinse abbordaggio di pirati, ferito alla mano; 1833 Costantinopooli; 1834 Marina militare sabauda ove iniziò a fare il sovversivo: ormeggiato a Genova, disertò e fu  condannato a morte in contumacia). Si rifugiò a Marsiglia col nome Joseph Pane, si iscrisse alla Giovine Italia ma preferì emigrare nel sett.1835 in sudAmerica.

Poliedrico anche in amore: amò Ribera Anita (con la quale ebbe tre figli, Teresita, Ricciotti, Menotti, che aspettano ancor ora non tanto la presenza ma anche solo il conforto di un approccio del pare naturale), e probabilmente non fu la prima sua donna (a quei tempi nella vita comune non esisteva ‘l’amore libero’; e soprattutto le donne erano dogmatizzate ed inibite: i rapporti sessuali si avevano mantenendo addosso – ambedue - il camicione da notte. Esistono corrispondenze di più o meno fanatiche innamorate del guerriero; ma non esiste certezza del riconoscimento e ricambio di tali affettuosità). Appena morì Anita, a Caprera trovò l’unica donna ivi esistente tal Ravello Battistina, che partorì Anita (e che poi andò sposa a Canzio). Si dice che – lui 52enne - in Lombardia sposò la diciottenne marchesina Raimondi (ma dopo la cerimonia - avvertito che ella aspettava un bambino da un altro - fuggì via e fece domanda di annullamento al re (matrimonio non consumato) su carta da bollo da lire una. L’annullamento fu concesso venti anni dopo). E si dice che voleva sposare anche la scrittrice Maria Speranza von Schwarz, (scrittrice che lo frequentava per raccoglierne le memorie da scrivere in tedesco ed inglese).

Ed in casa del genero a Genova, incontrò la balia piemontese del nipotino, che lui si portò a Caprera in sostituzione della Battistina (e che gli regalò due rampolli Manlio e Clelia che – questi si - vide abbastanza crescere vicino a lui).

Il conte Cavour non poteva scendere a patti con un ‘individuo’ simile, ma intuì che lui poteva essere il braccio forte e valido per il suo re; bastava guidarlo da lontano, senza compromettersi. Nacque così quel binomio, di due esseri forti e furbi, ciascuno dalla sua parte pronto a scaricare ed odiare l’altro, ma accomunati da un ideale, l’ambizione; diversi ma paralleli, anzi complementari perché separatamente molto  efficaci ma su terreni diversi; ma che insieme infine riuscirono vittoriosi a portare l’Italia all’unione.

Genova riconoscente nel 1861 gli inviò il diploma di cittadinanza.

Abbastanza sconosciuto è il Garibaldi poeta. Un suo monumento, pressoché sempre consacrato alla Patria, sempre lo raffigura armato di sciabola. Ma sappiamo che da buon poliedrico genio, non seppe resistere alla musa che gli faceva riempire quaderni di versi; per arrivare a comporre un lungo ‘Poema’ (autobiografico, in versi endecasillabi, con un argomento per ciascuno dei 29 canti che lo compongono, tipo: Caprera, sant’Antonio, Montevideo, Anita, Roma, Volturno, Sarnico, ecc). E tante poesie, con titoli mesti come ‘Carme alla morte’, ‘ad Adelaide Cairoli’, ‘visita all’ospedale’,’ il trovatello’, ‘a Roma’, ‘a Mario Rapisardi’.

Come politico, dapprima fu schiettamente mazziniano; poi ne prese le distanze preferendo la pratica (che lo coinvolgeva col governo del re e del Cavour,  e con i nobili neoarricchiti; forse la massoneria ha il suo ruolo) alla teoria repubblicana. La storia mescola assieme tutto, e non si sa sino a che punto il suo partito ‘del fare’ sarebbe stato così produttivo senza l’apporto - quasi totale - dei garibaldini che parteciparono in virtù di un ideale repubblicano-mazziniano. Forte del suo ascendente, accettò quindi scendere a compromessi con Cavour e la casa monarchica sino alla fine divenire deputato al Parlamento (ove rimase senza lasciare però tracce profonde della sua presenza=ovvero presente, ma già segato fuori dal ‘sistema’ politico).

Di carattere poliedrico: generoso e permaloso, disinteressato ma  anticlericale (fece parte della Giovine Italia e Massoneria; se era per lui, dopo Napoli sarebbe arrivato a Roma), grande comunicatore, bizzarro nel vestire (gaucho con poncho, capitano di mare, dittatore, camicia rossa), gran sentimentale (conobbe molte donne, ne amò poche. Pare che dopo Anita, si innamorò una volta sola (dalla quale ebbe un figlio, Manlio)), tendenzialmente pratico (da entrare in violento contrasto con Mazzini con cui condivideva l’ideale ma non la pavidità nel realizzarlo), politicamente malleabile (insieme rivoluzionario e legalitario, repubblicano e monarchico). Voleva essere cremato; i politici lo imbalsamarono.

A Genova, venne molte volte. Tra esse meritano menzione

-quando disertò dalla marina dei Sabauda 1834

-quando rientrò dall’America del sud, 1848, per schierarsi contro gli Austriaci. In questa impresa, già si era fatta fama di intrepido. Eletto deputato a Parlamento nel collegio di Cicagna (la camera però fu presto sciolta e quindi perdette l’immunità; LaMarmora tentò fermarlo). Da Genova si imbarcò con 72 volontari, a ottobre 1848, per andare a soccorrere Venezia.

-dopo le vicende romagnole,  arrivò restando a palazzo Ducale trattenuto agli arresti -1849- da LaMarmora e destinato a partire per il secondo esilio (lasciando madre e figli, andrà via per 5 anni sempre anelando tornare, prima a Tangeri ospite di Carpineto, e poi -1850- al comando di un mercantile, a NewYork. La madre morì in sua assenza, nel 1852. Ancora peregrinò, navigando su nave peruviana). Matura in questi anni un certo distacco dalle idee Mazziniane che diventerà esplicito al rientro con una dichiarazione di estraneità ai moti insurrezionali. Navigando con il bastimento americano Commonwelth, arrivò a Genova il  7maggio1854, dove il governo dei Savoia lo aspettava con sospettosa condiscendenza e previa ‘parola d’onore’ che non avrebbe ‘turbato l’ordine pubblico né compromesso il Governo’. Sceso da bordo, in portantina perché affetto ‘di reuma’, andò per 15 gg. in casa di G.Paolo Auger (o Ogier) e a luglio un mese ad Acqui a fare i fanghi; poi a Nizza a rivedere i figli.

-Ceduta Nizza nel 1860 (amareggiato assai; anzi, si dice odiando e ricordando ‘ad alta voce’ il Cavour che l’aveva data –assieme alla Savoia - alla Francia in cambio dell’appoggio avuto nella II guerra di Indipendenza, con le stragi di Solferino e san Martino, malgrado il finale armistizio di Villafranca), tornò ospite a villa Spinola. Nella notte tra 5 e 6 maggio, diede avvio alla spedizione in Sicilia.

-Nel marzo 1862, già deputato da un anno, partecisò a Genova al Congresso per la liberazione di Roma e Venezia.

-1880 arrivato in lettiga causa artrite, fu ospite in via Assarotti della figlia Teresita, sposa (sedicenne; il 25.5.1861) di Stefano Canzio in quei giorni ‘ospite’ delle carceri locali di s.Andrea, in quanto ‘sovversivo’.

Genova – dal 1882 - gli ha dedicato la strada più importante con i palazzi più di pregio, e che sino ad allora si chiamava Strada Nuova. Ed il 15 ott. 1893, regalato da un privato, un monumento equestre davanti al teatro Carlo Felice, anch’esso dell’alessandrino A.Rivalta. Altri, busti, cippi, lapidi, in tutto il genovesato, soprattutto l’opera di Baroni a Quarto.

Gestita quindi da un personaggio insolito e non normale, tutta la trafila del nostro Risorgimento fino alla conclusione fu altrettanto una cosa non normale, né accaduta per naturale avvicendamento. Fu invece voluta, e caparbiamente -seppur lentamente- conquistata nel sangue, rabbia, delusioni sino alla vittoria. Questo è quello che si deve insegnare a scuola, nel bene e nel male e che piaccia o no; come nel nostro pandolce e minestrone, un voluto e ricercato amalgama di gusti diversi, forti, vittoriosi.

Essendo un personaggio multiforme, nella libertà di pensiero su Garibaldi, si accettano tutte le critiche; ma non  i ‘picconatori’, tali  solo per, meschinamente, apparire: a loro volta vantandosi di andare controcorrente, ma  fondamentalmente - in fine e soprattutto - incapaci di realizzare alcunché.

 

BIBLIOGRAFIA

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-Ciliento B.-Gli scozzesi in piazza d’Armi-DeFerrari.1995-pag.27

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-Doria G.-Investim. e sviluppo econom. a Ge-Giuffrè.1973-pag.760.771.

-Favretto G.-Sampierdarena 1864-1914 mutualismo e...-Ames.2005-p.171

-Gazzettino Sampierdarenese  :  7/93.4

-Genova,  rivista municip.(comunale): 10/32.972 +  4/33.367 + 10/57.14

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-Novella P.-Strade di Genova-manoscritto bibl.Berio.1930-pag.9.17

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-Pescio A.Guida- Giorni e figure-Libreria Editrice Moderna. 1923

-Pescio A.-I nomi delle strade di Genova-Forni.1986-pag. 151

-Regina, Annuario genovese del sig. -1902-pag 599.694

-Stringa P.-La Valpolcevera-Agis.1980-pag. 92.96

-Tuvo T.-SanPierd’Arena come eravamo-Mondani.1983-pag.43foto


GHIGLIONE          piazza Antonio  Ghiglione

 

TARGHE:

San Pier d’Arena – piazza - Antonio Ghiglione – patriota - secolo XIX  piazza Antonio Ghiglione – patriota – sec. XIX - già Piazza dei Mille 

                                                                                                       

  

angolo con via Currò

 

centro piazza

 

angolo con via Currò

 

QUARTIERE MEDIEVALE: san Martino

 da MVinzoni, 1757. In celeste via CRolando con posizione dell’Oratorio e pieve di s.Martino; giallo via Currò; verde ipotetica posizione della piazza.

N°  IMMATRICOLAZIONE: 2781,   CATEGORIA: 3.a

da Pagano 1967-8

 

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA - n°  :    29160

UNITÀ URBANISTICA: 24 - CAMPASSO

In blu, via C.Rolando; in giallo via Currò; in rosso, via C.Bazzi, in verde la piazza A.Ghiglione. Da Google heart, 2007.

CAP:   16151

PARROCCHIA:  san Giovanni Bosco e san Gaetano

STRUTTURA:  da via Carlo Bazzi (una volta chiamata“via Marsala) a via Currò, con doppio senso veicolare.

In realtà è una via, e non una piazza (essendo lo spazio totalmente occupato da un edificio con civ.15, ad un solo piano, adibito a civica palestra, chiamata ancora nel 1961 “dei Mille”, gestita dalla soc. Ginnastica Sampierdarenese (nel 1891, tempo della nascita della società di ginnastica, la palestra già esisteva  nella piazza allora intestata ai  Mille; dovettero andarsene dopo poco, per ritornarvi nel 1901 nella palestra riedificata (pagando lire 5000 di affitto annuo); fino al 1906 , quando si trasferirono nella palestra allegata alle scuole  gen. A.Cantore, con entrata da via B.Agnese); la sede da allora divenne per un certo periodo una trattoria detta “del Canto”; finché alla fine dell’esercizio definitivamente fu   riservata all’attività fisicoginnica.

   Non specificato da quando, l’edificio ‘Palestra dei Mille’ è vincolato e tutelato dalla Soprintendenza per i beni architettonici della Liguria

   Nel 1926 fu deciso sistemarvi il mercato rionale (questi esisteva in piazza dei Mille, ove era stato istituito in seguito alla soppressione dell’altro di piazza Vittorio Emanuele III, e  che doveva sopperire alla prevista soppressione di quello di via Arnaldo da Brescia). Il che poi non avvenne.

   L’intitolazione della piazza al patriota avvenne quindi il 19 ago.1935 per delibera del podestà.

 

CIVICI

NERI         1               e da 2 a 6

ROSSI  da 1r a 23r    e da 2r a 24r

 

===civ.8  : fu soppresso per distruzione dell’edificio nel 1952

===civv.rossi : dal 20 al 24 furono assegnati a nuova costruzione nel 1952 mentre  il 21 e 23, come sopra  nel 1953.

Nel Pagano/1940 già era così, da via Currò a via C.Bazzi, con eguali civici neri e, nei rossi una latteria =3r, fruttivendola 4r, legna e carbone 7r, commestibili 10r, osteria 14r, commestibili 18r; in più la Palestra Ginnastica dei Mille” senza civico.


DEDICATA  al patriota italiano  nato a Genova il 5 apr.1813, da Antonio ed Anna Borzone.

   Frequentando il “collegio reale”, corrispondente alle scuole medie odierne, ebbe come compagni di scuola G.Ruffini, F.Campanella ed il Rosazza: tutti giovani che per primi divennero seguaci di G.Mazzini con cui il Nostro fu compagno universitario in Legge.  Con Mazzini in persona si incontrò senz’altro in facoltà, ma  decise poi di non terminare gli studi  tralasciandoli per gli impegni guerrieri ed una più ardente passione per Lettere.

   Aderì tra i primi alla Giovine Italia (quindi molto probabilmente fu carbonaro), ed aiutò l’organizzazione del  moto insurrezionale  che messo in pratica l’ 11 feb.1834 , fallì: dovette fuggire a Marsiglia e da là a Berna ospite di Agostino Ruffini, ricercato dalla reale polizia. Ragazzo un po' chiuso ma intraprendente,  riuscì  a sopravvivere usufruendo di un prestito fattogli dalla marchesina  Laura Spinola DiNegro,  e dalla vendita di una proprietà che aveva nel borgo e che gli fruttò 12mila lire, raccolti dalla mamma del Ruffini.    

  L’anno dopo essendo nata il 31 marzo a Berna la “Giovine Europa”, sulla scia della Giovine Italia rappresentata dal Mazzini stesso, Ruffini con Melegari ed altri ne sottoscrissero l’adesione rinunciando alla carboneria; e nel 1834 fu inviato a rappresentarla a Zurigo  in una grande manifestazione politica organizzata dal solidalizio europeo. Negli spazi di tempo, scrisse il suo prima dramma storico “Alessandro de’ Medici Duca di Firenze”, e collaborò alla rivista “l’Italiano” su cui pubblicò un altro suo dramma  : “La testa mi trascina il cuore”)

   L’anno dopo ancora, sempre inviato da Mazzini, si portò di nascosto a Napoli per considerare di persona se la piazza era matura per un moto rivoluzionario contro  i Borboni; il suo parere evitò un ennesimo fallimento insurrezionale. In tutte queste peregrinazioni, non sfuggì all’occhio delle polizie, anche di quella francese che lo tenne arrestato per un mese ed infine espulso (ma questa estrema condanna, fu alla fine annullata). Però, aveva finito i soldi, e la madre non poté aiutarlo ulteriormente (forse perché non ne condivideva le idee e forse perché risposata).

   Cacciato col Mazzini dalla Svizzera, si trasferirono a Londra fino al 1843 quando preferì tornare in Francia sopravvivendo col dare lezioni di italiano.

   Durante la Repubblica romana (30 apr.1849) rientrò in Italia con l’incarico di ‘commissario di guerra’ ma preferì combattere attivamente pur essendo ‘balusante negli occhi’ al punto di ‘dover inforcare velocemente gli occhialini ogni volta prima di sparare e poi speculare se aveva imberciato giusto il tiro’; una palla francese riuscì a colpirlo nei glutei e metterlo a riposo sino alla conclusione della prima guerra d’indipendenza.

    Ricuperato dalla ferita riuscì a sposarsi ed avere una bambina. Emigrò con la famiglia in America, ma non sorridendogli la fortuna, tornò nel 1855 in Italia tentando di pubblicare senza successo novelle ed opere drammatiche; fu in quegli anni (1856) che a Genova pubblicò una novella in versi “Simone Kenton”, stampata dall’editrice Moretti.

  Durante la seconda guerra di Indipendenza, riacquistò direttamente da Garibaldi il ruolo di commissario di guerra, svolgendo il suo ruolo con onore.

   Partì con i Mille nella spedizione Medici, battendosi nelle varie battaglie sino a Capua; si meritò la croce di san Maurizio e Lazzaro, il grado di colonnello ed il titolo di cavaliere.

   Quando l’Italia fu finalmente unita, si ritirò dalla vita politica e militare dedicandosi a scrivere opere letterarie drammatiche senza però una particolare fortuna, né espressiva, né economica; nel 1883 pubblicò il dramma in versi  “i Trecentisti” .

   La burocrazia del regno, malgrado l’interessamento degli amici - specie di Raffaele Rubattino - non  riconobbe il suo stato di servizio, né invalidante la ferita subita (non essendo compresa nelle categorie che davano diritto alla pensione),  costringendolo con una miserrima pensione  a concludere la sua esistenza in maniera tristemente modesta; nella miseria più nera, ma con le benemerenze della Patria unita.

   Il suo lodevolmente poco, è riconosciuto dalle enciclopedie, che lo ignorano.

 

 

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale – Toponomastica

-AA.VV.-Annuario guida archidiocesi anno/1994-pag 409;  /2002-pag.446

-AA.VV-SPdArena nella sua amministrazione fascista-Reale.1926-pag.71

-Enciclopedie Motta, Sonzogno, Zanichelli

-‘Genova’  rivista municipale - : 1/38.27

-Lamponi M- Sampierdarena- LibroPiù.2002-pag. 136

-NovellaP.-Guida di Genova-manoscritto 1930-pag.17

-Pagano/1940-pag. 299; /1961-pag.226-577

-Pastorino&Vigliero-Dizion. Delle strade di Genova-Tolozzi 1985-pag.849

-Poleggi E. &C.-Atlante di Genova-Marsilio 1995- tav. 21

-Tuvo Campagnol-Stoiria di Sampierdarena-D’Amore 1975-pag.283


GHIGLIONE                                via  Bruno  Ghiglione

 

 

 

TARGHE: via - Bruno Ghiglione – caduto per la libertà – 1924 – 19-5-1944

                    Via – Bruno Ghiglione – caduto per la libertà – 1924 - 1944

angolo con piazza Modena

angolo con via della Cella

 

QUARTIERE MEDIEVALE: Castello

 da MVinzoni, 1757. In giallo via della Cella; fucsia villa Centurione del Monastero; rosso, la chiesa della Cella

 

 

 

 

 

 

N° IMMATRICOLAZIONE: 2782,    CATEGORIA: 2

 da Pagano 1967-8

 

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA - n°: 29180

UNITÀ URBANISTICA: 26 - SAMPIERDARENA

  da Google Earth, 2007. In celeste il Teatro Modena; rosso la chiesa della Cella

CAP: 16149

PARROCCHIA:  NS s.M.della Cella

STRUTTURA:  strada comunale a senso unico , unisce piazza G.Modena a via della Cella - vico del Centro; lunga 85,46 m e larga 5,74 con 2 marciapiedi.

STORIA: prima di essere dedicata al partigiano (con delibera della Giunta comunale del  26 apr.1946) , era stata dapprima intestata  via dei Triari e poi, per delibera del podestà del 19 ago.1935, via Mazzini.

===civ 2-4-6 era sede della antica farmacia di Angelo Raffetto (che divenne poi di Bisio Aristide ed Ornella, i quali in lunghi anni di attività diedero il nome proprio alla farmacia che da allora era comunemente conosciuta come ‘Bisio’ (con questo nome è ancora citata dal Pagano/50). Essi cedettero poi la direzione alla dr.ssa Pedemonte AnnaMaria. A sua volta questa, trasferendo la sua professionalità alla farmacia di via San Pier d’Arena e poi in quella di via S.Canzio, lasciò le redini al dr. Fioretti Paolo il quale nel 1999 decise trasferire tutto l’esercizio in via Buranello. Ultimo titolare è il dr Nostro Gaetano che ha mutato il nome in ‘farmacia Modena’). Attualmente (2003), da 4 anni i locali sono vuoti, abbandonati.

 Del dottor Raffetto, vedere alla via omonima.

CIVICI

2007 – NERI   = da 1 a 5                                e da 2 a 12

            ROSSI = da 1r a 41r (manca il 21r);   e da 2r a 24r

===civ. 1 che fa angolo con vian della ella, ha il potone contornato da marmo finemente decorato in stile Liberty di fine 1800. Purtroppo tale bellezza è poco ammirabile, per la sosta permanente di vetture ben accostate al marciapide molto stretto.

===  dispari rosso – negli anni 60-70 esistevano nella via due negozi di pescivendoli oltre quelli con carretto ed altri in via della Cella; uno si chiama Rosario, poi Carletto, poi Mario + un macellaio Attilio (che poi andò in via Giovanetti di fianco all’orefice Mango)

===civv. 2 e 4 sono in un unico edificio, decorato nello stesso modo con eguali fregi esterni, lesene ed appoggiabalconi; nel 2010 le due diverse amministrazioni hanno giudicato: la metà di levante colorare la facciata di un gialloverde, la metà a ponente lasciare un datato rosso mattone.

                                       

===civ. 2r e  4r sono relativia due vetrine – la prima anche ingresso - della e x-farmacia Raffetto-Bisio che si apriva principalmente in via della Cella. Da molti anni chiusa, ed i locali vuoti.

                    

===civ.12r il negozio ‘pescheria Carletto’, di  Carlo Argeri, personaggio 


famoso sia per la merce ittica venduta, da tutti riconosciuta di prima qualità , sia per la attività imprenditoriali: nato nel Polesine nel 1904, venne a San Pier d’Arena a tre anni, e dopo aver fatto l’ansaldino, si dedicò al negozio del suocero; divenuto anche imprenditore-costruttore, nel 1938 costituì la Cooperativa edilizia ‘san Martino’ (sull’area della distrutta Cooperativa Avanti, in via C.Rolando) finanziando l’erezione di alcuni palazzi operai. Di servizio in marina durante il conflitto,


alla Liberazione riprese lavoro legato al mercato del pesce; intraprese attività politica  iscrivendosi nel PSI e nel 1948 diede vita alla ‘cooperativa La Rinascita’ erigendo per primo il civ. 29a di via Cantore  e poi  altri caseggiati.

  Nel 2003 il pittore C.Piterà vi ha aperto  un salone di esposizione dei suoi quadri, che però è quasi sempre chiuso ed inaccessibile. Per l’occasione ha ristrutturato non solo la porta di ingresso ma anche il prospetto esterno dei montanti, resi totalmente rettangolari, e diversificandosi dagli altri che hanno il lunotto nella parte superiore: nella strada che è ormai semideserta e con ben altri problemi di vivibilità è una sciocchezzuola, ma nell’insieme a me appare una stonatura... d’artista.

  Nel 2010 il locale è vuoto ed è offerto in affitto

===civ. 6 è dato, con numerazione in targa marmorea, ad una porticina che chiude il vano tra i due palazzi affiancati (il 4 e l’8); la quale essendo sempre chiusa non ci fa sapere cosa ci sia. Nella carta del Pagano il civico è saltato

===civ. 8    la facciata è molto più semplice dei precedenti, da palazzo di operai

===civ. 20r ex locale del noto ‘figaro’ salernitano Benito D’Auria, subentrato ad un bar di due sorelle (Adriana e...) negli anni 1980. Chiuse l’attività nel 2005. C’è un magazzino di materiale utile per il teatro

===civ. 22r nel 1950 l’unico bar della via,  di Balbo Giuseppe

===civ. 10.  A fianco e nel retro del teatro c’era, sino al 1998 il mercato ortofrutticolo cittadino all’ingrosso. Vi fu trasferito alla distruzione di ‘piazza Tubino’ (Il Secolo riporta le parole dell’architetto ultimo restauratore che afferma: ‘inaugurato nel 1905’).

 

      

2010                                          1970 nella strada                                        idem - piazzale interno

Le voci dei rivenditori, già dalle prime ore antelucane dell’alba, per tutta la mattinata, animavano la zona di interessati e gente comune e creavano un ambiente tipico di alta vitalità anche nei dintorni, ripieni di gente indaffarata ed attiva; le botteghe attorno divenivano punti di riferimento e quindi vere e proprie istituzioni: caratteristica viene ricordata la figura di una Rosetta Campodonico che occupava una bottega di fronte al mercato: in essa si vendevano decotti sia decongestionanti la tosse catarrosa per il freddo, sia per depurarsi dalle sbronze , cicchetti e ripetuti ‘gianchin con-a fugassa’; e la vicina merceria (ove ora è il ristorante) gestita da una simpatica, miope ma precisissima lavoratrice dell’uncinetto e degli aghi da cucire, per creare pizzi, decorazioni d’abito e merletti.  Addirittura due erano le pescherie; attiva era la antichissima farmacia; magazzini e depositi (degli Zerega e dei Saluzzo) si alternavano con tre bar, una salumeria ed un farinotto. Vi operavano 40 grossisti di frutta e verdura, calati a 22  negli anni ’70 (è buffo constatare come solo vent’anni fa, tutta quella vitalità fosse denunciata dai soliti scontenti, come ‘grave pregiudizio del traffico’; considerato la ristrettezza delle attrezzature, davano fastidio -somigliando ad un accampamento per zingari - gli stand provvisori e fantasiosi dei commercianti all’ingrosso che con le cassette o gabbiette di frutta occupavano buona parte dei marciapiedi e creavano un discreto caos: adesso siamo accontentati: la strada si è letteralmente spopolata,  la zona appare tutta in ordine, ma sembra essere come nel ‘foyer’ del teatro, da percorrere... in punta di piedi).

 

Alla sua chiusura, l’edificio è stato ristrutturato dalla società ‘Sviluppo Genova’ –deputata a ricuperare e riqualificare le aree industriali dimesse- a complemento del teatro e per attività socio-culturali, acquisendo l’ingresso per gli uffici al civ. 10 e dandoil il nome di “Sala Mercato”, di proprietà in concessione al Teatro dell’Archivolto, all’entrata principale che non ha civico scritto.

 

 

     

anno 2010                                             anno 2000 - sala mercato in fase di lavori

 

Sono oltre 2000 mq compresi i seminterrati ed i piani alti ristrutturati con una spesa di 2,5miliardi di vecchie lire. Con i contributi offerti quale cofinanziamento dalla Comunità Europea, la Regione progettò l’apertura nel piano rialzato -dove erano i banchi dei verdurieri- di un piccolo teatro di 18mx22 da 150-300 posti a sedere (ad uso prove, incontri, dibattiti; conservate le colonnine liberty in ghisa che dividono in tre navate la stanza: sono state riempite con un’anima in acciaio a sorreggere il soffitto che è servito da ballatoi e ponti mobili; il pavimento ha piattaforme mobili che permettono molteplici variazioni di forma a seconda delle più disparate necessità; le pareti hanno pannelli scorrevoli che possono chiudere le finestre o aprirle fino a divenire loggiato. E’ stato inaugurato nell’ottobre 2001 con lo spettacolo –metà musical e circo- ‘la storia di Onehand Jack’ con la regia di Giorgio Gallione e tratto da un breve racconto di Stefano Benni); stanze per uffici, riunioni e programmazioni per la compagnia dell’Archivolto; un ascensore per i disabili con cui potranno accedere ai palchi ed un montacarichi per le strutture; confortevoli camerini dotati di bagno e doccia; un collegamento sotterraneo con il sottopalco del Modena ed uno a passerella, all’ultimo piano in alto.

 

Altrettanto senza civico sono due altre entrate a seguire le precedenti, una definita “biglietteria” e l’altra “Teatro dell’Archivolto”.

=== civ.   r negli anni 80 era occupato da un porcaio, il quale già al mattino presto trovava una coda di acquirenti di ciccioli, ariste, zamponi, ecc. con 3-4 persone a servire. Il titolare era anche un provetto alpinista e, in occasione di una spedizione alpinistica, morì in incidente.

===civ. 19r Lamponi dice che c’era in epoca fascista la sartoria Ogliari Ubaldo, specializzato in divise militari, dove l’antrace predominava  perché prescelto quale colore simbolo dell’ideologia. Voci controverse lo fanno una delle vittime della rappresaglia partigiana alla Liberazione.

===civ. 23r: dal 1991 è stato sede redazionale della cooperativa ‘Radio Lanterna City, nata nel 1987 in scissione da R.S.1, e di cui era direttore l’indistruttibile Rino Baselica con capitale sociale proveniente da quote dei soci volontari. Il centro operativo  trasmettendo dalle ore 7 alle 24 su due frequenze, conta di molti soci e di entusiasti collaboratori sui più svariati temi: sociali, pensionati, musica locale, dialetto (famoso il buon Pingas (cioè Pino, già lettore nelle case cittadine della numerazione del gas) con musiche dialettali e rifacimenti di tipo Marzari), opinionistica, nonché una vasta rete di ascoltatori-sostenitori della provincia di Genova arrivando a sparsi auditori per la Liguria con i quali organizzare anche gite e cenate. Nel 1990 rimase famoso nell’ambiente, il record  di Salvatore Morella che da solo gestì la trasmissione per 24 ore consecutive.

===37r  l’attuale unico bar, chiamato nel 2010 “dammideltu”.

 

Nel 2002 han chiuso tutti i negozi: c’era tanta animazione e saracinesche aperte: una macelleria, un barbiere, una polleria, ben quattro pescherie, il grande pittore su citato che modificò tutto l’ingresso, anche il fornice della facciata; nel 2008 ci sono ancora un verduraio (Antonio Costa) ed un falegname (Giorgio Ligresti) e tanto squallore...”le antiche botteghe”  un sogno del CIV se crede che Minniti  avrà i tre miliardi che ha promesso per la rinascita del centro (arredi, pavimentazione, illuminazione, un ZTL ed isola pedonale (...l’isola che non c’è). Infatti nei programmi del CdC (Minniti&C), del maggio 03, c’era la riqualifica della strada a destinazione “strada degli artigiani” e d’estate “Isola della Natura”, senza macchine. Buonanotte: ché, nel 2010 è ancora buio fondo e deserto grigiofumonero. 

Praticamente, nel 2010 tutti gli altri civici rossi dispari, che erano occupati da grossisti verdurueri e fruttivendoli, a parte uno dedicato ad ufficio privato, appaioni chiusi.

La strada finisce con il 5 nero e 41rosso, in un palazzo  senza decorazioni che a ponente offre la facciata sulla piazza.

   

DEDICATA al giovane sampierdarenese, nato il 18 ott.1924 da Pierino e da Marchese Vittoria, il quale allorché operaio, per fuggire la leva repubblichina, fuggì in montagna arruolandosi nella brigata (chiamata “brigata autonoma militare”) comandata dal cap. G.Carlo Odino (anch’egli fucilato al Turchino).

   Fu catturato nelle immediate conseguenze di una delle più vaste operazioni di rastrellamento operata dal comando tedesco nella nostra regione ed alessandrino: furono impiegati 20mila uomini dei reparti Alpenjager dotati di armi automatiche e mortai, rincalzati da aereo cicogna, autoblinda, cingolati, gruppi lanciafiamme ed artiglieria; concluso il movimento  di accerchiamento procedettero per tre direttrici  nella notte tra il 5 e il 6 apr.1944  contro le formazioni partigiane operanti nella 3.a zona, racchiusa tra Voltaggio, Capanne di Marcarolo, Lerma, Mornese e laghi della Lavagnina.    L’operazione creò gravissime ripercussioni sulla organizzazione partigiana ed il completo disfacimento di alcune brigate stesse: 78 ragazzi in combattimento; altri prigionieri, catturati nell’operazione,  furono condannati ed immediatamente fucilati a gruppi di cinque in località  la Benedicta (AL, un ex convento, lungo il sentiero verso il Gorzente): 97 furono le salme rinvenute nelle fosse.

Grave fu anche l’azione punitiva verso la popolazione della zona, con ostaggi, uccisioni, devastazione delle case ed incendi.

   Tutta l’operazione  si concluse con 175 morti e 25 feriti tra i partigiani, nonché molti imprigionati e oltre 200 deportati (e mai più tornati), contro i 55 tra morti e feriti tedeschi.

   Ghiglione, fu uno dei primi ad accorrere nel luogo dell’eccidio, impegnandosi nel ricupero e riconoscimento dei caduti, gettati in una fossa comune scavata dagli ultimi uccisi e cosparsa di calce.

   Fu  catturato a Masone, e fatto prigioniero con altri 39 (13 furono fucilati subito) e  trasferito dapprima  a Marassi, poi alla Casa dello Studente (ove comandava il magg. S. Engel, membro superiore delle SS ) per interrogatorio e tortura.  

   Il tribunale di guerra tedesco lo condannò a morte, ma la pena fu tenuta in sospeso perché per interessamento dell’arcivescovo era stato previsto un provvedimento di grazia.      

   Ma il 15 mag.1944 un comando GAP di Genova, decise una azione di guerriglia nascondendo un chilo di tritolo in una borsa e deponendola nel cinema Odeon di via E.Vernazza a Genova, frequentato solo da soldati tedeschi: nell’esplosione ci furono quattro morti e 16 feriti, tra cui 4 gravi.

   Per rappresaglia, secondo lo schema di 10 italiani per un tedesco (come per via Rasella a Roma),  fu revocato il provvedimento di grazia; nella notte del 18 magg.1944, dalla IVa sezione di Marassi furono prelevati - prescelti dal prefetto della Repubblica di Salò, Basile e per decisione del ten. Kass (incaricato degli elenchi di cittadini da fucilare per rappresaglia, o da deportare )- 42 prigionieri politici  e 17 partigiani rastrellati alla Benedicta (c’era anche W.Ulanowski): furono portati al colle del Turchino in località Fontanafredda e nella mattina del 19 maggio 1944,  fucilati due a due tutti  i 59, da soldati della Kriegsmarine e delle SS (vedi a Ulanowski altre notizie in merito).

 

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale - Toponomastica, scheda ***

-AA.VV.-Annuario Archidiocesi-/94-pag.409-/02-pag.446 +

-AA.VV.-Contributo di SPd’A alla Resistenza-PCGG.1993-pag. 36.74.132  

-AA.VV.-35°Spd’Arena    

-D’Oria S.-Sampierdarena   San Teodoro-DeFerrari.2001-pag.49

-Gazzettino Sampierdarenese:   9/78.1  +  2/88.7   +   2/90.7  +  9/90.17  +

                                                   3/91.11

-Genova, rivista del Comune:  3/56.2   

-Gimelli G.-Cronache militari della Resist.-Carige.’85-I-pg.152.236-8                                                -                                                                                              -III-pag.76  

-Il Secolo XIX :  18/10/01  +  20/2/00.35la chiama via ghigliotti  + 01/03/02  +   

                            15/02/03

-Lamponi M.-Sampierdarena-LibroPiù.2002- pag.64

-Magnani L.-Il tempio di Venere-Sagep.1987-pag.

-Novella P.-Guida di Genova-Manoscritto bibl.Berio.1930-pag. 18

-Pagano –Annuario di Genova-ed/61-pag.226   

-Poleggi &C.-Atlante di Genova-Marsilio 1995-tav.34


GIOBERTI                                          via Vincenzo Gioberti

 

 

TARGHE: via – Gioberti (2 in marmo) 

                  via – Vincenzo Gioberti (plastica)       

                  San Pier d’Arena – via  - Vincenzo Gioberti  (plastica)       

  

angolo con via San Pier d’Arena

  

angolo con via G.Buranello – tratto inferiore-

  

angolo con. via G.Buranello - tratto superiore-

  

angolo con via N.Daste

 

 

 

QUARTIERE MEDIEVALE: Castello

 da MVinzoni, 1757. Infucsia la crosa di s.Antonio oggi  vico Stretto s.Antonio; rosso la villa Doria-Franzoniane; blu, la villa Crosa; giallo villa  Cambiaso; verde ipotetico tracciato di via  Gioberti nel terreno di Giorgio Spinola

 

N° IMMATRICOLAZIONE:  2783,  CATEGORIA:  2

 da Pagano/1961

 

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA - n°:   29760

UNITÀ URBANISTICA: 26 - SAMPIERDARENA

 da Google Earth, 2007. In rosso villa Doria-Franzoniane; giallo vico Stretto s.Antonio; celeste il Centro Civico.

CAP:   16149

PARROCCHIA:  s.M. della Cella

STRUTTURA:  congiunge via N.Daste con via San Pier d’Arena, ed è senso unico verso il mare nel tratto a monte, e viceversa in quello a mare, convergenti ambedue nella centrale via G.Buranello.

Dei due tratti , quello a mare è lungo m. 89,76, largo 5,03; quello a monte è lungo 113, 56 m e largo 4,95; ciascuno  con 2 marciapiedi.

    

primitivo – antico ingresso della farmacia                     anni 1970

 

 

STORIA: il tracciato iniziò spontaneamente ad essere percorribile, dall’epoca della spartizione dei terreni da parte dei ricchi nobili genovesi, nel XVI e XVII secolo -per costruirvi ville e possedimenti “fuori porta” - concedendo, tra una tenuta e l’altra delle proprietà private, generalmente coltivate ad orti, vigneti e frutteti, con  il pozzo , ed agli estremi la villa padronale o qualche cascina per i contadini, la viabilità tra la strada principale (allora senza nome, attualmente l’asse DeMarini-Dottesio-Daste) e la marina (oggi via San Pierd’Arena).

Nella carta del Vinzoni del 1757 (la “crosa s.Antonio”separa la stretta striscia dei terreni dei Crosa (a nord) e Stefano Cambiasio (sic; a mare) posti a ponente; da quelli del mag.co Giorgio Spinola la cui casa era a mare) la nostra strada corrisponde (proprio nella linea dell’estremo levante della dirimpettaia villa Doria –oggi Franzoniane-) all’interno di quell’ultima proprietà (Giorgio Spinola);  ma probabilmente in corrispondenza del torrente (che oggi passa sotto la strada) che la divide da quella a levante, del mag.co Christoffaro Imperiale Lercari.

Nella stessa carta si rilevano: ---che quest’ultima proprietà, aveva prospicienti sul mare varie case appartenenti a diverse persone i cui nomi sono assai difficoltosi a leggersi: –da ponente a levante-e in piccolo mia lettura interpretativa  C.ImperialeLercari -/- (su due righe=) mag.co Andrea Canbiasin/abitaz (?) del M.co Cozzo -/- Sig. An dolo di Noui (Nicolò di Novi ?) -/- Maestro Stefano di  …achi (Franchi?) -/-  Sig,ra Jmone Marta -/-  (su due righe=) Si fu Simone Moia vi ha / un fondo Maria Grampea -/- Mag.co Filippo Gentile.

---che lungo il percorso della nostra strada, c’era un torrente (il quale dall’alto proveniva dalla valletta superiore alla grossa vasca degli Imperiale-Scassi; e che più in basso di essa, si ramificava proseguendo verso il mare: uno, il nostro; un altro deviato a ponente; ma ambedue convergere a ricongiungersi pressoché di fronte alla sabbia della spiaggia prima di sbucare in mare con unico fossato.

---lo sbocco di via Gioberti in via San Pier d’Arena avviene ---sia prima deviando l’asse stradale verso ovest: forse seguendo il torrente che si univa a quello del vicino vico Stretto s.Antonio e poi anche  per raggirare la fabbrica; ---sia passando sotto una casa  -eretta sul sedime della villa degli ImperialeLercari- costruita sfruttando tutto il terreno di unica proprietà (dalla crosa s.Antonio a levante)

     Negli anni attorno al 1840, ai tempi della ‘stima’ fatta dal governo per il passaggio della ferrovia, ambedue i terreni ai lati hanno cambiato proprietà: a levante è divenuto –con villa nella via superiore- dei marchesi Sauli (Gaspare; poi nel 1850 i figli Francesco Maria e Antonio, con villa a nord sulla ‘strada comunale’; il sottovia ferroviario subito più a levante di quello che si apre in via Gioberti, a fine 1800 era chiamato appunto ‘sottovia Sauli’ e poi nei primi del 1900 divenne ‘sottovia Nasturzio’),  sempre con casupole e fabbrichette erette sulla strada a mare. A ponente, della famiglia Sasso GB (poi del figlio Emanuele a metà del 1800, con villa verso il mare; risulterebbe uno dei primi neo-ricchi borghesi ad acquistare terreni dagli ex-ricchi nobili).

Dagli ingegneri rilevatori, il viottolo incluso nella ‘regione Boraghero (tra via Albini e vico stretto sant’Antonio) e che dalla “strada interna o superiore” (oggi via N.Daste) arrivava al mare, passando tra gli orti di due proprietà private, ovviamente anonimo ed in terra battuta, ha  preso conformità conosciuta.

   Ambedue i proprietari, nel 1843 saranno obbligati a farsi  espropriare dalla società delle Strade Ferrate - per erigere il manufatto dichiarato di pubblica utilità -  una striscia di terreno larga 23 m (13 per i binari, ai quali aggiungere altri otto, per la strada affiancata). Questo esproprio, dovette dare il via ad una svendita generale dei terreni di proprietà nobiliare, con frantumazione in  molteplici piccoli borghesi imprenditori, tutti tesi a sfruttare il terreno per il sopraggiunto nuovo modo di impegnare i capitali: costruire. Infatti, appena completata la strada ferrata, avvenne una ridda di domande all’Intendente Generale della Provincia ed alla  ‘Azienda Generale delle Strade Ferrate’ da  parte di privati piccoli imprenditori, per poter erigere case lungo l’asse.                   

  Limitatamente alla nostra strada, i signori DeScalzi Angelo e Traverso Angelo (l’anno dopo la pratica è firmata DeScalzi-Taverna e Traverso Sebastiano) l’ 11 dic. 1850 presentarono assieme un’unica domanda in cui dichiarano che  ‘bramerebbero’ costruire ‘due case latistanti alla strada Sasso … a tramontana dalla strada ferrata‘ (rispettivamente gli attuali civ. 7 a levante , su terreno di proprietà Taverna esteso verso nord oltre la metà della strada; ed il civ.10 a ponente , nell’ex orto Sasso, su terreno allora di Traverso esteso dalla strada Sasso alla crosa di sant’Antonio per una are limitata a quella del palazzo ; a nord della proprietà Traverso , compare del terreno , divenuto proprietà di Fasce ) ;  furono autorizzati purché stessero distanziati 11,5 m dal piede del muraglione come voleva un regio editto dell’8 apr.1847 (sindaco era GB Tubino e consiglieri comunali  Francesco Mazzini, Bernardo Conte, Domenico Galliano, Francesco Carrena, Antonio Rivara, GB Canevari, Giuseppe Romairone, Giuseppe DeLucchi, Luigi Traverso e Luigi Raffetto).

   Nel regio decreto del 1857, il consiglio comunale cittadino deliberò di dare un nome alla strada: secondo l’uso di chiamare le zone in rapporto ad un punto di riferimento conosciuto dai più, decise di ufficializzare la nomina  “via privata Sasso”, in rapporto allo stabilimento omonimo fondato dallo stesso G.B.Sasso a cui è ancor ora intestata una strada locale ed aperto nel proprio terreno posto a ponente della strada  (di “Sasso fratelli”, nel 1889 era in città una fabbrica di pallini e tubi di piombo, però è improbabile che fosse essa, né ho trovato in che punto fosse ubicata : è evidente una omonimia , considerato le date di esistenza) .

  Nel 1898 il quotidiano ‘Caffaro’ segnala la trattoria ‘del Testino’, di proprietà di Martino Testa.

   Agli inizi del 1900 le due strade ai limiti si chiamavano ”via generale Cantore” posta a monte; e “via C.Colombo” a mare, dove la strada sfociava passando sotto un archivolto posto centralmente al  palazzo che la sovrasta e che può essere stata la villa dei Sasso, anche se esteriormente appare costruito o rifatto in epoca successiva.  

    Ma pochi anni dopo la strada già si chiamava “via Gioberti” (non si conosce la data precisa, ma nel 1910 compare nell’elenco delle strade stampato dal Comune) e collegava via C.Colombo (via San Pier d’Arena) con via sant’Antonio (via N.Daste); a metà era intersecata da via Vittorio Emanuele (via G. Buranello) ed aveva civici fino all’ 11 e 18.

Essendo la nostra l’unica città a dedicare una strada a ‘Gioberti’, nel passaggio dei poteri comunali del 1926 non subì variazioni eccetto l’inserimento del nome che – a quella data - non c’era. Allora era classificata di terza categoria.

 

CIVICI

2007– NERI   = da 1 a 11                                   e da 2 a 18

      ROSSI = da 1r a 63r (compresi 1A; 15A; 45AB) e da 2r a 68r (compresi 6B e 66A)

 La numerazione sale proseguendo da mare a monte; ed i civici appaiono cambiati negli anni, a parità di esercizio commerciale (tra parentesi l’ultimo anno del Pagano in cui compare l’impresa).  Ancora nel 2007 la numerazione va da mare a monte.

Molto numerosi in questa strada, i commercianti di olio (forse in rapporto e in linea all’attracco delle navi).

   Dal Pagano 1902 si evidenziano queste attività: civ. 1 litografo Bozzano Francesco (12);---2 negozio calzature e pellami di Colla PietroPaolo (25);---8-5 la levatrice Caorsi  Luigia (12) nel 1920 trasferita in via C.Colombo 81;--- 12 Storace Domenico grossista in olio d’oliva;---17 litografo (per illustrare casse e latte pere conserve alimentari. Non cè più nel Pagano/20) Martinetti Luigi (‘12);--- NON specificato il n° civico= uno dei due parrucchieri locali, Buscaglia Enrico (12);---Leverato Stefano fabbrica sapone;---Gherardi Carlo grossista di olio d’oliva;---

    In quegli anni risultano proprietari di case: all’1-1a eredi Copello; 2 Fossati Luigi; 3 Garibaldi Domingo; 4 Garibaldi Luigi «grossista di olio d’oliva; 5 Danovaro Lorenzo; 6 fratelli Dall’Orso («Sebastiano & F. grossisti di olio d’oliva); 7 Filippo Natini; 8 Lombardo Luigia ora Chiozza; 9 Olivari Ferdinando; 11 Lagorara Carlo; 12 Lombardo; 13 opera pia Oneto; 14 Lavigno, Bertorello e C.; 15 Carrena eredi.

   Nel Pagano/1908, 19111912, 1920) risultano esserci in più: tre negozianti-grossisti di olio d’oliva (al 4, Garibaldi Luigi (12); al 12, Storace Domenico (12) e non specificato Gherardi Carlo (‘12));--- due incisori (al 3-8, Schiano Cesare (08); e ‘volto ferroviario’ Olivieri Giacomo (12));--   NON specificato il civico= il negozio di mobili di Morando E (‘20).

   Nel Pagano 1911, 1912, 1920 vengono segnalati (oltre quelli del 1908):  al 6-1 abitazione del medico prof. Gandolfo Peone (25) (sindaco di Sampierdarena negli anni 1908-15 , tel. 44-90 (uno dei 5 ad avere il telefono su 22 medici), poi 41225; nel 1925 è al civ. 21-5);  ---al 17r il mobilificio di Traverso Luigi - ‘25) (nel 1919¡÷ era in v.Galata, p.za Bovio ed anche in via VEman 42);---al 24r il forno per pane, di Napoli GB (‘25) (oppure  Teresa);--- 34r commestibili di Scuero Giuseppina (12);--- 36r panettiere Scovassi Amelia (20);---  47r panettiere Parodi Giuseppe (‘20); ---civ.non specificato: l’impresa edilizia Zaccheo Lavagetti e Puppo - ‘12); ---il tappezziere Morando Emilio (‘20)(nel 25, anche mobili in legno);--- 

   Il Pagano 1925 scrive: al 2 calzaturificio-pellami di Colla PietroPaolo (vedi 1911); al 12-4 la levatrice Gaggino Maria in Vassallo; al 38r Sbarbaro & Porcile vendono cioccolato;---NON specificato il civ.= la tabaccheria di Venè Adele

   Nel Pagano/33 vi sono segnalati al civ.38r il droghiere Tobia Natale; al 127 il mediatore d’olio Pedemonte A & G. f.lli.

   Nel Paganp /40 si mscrive che va da via del Mercato a via N.Barabino; ed aveva nei civici neri = Capriotti Manlio, radio al 2; l’avv. Gius. Gandolfo al 5/1, il dr. Peone Gandolfo al 6/1, il dr. Rettagliata Pietro al 10/2, ed altri. Nei civici rossi = legna e carbone al 3r, osteria all’8r, seguono latteria al 9r, parrucchiere 10r, macchine 15r, cicli 16r, commestibili 22r, olii oliva 25r, liquori Vignale Nicola 28r, olio esaponi 31r, saponificio 33r, commestibli 34r, parrucch.signora 36r,   fabbro, drogheria, osteria, mercaria,  ristorante Vico  - di GaluppiL. - al 42r, pollivendolo 45r, latteria 47r, vini 48r, panificio 51r, osteria54r, frutta 55r, carbone 57r, drogheria, commestib., farmacia dell’Ospedale al 63r, orologiaio e latteria 68r.

   Nel Pagano/61 compaiono: civici neri (dal 2 al 18, e dal 1 all’11): 2, Capriotti radio; al 10 dr Rettagliata Pietro (valente ginecologo, il cui figlio è stato ortopedico di maggiore fama in città); all’11 l’ostetrica Verardi L.; al 14 Scaringi G. altro medico famoso; civici rossi: al 6r le officine mecc. di Scarrone L. forse dove la Metna; al 25r depos. Olio, dei f.lli Pedemonte; al 28r Vignale, liquori; 33r saponificio Gazzoni N.; 44r la ‘Ser.Na.Ri.’ di ricupero di bordo; 45r la Alleanza Coop Genovese; al 63r la farmacia dell’Ospedale.

Questi, oltre ad una serie di piccoli commercianti: di rottami, 3 fruttivendoli, 2 osterie, 2 latterie, parrucchierre, cicli, commestibili, tintoria, cornici, bar, tappezziere, orologiaio, 2 sartorie, droghiere.

 

Descriviamo prima la parte a levante con i civv. dispari, e poi la parte a ponente con i civici pari, nell’anno 2005.

===civ. 1, minuscolo portone, si apre sotto il voltino.   

===Esiste anche l’ingresso civ. 1A sulla facciata a monte dello stesso palazzo, preceduto dal civ. 11r.

===Forse al civ. 5, non è ben specificato,  negli anni 1880 ospitava la sede di una loggia massonica “La Verità”, i cui iscritti erano normali cittadini di però scarso peso politico; ma ai quali erano assai vicini sia Valentino Armirotti, che Nicolò Barabino e John Wilson (tutti  apertamente schierati su posizioni filorepubblicane e un po' più nascosto, massoniche). In seguito una loggia – senza migliore approfondimento mio delle varie strutture interne della società - fu presente in via Dattilo ed ora in via La Spezia presso l’ex circolo P.Chiesa.

===civ. 15r e 17r una rientranza stradale, a levante ed a lato mare, da adito ad una fabbrica M.ET.N.A, con i classici finestroni rettangolari; a due piani, e che  nel 2005 è chiusa ed abbandonata. Non ne conosco l’esercizio anche se appare evidente fosse di natura meccanica.

Due solo civici, pur avendo tre fornici rettangolari ed altre porticine prima di finire la facciata.

 

foto 2009 -  la Metna, chiusa, vuota e irrimediabilmente fatiscente         verso ponente

 

Il palazzo seguente inizia col civ. 19r


===civ. 3 ancora nel 2004 il portone era sormontato da un disegno – come affrescato - del simbolo militare aeronautico dell’Italia: tre cerchi concentrici verde-bianco-rosso; si dice che durante il conflitto mondiale c’era una sede militare fascista, non precisata, ma presumibile aeronautica visto il simbolo. Sul muro della facciata, nel 2005 si leggeva ancora la scritta “W Coppi” degli anni dopoguerra.

 

il civ. 3, fa supporre sia stato sopraelevato in tempi diversi

 

 


  


il civ. 3 con il simbolo aeronautico e la scritta W Coppi

 

===civ. 21r Dei negozi, nel 2005 c’è importante quello del ‘fai da te’ che ha magazzino di fronte. In quest’ultimo, nel retro, c’è ancora il pavimento a grosse lastre di ardesia: alcune di esse, sono spostabili e fanno vedere sottostanti grandi vani, una volta cisterne per contenere olio importato all’ingrosso da lavorare e /o da vendere.

Un cancello separa questo palazzo dal seguente che è l’ultimo del tratto a mare. Ha civici rossi dal 23r al 25r.

===civ.5: con il civico 8, sono due palazzi di proprietà iniziale di Dall’Orso, quasi simmetrici; ambedue debbono il particolare del portone aperto in via Gioberti (e non in via Buranello) causa la loro preesistenza –di poco- alla nuova via tracciata a fianco della Strada Ferrata  a metà secolo del 1800 (detta all’inizio Nuova strada Reale, poi via Vittorio Emanuele); essi condizionarono tutti gli altri edifici  da costruirsi lungo la nuova strada perché fu imposto dovessero essere all’identica distanza dal piede del muraglione.

    

foto datata 1893                                          targa a memoria di G Jori – prima e dopo restauro

                                   

   

il civ. 7 con torre                                                                     vista da nord (logge tamponate)

---via Giacomo Buranello e voltino della Ferrovia. Segue la parte a monte della strada.

===29r è un cancello che chiude sulla strada lo stacco tra i palazzi.

===civ. 7:  il palazzo è decorato con strutture ed arredi esterni del periodo fine 800. Inizialmente nacque come palazzo padronale, con un piano attico decorato anche all’interno, sulle volte, si dice da N.Barabino. La ristrutturazione ad appartamenti (al primo piano ne sono stati ricavati 5), hanno fatto sacrificare le geometrie dei disegni dei pavimenti. La sua origine, è descritta sopra.


Nel retro del palazzo, stava crescendo una bella palma; evidentemente messa in sito piccola, nel tempo è abbondantemente cresciuta e cerca luce. È stata abbattuta nel 2010

 


Il palazzo, ha civici rossi dal 31r al 37r, ed è attaccato al seguente che ha solo due civici rossi, il 39r e 41r. Un cancello senza numero civico, chiude sulla strada lo spazio tra questo palazzo e il seguente.

===civ. 9  sembra sia stato costruito a metà del 1800 ad uso unifamiliare da un Ravano non ben definito. Il portone molto semplice, adduce alla scala fatta con bassi scalini in nera lavagna, protetta da ringhiera in ghisa decorata. Gli appartamenti avevano caratteristica di aver posseduto in origine la ‘latrina’ confinata in un minuscolo locale sul terrazzino nel retro raggiungibile uscendo all’esterno da porta finestra. Attualmente diviso in vari appartamenti per piano, solo quelli dell’ultimo hanno il soffitto a volta che ancora nel periodo post bellico era decorato.

 

All’interno 1A aveva sede la ‘Radio Lanterna City’.

Il palazzo ha civici rossi dal 43r al 45r

Un cancello, civ. 49r, chiude lo spazio tra i palazzi ed è a uso privato

===civ.11 fu demolito nel marzo 1952 e ricostruito, quando la strada andava da via N.Daste a via N.Barabino. Il palazzo comprende negozi dal 51r al 57r

===civ. 63r: la farmacia Gioberti. Voluta proprio dall’amministrazione dell’ospedale per uso proprio interno ma anche civile esterno, ne fu decretata  l’apertura nel 1910  (quando in città ve ne erano già 13, una ogni 3mila abitanti: risulta che a quella data fossero censiti 47.776 abitanti). Per questo, popolarmente è chiamata “dell’ospedale (e più propriamente “degli ospedali civili”), per la vicinanza  e dipendenza con il  nosocomio, quando questo era ancora ospitato nella vicina villa Serra-Doria-Masnata (oggi in via A.Cantore). Sino ad allora, il materiale al nosocomio veniva fornito,  dapprima dalla farmacia Raffetto (poi  Bisio di via Ghiglione-Cella)  e poi dalla Italiani (in via Giovanetti). Nelle gare per le forniture, quest’ultima  vinceva per la capacità di fornire tutte le preparazioni farmaceutiche ed i materiali da medicazione, a prezzi sempre sensibilmente scontati rispetto alle altre concorrenti: poiché però per un principio commerciale per il quale non esiste alcun materiale di cui non si possa ridurre il prezzo senza altrettanto ridurre la qualità, nel nov.1908 l’amministrazione ospedaliera propose una farmacia “interna”, e poi una “interna-esterna” disposti a spendere anche 27mila lire per riordinare dei locali (siti nell’angolo tra via sant’Antonio (oggi Daste) e via G.Masnata (oggi scomparsa). Nelle liti e ricorsi  legali conseguenti a questa scelta, l’apertura funzionale della farmacia esterna ritardò di alcuni anni, cosicché solo nel 1912  venne nominato il primo farmacista laureato,  nel dr. GB Dellepiane. Nel 1915 l’ospedale si trasferì alla villa Scassi, mantenendo però sempre questa farmacia esterna,  quale direttrice rispetto la interna, sino al 1929. La completa separazione avvenne  dieci anni dopo; seppur rimanendo ancora, ma solo giuridicamente,  dipendente dal Direttore della Gioberti, che conservava le responsabilità del servizio e del movimento dei farmaci stupefacenti.  Dopo di che, la farmacia esterna fu dapprima data in affitto, poi venduta.

Attualmente 2003, si chiama ancora “farmacia Gioberti” ed  è gestita dai figlidel dr. Ghio, a lui succeduti dopo il pensionamento; questi l’aveva rilevata dal dr Rivara Alberto, e a sua volta (ancora negli anni 1950) da Della Cella Luigi.

Il palazzo comprende i civv. rossi dal 59r al 63r che fa angolo con via Daste.

 

===civ.2  si apre sotto il voltino, assieme al 2r e 4r.

===civv. 4 e 6 si aprono nella stessa facciata, il secondo posto nell’angolo con il 18r; assieme ai rossi dal 6r al 16r.

===civ.8r nel 1950 c’era l’osteria di Serpero G.

La facciata seguente ha un solo portone: con i rossi dal 18r al 24r

===civ. 20r: è la falegnameria del negozio di fronte (di tipo “fai da te”) creata nel 1963 dai fratelli Antonio e Raffaele Fazio (falegnami per tre volte vincitore di un premio nazionale e due internazionali). Caratteristico nel 20r il salone più interno, nel retro del magazzino una volta deposito doganale, il pavimento settecentesco conservato lastricato con piastre quadrate di ardesia (ora giustamente consunta dal tempo e dall’uso), di circa 40cm di lato ciascuna; coesistono sei-sette botole di legno lievemente più grandi, che davano adito a cisterne sotterranee adatte a conservare l’olio  di antichi commercianti.

===civ.8: in questo palazzo posto a ponente, come per il civico 5 posto a levante, il portone si apre su questa strada e non su via Buranello più importante, perché il palazzo fu eretto dall’imprenditore Arnaldi, prima che si aprisse la strada parallela al mare, inizialmente chiamata “via Reale a Torino”. Vicino all’angolo con via Buranello una piccola targa, prima del 2004, ricordava il punto ove “qui cadde - Germano Jori – partigiano - falciato da una raffica di mitra - mentre tentava la fuga dall’arresto - il 13.7.44” (allo Jori fu dedicata una via a Rivarolo). Essendo sbagliata la data, evidentemente la targa è stata cambiata perché dal 2004 essa dice “ (stella) = qui cadde = per la libertà della patria = il partigiano = Jori Germano = fu Erminio = 7-10-1904   15-7-1944  = a cura del Comune di Genova”.

---via Giacomo Buranello e voltino della  Ferrovia

===civ, 26r è un cancello che chiude una proprietà privata nello spazio tra ferrovia e palazzo che ha civici rossi dal 28r al 30r.

===civ. 10 è descritto sopra; seppur  costruito in contemporanea con quello di fronte, sono evidenti i mezzi trasfusi dagli imprenditori nelle decorazioni: probabilmente, visto che presentarono la domanda di costruzione assieme, con unico foglio, essi andarono ad abitare in uno e costruirono questo, speculando sulle case per operai.

  Vi aveva sede –prima del suo trasferimento a Cornigliano nel 1996 , la primitiva sede della ditta ‘Amaro S.Maria al Monte’ un fernet tonico digestivo ancor ora in commercio: appare nel 1899, di proprietà con soci sconosciuti, di Vincenzo Castrovillari. Nel 1910 –ed ancora nel 1925-50, di “Nicola Vignale di Giov. succ. ai F.lli Conte fu GB (Fabbrica di Vermouth - liquori - sciroppi – specialità: Amaro S.Maria al Monte)” in via Gioberti 10 e 30rosso. Nel 1961 l’azienda appare sempre titolata a Nicola Vignale ma di proprietà A. & R. e sede  al civ. 28r.

===civ. 30r dal 2000 ha sede la Vetreria Sampierdarenese, qui traslocata in quell’anno da via della Cella.

===civ. 32r è una porticina posta sotto un terrazzo, teso al primo piano nello spazio tra il palazzo precedente e quello successivo con il civ. 12 e rossi dal 34r al 40r.

===civ. 14 il portone è sormontato da un piccolo stemma con incisa una L, probabile sigla dell’imprenditore che lo eresse. Il palazzo ha civic8i rossi dal 42r al 50r. Segue un cancello che chiude lo stacco

===civ. 16 ha sopra il portone una losanga decorativa.Il palazzo ha civici rossi dal 54r al 60r. Segue un cancello che ha il 62r

===civ. 54.56r nel 1950 l’osteria era di Poggi Rosa

===civ 18 è l’ultimo palazzo che fa angolo con via Daste. Con civv. rossi dal 64r al 68r. Si intravvede che fu decorato, con colori vivaci tendenti al rosso ed ormai slavati dal tempo. Rispetto a via delle Franzoniane, il palazzo (e, con lui, poi, tutta la strada) non è in linea diritta, ma avanzato in modo detto ‘a baionetta’; il motivo era determinato dallo spezzare la corrente di vento di tramontana che scendeva dalla crosa corrispondente.

 

DEDICATA al sacerdote, filosofo, politico, torinese, nato il 5 aprile 1801 a Torino, da ricca famiglia caduta in miseria.

   Studiò con i Padri Filippini, si laureò a 22 anni e fu ordinato prete nel 1825, venendo nominato cappellano di corte da Carlo Alberto. Forse perché privo di una forte vocazione sacerdotale, o acceso di giovanile ardore dagli scritti dell’Alfieri, fu ben presto distratto dai movimenti politici, che lo entusiasmarono e lo indussero a partecipare attivamente iscrivendosi ad una società segreta chiamata ‘dei Circoli’: per le sue idee troppo vicine al Mazzini ed alla Giovane Italia, avendo scritto una lettera sul tema ‘della repubblica e del cristianesimo’, fu arrestato nel 1833 e costretto ad esiliare a Parigi ed a Bruxelles, ove rimase 11 anni, forse abbandonando l’abito talare.  

   Durante questo soggiorno, scrisse dei trattati religioso-filosofico-politici: i Prolegomeni al Primato (1845);  Il gesuita moderno (1846 ove polemizza con loro auspicando un cattolicesimo più aperto alle esigenze del neonascente pensiero liberale);  ma il più famoso è del 1848, nell’anno di rientro a Torino, intitolato “del Primato morale e civile degli Italiani”, composto nel tentativo di convincere i concittadini all’idea di una confederazione di stati, tra cui il regno dei Savoia, (convertito rispetto le idee giovanili repubblicane, avendo constatato che il re sabaudo era l’unico ad avere i mezzi per arrivare alla méta),  posti sotto l’autorità superiore del Papa (nella coscienza di moltissimi grande era allora il contrasto tra la necessità di lottare per l’unità del paese, e la conseguente necessità di lottare contro il potere temporale papale: solo gruppi di “rivoluzionari e ribelli” -quindi non graditi alla massa- avevano tentato nello stesso anno dei moti nelle città, ma furono deplorati dai più; i vari preti erano decisamente contrari a qualsiasi provvedimento che attaccasse il potere romano, ed avevano facile presa sulle masse incolte, disinformate e suggestionabili). Il libro creò enorme impressione, vivaci polemiche, grandi entusiasmi, comunque grande fama all’autore e maggiore coscienza del problema nella gente (l’idea di unità e nazionalità,  prima del 1840 era discussa solo in luoghi segreti e i pochi propugnatori erano avversati come pericolosi sovversivi. A Genova stessa, in cui si sperava ancora nel ripristino della Repubblica, le idee ristrette al proprio piccolo interesse e municipalismo, erano quelle che prevalevano su tutte le altre).

    Infatti, nel 1848 stesso, graziato dalle riforme di Pio IX, poté rientrare in Italia, e fu prima ospite a Genova in un hotel  Feder, posto vicino a Ponte Reale, sempre contornato da enorme folla entusiasta di averlo tra loro; gli organizzatori delle celebrazioni in suo onore, all’atto della partenza via mare gli offrirono un inno “l’Italia risorta” cantato dal coro del Carlo Felice e la soprano Adele Rebusini; e lo accompagnarono festosamente fino alla banchina (era stato concesso proprio allora lo Statuto).

   Seppur avesse tentato di conciliare le necessità politiche con quelle religiose, la Chiesa romana rimase tendenzialmente severa e riprovante  dei suoi scritti, giudicandolo attraverso le sue opere un apostata, settario e calunniatore dei Gesuiti.

   A Torino invece ricevette subito cariche politiche nella mentalità da prima di neoguelfista, ad alto livello di responsabilità: nel governo Casati, fu ministro degli esteri (a Parigi, dopo la disfatta di Novara) ed anche presidente del Consiglio dei Ministri.

   Però, divergendo sempre nell’attuazione pratica della politica, preferì dimettersi e ritirarsi a vita privata, riscrivendo (1851) un terzo programma di unificazione dal titolo “del Rinnovamento civile d’Italia”, non più repubblicano, né papista, ma decisamente basato sulla guida della casa Savoia.

   Morì a Parigi in condizioni assai modeste, a 51 anni il 26 ottobre 1852.

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Ferrovie

-Archivio Storico Comunale

-Archivio Storico Comunale Toponomastica – scheda***

-A. non precisato-Un’idea di città-mostra Centro Civico 1986-pag. 115

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-Cavallaro G.-Ospedale civile di SPd’Arena-Pagano 196?-pag.68

-Ciliento B.-Gli scozzesi in piazza d’Armi-DeFerrari.1995-pag.65.67foto

-DeLandolina GC.-Sampierdarena-Rinascenza.1922-pag.42

-Enciclopedie Motta- Sonzogno -Zanichelli

-Gazzettino Sampierdarenese  :  3/76.4  +  4/76.7  +  8/96.13  + 02/04.7

-Gazzo E.-100 anni dell’Ansaldo-Ansaldo 1953- pag. 42

-Lamponi M.-Sampierdarena-LibroPiù.2002- pag.64

-Novella P.-guida di Genova-manoscritto 1930-pag.17

-Pagano/08–pag.873-9; /33-pag. 1434; /40-pag.302;  /61-pag.230.1124

-Pastorino.Vigliero-Dizionario delle strade di Ge.-Tolozzi.1985-p.67.865

-Poleggi E. &C-Atlante di Genova-Marsilio 1995-tav. 34.50

-Regina Lunario Sig. 1889-Pagano-.541   +


GIOVANETTI                                          via Giacomo Giovanetti

 

TARGHE:

via – Giacomo Giovanetti - economista-politico -  1786-1849

San Pier d’Arena –via - Giacomo Giovanetti - economista-politico - 1786-1849

S.Pier d’Arena–2784-via-Giacomo Giovanetti–economista–politico–1786-1849

–già via A.Doria

 

angolo con via San Pier d’Arena – (del “già via Doria, si legge solo la O)

  

tratto inferiore, a mare – angolo est con  via G.Buranello –

                                  

tratto inferiore, a mare – angolo ovest con via G.Buranello –

tratto superiore, a monte di via G.Buranello, lato ovest

 

tratto superiore - lato ad est, angolo con via N.Daste 

tratto superiore – angolo con via A.Cantore 

 

QUARTIERE MEDIEVALE: Comune (o Castello)

 da MVinzoni, 1757. In giallo via della Cella; rosso, la chiesa della Cella. Le ville: in blu del march.Serra Giuseppe; celeste dei Grimaldi; fucsia di Ambrogio Doria; verdone di francesco Grimaldi-Gerace. In verde ipotetico tracciato di via Giovanetti.

 

N° IMMATRICOLAZIONE:   2784,   CATEGORIA: 2

 

da Pagano 1967-8

 

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA - n°:    29940

UNITÁ URBANISTICA: 26 - SAMPIERDARENA

 

 da Google Earth, 2007. In giallo, via della Cella; rosso, la chiesa della Cella. Trasversali: in alto via NDaste, a metà via GBuranello.

 

CAP:   16149

PARROCCHIA:  NS della Cella

STRUTTURA: la numerazione civica cresce seguendo da via San Pier d’Arena a via A.Cantore; tagliata perpendicolarmente in tre tronchi da via G.Buranello e viadotto ferroviario, e da via Daste.

La strada, carrabile comunale, è senso unico  sia da via N.Daste verso il mare, per ambedue i tratti in quella direzione; che da  via Daste indirizzati  a via A. Cantore.

Il tratto dal mare a via Buranello, è lungo 110,62 m e largo 5,40m  ; il tratto intermedio è lungo 118,28m e largo 5,5m.; il tratto a monte è lungo 24, 26m e largo 7,10m (in totale m. 253,16). Tutti e tre, hanno relativi  marciapiedi ai due lati,  con lastre in arenaria , escluso il tratto a monte che è in piastrelle rettangolari rosse  probabilmente così decisi dai condomini dei civici attinenti.

È servita dall’acquedotto DeFerrari Galliera

Il Pagano 1950 segnala esistere nella via una osteria di Monti G. al 52r; due bar di Castello F. al 5-7r e di Biancardi Rosa all’84r; e due trattorie: al 25-27r di Parodi A. ed al 73r di Francia Giulia.

Nel 2003, davanti alla chiesa, è stata rifatta la pavimentazione, lastricata, distaccata dall’asfalto della strada. Secondo le intenzioni, dovrebbe essere nominata “piazza” con un nome specifico.

STORIA della strada: prima di essere dedicata all’avvocato legislatore (il cambio avvenne il 19 ago.1935 per delibera del podestà), si chiamava  via Andrea Doria, e  nel 1933 era di 1.a categoria.

Ma prima ancora c’erano solo giardini ed orti: (ovvero prima della ferrovia, degli anni 1850). Ancora prima, può essere che nel 1200, quando sorse la chiesa, i terreni già fossero proprietà dei Doria, i quali per secoli poi ebbero cura delle chiesa e convento, come loro patronato (credo non sia dovuto a questo, come ossequio, che la strada ebbe nome del condottiero; perché all’epoca della titolazione erano cambiati i proprietari).

   Su ‘Le ville del genovesato’ a pag..71 si scrive che dalla planimetria del Vinzoni del 1757, la villa (posta sulla strada Comunale, a monte degli orti in mezzo ai quali nacque la strada (oggi il civ.28), apparteneva al ‘mag.co Centurione’) risulta però - a sud - priva di giardino essendoci invece quello molto esteso  dell’adiacente villa Serra-Doria-Monticelli. Il Gazzettino Sampierdarenese aggiunge –sbagliando- che il civ.28, dopo i Centurione, era divenuto nei quasi cento anni a seguire villa Doria (e che aveva un giardino estendentesi sino al mare); come è  visibile dalla carta sopra, Centurione e Doria sono due case diverse, e quella Doria oggi è scomparsa, mentre il vasto terreno è vero e fu ereditato da una figlia, divenuta Pallavicini –vedi subito sotto-.

   In tabelle del 1847 della soc. Strade Ferrate - stilate al fine di espropriare i terreni per la costruenda ferrovia - la strada non appare esistere ancora (sono citate come strade perpendicolari solo via della Cella a ponente e crosa sant’Antonio a levante, che racchiudevano il quartiere detto ‘del Comune’); e la fetta di terreno fu espropriata alla marchesa Orelina (o Arietina) Pallavicini, fu Lamba Doria Cesare e moglie del march. Alessandro Fabio Pallavicini ambasciatore e residente a Monaco di Baviera (con villa prospiciente la strada comunale interna = via Daste).

   La strada appare quindi essersi formata, costruendo le case nei  terreni una volta di proprietà privata, e dalla metà del 1800 venduti dopo l’espropriazione obbligatoria della strada ferrata (contemporaneamente all’ espansione delle industrie, che ruppero l’incantesimo degli orti, frutteti e vigne a vantaggio dell’edificazione popolare). Questa proprietà privata, compresa nella “regione (o quartiere) del Comune”, nella parte a nord apparteneva come scritto sopra, ai Pallavicini; e nella parte a sud verso il mare, a Giorgio Giletta fu Giacomo  ed alla Parrocchia. L’orientamento della via verso monte,  a forbice rispetto la più antica via della Cella, potrebbe essere legato al cercare di rettificare il tragitto fino al primo ospedale cittadino (nell’altra villa Doria, oggi in via A.Cantore).

 

 

 

CIVICI  

2007 – NERI   = da 1  a 15                                           e da 2 a 12

            ROSSI = da 1r a 95r (compresi 15Ar e 37Ar); e da 2r a 92r

 

Nel Pagano/40 leggiamo esserci l’Arcipretura di s.Martino e SM della Cella, senza civico; nei civici neri, da 1 a 10, di privati (sartoria coniugi Negri. Dr. Lanza Seb. medico, bustaia, ecc.). Nei civv. rossi, da mare a monte: 1r coltelleria f.lli Masè; parrucchiere, 5r Castello gelateria, ulumi, frutta, 14r soc.an. Coop CarloRota; parrucch., merceria, calzoleria, otton., drogher., 25r trattoria di ParodiAngela, frutt., orolog., mercerie, calzat., panif., drogher., macell., vini., idraulico, legatoria, tessuti, 41-5r bar, polliv., calzol., liqwuori, osteria, latteria, pesi e misure, salumi, vini, mode, drogheria, mobili, fruttiv., commestib., copisteria,  ottoniere, merceria, corami, carbone, parrucch., fruttiv., bottigl., calzol., 75r commest coop.Carlo Rota, tele metalliche, macell., latteria, commestib., 84r bar pasticc DagninoM, 85r farmacia Italiani. 

 

TRATTO A MARE della ferrovia

 

da monte a mare


===civ. 5r la caratteristica gelateria Castello F.: per innumerevoli anni il miglior gelato della città; punto di ritrovo obbligatorio per chi voleva assaggiare un gelato gustoso, fatto come si deve (il latte presumo, non ancora della Centrale)!


===Le casupole nel tratto prospiciente il mare, di fronte alla chiesa, con la loro struttura bassa ed irregolare, lasciano presupporre una loro origine alla fine del 1700, primo 1800: considerato l’età della chiesa, non è facile giustificare il bisogno di costruire così a ridosso della sua facciata (anche se a quell’epoca essa era arretrata di svariati metri, aggiunti dopo), se non nel vecchio concetto difensivo dalla parte del mare esposto a possibili attacchi di pirateria o di eserciti invasori; il fatto che il loro portone di ingresso sia rivolto a via della Cella e non alla via Giovanetti, lascia presupporre che –anche  se ristrutturate - il manufatto era antecedente all’apertura di questa strada.

===la chiesa, essendo lunga e vasta la sua illustrazione, viene descritta alla fine della descrizione della strada

===Le altre case che si aprono sulla via prima della ferrovia, completamente lisce e senza terrazzi, strette e con erte scale, con minuscolo vano interno da neanche poterci inserire un ascensore, appaiono della  metà-fine del 1800. Quelle sul lato a ponente, come le precedenti, si aprono sui vicoli collaterali: per Giannetto Doria, sul Gazzettino, questo è giustificato dal fatto che dove ora sono quei civv. era uno spiazzo erboso, sul quale - per pochi anni - si potevano applicare i primi rudimenti del gioco della palla (e dove additrittura si allenò anche il Genoa C.& Football Club-1893; permettendo ai più vecchi concittadini di ricordare la zona come quella del ‘gioco della palla’).

 

TRATTO A MONTE della ferrovia

===civv. 4-6-8: Nel tratto intermedio, a ponente, una certa curiosità è destata dal “palazzo Bagnara”, stabilimento (dalle dimensioni fu definito un  ‘bastimento’) cappellificio (di feltro e di paglia).

                                   

il palazzo Bagnara                                         al primo piano                      ai piani superiori

 

             

dal civ. 6

Fu Bagnara Ermillo (per la famiglia Bagnara, vedi in via N.Daste al civ. 28) che nel 1886 iniziò con una modesta accomandita con 10mila lire di capitale ad aprire una azienda artigianale; aumentando poi fino a 50mila nel 1899 e 200mila nel 1906 (Doria scrive che il capitale aggiunto provenne dal ‘Cappellificio Monzese’ e che nel 1908 gli impianti valevano 410.451 lire). Ricevendo finanziamenti da Varese, in pochi anni gli impianti crebbero di valore, da circa 450mila lire a 750 tra il 1906-9: era divenuto il maggiore cappellificio genovese, di importanza industriale, disponendo di due stabilimenti (non si sa dove, il secondo). Riuscì così a costruire il palazzo, adibendo i primi due piani a fabbrica e quelli sovrastanti ad abitazione per gli operai (in un periodo in cui era estremamente carente l’alloggiamento dei tanti immigrati ed occupati pertanto può vantare essere stato il primo (e forse l’unico)  concepito per ospitarvi anche gli operai (si scrive altrove che nacque come fabbrica di cordami.). Oltre alla distribuzione ed utilizzo degli spazi, altra caratteristica fu -per l’epoca in cui non esisteva ancora il cemento armato-, l’abbondante uso di rinforzi metallici.

I Bagnara, per se stessi, nel 1904 fecero ristrutturare anche la villa a monte, acquistandola da Copello. La positiva espansione dell’attività, parallela all’uso e valorizzazione del cappello a livello popolare, determinò la scelta di aprire in città anche dei negozi: fu il figlio Ezdra ad aprirne due, uno in piazza Vittorio veneto ed altro in via G.Buranello vicino all’intersezione con via della Cella.

      

réclame dei cappelli

Nel lustro che precedette la prima guerra mondiale, il calo delle vendite obbligò porre la società in liquidazione accumulando perdite che quasi triplicavano il capitale; la gestione economica risultò poi anche viziata da irregolarità amministrative che provocarono strascichi penali incresciosi, riducendo il valore degli impianti da 500mila a 50mila lire. Cosicché vennero venduti all’asta.

Alcuni scrivono che fosse in attività ancora nell’ anno 1930. Sicuramente vennero adibiti ad uso abitativo anche i primi due piani, a partire dal 1935 in contemporanea dell’uso commerciale-artigianale del piano terra

Ambedue gli immobili furono infine ristrutturati ad appartamenti d’abitazione .

È caratterizzato da un unico ampio vano scale interno, centrale, quadrilatero, coperto in sommo da ampia vetrata per raccogliere la luce. Oggi il palazzo ha tre portoni distinti con altrettante rampe di scale corrispondenti; ciascuna scala sale singolarmente nell’androne comune, in modo aperto in modo che ognuna è in vista dell’altra  sino all’ultimo piano. Ad ogni piano la porta di ingresso dei singoli appartamenti (e qualche finestra di essi) si aprono su un pianerottolo fatto a balconata, che a sua volta si affaccia sul vano scale; ed ognuna è separata da cancelletti personali cosicché ogni appartamento –seppur aperto sulla via principale- ha come un terrazzino interno (la maggior parte ha chiuso, ricuperando il piccolo vano).

   Sul lato a levante della strada, c’era nel tardo 800 un grosso stabilimento, di un sig. Copello (o Coppello) che doveva essere un grosso imprenditore se a livello del sottovia di via L.Pancaldo possedeva uno scambio ferroviario privato con una linea proveniente dalla ferrovia a mare; se ne ritroviamo il nome per altri magazzini alla Coscia, cointestati con un Garibaldi; e se l’attuale via Bezzecca prima dell’ufficializzazione di questo nome,  popolarmente veniva chiamata ‘via Copello’ e lo stesso per la viuzza parallela a levante di via della Cella, prima di chiamarsi vico Scaniglia, popolarmente aveva il nome del Copello.

===civ. 15: Il palazzo appare dall’esterno rialzato di due piani. La facciata a nord conserva, anche se quasi completamente cancellati, i disegni delle persiane chiuse sulla facciata di via Daste  (col ritmo da levante a ponente di 2 false, 2 vere, 1falsa centrale, 2vere, 2false), usati anticamente per coprire la simmetria e l’estetica anche laddove non erano finestre.

   Il Doria del Gazzettino dice che è del 1860 (a me sembra assai posteriore) e che per i suoi arditi capitelli e cornicione diede - e forse da tuttora- tanti grattacapi; il cornicione, posto al quarto piano prima della sopraelevazione di altri due, appare di stile neoclassico, ed è comunque vincolato dalle Belle Arti, dal 1934.

Dal 1991, all’interno 23 esiste il ‘Circolo Amici della città’, circolo culturale e benefico, apartitico, con iniziative per una città a misura d’uomo con premi , servizi sociali ed anche assistenziali .  

===civ.87r:  Nell’angolo, la antica farmacia Italiani.  Nata come negozio di Luigi Milanesio nella via che allora si chiamava sant’Antonio, questi avendo vinto la gara d’appalto nel 1881 (aveva offerto un ribasso del 12,5% centesimi, contro il collega Raffetto che offriva l’8) , ricevette l’incarico di fornire l’ospedale di preparazione farmaceutiche (allora pressoché tutte galeniche). Nel 1885 la vedova Milanesio, signora Dòmino Ester (a quei tempi non era ancora necessario essere laureati per gestire un esercizio simile), offrì servizio anche per il materiale da medicazione; nel tempo vinse anche le successive gare d’appalto, con sconti sempre più sensibili, ma a scapito ovviamente della qualità: questo portò la scelta da parte dell’Amministrazione ospedaliera di aprire una farmacia propria (per frenare tale scelta, la Milanesio propose la somma di 47mila lire contro una valutazione di 20mila per eventuale acquisto dell’intero esercizio; e fece nascere un contenzioso  che si protrasse per  anni (fino al 1915, quando il Consiglio di Stato diede torto definitivamente alla farmacista);

 

ma  anche dopo allora ancora - sollecitò tutti i colleghi della città per una nuova citazione in tribunale, affinché l’ospedale non aprisse anche al pubblico esterno (la Cassazione, alla sezione di Torino,  darà poi ragione all’Ospedale , facendo perdere la causa ai farmacisti)).

La battagliera signora Milanesio  cedette l’esercizio, alla fine del 1800, all’unico figlio maschio e laureato Emilio  che però morì precocemente di tifo nel 1913; le tre figlie (Rosetta, Margherita, Orsola (che sposando un Corvisiero ebbe un figlio Enrico poi divenuto un valente ‘medico della mutua’ locale)) nel 1922 circa lo vendettero  a Italiani Domenico, che lasciò indelebile il suo nome scrivendolo sul marmo posto sullo stipite delle porte; questi poi al dr. DeMaria Ottavio (diplomatosi in farmacia nel 1928 quando ancora non esisteva il corso di laurea –iniziato dopo il ’36- seppur occorreva un esame di Stato abilitativo); dal ‘64 ad ora è gestita dal figlio, dr. DeMaria Giorgio il quale a sua volta sta cedendolo nel settembre/2005. Esternamente ingresso e vetrina  hanno un arredo in marmo, come conveniva ai tempi dell’apertura, per i negozi che volevano essere più prestigiosi. Agli inizi del 2007 anche quest’ultimo cedeva definitivamente le redini vendendo l’esercizio al dr  _____***

===civ. 10: portone che dà adito ad una costruzione  attaccata al fianco est del palazzo Centurione di via Daste, uniformando l’andamento delle facciate del lato ovest della strada (su via Daste, il nostro palazzo ha una sola finestra, essendo profondo un solo vano).

===civ.12: Nel tratto terminale c’è l’Associazione nazionale Combattenti e Reduci, sez. Le Tofane, fondata il   22 feb.1919  da 79 superstiti locali, che ricevettero in custodia un tricolore combattente. Praticamente i soci fondatori sono ormai tutti estinti; ma la sezione frequentata dai reduci dell’ultimo conflitto, è interessata alla custodia e vigilanza del monumento ai caduti, posto nei giardini Pavanello. Dal giu.1923, è ente morale.  Nel 1938, i soci acquistarono dalla soc.an. Cooperativa Edilizia ‘Combattenti’ l’appartamento in cui sono ospitati; inaugurarono la nuova sede il 26 feb.1939, donandola alla loro sezione chiamata ‘Le Tofane’;  attrezzarono i vani a sala ritrovo, con biblioteca, bar, biliardo, tavolini, e custodendo l’’Albo d’onore’, con i nomi dei caduti in guerra della delegazione, stilati dalla CRI nel nov.1922 e riportati nei marmi posti dietro al monumento nei giardini Pavanello.

La sede è occupata anche dal “Circolo Diana”, il più consistente gruppo locale della Federazione Italiana della Caccia, con centinaia di iscritti. La storia del circolo cacciatori descrive di una antica “Società Cacciatori sampierdarenesi” con sede in via Sasso nel palazzo che esisteva prima dell’attuale che ospita un supermercato. Dopo l’ultimo conflitto mondiale, alcuni soci benestanti (citatati gli industriali Nasturzo e Sanguineti, rispettivamente proprietari  di  società Latta per l’inscatolamento di conserve e tonno; il secondo, in via Manin (via GD Cassini; dietro a DeAndreis-Casanova, dove aveva sede la Depa)) desiderarono proseguire con l’esercizio del tiro al piccione (che ancora nel 1958 era in attività; proibito per legge, determinò lo scioglimento di questo gruppo); altri (1948) più amanti della caccia all’antica, diedero vita al circolo Diana e cinofilia,  che -dopo un periodo ospitati in corso Martinetti (palazzo dei Pagliacci), alla Croce d’Oro (fino al 1974), in via Daste (fino al 1981; dove era anche l’Istituto Pareto, prima che questi si trasferisse in via Castelli  e prima della ristrutturazione)-  si trasferirono (1982) in via San Pier d’Arena vicino al Giunsella; ed infine nella sede attuale.  

===civv. 89-95rossi assegnati a nuova costruzione eretta nel 1960.

 

Il Pagano/61 cita  -di quegli anni, ai civv.neri- varie imprese e professionisti tra i quali un grossista di vini (Gatti G. al 3/5, con negozio dal 34r al 38r); la ‘A Luxnova’ (al 4 fabbrica di tende alla veneziana); una bustaia (Gazzo Maria, al 4/3); due medici (Parodi Felice al 9/2 e Lanza S. al 9/3, attivi nei due decenni postbellici); al 13/4 la ditta AGIPS, di Lenti C, rappres. di prodotti specializz.). Ai civv.rossi, al 2,15,32,71=quattro parrucchieri;  4=calzolaio; 5=gelataio Castello F; 10=salumeria; 12,24,61=fruttivendola; 25 trattoria Otto; 31  pasticceria Boeri e 39 pasticceria Bertorello; 73 bar trattoria  Maggiora A.; 84 bar pasticc Biancardi C & f.lli; 85 farmacia.

E così anche, un  commestibili, 2 mercerie, calzature, orefice, lavanderia, dischi e musica, cappellificio Barabino; macellaio, idraulico, cartaio, 2mobilieri, osteria, 2 latterie, pesi e misure, camiciaio, 4 commestibili, mode, droghiere, bustaia, ottoniere, pollivendolo, merceria, carbonaio, calzature, panificio, tele metalliche, macellaio, tessuti, profumiere.

 

Gli anziani del Gazzettino, negli anni 1990, ricordano della strada antichi artigiani e commercianti, senza precisare dove avevano sede precisa: una distilleria DeAmicis di Checco Parodi; la coltelleria Masè, che divenne il primo negozio di articoli sportivi cittadino; la fabbrica di bilance Gatti; il ristorante del Giglio; il negozio di abbigliamento del Dria;  il pastificio di Fanti; l’idraulico Canale;  il bar Savelli;  la focacceria della ‘Pippa ai denti’;  la pasticceria Boeri;  la cantina Monti.  Oggi 2004, annoveriamo: di sopra: i Bovio pastificio;  Chiurchi il fotografo;  pollivendola; Frambati mobilificio; 2 bar, una latteria; un calzolaio. Di sotto: negozio di blu jeans;    una trattoria; Mondo ferramenta (in realtà gestito da Lucà); i fratelli Bisio articoli sanitari, priori della rinata Confraternita di san Martino, della quale si parlerà dopo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

======CHIESA S.M. DELLA CELLA  arcipretura di s.Martino====

 

 

Distinguiamo, nelle descrizioni, vari capitoli:

==preambolo

==la cappella di San Pietro, che poi diventerà di sant’Agostino (suddivisa in 1; 1A1B; 1C)

==storia della chiesa =pag.82 circa  (2, primitiva; -2A, rinnovo; -2B, secondo rinnovo; 

     2C, commenda; 2D, domenicani; 2E, benedettini; 2F,  agostiniani; 2G, sfratto; 2H, parrocchia).

==tradizioni, pag. 96 circa

==l’edificio  A=esterno=pag. 97 circa;      B=interno=pag.100 circa

 

 

PREAMBOLO  L’inizio della storia della chiesa  ha come necessario una premessa, col fine di una chiarificazione basale: i fatti descritti sotto, in parte sono solo presunti (e di per sé classificabili leggendari ma seguendo in concetto della logica analitica); in parte documentati (compreso quelli, dapprima presunti veri perché dimostrati da scritti poi però risultati falsi; ed in parte invece certi,  e provati definitivamente).

Che una notizia tramandata a voce, subisca delle trasformazioni ed addirittura sconvolgimenti, fa parte dello scontato nei trattati di storia e nella vita di tutti i giorni; così gli studiosi vogliono giustamente basarsi solo su dati di fatto dimostrati.

Ma tutta la storia, scritta dai tempi degli Assiri, degli Egizi, dei Romani (compresi i Vangeli ed i tanti apocrifi) fino a tutto il medioevo sono una mescolanza accettata di compromesso, tra dimostrato ed interpretato. Solo dopo l’anno mille, con gli scritti notarili e degli incunaboli dei frati, si inizia ad avere documenti scritti, ma – come detto - anche essi accettabili con le pinze. Infatti in relazione a quelli scritti nell’XI secolo, troppi - ed in particolare quelli riguardanti le carte dell’abbazia di S.Pietro in Ciel d’Oro e la storia pavese in genere, e quindi la storia della nostra origine - sono quelli risultati apocrifi. Al punto che, è stato scritto in merito: ogni documento di quella Abbazia “andrà indagato partendo dal presupposto che sia un falso”, ovvero stilato a posteriori con il truffaldino scopo di stabilire fatti, cessioni di beni, ricuperi o permute di terre e immobili avvenuti in precedenza e non vincolati da atto notarile o bolle nel tempo giusto, e quindi opportunamente ricostruiti a posteriori, quando si addivenne a superare una fase contrattuale con la semplice stretta di mano e dimostrarla con la presentazione del ‘carta canta’. Questo artificio messo in atto nei secoli dopo un avvenimento fu mirato, purtroppo quasi mai, a ridefinire una realtà storica, ma quasi sempre al solo fine di ingannare altri, e spesso il notaio stesso il quale in buona fede e fidandosi dell’impostore, avvallava con la sua firma l’autenticità a beneficio del committente, in genere un potente che cercava di provare delle proprietà contestate o giustificare dei diritti di fronte ad un non sempre provveduto interlocutore. 

Però anche i Vichinghi, i Celti, i Cinesi stessi  vivono di antiche tradizioni mai dimostrate, basate su qualche reperto vero, poi totalmente condito di leggende. E continuano a vivere queste fantasie imponendole a sé ed agli altri pur di glorificare un loro passato.

Scrive Grendi «Dal punto di vista dell’etnologia storica non si può negare l’importanza della tradizionale orale come fonte, ai fini della ricostituzione della cultura popolare...»

C.Ceschi, sulla base delle tradizioni e di alcuni documenti – i quali ultimi però poi risultarono falsi perché scritti dopo la data riportata - propose tutta una cronologica conseguenzialità, che nelle pagine seguenti tendo a riportare. Ma i testi degli studiosi attuali tendono a smentire o quantomeno a prenderne le distanze da tutto ciò che non è dimostrabile e smentiscono qualsiasi fantasia.

Ma – e qui sta l’orribile errore - nella loro rigida ricostruzione, per uno o due secoli di differenza relativi a mille anni fa, permettono di classificare queste ed altre vestigia come di “serie B”, e concedere quindi siano abbandonate a naturale deterioramento ed innaturale disinteresse.

Relativa alla chiesuola, Di Fabio scrive non voler aprioristicamente escludere la possibilità che una fondazione più antica sia esistita ed abbia accolto le reliquie; comunque dai dati alla mano non può retrocedere l’età del manufatto a prima dell’XI secolo. Con queste molto serie parole di studioso, offre però l’arma e la scusa ai signori governanti che decidono, altrettanto seri ma a mio avviso sciocchi autolesionisti; questi ultimi trovano bella e pronta la scusante - nell’amministrare i soldi a disposizione - del procedere ligi alla totale tangibilità storica, quasi godendo di poter dimostrare e smentire un qualsiasi afflato leggendario a questi manufatti di oltre mille anni fa. E quindi, se non è dimostrato un legame con Liutprando, è concesso che possa andare tutto a catafascio. Come sta andando. Assurdo.

 

 

 

 

1:   il  TEMPIO dedicato a  SAN PIETRO

                 L’ambientePrima di Cristo  , i Romani erano in piena espansione di conquista ed assestamento del territorio: quindi – dopo la pianura Padana, arrivati alle Alpi, iniziano l’invasione della Gallia ed Ispania, fino all’Inghilterra -. Ma, nel vasto territorio, rimaneva  ‘la mela marcia’ indomita al di qua dell’Appennino: i Liguri. Malgrado Roma avesse aperta la Postumia e poi l’Aurelia, le popolazioni dell’entroterra non si riuscivano a sottomettere perché favorite dall’impervietà dei monti e non accettavano la grande battaglia campale dove le legioni romane erano invincibili. Da qui la rabbia, il comportamento e il giudizio  tendenzialmente inesorabile e poco incline alla clemenza con i “barbari”, così chiamati come tutti i ribelli, quali descritti dagli storici romani - di parte quindi e dei quali pressoché nessuno mai venuto a vedere di persona ma basandosi solo sulle parole dei reduci (altro esempio di storicità ‘incontrollata’ ma servita per vera). Barbari, ma anche bugiardi, traditori, incivili, chiusi e poco socievoli nonché feroci perché capaci perfino di crudeli violenze.

La Liguria divenne la IX Regio, comprendente noi Genuensi, assieme ai Monachesi, ai Segesta (Chiavari) ed - a nord - agli Hasti (Asti) ed ai Derthonesi (Tortona) ed a numerose altre tribù, ma quasi tutte e slo rivierasche. Con le popolazioni dell’entroterra, le cose non erano pacifiche anche per chi viveva in Liguria.

Tipica la “Tavola di bronzo” di Pedemonte di Serra Riccò, del 117 aC, ad indicare la mentalità di allora e la necessità di sentenze ‘super partes’ anche per delimitare territori coltivi e pascoli, che i civilizzati genovesi  miravano a conquistare a scapito degli altri indomiti liguri stanziali e quindi delle irrequiete tribù distribuite nei territori dell’entroterra attorno a Genova, il cui avvicendarsi non poteva non interferire anche con chi abitava terre vicine alla riva del mare.

È presumibile che a quei tempi, pressoché nessuno abitasse già la nostra spiaggia. 

                  Viene definita ‘storia antica, o Paleocristiana’, il periodo dal I al IV secolo dopo Cristo, dei quali - i primi tre - complicati dalla prevalente permanenza della cultura (specie l’architettura) e fede pagana, e conseguenti persecuzioni, anche se qui mai messe in pratica.

Con la decadenza dell’impero romano, i tempi – già miseri di per se stessi – divennero ulteriormente molto tristi e bui. Per gli uomini semplici – se ce n’erano - la vita media naturale non superava i 40 anni, e quella altrui aveva ben poco valore, per non dire: nulla; mortalità puerperale alta, ed infantile al 50%; rispetto della vita, nessuno; scorrerie di predoni, barbari, saraceni; i ricchi e potenti a dettare la violenta legge del più forte e del branco.

In questo periodo, ci troviamo ad un punto ove ancora  nessun documento (né storico, né poetico, dice chiaramente quando, cosa, e come sia veramente successo in ambiente prettamente locale;  si devono dunque dedurre gli avvenimenti, elucubrando le grandi storie generali coinvolgenti il mondo di allora (invasioni, dominazioni, battaglie).

Di essi, i pochi trovati relativi ai nostri eventi, ed anch’essi troppo spesso faziosi nel ricostruire il passato ed abbondantemente conditi con intuizione e fantasia, sono tutti posteriori al 1200. Quindi la fantasia  - è ovvio - lascia adito a tutti i se ed a tutti i ma di tutti, senza poter mai concludere. E nessuno concluderà.  In più, appare impossibile per me approfondire queste ricerche, né possiedo il materiale e cultura necessari; per cui ritengo opportuno citare tutte le fonti, e rimanere consapevole della loro possibile non veridicità, vieppiù deformata nei secoli – come avviene ancor oggi - quando un evento viene tramandato solo a voce o solo dal vincitore.

   Prima i Goti e poi via via barbari di tutte le razze portarono in crisi la società romana, producendo una qualità di vita a livello infimo, non solo di cultura ma anche di miseria morale, fisica e sociale. Esigue scoperte archeologiche nell’interno appenninico, e rare costruzioni di chiese dalle origini remote (scrive Traverso citando santo Stefano: “... costruzione dell’ XI secolo che recenti restauri hanno riportato all’antico splendore, è sorta su un preesistente tempio che si vuol far risalire al IV secolo.”  e poco dopo “...dalla città i monaci si trasferirono poi nelle campagne...”), rafforzano l’ipotesi di comportamenti orientati a costruire cappelle votive, quando contro la paura, la morte, la povertà, la fame, le malattie, l’analfabetismo e l’ignoranza,  (persino di coltivare fruttuosamente la terra) si contrapponeva solo la fede. 

Sappiamo che, definita la liturgia cristiana, nel II secolo, nacque l’esigenza di crearsi spazi adeguati; sia sfruttando i templi pagani, sia usufruendo di case (domus ecclesiae). I primi templi specifici nacquero nel IV secolo; e nel V secolo: le regole architettoniche appaiono già ampiamente consolidate (una o tre navate, abside rivolta ad est,  transetto a croce; sostegni a colonne, tetti a  cassettoni o capriata, finestre rettangolari o circolari).

Per le celebrazioni, è probabile si usufruisse del passaggio di sacerdoti da e per la riviera ponentina, sempre via mare, non giudicando potesse esservi fisso un prete essendo assai poche le anime qui viventi.  

Allora, come abbiamo reperti nell’entroterra, non è impossibile che i nostri progenitori abbiano eretto una primitiva cappella (o sfruttando un tempietto preesistente), per ovvietà poi dedicata a san Pietro?  Un  iniziale tempio in pietra, dedicato a san Pietro molto più semplice e rozzo, non quello di oggi ovviamente.

 

   L’apostolo  SAN PIETRO (vedi a SanPierd’Arena)

È assai fantastico il presupposto di S.Pietro che in fuga da Roma, sostò e pernottò sulla spiaggia. Sicuro è solo che da Roma mandò discepoli per tutto il mondo perché piantassero il seme della nuova fede: e che Genova fu la prima nell’anno 68 dC ad accettare di ascoltare pubblicamente le prediche di Nazario, di liberamente convertirsi, trovando localmente governi che – seppur favorevoli a Roma - mai misero in atto le persecuzione ordinate nel territori dell’impero, per gli anni a seguire,  fino a Costantino.

Pertanto è probabilmente vero che solo qualcuno dei vari discepoli missionari, in transito negli anni dopo il  60 dC, portò la voce del nuovo Verbo a Genova ed in riviera diretti verso la Gallia.  Ci troviamo ad un punto ove nessun documento dirà mai chiaramente cosa, né come o quando veramente successe, trattandosi di un evento marginale alla grande storia. 

Possiamo pensare che - come altrove - la parola del Vangelo  lasciò una profonda e permanente traccia in quei pochi presenti (per lo più miseri contadini o rari e sparuti pescatori, abitanti in casupole di legno, mota argillosa e paglia impastata), in genere persone molto semplici, sensibili ad un credo soprannaturale (dal quale si prometteva un premio, corrispondente al gramo vivere quotidiano), abbandonati lontano anche dai riti pagani (per i quali la volontà dell’uomo era nulla: tutto deciso dagli dei e giustificato dalle loro travagliatissime vicende). E che crebbe in loro, e nei loro eredi  nel lento evolversi di oltre 500 anni, intuibile ma non dimostrabile,  il desiderio di realizzare sulla sabbia un tempietto  - se non inizialmente con muri in pietra a secco -  quantomeno più duraturo delle loro stesse case, e dedicarlo a San Pietro (come detto altrove è storicamente accertato che quando Pietro fu in Antiochia, là per la prima volta fece edificare un tempio da dedicare alla preghiera e quale casa di Dio; l’idea piacque e la fece diffondere. Ovvio quindi che anche sulla nostra spiaggia lui, o un discepolo ma in base al suo insegnamento, fece costruire un tempio).

   s.Agostino, nato a Tagaste nella Numidia (Africa nord-occid) regione occidentale verso Mauretania,  il 13 nov.354 da genitore patrizio, decurione pagano e da madre Monica, divenuta cristiana e poi santificata. Il nome in latino significa ‘piccolo venerabile’. Vivace di carattere e di facile apprendimento nel 371 – diciasettenne - fu inviato a studiare a Cartagine (Tunisia) con l’aiuto di un protettore; qui si diede ad una vita sregolata alimentando superbia, inquietudine ed insoddisfazione, ricercando piaceri immediati, ozio, ed accompagnarsi con una donna da cui ebbe un figlio chiamato Adeodato. Ripresi e completati gli studi, fu attratto dalla lettera de ‘Ortensio’ di Cicerone, ragionando sulla vanità delle cose di fronte alla vera sapienza, che è da ricercare. Si affidò così alla filosofia manichea, dissertando di filosofia e  divenendo infine  professore di retorica per tredici anni nella città natale. La brillante carriera lo portò anche a viaggiare, affascinando dovunque il pubblico con le sue dissertazioni. Portandosi a Cartagine, poi a Roma ed infine a Milano. Qui, già insoddisfatto del manicheismo, fu colto da profondo turbamento ascoltando le prediche del vescovo Ambrogio dal quale trovò risposta a numerose sue intime e contrastanti domande: cosa scegliere tra il bisogno di pace e l’attrazione degli onori, tra successo denaro e sessualità e misticismo?  Con la madre, il figlio ed alcuni amici si ritirò a Cassiaco (30 km a nord di Milano) e nella notte di Pasqua (23 aprile 387) ricevette il battesimo - assieme al figlio - da Ambrogio stesso. L’anno dopo si ritrovò in patria - anno 388 -; abbandonò la cattedra d’insegnamento e si dedicò allo studio ed alla pratica del cristianesimo; scrisse le ‘Confessioni’; vendette la proprietà paterna offrendo il ricavato ai poveri e si ritirò per tre anni a vita monastica fuori città, assieme a vari discepoli, tra i quali Alipio, Evodio, Adeodato. Per volere del vescovo Valerio di Ippona - città africana sul mediterraneo -  fu nominato sacerdote suo assistente per la predicazione ed il servizio pastorale, e tale restò vivendo in forma monastica per cinque anni finché morto il vescovo gli successe nell’incarico pastorale.  Mentre predicava (abbiamo circa mille sue orazioni che dimostrano possedesse profondamente la religione e conoscesse i sacri testi), fu tenace  contraddittore dei primi dissidenti ed eretici (specie gli ariani Goti e Visigoti), amministrò giustizia, battezzò, assistette i poveri; riuscì a scrivere ben 113 libri (‘Confessionum’ in 13 libri con la narrazione della sua gioventù disordinata; il ‘De civitate Dei’ in cui difese il cattolicesimo dall’accusa di aver sollevato il disprezzo degli dei e con esso le invasioni barbariche; le ‘Ritrattazioni’, i ‘Soliloqui’, ‘Della natura del bene e del male’,’trattati sulla Grazia e sul Libero Arbitrio’)  e 218 lettere trattando tutti i temi religiosi e contrastando i tentativi di scisma e di pelagianesimo. Divenne così la guida del clero africano ma soprattutto la coscienza teologica, il dottore di tutta la Chiesa. Favorì circondarsi da ecclesiasti che accettassero una  vita comunitaria con regole severe di povertà ed isolamento, mettendo le basi della vita monastica, non scritte e non ancora legate a  definita regola, ma che daranno alla chiesa ben tre papi con origini tunisine. Nel 411 fu protagonista del Concilio di Cartagine. Morì il 28 agosto 426  (altri scrive 430) nel terzo mese dell’assedio posto ad Ippona dai Vandali di Genserico pochi giorni prima della capitolazione. Dopo la caduta della città, il corpo venne trafugato dai saraceni conquistatori e traslato in Sardegna per renderlo accessibile ad un riscatto, come poi avvenne. Solo successivamente nel 722, per volere di Liutprando fu trasportato a Pavia. È protettore dei teologi, editori e tipografi.

   Da ricordare nel 461 l’evento distruttivo di molte pievi neo erette: l’invasione di Rotari

 

 

Dal V secolo al XV, è medio evo.

Ovvero, in genere si accettano questi limiti: dalla caduta dell’impero romano d’occidente (anno 476; Odoacre, re degli Eruli, quando depose l’imperatore Romolo Augustolo – dopo aver sconfitto Oreste, padre dell’imperatore stesso) fino alla scoperta dell’America (1492;  con la quale inizia il Rinascimento).

I trattati di storia, dividono questi mille anni in due parti: il primo, dal 476 fino al 1000, chiamato  alto medioevo (per distinguerlo – come ovvio - dal basso medioevo che va dal 1000 al 1492).

Sono secoli dominati dalle generali condizioni di vita: violenza, ignoranza, povertà.

Unico appoggio era la centralità della religione: i religiosi erano pressoché gli unici istruiti; la ricerca della gratitudine divina dettava totalmente il comportamento dei singoli; essa dava –ovviamente - molto spazio alla speranza dell’aldilà, visto che nel di qua era squallore totale. Quindi tutti i peccati umani (avarizia, invidia, lussuria, violenza, avidità) richiedevano di essere scontati. A modello, santi e miracoli diventano punto di forza (venerati non adorati, per non divenire idolatri, intercessori presso Dio perché sicuramente al suo fianco; le reliquie diventano la tangibile presenza di essi.  Saranno i religiosi quelli che, molto lentamente, tra uno-due secoli, lasceranno testimonianza scritta di operazioni economiche, testamentali, acquisti di terreni ecc. che ci permetteranno di meglio capire anche il tipo di vita, profondamente diversa dalla nostra: poche o niente le strade; settimane o mesi per raggiungere città da città;  territorio fittamente boscoso; se in pace, crescita demografica e conseguente carestia; concentrazione nelle campagne per sopravvivere con la natura (castagne, frutta, pastorizia). Le donne portavano il peso morale del peccato di Eva; quindi loro stesse, causa di peccato: erano solo mogli, non portavano armi, a poche era aperta la vita spirituale (solo le discendenti di sangue dinastico erano uniche detentrici di un certo potere politico). La nazionalità di uno Stato (re o imperatore) era frantumata nell’obbedienza al piccolo signore (guerre locali; violenza endemica, uso della forza per reati anche lievi, nessun valore della vita altrui).

   Dopo queste date, dai primitivi nuclei  di vita comunitaria, ma soprattutto dalla edificazione della  cappelletta,  la zona assunse riferimento topografico di “Sancto Petro Arenae”, riferito quindi al tempietto e non alla figura dell’Apostolo né al nucleo abitato, forse ancora in fase di formazione.

  Avvenne nel 935 il saccheggio di Genova da parte dei Saraceni. Due le deduzioni: troppo vicino a Genova, perché anche questo abitato non sia stato devastato; e nel rientro dei fuggitivi dai monti, molti abbiano preferito fermarsi fuori dal grosso pericolo, dedicandosi a colonizzare le falde che scendono dai colli. E la vita locale assunse consistenza. Generalmente, come in tutta la penisola, inizia a formarsi una identità religiosa molto forte: i mori (così erano chiamati) erano diventati troppo potenti, sul mare, in Spagna, nel MedioOriente: con la paura, iniziava a serpeggiare un desiderio di riscatto e liberazione.

   Come in tutti i paesi della riviera, da un primo nucleo di riferimento negli anni attorno al 1000 dC doveva già essersi formato un discreto aggruppamento di case: da quello nucleo  iniziale alla Coscia, a quello del Canto, reciprocamente epicentri del futuro borgo di San Pier d’Arena.

Ambedue le località favorite da una insenatura munita di roccia aggettante a fare da bacino.

In particolare, alla Cella c’era un micro promontorio di roccia affiorante, in corrispondenza della foce del torrente rio Belvedere (dal colle omonimo)- il quale in modo naturale  facilitava l’attracco, e relativo carico e scarico delle imbarcazioni che solcavano il mare, e che costituivano il più usato mezzo di collegamento col mondo attorno (in latino, una insenatura della spiaggia, si chiama “cella maris“: da qui una delle ipotesi dell’origine del nome del luogo e del monastero).

 

ALTO Medio Evo =  Cinquecento25 anni. Non sono un momento!

Al di là dell’Appennino, l’Impero romano era diviso in occidentale (Roma, Aquileia e Milano) ed orientale (Costantinopoli, Bisanzio, Ravenna), con rispettive capitali, sede di residenza dell’imperatore. Genova è compresa nel primo, ma è avulsa da esso per ragioni geografiche e stradali.

Furono tempi bui sia per gravi stravolgimenti sociali, sia per mancanza di notizie e reperti. Corrisposero ad un lento e progressivo  mutamento del potere politico centrale  (nascita di nuovi stati, monarchie, potere temporale della Chiesa; con i signori feudali nel territorio più piccolo,  con i comuni, e via via con maglie organizzative sempre più piccole e periferiche), mescolate a carestie, epidemie, invasioni – goti, visigoti, longobardi - guerre tra castellani. Unico positivo oltre la religione, la lenta floridezza dell’emporio.

Nel caso di San Pier d’Arena, il problema è che allora la spiaggia – e quello che c’era di umano - era completamente fuori di ogni passaggio commerciale e culturale, quindi se era arretrato il genovesato, qui era ancora peggio.

Difatti, nei trattati di storia, grandi o piccoli, gli avvenimenti di Genova e della Liguria, sono completamente saltati perché giudicati ininfluenti: Genova in quegli anni, contava meno di zero.

Dal 700 erano invasori dell’Italia i Longobardi. Erano tempi in cui i Saraceni dominavano il mare, con sedi fisse in Tunisia e Sardegna, assatanati di prede, specie schiavi. In mare, abbordaggi e catture; a terra, saccheggi, ostaggi, prigionieri per i remi, massacri, sono all’ordine del giorno. Ed interessarono ben oltre la costa perché si addentrarono nell’interno sino all’attuale basso Piemonte. In contemporanea, bizantini e longobardi dopo aver scalzato territorialmente i barbari, seppur non interessando direttamente le nostre terre, di sicuro non davano tregua ai genovesi che già di loro si sgomitavano per acquisire sempre più potere locale. Insomma, i paesi delle riviere vivevano incubi diuturni, compresa fame, malattie, povertà che forse solo la religione poteva far sopportare o per qualcuno che nella disperazione preferì vivere da solo fuori città, non protetto ma almeno con minori vessazioni se non le proprie della propria vita.

I Longobardi. Dopo i Goti, e – per breve periodo pima, i greci - essi dominarono l’Italia per 200 anni circa. Partiti dalla Pannonia nel 568 circa – terra della Germania, ma loro di stirpe asiatica -  avevano superato le alpi Giulie ed erano scesi in Friuli insediandosi nel Veneto; da lì si allargarono  velocissimamente a macchia d’olio e senza particolari resistenze, cacciando i romano-bizantini: da nord-sud, fino a Firenze, Arezzo; verso ovest, Padova, Mantova, Milano (3 settembre 569: prima del loro arrivo, il vescovo ed il clero si traferirono a Genova accasandosi in un palazzo detto ‘di s.Ambrogio in Genova’), Pavia (fu assediata per tre anni), Acqui (569), e poco dopo Alba e Tortona.

Fu Rotari, che poco dopo il 635 scese in Liguria passando ad est dell’Appennino, iniziando così da Luni. Non è chiaro quando arrivò a Genova, ma si presume l’anno dopo, da feroce dominante e senza guerra specifica: ovvero  alcune città si diedero spontaneamente alla monarchia barbarica, solo pochi furono sottomessi militarmente. Nel 644 aveva sottomesso quasi tutta ‘la Marittima’, ovvero i paesi costieri già appartenenti ai romani, compiendo stragi, incendi e rovine, da Luni a Ventimiglia; ma non si hanno notizie dei ‘duchi e conti’ lasciati a dirigere le nostre città. Anche se l’organizzazione politica fu stravolta, altrettanto lo fu quella sociale.

Il capo era ‘il re’, ma senza corona e con una corte rappresentata solo dai più fidi guerrieri, tra i quali aveva un discreto potere il ‘gran porcajolo’ essendo quello l’animale base della loro alimentazione. In ogni grande città conquistata, lasciava un reggente col titolo di ‘duca’; se la città era piccola era o ‘conte’ o ‘podestà’: titoli senza il valore odierno perché ogni Longobardo si riteneva uomo libero, padrone, ed alla pari degli altri –mentre tutti i vinti erano schiavi e servi –e quindi mai ‘liberi’. Il colpevole di un delitto, pagava in soldi; se non li aveva veniva declassato a schiavo; altrettanto una longobarda se sposava un italiano. In genere avevano la barba lunga –da ciò il termine ‘barbari’-; l’ignoranza era totale quindi anche le leggi –dette ‘leges asinorum’- erano a discrezione; per nulla interessati a mantenere le strade libere, il commercio attivo, ponti e  palazzi eretti. Portarono l’usanza del duello e della vita oziosa; da loro ebbe nome la Lombardia).

Dopo questa guerra di invasione, ci fu un lungo periodo di transizione e di tregua seppur tutto rimanesse malsicuro ed incerto; il passaggio dai bizantini ai longobardi concomitò con un pesante calo demografico e non comportò stravolgente immigrazione e quindi cambiamento di costumi né mutamento di religione (se non una definitiva conversione del popolo al Cattolicesimo e conferma  del potere vescovile, in particolare il vescovo s.Giovanni Bono milanese e Giovanni I, il primo genovese, succeduto da Viatore sotto cui sarebbe avvenuto la traslazione di sant’Agostino)  né arresto del già naturale -per i Liguri- allargamento dei traffici via mare.

I barbari conquistarono militarmente buona parte d’Italia, ma a loro volta furono conquistati dalla cultura e tradizioni locali: nei secoli, ingentiliti, acculturati e religiosamente sensibilizzati, lasciarono insediamenti oltre appennino di alta testimonianza artistica –specie architettonica e religiosa- essendo significativo l’appoggio dato dagli ultimi re ai grandi centri monastici ed ai loro vasti possedimenti. Questi poi trovarono straordinaria diffusione proprio per direttive regie,  quasi una ‘missione religiosa regia’.

Di più quindi, quando assunse il comando Liutprando (figlio del re Ansprando, gli succedette nel 712 e portò la potenza dei Longobardi al massimo livello)  Infatti, ad un certo punto della loro storia, i Longobardi si erano convertiti al cristianesimo, ma conservarono la loro grettezza, quindi tipica di quei tempi definiti ‘bui’: superstizioni profonde (streghe, vipere, ecc.) e bisogno ossessivo di essere assistiti spiritualmente (per il quale furono loro ad iniziare l’uso della acquasantiere nelle chiese, per poter avere acqua benedetta a breve portata di mano; essere circondati da monaci e preti e favorirne la loro espansione e  benessere).

Quest’ultimo concetto è fondamentale per iniziare da allora la storia del nostro borgo e della nostra chiesa di s.Agostino. Anche in Liguria iniziarono ad erigersi numerose grandi fondazioni monastiche ed ospedali, in primis quella di Bobbio che a sua volta si diffuse ampiamente con ‘dipendenze’ per tutto l’Appennino alle spalle del genovesato.

Nel 725, l’episodio di Liutprando  e delle spoglie di sAgostino. La prof. Praga, propone l’idea di posticipare, e che la dedica a Pietro sia avvenuta a fine millennio conseguente alla dipendenza dell’omonima basilica di Pavia. Non può essere: è più logico che i monaci pavesi –come hanno fatto poi- a fine millennio avrebbero dato il nome, di loro interesse a quella data: s-.Agostino. E non Pietro, come poi han fatto in seguito. Quindi è più logico che il nome sia da riferirsi a prima del 725 -quando s.Pietro in Ciel d’Oro era ancora in erezione e le spoglie del santo non erano ancora arrivate (ed allora, di conseguenza, si conferma anche la storia di Liutprando).

 

Dopo appena 100 anni, anche questa stirpe si esaurì: si arrivò che Rachis che nel 744, dopo Ildebrando, fu duca del Friuli e poi re dei  Longobardi, convinto da papa Zaccaria, nel 749 abbandonò il trono a favore del fratellastro Astolfo; e si fece monaco fino alla morte nel 757 ca. (e fece prendere l'abito monastico (a Montecassino) a moglie e figli); (dovette ritornare in carica per la morte prematura di Astolfo, ma lasciò definitivamente l’impegno a Desiderio; questi fu ultimo re Longobardo: fu vinto da Carlo Magno e condotto prigioniero in Francia)

    Se sotto i Longobardi i centri commerciali erano a Pavia (capitale, con popolazione prevalentemenete militare), a Milano (centro di mercati), a Ravenna (centro di fattorie, culture di cereali, allevamenti di cavalli e maiali) ed a Venezia (commercio marino e sale), le ricchezze terriere e riserve auree erano concentrate nelle mani dei monaci priori (assai meno, in quelle degli arimanni): i monasteri divenirono centri culturali (era lì che si imparava a leggere, scrivere e far da testimoni o da notaio)  economici di potere politico (rapporti col Papa o l’Imperatore), terrieri (donazioni e regalie di enormi appezzamenti, e con essi di boschi, tasse,  e tutte le culture relative).

A sottolineare questo comportamento, è comune conoscenza degli storici il frequente desiderio della nobiltà longobarda, in età matura dopo aver praticato il mestiere del guerriero con tutte le violenze tipiche delle battaglie all’arma bianca, di una vita giudicata ‘migliore’ col cambiamento radicale dell’entrata in un monastero: da soldati a monaci. Quanto meno con favorire l’apertura di monasteri e chiese ed affollarli di monaci che pregassero per lui. E poiché il fenomeno, è ampiamente conosciuto che interessò gli strati sociali più elevati, chiarisce le migliori e più elevate qualità culturali di molti dei frati di allora. In particolare, il lungo regno longobardo rappresenta un periodo splendido anche per lo stato pontificio che, con donazioni di intere città e vaste regioni, iniziò il cosiddeetto ‘potere temporale’ o stato pontificio.

 

Liutprando.   Di tutti i re della dinastia, egli rappresenta la figura più illustre. Fervente religioso cattolico, favorendo riforme delle leggi basandole sul diritto romano trascurato dal predecessore Rotari.

Compose la sua sovranità, dirimendo, naturalmente con metodi drastici tipici di allora, problemi incresciosi come l’adulterio e la bigamia, nonché vari comportamenti asociali (tipo: non opportuno tirare sacchetti conteneti feci a degli sposi; o toccare le terga alle matrone nei bagni pubblici), nonché –ben più importante- liti di potere, sia tra i nobili che  i vescovi, secondo principi di giustizia civili per allora assai larghi e disattesi.

Arridendo ad un desiderio di un’Italia riunita sotto il dominio longobardo, ebbe lunghe e complesse vicende politiche e militari, di interessi con i papi  (Gregorio II e III), con i Veneziani, e con  le varie città non alleate, soprattutto Roma che assediò ma non occupò, probabilmente per rispetto religioso. Ma di nostro principale interesse sono il suo particolare favore verso il fervore religioso, facilitante l’apertura di nuovi monasteri ed il ripristino di altri -tra cui l’aver fatto risorgere Montecassino- ed aver costruito l’insigne basilica a Pavia, chiamata S.Pietro in Ciel d’Oro nella quale fece trasferire le ossa di S.Agostino da Cagliari (ove le aveva depositate s.Fulgenzio nell’anno 486) a Pavia, dopo aver pagato ai pagani corridori ed invasori un fortissimo riscatto in oro, pari –si scrive- al peso delle reliquie (DeSimoni ha valutato pari a 60mila scudi d’oro).

Montanelli lo definisce cattolico sincero e saggio legislatore.  Morì  nel 744, lasciando il suo regno al nipote Ildebrando;  fu sepolto a Pavia, dapprima nella basilica di S.Adriano, e poi nel XII secolo, traslato nella basilica di  S.Pietro, da lui fondata).      

 

E con i Longobardi già ampiamente dominanti, piace raccontarci la nostra storia relativa a Liutprando, re insediato a Pavia. La storia è mescolanza di dati certi, di congetture logiche, di fantasie; anche Martinoni (scrivendo però degli Imperiale) accetta che “in assenza di notizie più precise bisogna evidentemente restare nel campo delle congetture...”. 

Si scrivono fatti accertati, dicendo che  dal 712 al 744 regnò questo piissimo re dei longobardi. Sulla nostra spiaggia, dal giorno sconosciuto delle prime baracche dei primi ‘pionieri’, arriviamo di colpo all’anno 726. Partendo dal presupposto che  un fondamento iniziale veritiero ci deve essere se non vogliamo concedere che tutto sia nato dalla fantasia di poveri contadini analfabeti; la ideazione di tutta una non banale avventura, nella sua apparente semplicità  di traslazione di reliquie, in realtà dovette essere assai complessa, soprattutto considerato i tempi.

Prima di procedere nella descrizione storica dei fatti – veri o presunti - occorre –oltre quello già descritto sopra- anche considerare la vita e l’ambiente che si erano venuti a creare allora: innanzi tutto, il                       ( 1 ) monachesimo. Sotto i Longobardi, i sovrani e la loro nobiltà diedero pesante appoggio a formare i grandi centri monastici ed ai loro grandi possedimenti terrieri. Per noi,  importante è quello di Bobbio (PC), fondato nel 612 da san Colombano. Liutprando intese, sia dare prestigio a se stesso ed alla sua politica, e sia  riscattare il suo popolo dall’oscurità barbarica, concentrando nella fede –e per essa nel rinnovamento artistico delle chiese e monasteri- i centri educativi di base; allo scopo proseguì  a dare impulso ai centri monastici –ed in loro- alla regola benedettina (Benedetto da Norcia, 480-543; e san Gerolamo per lo sviluppo del monachesimo femminile), modello di armonia tra ascetismo e lavoro pratico.

Come già detto, i nobili longobardi educavano i giovani rampolli all’arte della guerra. Ma dopo battaglie, azioni cruente e sanguinolente durante le quali la vita –propria e degli altri- valeva nulla e facile era rimanere storpi, ad una certa età compariva prevalere il desiderio di una vita mistica e ricerca di pace e perdono. Così avveniva, o il diretto ricovero nei conventi, o favorire il numero dei frati che pregassero per lui. Per questo motivo (e per tutti gli altri motivi immaginabili, dai figli dati alla religione per non spartire gli averi temporali; dai singoli richiamati dall’istruzione, privilegi, personale spiritualità al limite dell’ossessione, nonché dare un senso al digiuno, alla sofferenza, all’impotenza, alla morte, alla povertà, ecc.) i frati, a partire dal V-VI secolo, aumentarono di numero a dismisura, e determinarono un forte movimento:

culturale = l’istruzione era appannaggio del solo ristretto numero delle famiglie aristocratiche o comunque ricche, destinate ad affrontare le necessità amministrative dello Stato. La Chiesa si rende protagonista di un insegnamento –chiamiamolo monastico- che partendo dalla necessaria e basale cultura religiosa (leggere e collezionare in biblioteca la Bibbia, i testi Sacri del Salterio, le Regole –per esempio quelle di san Benedetto da Norcia-), attraverso la riproduzione di codici arriverà (IX secolo) a produrre veri e propri libri (“De doctrina christiana” di sant’Agostino; il “De laudibus sanctæ Crucis” di Rabano Mauro).

spirituale = per le caratteristiche intrinseche del monachesimo e in parallelo per l’alto significato che assume la religione a tutti i livelli della vita pubblica (non solo conventuale quindi). L’evangelizzazione  è una specie di boom o miracolo religioso: il metodo è un originale e fertile motore per diffondere ed allargare la presenza della Chiesa ed il suo ‘sapere’ a livello popolare: ampie terre di convertiti che sentono un messaggio nuovo religioso che si inserisce scardinando il fantasioso credo pagano ma rispettante la cultura latina proveniente da Roma imperiale.

artigianale, essendo -rispetto i soldati e mercanti- maggiori padroni della cultura pratica, i loro spostamenti e missioni determinarono una altrettanto forte circolazione delle idee: agronomi, architetti (appunto in epoca longobarda si mossero i maestri comacini, padroni –per genialità tecnica ed organizzativa nell’ambito della Chiesa - ed anche di maestranze girovaghe al soldo dei potenti capaci di impostare grandi cantieri di costruzioni e decorazione imponendo, con l’XI secolo, lo stile romanico), scalpellini (per portali, capitelli, lastre), scrivani, notai, pittori (i primi affreschi sono longobardi del VII secolo, in val Venosta; con l’XI secolo l’arte sarà indissolubilmente legata alla fede religiosa).

( 2 ) Reliquie In seconda posizione di considerazione base, è la necessità -sentita allora come fondamentale- di possederne per onorare nel modo ideale una casa sacra.  Nel medioevo i tempi erano molto lunghi; rispetto Liutprando, possiamo risalire di trecento anni all’aneddoto storico, protagonista Cacarico - svevo, re in Spagna – che aveva ereditato da re Rechiaro (cattolico, sovrano dal 448 al 456) una religione ‘di stato’ la quale da cattolica stava decisamente diventando ariana; ritornò convertito alla religione cattolica quando suo figlio –gravemente ammalato- miracolodamente guarì entrando in contatto con reliquie di san Martino  inviategli specificatamente da Tours.

Il tema reliquia, è fondamentale per capire la mentalità e –di conseguenza- certi enormi investimenti (più eclatanti poi, le Crociate), di iniziative, capitali economici ed opere di ampissimo respiro organizzativo, militare, architettonico e non ultimo artistico ed alla fine culturale. Ed ovviamente, più importante era stato il santo religioso, e maggiori potenzialità acquisiva il tempio. Esempio vicino è Genova stessa, partita alla ricerca delle reliquie di san Nicola e poi grandissimo tributo a quelle trovate al suo posto.

L’idea nasce già dai Vangeli quando è scritto che una misera esclamò “se toccherò il lembo della tua veste, sarò guarita”. La veste, l’ombra stessa di un santo, il corpo: divennero veicoli di grazia e di miracolo. La cosa fu ratificata nel Concilio di Trento che invitò alla venerazione delle reliquie per riceverne benefici da Dio (negato dai protestanti) in quanto partecipazione alla loro santità e grazia. san Basilio confermò l’idea che il Signore si serve del corpo per manifestare la santità raggiunta dall’anima. Anche gli atei cercano nel corpo dei grandi (vedi mausoleo di Lenin) la forza dello spirito. Pertanto, per la reliquia, si accetta che non sia l’oggetto in sé per sé che merita venerazione, ma per la relazione che ebbe con la santità della persona a cui appartenne.

Quindi, per consacrare un altare occorre vi siano reliquie di santi, a ricordo dei primi cristiani che celebrarono le messe nelle catacombe ed a memoria di una offerta a Dio che ha coronato quei martiri. Certamente non sempre è storicamente accertata l’autenticità della reliqia; la tradizione, l’antichità delle certificazioni  regolano  la conservazione; ricordando che non è elemento di fede l’oggetto, ma il significato (vale per la Sindone ed altri oggetti). Le prime reliquie determinanti si ottennero con le Crociate (la prima tra il 1096 e 1099): ricco bottino era trovarne di persone importamnti; seguirono le spogliazioni autorizzate dal papa delle catacombe nel XV e XVI secolo. Naturalmente ci fu chi ne fece commercio al punto di sancirne la scomunica.

( 3 )  Terza considerazione base –di cui ben pochi stranamente fanno cenno o prendono in considerazione- è che tutto il complesso viaggio, da Cagliari a Pavia, non fu lasciato ad improvvisazione, ma –si presume ovvia- fu necessaria una grande organizzazione (la storia normalmente dei numerosi eventi della vita descrive l’azione e l’esito di essa; quasi mai si sofferma sul particolare dell’organizzazione che è pur sempre indispensabile per la riuscita di un evento complesso (per esempio quando Annibale attraversò le alpi, tutti citano l’evento perché straordinario, ma nessuno descrive –perché senza documenti- quanto ci fu alla base organizzativa, sconosciuta ma intuibile solo tramite ragionamento analogico). Questa politica presuppone grossi mezzi (cifre di denaro, oro e preziosi), tempo, ambasciatori qualificati, laici e sacerdoti, mezzi navali e terrestri, architetti ed operai per la basilica. Insomma, una grande cooperazione tra militari e religiosi, elmi e mitrie, spade ed incenso, tutti a disposizione per acquistare-ottenere e conservare terreni, reliquie importanti, potere.

   Solo nell’ottica di questi presupposti, possiamo capire il re longobardo che deve aver usato degli emissari plenipotenziari, i quali –a loro volta- debbono aver (1°) acquisito certezza della provenienza dell’ossario e della loro appartenenza al santo, per pagarlo in oro, così come avrà presupposto pure che la Cagliari cattolica si sarebbe ribellata alla vendita effettuata a loro danno; (2°) deve aver previsto pure che sia per mare che per terra, saraceni o predoni vari potevano tentare abbordaggi o un altro furto per ulteriore riscatto (Formentini precisa che il trasporto delle reliquie non avvenne su navi regie, ma su navi private, commissionate da emissari dei re. Quindi le navi liguri, furono preferite, godendo di avviate tutele e sufficienti garanzie di esperienza). Se il concetto di organizzazione, è chiaro per le trattative e la partenza nonché per l’arrivo ed il deposito a Pavia (ove, con enorme profusione economica nella città lombarda aveva iniziato a far costruire una sontuosa basilica, chiamata “San Pietro in Ciel d’Oro”  mirata a conservare in eterno in una specifica cella -detta “cella d’oro”-  le sante reliquie. La chiesa – rielaborata nel XII secolo in stile romanico - fu  consacrata nel 1132 (dell’originale si conservano solo  il bassorilievo composto di minuti intagli, sopra la porta d’ingresso; alcuni capitelli con raffigurati animali fantastici o mostruosi; ed un frammento di pavimento a mosaico nell’abside della navata destra). Questa fondazione di prestigio, sopra l’altare maggiore ha una arca marmorea contenente le ceneri di sant’Agostino (decorata con statue e bassorilievi; eseguita in stile gotico nel 1362 da scultori lombardi influenzati dall’arte toscana). Nella cripta dietro l’altare, in un  sarcofago sono le spoglie di Severino Boezio, filosofo romano consigliere di Teodorico e da questi fatto uccidere nel 524 sotto accusa di tradimento) dobbiamo  completarlo noi per le fasi intermedie, presupponendo (3°) una  eguale preparazione del luogo di arrivo dal mare e dell’itinerario via terra, visto i grossi pericoli in questo tragitto (predoni, banditi, vettovaglie, ricoveri, trasporto, ecc.) e la necessità di renderlo altrettanto sontuoso ma sicuro.

Al  proposito ed a sottolineare la munificenza elargita nell’operazione (sempre nell’ambito di leggende) nella valle Scrivia si narra che una tappa di sosta nel viaggio fu nei pressi del ponte di Savignone. Si aggiungono qui le righe scritte da Iacopo da Varagine: le reliquie, giunte a Genova, …”pesavano così tanto che in nessun modo i trasportatori riuscivano a sollevarle. Allora il re fece voto al beato Agostino che se avesse concesso che fossero sollevate e trasportate a Pavia avrebbe fatto costruire una chiesa in suo onore in quel posto di Genova dove si era fermato”. Sicuramente è altrettanta leggenda, ma nata per giustificare un fatto reale, ovvero l’erezione di una cappella più ben rifinita, che prese il  nome del santo dottore, ma soprattutto che determinò il fermarvi alcuni monaci: in questo caso partendo da zero; a maggior ragione sulla spiaggia ove già esisteva un tempietto.

   E’ quindi molto ben supponibile che durante e dopo il viaggio in mare, la teca avesse sufficiente difesa da non necessariamente dover usare il porto (che era ancora limitatissimo) e che sia stata invece direttamente sbarcata sulla spiaggia, non solo più vicina all’itinerario per l’entroterra (la via Postumia, attraverso Pontedecimo-Gavi-Tortona-Voghera-Pavia), ma soprattutto in seno ai suoi soldati accampati sulla spiaggia presso l’insenatura (in latino detta ‘cella’); e che qui abbiano fatto ospitare i sacri  resti nella cappelletta  preesistente riattata all’uopo (viene definita ‘arte cristiana primitiva’, di artigiani ‘a buon mercato’, dedicata a san Pietro, ma potrebbe essere stata anche una tomba di qualche missionario importante. L’iconografia e le dediche a Pietro, si fanno partire ufficialmente e prevalenti nell’ambito di Roma, in atto dal IV secolo).  Può essere altrettanto ovvio  a questo punto, che  nell’ambito delle spese affrontate (riscatto, trasporto, basilica), il re, arrivato e presumibilmente ospitato personalmente a Genova, sulla spiaggia d’arrivo non si accontentasse della misera e spoglia cappelletta trovata sulla riva, e  -nell’attesa delle navi- ordinasse delle maestranze per migliorarla e renderla più degna e decorosa, favorendo nella popolazione residente il concetto che  la cappella sarebbe divenuta un  punto preciso di riferimento per la fede religiosa del luogo.

   Conoscendo i sentimenti del re longobardo, religioso monarca, nel favorire la creazione di punti monastici, non stupisce pensare all’ovvietà che assieme alle dovute milizie avesse portato anche numerosi frati benedettini del monastero pavese di San Pietro, per preparare lo sbarco ed il successivo trasporto attraverso l’Appennino; ed in seguito, fa piacere pensare che, magari anche stimolato dai residenti, avesse ordinato o favorito un insediamento  dei monaci nel borgo, al fine di curare, custodire ed ingrandire il luogo di culto. Si presuppone sempre, ma con una certa ovvietà, che essi, dovendo sostare qui, si siano costruiti una sede a fianco della cappelletta; inizialmente elementare, poi via via sempre più ben strutturata (a quei tempi le chiese monastiche minori, si chiamavano priorati, cioè subordinati alle maggiori e dirigenziali abbazie; e le celle in cui vivevano i singoli frati, possono aver dato -altra ipotesi- il nome alla zona ). Da questa possibilità, nasce un’altra interpretazione del nome ‘Cella’: ovvero la nuova costruzione fu eretta a fianco, vicino alla “Cella di s.Agostino”

   Si presuppone sempre, ma con una certa ovvietà, che una parte dei frati da molto tempo in attesa delle navi (la misura del tempo non è paragonabile all’attuale, basato sul ‘reale’; allora, il tempo, era molto lungo –mesi e forse anche anni per far coincidere l’imbarco, lo sbarco, il trasferimento) scelsero di compiere dei lavori; ed in seguito –comandati o volontari- di dover rimanere almeno in parte. Così si siano costruiti una sede in cui vivere, a fianco della cappelletta; inizialmente elementare, poi via via sempre più ben strutturata (a quei tempi le chiese monastiche minori, si chiamavano priorati, cioè subordinati alle maggiori e dirigenziali abbazie; e le celle in cui vivevano i singoli frati, possono aver dato -altra ipotesi- il nome alla zona).

 

   Al di là della leggenda, rimangono  le disquisizioni ed ancor oggi non composte diatribe; impossibile per me approfondirle con altre ricerche non possedendo il materiale necessario.  Così, nel passato si è discusso:

===sia sul luogo di sbarco delle sacre reliquie: perché fu scelta la libera spiaggia anziché il più sicuro porto genovese? a)—più  ovvio pensare che sulla spiaggia c’erano accampati i suoi non pochi soldati, frati e seguito minuto. ---b) ricordando come era Genova e soprattutto il suo porto: ancora limitata alla prima cinta, un oppido primitivo posto sul colle di Castello sovrastante la riva ma ancora senza un porto preciso con moli di difesa e di attracco, in quanto anche lui solo un attracco naturale, migliore e più protetto in caso di venti di mare ed acque agitate, ma eguale a quello nostro a mare piatto; c) il nostro lido già fosse attracco frequente di navi, dai tempi fenici, cartaginesi e romani, per trasportare merci nell’entroterra; e che presso la ‘Cella’ ci fosse un approdo ben strutturato ed usato, lo potrebbe testimoniare anche  il fatto che solo dopo qualche secolo, la località divenuta mèta di grossi afflussi di crociati provenienti dal nord Europa,  quando allo scopo fu scelta per costruirvi un’altra chiesa nell’attuale piazza del Monastero con funzioni di assistenza per il loro imbarco ma –interessa il nostro discorso- anche per il ritorno; altrimenti bastava quella già esistente di san Giovanni di Pré.    d) --come già fosse in linea con la via interna per l’Appennino, risalendo sino a Belvedere e procedere via Garbo;  e)--come non sempre il porto di Genova determinasse una scelta obbligata: si ricorda solo che anche i profughi tarragonesi guidati dal loro vescovo Prospero, nel 713 dC, preferirono la baia vicino a Portofino per traslarvi le reliquie di san Fruttuoso; ivi eressero il primo cenobio di Capodimonte, che poi tanta importanza ebbe nella storia del genovesato.

===sia quale chiesa fu scelta per depositare le spoglie del santo Agostino, prima di proseguire per Pavia, tramite Tortona: -il palazzo vescovile (allora era  vescovo Viatore, sesto in successione essendo stato eletto in carica nel 732; presso di lui fu ospitato re Liutprando, prima che proseguisse per Pavia. Se lo scopo del re era ricuperare le Reliquie, nell’attesa mi par ovvio abbia cercato contatti con l’autorità religiosa locale e che lui personalmente fosse ospitato lì); -o chiese genovesi (ovviamente anche loro senza prove dimostrabili. Nel ‘castrum’ o in Sarzano: si attribuirono questo privilegio la chiesa di san Tomaso oggi distrutta; di san Teodoro; e di san Silvestro -al Molo-, distrutta nei bombardamenti del 1940-44. Tutte erette dopo l’anno 1000.

 Unica rimane la nostra che visibilmente possiede l’età, lo stile architettonico ed il nome storico anche se le vestigia di quell’epoca sono minute rispetto quelle del 1200. Se anche le spoglie dalla nave fossero state sbarcate nel –chiamiamolo porto- di Genova, non è escluso che una seconda tappa via mare li portasse a S.P.d’Arena risparmiando 4-5 km di strada disagevole. 

===sia sulla data dell’avvenimento:

--nel XIII secolo Iacopo da Varagine, arcivescovo della diocesi (SPd’A era quindi sotto il suo controllo giurisdizionale), cronista agiografico (quindi studioso dei suoi tempi e tradizioni),  riferisce esservi già allora varie e contrastanti versioni, sia circa l’avvenimento, che il sito effettivo; e -seppur nel tempo l’arcivescovo fosse il più vicino ai fatti- rinuncia a chiarire e non riesce ad appurare il luogo di sbarco durante la traslazione delle spoglie di sant’Agostino; e che nel citare le chiese che si contendevano l’onore dell’accoglienza, non citi la nostra (questo appare oggi il fatto più ovvio: per lui storiografo e quindi ricercatore delle origini e storicità della città, come poteva non sapere di un fatto così importante riguardante una chiesa della sua diocesi?, come se neanche potesse essere presa in considerazione? È, che le spoglie non si trattennero in nessuna chiesa consacrata ed intesa tale -essendo la cappelletta non classificabile chiesa- e quindi nella storia dalla spiaggia viaggiarono direttamente verso l’interno) esplica che nessuna notizia gli era pervenuta neanche sotto forma di racconto (questo sottolinea la difficoltà di arrivare oggi ad una unicità di pareri). È ovvio quindi che non avendo trovato traccia alcuna sui fatti avvenuti, abbia soffermato di più l’attenzione  sull’anno in cui avvennero: arrivò alla  propensione che il corpo del Santo fu trasportato quando era vescovo Viatore, e quindi nell’anno 732 (Cervini prospetta di conseguenza, che la tradizione sampierdarenese sia nata dopo gli scritti del monaco varazzino; aggiunge che le reliquie provenivano dall’Africa via Sardegna, e non da Cagliari; e ripropone la leggenda che  le reliquie ‘siccome non volevano saperne di muoversi, il re longobardo Liutprando promise che avrebbe fondato sul posto una chiesa dedicata al vescovo di Ippona, e i sacri resti ripartirono felicemente’).

--Beda, “venerabile” storico e scrittore del ‘De sex aetatibus mundi’ (la fonte storica più antica), quando scrisse sui fatti di Liutprando non cita Genova ma allude alla commissione data dal re ai naviganti solo per il tratto via mare, sottintendendo che quindi il re accompagnò le spoglie solo nel tratto via terra, dalla costa a Pavia. Secondo lui il fatto avvenne nell’anno nono di Leone III, quindi nel 725.

--Lo storico Sigiberto, lo pone come avvenuto nell’anno 721.

   Il primo documento scritto, relativo a quanto detto, è in   una “lezione” del Breviario Romano, relativa al giorno dedicato alla commemorazione  della traslazione del corpo di S.Agostino, in cui si precisa che le spoglie furono depositate in “ecclesia Santi Petri De Arena” .

===documenti falsi

--- Un atto di donazione di Liutprando che riconoscerebbe il nostro sant’Agostino della Cella come la chiesa costruita per volere del re, e pubblicata nel Codex Diplomaticus Longobardiae. A parte il fatto che non esiste più,  da alcuni studiosi è stato catalogato tra i documenti dichiarati apocrifi, di dopo il XII secolo. Di Fabio segnala la scoperta fatta da B.Pagnin di un altro documento datato 713 attribuito a Liutprando, ma anch’esso riscontrato falso.

---precisamente nell’anno 962, in uno di ben tre ’redazioni’ di un atto o diploma di Ottone I, è scritto il nuovo nome “ecclesiam unam in honore sancti Augustini iuxta civitatem Januam”. Di Fabio scrive che anch’esso è apocrifo, riferibile al secondo quarto del XII secolo.

--- Altro documento datato anno 996, è  una ratifica di Ottone III. Attesta che  fu fatta la donazione di una cappella al monastero pavese: mentre è riconosciuta autentica, Di Fabio precisa che però vi vengono citati solo possessi del monastero pavese in Tuscia, e non di SPd’A. (Ottone III= 980-1002, detto ‘Mirabilia Mundi’, eletto imperatore del sacro romano impero nel 996)

Come in tutto il mondo conosciuto, l’arrivo dei monaci, determinò certamente una netta svolta sociale con incremento culturale, strutturale e di più coerente sfruttamento ambientale: essi si adoperarono per  portare la fede, ma anche  per allargare le vedute in genere da una critica limitatamente locale ad una più vasta (migliorare la struttura edilizia dando esempio con un vero e proprio monastero nonché risanando e ristrutturando la chiesuola, coinvolgendo la gente negli scambi commerciali con le località limitrofe, insegnare una coltivazione più organizzata (è noto come a quei tempi fosse ancora inadeguato l’uso dei mezzi agricoli meccanici -sia l’aratro che il molino-), dei concimi (visto che la terra già era avara e limitata al proprio sostentamento e quindi inadatta a grandi coltivazioni), dell’incrementare la pastorizia, diffondere la cultura di aggregazione attorno alla loro casa con fulcro nella casa del Signore,  in un modo di vivere un po' più civile ed organizzato, specie atto a difendersi dalle iniziate incursioni delle fazioni in belligeranza, dei mussulmani o comunque dei pirati.

   L’antica cappella dedicata a san Pietro potrebbe essere stata quindi affidata da Liutprando ai monaci di sant’Agostino; e di tutte le chiese liguri, è la sola che accerti connessioni pratiche con l’espansione del monachesimo longobardo. O.Garbarino propone una diversa definizione storico-artistica a migliore collocazione cronologica: definisce la nostra cappella appartenere al ‘periodo di formazione dell’architettura medioevale ‘commacina’ avendo uno stile  -caratteristico dei pochi monumenti i più arcaici- antecedente l’VIII secolo (corrispondente al ‘primo lombardo’ classico; nome derivato da ‘i maestri commacini’ citati nell’editto di Rotari dell’anno 643, attivi in quella porzione di regno longobardo corrispondente alla Lombardia e Piemonte lungo le direttrici verso il mare ed il regno franco. Caratteristiche sono l’essere piccole basiliche ad aula unica con abside semicircolare, ed avere le finestre limitate ad anguste feritoie, ed i muri esterni arredati da archetti ciechi –singoli o accoppiati-).

 

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Immersi in questa nebbia storica, si arriva all’anno 1000, e con esso al “basso medioevo”.

1A=====Il TEMPIO DI SANT’AGOSTINO

Dall’essere dedicato a san Pietro, cambia con Sant’Agostino.

   Quello che mi sembra ovvio accettare, che la chiesetta di oggi non è quella iniziale; riconoscendo che -negli anni- i solerti frati abbiano successivamente portato a rifacimento (per esempio dopo distruzione saracena del 935), migliorie, diversificazioni, ampliamenti e spostamenti, affiancamenti ed abbattimenti. Penso faccia parte di tutti i fabbricati vissuti e quotidianamente usati, da conservare nell’insieme ma da migliorare secondo le necessità del momento. E quindi, quello che oggi residua, che sia dell’VIII secolo o del XIII, ha poca importanza perché è il nucleo ed il significato dell’esserci,  che importa e che dà valore di antico ed originario.

Furono certamente i frati, che nel tempo favorirono il passaggio della dedica della cappella, da san Pietro a sant’Agostino (come han fatto i Salesiani, da san Giovanni e da san Gaetano, a don Bosco), avendo inizialmente chiamato la chiesetta “cella di sant’Agostino” (che determinò il nome popolare comune, “della Cella”). Saranno poi i Doria nella prima decade del 1200 a dedicarla alla Madonna, e con essa divenire “Santa Maria della Cella”.

L’ordine agostiniano non fu fondato direttamente ed istituzionalmente da sant’Agostino (354-430) che probabilmente  stabilì solo alcune regole basali per i suoi seguaci che desideravano solo vivere cenobiticamente (servizio parrocchiale, spartizione e comunità dei beni-cibo-lavoro, vita pastorale ed agreste, preghiera e meditazione. ‘kanòn in greco significa regola; da essa si chiamarono ‘canonici’ i monaci che scelsero di vivere secondo una regola, e di conseguenza ‘canonica’ la loro residenza. Nel tempo, ed a seconda dei temperamenti, si formarono quindi innumerevoli regole, da più severe e rigorose a più blande e permissive, e nell’ignoranza generale, gran confusione con concessioni al vitto, vestiario, concubinato, fino a deviazioni verso le pene corporali, la simonia, le nomine ed investiture locali. Il clero in genere era scaduto moralmente e di immagine collettiva, risultando troppo spesso inadeguato, pastoralmente inetto, culturalmente impreparato). Finché  dopo la dieta di Aquisgrana (816) Alamario di Metz elaborò una norma comune per tutti coloro che volevano vivere monasticamente, e  papa Alessandro IV  con una bolla riunì le diverse e sparse congregazioni di eremiti  dando loro le regole di sant’Agostino. 

   Il nuovo cammino non fu immediato e lineare ed alla Chiesa occorsero numerosi sinodi per regolarizzare il comportamento, specie tra i monaci ‘attivi’ che privilegiavano la vita parrocchiale e quelli ‘contemplativi’ che preferivano la scrupolosa osservanza della vita monastica il più possibile senza contatti col mondo esterno al convento, in una ideale spiritualità di solitudine ed organizzandosi in modo autonomo producendo tutto il singolo necessario (policoltura); il medioevo diviene il mondo del ferro (per le armi e gli attrezzi) ma soprattutto del legno (che diviene un bene prezioso quanto l’oro e  simbolo di ricchezza terriera più dell’orto coltivato –specie possedere fusti di grosse dimensioni).  Furono questi ultimi che nei secoli diedero vita ai ‘canonici regolari di sant’Agostino’ che rispolverando le regole iniziali del santo, accettarono -con liberatoria papale- nuove regole di adattamento ai tempi. Le case vennero chiamate Abbazie o Pievi ed il monaco direttore Priore. Tra le tante congregazioni riconosciute: Benedettini cassiensi e bobbiesi, Camaldolesi, Vallombrosani (S.B.d.Fossato e Promontorio), Cistercensi, Carmelitani, Domenicani.          .  Un certo Adamo dei marchesi del Bosco, a Mortara sulla strada verso Vercelli, scelse gli Agostiniani e munificamente mise a disposizione i terreni, eresse la chiesa ed aprì un monastero, ridando forza ai concetti di povertà, castità, distacco dai beni terreni ed onorificenze: il numero degli adepti crebbe a tal misura che si poté iniziare ad inviarli –spesso su richiesta- in missioni lontane.  E così  un abate e 12 monaci –come gli apostoli-  abbandonavano la casa madre e vennero ‘trasferiti’ in nuova sede: eccoli a Genova dagli anni vicino al 1100 (nel 1097 Genova ebbe arcivescovo il mortariense Airaldo Guanaco, già priore in Fassolo nella chiesa di san Teodoro; e numerose chiese di tutto il territorio furono rette dalla congregazione: in San Pier d’Arena sul finire di quel secolo, la chiesa di san Giovanni di Borbonoso –vedi-).

Nel 1442   circa, dopo anni di intensa e fattiva laboriosità,  la congregazione di Mortara si trova assottigliata nel numero di vocazioni. Solo nel 1448 a Tortona avverrà un capitolo generale, ed i Mortarensi, ridotti numericamente ed in via di disgregazione furono inglobati e fusi con i ‘cugini’ Canonici Regolari Lateranensi del SS.Salvatore, arrivando, nel 1473 alla formazione di una congregazione locale per opera di GB Poggi; presero possesso anche di san Teodoro trasmettendo nuova linfa anche ai centri femminili (canonichesse lateranensi). Anche loro però ben presto si trovarono in difficoltà numerica per diminuite vocazioni, e dovettero abbandonare le chiese o officiarvi solo periodicamente

I primi documenti accessibili, risalenti agli anni attorno al 1100, dimostrano una già ottima organizzazione del borgo, con dei consoli a dirigerlo, e servizi di guardia per difenderlo, il tutto dietro la reggenza della famiglia Doria, i quali da anni si concedevano proprietà dei luoghi e che per molti anni a posteriori, avranno  custodia e cura del tempio, classificato monastero medievale maschile caratterizzato da vita sia attiva che contemplativa, e che nel genovesato appare come il 32° costruito in ordine cronologico di fondazione.

   Tutto, ma soprattutto la mancanza di un qualsiasi documento dimostrativo, tende ad annullare qualsiasi riferimento storico tra la cappella di san Pietro anteriore all’anno 1000 e quella di sant’Agostino  le cui vestigia più antiche riscontrabili, risalgono all’XI-XII secolo (anch’essi discutibili, ma a questo punto più poco ci interessa, cento anni più, cento meno, perché aggravate da alcuni ma sostanziali interventi nei secoli dopo)

Rimane comunque che, tra le chiese minori del primo medioevo,  è questa la più remota; e della sua antichità  fan testo non solo le poche notizie trascritte, ma soprattutto i caratteri architettonici primitivi, di estrema povertà della muratura: un vano rettangolare, con abside a levante; all’occhio dell’esperto, è facile notare  confrontandola con le altre cappelle  liguri che -seppur conservato il sistema costruttivo “medievale”-quanto questo sia   più  rozzo e grossolano, non in pietra di Promontorio come tutte le altre (quindi prima dell’apertura delle cave, essendo stato più facile da raggiungerle), e quindi anteriore alle altre.

Come detto, ovviamente, nel tempo successivo, alla cappella dedicata a san Pietro (o migliorandola come edificio oppure affiancandovi quella attuale più grande: si può supporre dalla ancor ora presenza del marmo inciso, formante l’architrave di una porta murata, quale possibile accesso ad un locale affiancato), nel XIII secolo i monaci adottarono il loro protettore (come, più recentemente il salesiano don Bosco  ha ‘scalzato’ sia il primitivo san Giovanni Battista Decollato che san Gaetano), e ciò appare evidente dopo soli due secoli. Anche qui come sopra, le fonti appaiono di difficile valutazione storicamente veritiera, essendo come già detto la documentazione della abbazia pavese ricca di manomissioni, avendo la possibilità di far scrivere a posteriori dai propri frati fatti ed atti predatati, falsificando così a proprio tornaconto la verità, con lo scopo di avere documenti scritti utili a confermare possedimenti, proprietà e diritti. Il fatto però che –anche seppur tardivamente ed a posteriori- da Pavia si tentò di accorpare il possesso della Cella, esprime che una ben solida relazione ci era stata tra il monastero pavese ed il nostro; e che se non era stata ratificata al momento della nascita, si sentirono nella -onesta o disonesta?: la definirei disinvolta- necessità di ratificarlo dopo, quando le contingenze richiesero una dimostrazione scritta. Gli storici dovranno precisarci se questo comportamento è limitato ai documenti dell’abbazia pavese o se era divenuta usanza generale del tempo considerato a cavallo tra il documento non scritto, con quello notarile scritto e depositato.

--In due diplomi di Corrado II il Salico (già re d’Italia e poi incoronato imperatore a Roma da papa Giovanni XIX), elaborati dallo scriptorium del monastero pavese, datati 1027 e 1033 -quindi nel primo quarto del secolo XI-,  si parla di una chiesa dedicata a sant’Agostino: “Ecclesiam quae in honorem sancti Augustini non longe a Januensi civitate constructa est ad ipso Liutprando praedicti coenobi fundatore”.  Da essi si dedurrebbe che la nostra cappella era da molto tempo alle antiche dipendenze dell’abbazia pavese; e  che –con questo scritto - fosse in atto una donazione o sottomissione al monastero pavese. Ma è stato dimostrato che questi diplomi sono un falso perché scritti molto dopo, riferibili al secondo quarto del XII secolo. L’opuscololo della chiesa (Tosini?) dà per ‘certamente autentico’.

Sino all’anno mille circa, non era necessario avere documenti scritti attestanti le proprietà dei terreni, perché esse erano di pochi e vastissime, con limiti aleatori. Dopo allora, sia perché spesso sorgevano liti di proprietà (derivando da esse tributi   e onori), sia perché aumentava di numero chi poteva vantare spazi di proprietà (tutto l’apparato ecclesiastico più tutti i vari signori e signorotti, più i vari paesi e città, in genere a proprio arbitrio) divenne opportuno avere carta scritta. Così si iniziò a valorizzare scrivani e notai, con i quali si poterono determinare migliori e definitive delimitazioni dei propri possedimenti mettendo tutto per scritto. Da qui, se una terra o immobile era in possesso da molte generazioni, divenne necessario falsificare la data (chi avrebbe potuto contestare la parola di un nobile? forse neanche il notaio) quale scappatoia per attestarne il possesso in arretrato. Ma costituendo un falso, oggi sono spesso contestabili perché contenenti errori di date, di sigilli, di eventi concomitanti, di qualità della carta o inchiostro. Si possono porre però alcune obbiezioni. Anche se apocrifi  -perché non contemporanei- epperò sempre i più vicini ad affermare che –nel nostro caso- una cappella esisteva e non era collocata nella città di Genova (allora ancora delimitata dalla prima cinta di mura), ma in un più distaccato e lontano agglomerato di case, che però doveva avere già una discreta consistenza numerica da determinare degli interessi tali da costruire un falso di proprietà. Altra, è che se i documenti sono fasulli perché posticipati, non lo sono nel determinare falso anche quello che è scritto. E, se mirati a salvaguardare delle proprietà mentendo anche su esse, avrebbero avuto convenienza essere più e meglio precisi dove erano queste dipendenze, e quindi  non usare vaghi riferimenti tipo  ‘iuxta’ o ‘non longe’. Altra ancora è che nessuno ha contestato ufficialmente questi diritti.

 

1B=====il TEMPIO di SANT’ AGOSTINO

(dal 1000 al 1400 circa)

Nei secoli bui del medioevo, giorno per giorno le cose trovarono una dimensione sempre più ben definibile, che va dall’acquisto di territori locali da parte dei Doria e loro protettorato della chiesa, ad una migliore strutturazione dell’edificio e del tempietto ove nel 1206 furono apportate migliorie,  e nel 1292 gli affreschi raccontati sotto. Si sa infatti che le pareti furono affrescate secondo i modi di un pittore sconosciuto e chiamato quindi ‘maestro della Cella’ che già lavorava a Fassolo nella residenza dei Doria (leggi sotto).

 

Nella chiesuola, c’è una porta laterale -attualmente murata-, e sull’architrave marmorea è scritto il ricordo di una ‘riedificazione’ con la frase risalente al 1446: evidentemente un ramo dei Doria gestiva contemporaneamente sia la chiesa grande che la chiesuola.

Tosini individua un parte di questa famiglia che ha avuto particolari legami con questo più antico tempio,  tanto da essere da lui  distinti nel “ramo della chiese tta di s.Agostino (già di s.Pietro, detta ‘La Cella’)”:

 

            Lamba Doria_( vincitore di Curzola, 1298

           |                   |              

Andreolo              Opicino____________________

                             |                     |                           |

                      Brancaleone     Francesco           Bartolomeo (1)

                                                                                    |

                                                                             Giovanni (2)

                                                                                |

                                                                         D. Bartolomeo (3)

                                                                                                   |  |  |  |  |             |

                                                                                                                       Giovanni (4)

                                                                                             |    | | | | | | | | |

                                                                                          Nicola (5)

 

Questi ultimi  vissuto negli anni a cavallo tra 1300-1400, sono  i citati nell’iscrizione posta sull’architrave marmoreea posizionata sopra una porta ora murata nella chiesuola. «IHS  ista capela Sancti Augustini est nobilium domini Joannis de Auria quondam domini Bartholomei et domini Bartholomei eius filij et eredum suorum redificata MCCCCXXXXVI die XXV martij».

 

Nell’incisione si comprendono tre generazioni:

1 - Bartolomeo Doria q Opicino;  vissuto alla fine del 1300; andò sposo a Clemenza Spinola qLuchesio, ebbero 2 figli: Eliana e Giovanni

2 - suo figlio Giovanni qBartolomeo; vissuto nella prima metà del 1400, andò sposo dapprima a Luigia Doria q.Giovanni e, in seconde nozze a Violante Grimaldi q.Niccolò. Con la prima moglie ebbe un figlio, terzo citato sull’iscrizione. Vedilo ancora all’anno 1425.

3 -DomenicoBartolomeo.  Andato sposo ad Isolta Negroni q.Bartolommeo, ebbero 6 figli Brigida, Niccolò, Giovanni (4), Agostino (che fu padre di GioBatta nato 1470, doge nel 1537), Peretta, Giacomo (a sua volta padre di altri due dogi Niccolò –nato 1525, doge 1579- ed Agostino nato 1540, doge 1601).   

4 – Giovanni  q Dom.Bartolomeo, vissuto nel 1466 ca, sposò Luigia Doria q.Lazzaro ed ebbero10 figli tra i quali Nicola (5)  (Battilana scrive Niccolò)

5 – Nicola q.Giovanni. Tosini ricorda che nel 1484 era Capitano a Roma al servizio di papa InnocenzoVIII; la sua capacità militare fu utile maestra ai giovani Filippo ed Andrea Doria, suoi allievi nella pratica delle armi. Da Niccolosia Fieschi ebbe sette figli tra i quali  Giacoba (6) e Domenico (7)

6 – Giacoba q.Nicola , vivente nel 1541,  viene citata nella lapide posta nel corridoio verso la Sacrestia. «Giacobineta comitissa uxor q.Filippi»: infatti era vedova di Filippo Doria q.Francesco il quale aveva ricevuto il titolo di conte di Sassocorvaro  (dai DellaRovere di Urbino) e di Castellamare (da Carlo V) con rendita annua di 3mila ducati d’oro; al comando della flotta genovese per conto di Andrea Doria –ancora al servizio di Francesco I- aveva vinto la battaglia di Capo d’Orso nel golfo di Salerno sbaragliando la flotta spagnola. Con Andrea ci fu una stretta collaborazione sino alla morte prematura avvenuta a metà gennaio 1531. Allora Giacoba fece testamento ed elesse due fideicommissari ai quali chiese espressamente che ponessero inciso su marmo le sue voilontà, e fossero poste nel coro della chiesa.

7 – Domenico q.Nicola. Fu commissario nella guerra di rappresaglia contro i Fieschi, arroccati nel castello di Montoggio. Sposò Maria Doria q.Francesco sorella di Giannettino dalla quale ebbe 11 figli, tra i quali: Niccolò (fondò a Genova il convento caremelitano di s.Anna), Camilla (sposò nel 1576 Giulio Pallavicino di Agostino autore del manoscritto “inventione di scriver...”, GioBatta (che sposò la figlia a Cesare Pavese nel 1594 –vedi via Daste-).   La sua tomba era nella chiesetta di s.Agostino e la lapide datata 1568 diceva «Dominicus DeAuria q.Domini Nicolai fecit hoc sepulcrum anno mdlxviii».

Tutto sino al progressivo ampliamento della chiesa, sempre sotto il giuspatronato dei Doria, e  la  contemporanea perdita funzionale del tempietto, al punto che lentamente passò nell’oblio.

 

1C======il TEMPIO di SAN AGOSTINO 

Infatti nella carta del Vinzoni del 1757, non è segnato: a nord della chiesa c’è il quadrato del chiostro e tre appezzamenti come ad orto; a levante ci sono i disegni di costruzioni ma non riportanti le misure della chiesuola.

Il 28 feb.1880, il giornale “Gazzetta di Sampierdarena” informa che l’ing. prof.  Ratto, avuto l’incarico di riformare e rendere simmetriche due cappelle laterali dell’altare maggiore della chiesa di S.M.Della Cella, nonché di trovare quanto dimostrabile della originaria chiesuola di san Pietro, accertò che - contro una tradizione tramandata sino ad allora che la voleva collocata in testa alle navate principali - nessuna di esse era per manufatto della data del 700 dC e che quindi, secondo lui,  non poteva essere lì che si fossero ospitate le spoglie del ‘santo Dottore Agostino’.

Però rinvenne - e lo storico don Luigi Tiscornia sottolineò in una richiesta di salvaguardia al Comune della città di San Pier d’Arena (il quale in data 16 febbraio 1881 girò l’invito al presidente dell’Accademia Ligustica affinché assieme ad altri esperti lo visitasse) un fabbricato ecclesiale primitivo e le sue pitture, che fu riportato alla luce e la cui struttura muraria poteva corrispondere alla data del re Liutprando (una “modesta chiesuola di pianta quadrilunga ad una sola navata con abside semicircolare avente la forma basilicale primitiva, lunga appena dieci metri, larga cinque…”), posta in corrispondenza dell’antico oratorio nei sotterranei del chiostro, un metro abbondante “sotto il livello stradale, rinchiuso da magazzini di bottai, conseguentemente in deplorevolissimo stato, corroso dall’umidità” ed  ignorato per secoli  (difficile che sia stata costruita sottolivellata: vien dunque da pensare che il terreno  sia stato alzato tutt’attorno nei periodi delle ristrutturazioni. Nel 1965, all’arrivo di don Ferrari, il terreno circostante favoriva le infiltrazioni d’acqua ed allagamenti interni, malgrado l’ intercapedine che però si presentava intasata di detriti e fogliame).

       

Facciata - ingresso, verso ovest                                abside nel retro, verso est

                            

facciata a mare                                           facciata a monte

Malgrado il rinvenimento, l’interno aveva continuato a subire stato di degrado: da abbandono, a ripostiglio di arredi sacri inutilizzati,  ad altri di culto; attrezzatura per riordino e pulizia dell’ambiente. 

La copertura attuale del tetto, fu riparata dalla Sovrintendenza alle Belle Arti  dopo il danno del 9 giu.1944; anche allora appariva successiva a quella che doveva essere in origine (lignea,  a capriata).

 

Tra le chiese minori del primo medioevo,  è questa la più remota; e della sua antichità  fan testo non solo le poche notizie trascritte, ma soprattutto i caratteri architettonici primitivi, di estrema povertà della muratura: un vano rettangolare, con abside a levante; all’occhio dell’esperto, è facile notare  confrontandola con le altre cappelle  liguri che - seppur conservato il sistema costruttivo “medievale”- quanto questo sia   più  rozzo e grossolano, non in pietra di Promontorio come tutte le altre (quindi prima dell’apertura delle cave, essendo stato più facile da raggiungerle), e quindi anteriore alle altre.

Un vano rettangolare,  di misura esterna m. 11,5x6,4, con abside a levante ed entrata a ponente, la cui facciata si è perduta, le cui pietre appaiono irregolari, e le lesene strette e snelle sia sui fianchi che nell’abside disegnano arcate ed arcatelle cieche, con stile  sicuramente di origine ravennate (là era in atto fin dal V secolo e rimane conservato solo nelle più antiche chiese medievali, non oltre l’ XI secolo).       Cervini scrive che “una partitura ad archetti pensili binati con lesene ne articola i fianchi, mentre le arcate cieche sono continue all’esterno dell’abside (e si ritrovano nel S.Paragorio di Novi, oltre che nel S.Vincenzo di Galliano e nel S.Pietro di Acqui)”. 

    

   

Numerosi altri piccoli segni, riscontrabili da competenti, valgono per dimostrare la vetustà del manufatto: dalla forma delle pietre, allo spessore dei piedi degli archi; alle finestrelle; ai tre diversi pavimenti sovrapposti (uno originale, in mattoni scuri di fattura antecedente il XIII secolo - il secondo in mattonelle di ceramica colorate  «bianche, verdi, brune; di 9cm. databili del XV secolo; quindi riferibili al restauro di riadattamento dei Doria del 1446» - il terzo, a quadretti di lavagna e marmo bianco, sopraelevato di 40 cm., forse del 1568 quando fu prospettata la possibilità di ospitarvi il sepolcro di Domenico Doria);

     

parete interna, a mare, con  lapidi          pavimento

alla volta a crociera, non originaria, e la divisione in due campate con semipilastri in laterizio che appartengono forse ad un riadattamento del XII secolo quando furono applicati gli affreschi.

   Nel secolo XV fu nuovamente ristrutturata ed inglobata nelle costruzioni conventuali, con l’altare posto nel centro dell’abside, perché destinata ad un primo sepolcro dei Doria.

       

incavo con mattonelle  - vano ampolle e libri sacri                           marmo con aquila dei D’Oria

 

   Una commissione di esperti, chiamata ad esprimersi nel 1880-8 (tra cui  tra cui  presidente il marchese Negrotto, e quindi:  Sante Varni, Alfredo D’Andrade che firmò la relazione, Nicolò Barabino, Tomaso Luxoro, GB Villa, Maurizio Dufour) notò che il manufatto raggiungeva esternamente m.11,5x6,4; aveva “importanti ed  interessanti elementi padani” (delle arcate cieche , degli archetti di coronamento scompartiti in coppie, delle alte e sottili lesene: tutti motivi ravennati propagatesi nelle architetture religiose longobardiche - come anche in santa Maria delle Cacce a Pavia); e sui cui muri - sotto tre centimetri di intonaco -erano affrescate antiche pitture (vedi “Museo”) risalenti  al 1300, e forse prima; quelli della parete sinistra si potevano staccare e salvare, quelli della parete destra e dell’abside furono trovati corrosi, lacunosi e giudicati perduti:  “in una parete laterale sotto l’ intonaco  si rinvenne un affresco rotondo - il che è già originale per l’epoca, raffigurante  una “coena Domini” (Cena del Signore),  una  Fuga in Egitto, ed una  Natività (quest’ultima posta nel presbiterio rimase purtroppo parzialmente ma ulteriormente erosa dall’umidità quando il tetto venne sconnesso dal bombardamento del 9 giu.1944),  nonché alcuni busti e figure di santi.

Da essi si è potuto risalire ad un periodo di ristrutturazione del primo manufatto e collocato nella transizione tra il romanico ed il gotico tipico dell’epoca subito dopo la metà del XII secolo, inizi del XIII.  (88.51). L’opera pittorica è troppo scarsa per poter stilare un qualsiasi valido giudizio di origine, quindi non è attribuibile se non come opera di un ignoto maestro, chiamato così “maestro della Cella” (o “maestro di San Pier d’Arena”), probabile allievo assai vicino a Manfredino D’Alberto (o ‘di Oberto’) da Pistoia, (nel primo medioevo, la Toscana è madre delle prime espressioni pittoriche, con Cimabue più capace di tutti.   Solo alla fine del XIII secolo, dalla Toscana sconfinano i primi discepoli stretti seguaci del maestro, di cui il più rinomato fu Manfredino, scolaro del Cimabue ad Assisi. Di lui solo due affreschi rimangono, staccati dalla demolenda chiesa di san Michele Arcangelo e datati 1292 (un “Arcangelo Michele” ed un “convito di Betania”, oggi ospitati a Palazzo Bianco. A Genova rimase senz’altro alcuni anni, lavorando anche in San Lorenzo, riuscendo a crearsi seguaci che lo copiarono senza raggiungere però la forza e la professionalità del maestro, che mantiene un tono superiore rispetto al Nostro: questi ha un tocco stilisticamente ed iconograficamente secondario, sia nel raffigurare l’Arcangelo annunciante che appare “copiato”, sia nel convito di Betania che appare una “ripetizione” di quello di Manfredino a Palazzo Bianco: particolari identici, nelle pieghe della tovaglia, nel dorso della Madonna china ai piedi del Cristo: quindi un allievo, maestro minore) rappresentante di una pittura romanica genovese che non è stata mai ben documentata e che viene definita ‘evanescente’, ma “che rivela le sue più genuine note poetiche nella timorosa semplicità delle figure, nel loro estatico e calmo atteggiamento quasi che l’azione si sia d’un tratto misteriosamente arrestata; ed è una stasi contemplativa di ricordo ancora paleocristiano”. 

Sono gli affreschi più antichi conosciuti in Liguria.

   Nel 1958 gli affreschi furono staccati e portati nel salone parrocchiale  ora adibito a Museoadibito ma che fu refettorio del monastero agostiniano; in esso si conservano gli affreschi staccati, assieme ad altre opere; come detto, troppo scarsi per poter stilare un qualsiasi valido giudizio di origine.

    Così la descrive Di Fabio “..molto interrata, ha pianta ad aula rettangolare ed è conclusa da un’abside semicircolare che s’innesta sul corpo longitudinale per mezzo di due arconi quasi concentrici, formati da conci disposti radialmente. L’abside non presenta, all’interno, alcuna decorazione o scansione architettonica. La spazialità risulta modificata rispetto alla situazione originaria dall’inserimento, medievale, di una copertura a crociere (due) su pilastri addossati ai muri laterali. Il rimaneggiamento è stato fissato ad una data intorno al XII-XIII secolo (il XII secolo viene proposto dal Ceschi, il quale fonda questa datazione sul fatto che l’intonaco affrescato (del tardo Duecento) si sovrappone ai pilastri. Il D’Andrade...ritiene del XIII secolo i pilastri, con «le vôlte della navata e l’apertura di una porta a mano destra presso l’abside; del secolo XV le due colonne o pilastri incontro agli angoli del muro anteriore della Chiesuola e la porta a mano dritta, nella quale sta una iscrizione allusiva ai restauri fatti eseguire dal Doria». Nota poi i resti dei tre pavimenti successivi: «uno di essi in mattoni, di certo non posteriore al secolo XIII, altro in piccoli quadretti verniciati del secolo XV, ed un terzo più recente in lavagna e marmo bianco, pure a quadretti»). La copertura originale doveva certo essere a capriate lignee, impostate poco sopra il livello degli archetti pensili dei fianchi. La facciata doveva essere, quindi, forma a capanna, unicamente scandita da due larghe lesene agli spigoli e, forse, da una sorta di zoccolo nella zona inferiore, piuttosto basso, di cui si osserva qualche resto nel settore fra l’attuale ingresso e la lesena destra, la quale, anche, appare costituita (così come l’opposta) di muratura antica. Il tutto per l’altezza di circa una decina di corsi. Non del tutto perduta, dunque, la facciata, come invece ritiene il Ceschi. Non più originale, per contro, il portale, nelle forme attuali attribuibile al XVIII o al XIX secolo. (La porta d’ingresso doveva essere centinata, stando alla testimonianza del D’Andrade... che era in grado, allora, di scorgere «un resto del rispettivo vôltino» per un’altezza totale di m. 2,84). Il fianco sinistro è oggi  ricoperto da uno strato di intonaco cementizio; vi si aprono due larghe finestre seicentesche, ma la decorazione originaria ad archetti vi è totalmente perduta. È invece discretamente conservata nel lato opposto, scandito da un partito ad archetti binati su strette lesene, in cui si aprono due monofore originali. Vi si notano le tracce di archi, porte e finestre a sesto ribassato, della stessa epoca di quelle aperte a sinistra, ora richiuse per mezzo di inserti di mattoni. Della I, III, IV, V lesena restano solo le parti superiori. La zona più integra è quella absidale, percorsa da cinque arcata cieche su lesene che impostano su un alto zoccolo. Nella II e nella IV si aprono due larghe monofore. Il coronamento dell’abside è realizzato attraverso l’aggetto lievemente obliquo di un corso di conci appositamente scolpiti per questa funzione, su cui impostano ancora alcuni corsi di muratura, ma parecchio irregolare. Il paramento murario – come si può osservare nelle parti meno rimaneggiate – è costituito da grossolani conci, appena regolarizzati nelle murature di fondo, meglio squadrati col martello quelli impiegati con una precisa funzione architettonico-decorativa (arcate absidali, lesene, conci negli spazi di risulta fra due arcate). Caratteristica la loro disposizione nelle archeggiature absidali, non in senso radiale, ma orizzontale, accostati per il lato minore.

    

Da allora, della cappella calò il silenzio totale, fino all’anno 1880. Infatti lo stesso Alizeri nel descrivere minuziosamente la chiesa negli anni 1875, non ne fa cenno alcuno.

   Quindi, sulla base di storia, documenti e struttura architettonica, la chiesette appare successiva alle vicende di Liutprando.

   Da queste ultime, gli ultimi storici :

---prendono chiare distanze (considerato la loro non accertata veridicità e la loro induzione a facile fuorvianza verso un falso storicismo);

---accettano “delle ascendenze «ravvennati» del partito architettonico (che ai loro occhi appaiono palesi e dimostrabilissime, sebbene tanto generiche da non poter assolutamente essere assunte come elemento decisivo per una sistemazione cronologica); ed i riferimenti precisi e diretti alle tipologie minori della zona comasca e alpina;

---al confronto con tutte le strutture esistenti e più chiaramente leggibili,  è databile fra fine X ed inizio XI secolo e poi rimaneggiata rispetto quella che doveva essere in origine.  Infatti  Cervini esclude tutto questo periodo relativo all’VIII secolo, e colloca  l’edificio ‘come rarissimo esempio di architettura del primo XI secolo in area genovese’; Di Fabio confermando la datazione dell’edificio all’XI secolo (perché ‘nessun dato documentario e archeologico può farci accettare una tale retrodatazione’), precisa che  nulla vieta pensare né ‘escludere aprioristicamente la possibilità che una fondazione più antica in quella zona sia esistita, e che possa anche avere accolto le reliquie...’

   Sui muri sono appesi alcuni marmi (su uno dei quali si segnala il rinnovamento dei Doria del 1446)   L’interno ha subito momenti di degrado quale ripostiglio di arredi sacri inutilizzati,  ad altri di culto rinnovato con riordino e pulizia dell’ambiente.

        

2===primitiva chiesa di N.S. DELLA CELLA==nascita.

Canonici Regolari della Congregazione di s.Maria di Crescenzago

STORIA 

Col feudalesimo, superate le scorrerie dei barbari e dei saraceni (ultima la distruzione di Genova nel 936) ebbe inizio una nuova era sociale di rinnovamento. Seppur sempre segnata da lotte acerrime tra i  vari feudatari con guelfi e ghibellini, laici e cristiani, civili e predoni; cresce in forma rutilante il monachesimo e nascono, localmente, i Comuni ambedue capaci di dare impulso, vigore e razionalità alla vita associativa e  religiosa.

Nelle terre già dei Doria, essi nei primi anni del 1200 decisero edificare un convento, munito di tempio più complesso e più consono alle necessità della famiglia Doria, che poneva relativo giuspatronato. Tosini distingue nella famiglia Doria tre rami, che si interessarono non tanto della chiesa in toto quanto: uno della chiesetta di s.Agostino; uno della cappella maggiore; uno della cappella di s.Nicola da Tolentino.

Il fatto che le terre appartenessero ai Doria  (come altri vasti appezzamenti nella Valpolcevera (cappelle a Certosa) ed a Cornigliano (s.Erasmo di Campi)), implica che vicino doveva esserci anche una loro villa o quantomeno una casa, estiva o agricola; ma non è dato sapere quale delle tante in sicuro possesso alla famiglia trecento anni dopo. E’ pensabile che sia quella detta anche Monticelli perché –pur abitando i Doria in città- quando pensarono opportuno erigere una chiesa per comodi propri, quindi ‘proprietà privata’, sicuramente la vollero vicina, al massimo cento metri  verso la marina dove già i monaci prestavano un servizio, ed anche per non dover  andare fino a San Martino  del Campasso, non solo per comodità ma soprattutto per la pericolosità di allontanarsi dalla villa, causa le sanguinose diatribe tra guelfi e ghibellini.

   Sul quotidiano ‘Il Cittadino’ si scrive: “ha il suo ricordo più antico in un documento del 1191”. Il Novella scrive “Dell’esistenza della chiesa ne abbiamo i primi ricordi nel 1206, ma non precisa quali ricordi.

Presumibilmente fu eretta nuova, a fianco della chiesuola preesistente di sant’Agostino (come già detto, per questo chiamata “Cella” sottintendendo quella ove furono depositate le reliquie del Santo), scegliendo che avesse già dall’ inizio le caratteristiche di una più grande chiesa ad uso familiare (visto che -per il popolo- era già eretta la parrocchia di san Martino nella strada per andare al Campasso, anche se laggiù era un pò decentrata, ma più sicura da incursioni dal mare).  Da loro, in questi anni, fu affidata (e resterà fino al 1427 con il card Fieschi) a dei canonici regolari Agostiniani, della Congregazione di santa Maria di Crescenzago, frazione di Milano (Alizeri aggiunge: introdotti da un certo Penoto).

    Risale al genn.1211 un primo documento testamentario stilato da un sacerdote chiamato Donadeo -canonico della Cattedrale genovese- che  cita come già esistente e funzionante “ecclesia sanctae Mariae de Cella” quale beneficiaria di una donazione di 5 soldi (invece 20 a s.Andrea di Sestri)

Altro testamento del 1212, 26 gennaio: «Disposizioni testamentarie di Simona Doria. Fra gli altri legati ”..., a S.ta Maria della Cella per un calice soldi 40,...quas mihi ordinavit archiepiscopus per penitentiam quod eis preberem. Fatto nella casa di Oberto Doria. Testimoni Pietro Doria e Nicoloso Doria il giovine”».

   Nel 1241, la chiesuola, che doveva essere molto semplice e poco strutturata, vicina al mare ma sperduta nella campagna, circondata da poche casupole fatte di terra e paglia, appare sempre gestita dagli stessi frati, di Crescenzago legati a Pavia;  il cui superiore  Ambrogio, aveva il titolo di prepositus (gli agostiniani si divisero poi in più gruppi; il principale riformato fu quello degli ‘eremitani scalzi’ nati nel 1385 sotto il pontificato di Urbano VI;  sopravvivono anche gli ‘eremitani calzati’’, la ‘compagnia della cintura’ e vari ordini di monache), ed il cui nome (con tale titolo) compare in un atto notarile datato 28 agosto 1241 in cui una certa Simona, moglie di Giovanni Fabro di Alba, gli vende un edificio in Fossatello.

 

 

2.A== chiesa di N.S. DELLA CELLA==primo  rinnovo

In quei tempi esistevano i signori, il clero ed i servi. Questi ultimi, migliorando le condizioni economiche formarono un altro ceto, la borghesia; che a sua volta divenne capace di aumentare la produzione agricola ed artigiana, facilitando la navigazione – e con esse il commercio ed i traffici.

   Fu nel 1253, che un Bartolomeo Doria provvide a pagare la edificazione di un convento e la ristrutturazione ex novo sia della chiesa (e forse anche della cappella di s.Agostino in quanto quest’ultima lo fu ma da un Bartolomeo di un secolo posteriore).

Ciliento accredita l’ipotesi  che il nome ‘Cella’ provenga dalla iniziale chiesuola di sAgostino. La chiesa sarà eretta a croce latina, ad una navata, con la volta in legno e le crociere di pietra a cordonata (quelle ancora visibili in fondo alla navata sinistra), con lunghezza quindi praticamente identica a quella precedente, più corta di una campata; ed è incerto se - al posto della cupola - ci fosse un tiburio; il 21 ottobre di quell’anno (Regesto di vPloc.II.246), Adalasia de Guidone, volendo entrare in religione e farsi monaca, in una camera della chiesa fece testamento lasciando L.5 a sant’Andrea  e soldi 10 ai frati minori di Sestri.

   Risulta che nel 1274 ebbe a governo un priore chiamato Tomaso (“Presb.Thomas prepositus S.Marie de cella de Sancto Petro Arene”: dal Foliatium Notariorum vol VIII.27).

   Nel 1313 fu priore frate Gabriele; in presenza dei canonici (o fratelli) fa procuratore un certo Facino –prevosto della cattedrale di Tortona- per presentarsi in Curia a Roma sia per vertenze di liti che per impetrare dal Papa alcuni privilegi.

   Nel 1314 assieme ad altre chiese tra cui s.Bartolomeo della Costa, beneficiò del testamento di Stefano de Arena. Mentre il 3 luglio una certa Dirneta, moglie di Clavarino da Cornigliano, dinanzi al Vicario arcivescovile, accusa sia il prevosto frate Gabriele che frate Bertrame canonico per ingiurie contro essa: essendo morta Pasca madre dell’accusatrice, i due si erano rifiutati di seppellirla nel cimitero della chiesa adducendo essere di mattina ed in tempo di messe. Il Vicario, (tramite il notaio Leonardo di Garibaldo cancelliere arcivescovile)  mandò a chiamare i due che però non comparvero adducendo essere la Chiesa esente dalla giurisdizione del Vescovo ed immediatamente soggetta alla s.Sede (era un privilegio particolare, dimostrato con lettere apostoliche della dipendenza da Crescenzago). Il priore successivo Giorgio, assieme al canonico Guido, compare in altri due atti (del  notaio Antonio di Ottone del 15 giugno 1328, e del notaio Giorgio de Camulio del 9 settembre 1338)

Nel 1381  fu prevosto, un certo Giovanni, ricordato nel gennaio di quell’anno nel Foliatium Notariorum vol.III

È però di pochi mesi dopo che i Canonici di Crescenzago cessarono la reggenza della chiesa (sia perché il numero dei frati era gravemente scemato, sia per l’incendio e distruzione del monastero lombardo d’origine, coincidenze ambedue che determinarono il loro lento disciogliersi fino ad estinguersi). Con essi scompare il titolo di prepositus.

Un atto notarile del 28 luglio 1383 cita tutta una serie di priori, tra i quali “frater Jacobus de burgo bassignane prepositus ecclesie Sancte Marie de Cella de Sancto Petro arene canonici regulares Ordinis S.ti Augustini”

2.B ====Chiesa N.S. della Cella====secondo rinnovo

   Sappiamo che nel 1385, i Doria – già da prima del 1200 possessori in zona di vasti appezzamenti di terre (compreso Borzoli, Sestri e Cornigliano ove fu ospitato quel Branca Doria ricordato da Dante Alighieri)- decisero di ingrandire ulteriormente la chiesa strutturandola a tre navate, con le volte a crociera, ovviamente più corta di una campata; e di ampliare l’annesso convento; i vecchi muri vennero gradatamente abbandonati o progressivamente inglobati nella nuova edificazione, al punto che tutto il precedente complesso scomparve all’osservazione diretta, rimanendo ignorato nei tempi. 

  Lo storico Schiaffini segnalò l’esistenza di una targa, murata su un angolo di una  casa adiacente, nella quale si faceva cenno a questa nuova erezione, e facendo supporre la precedente chiesuola.  Sarebbero stati Battistello Doria (sul Battilana non c’è) e  Giacomo di Borgo (“Jacobum de Burgo”: ovvero “del borgo”, di San Pietro d’Arena? Si presume lo stesso, frate,  citato 11 righe sotto) = «MCCCLXXXV die prima maii. Ad honorem Dei et B.Mariae de Cella et omnium sanctorum per nobiles et egregios viros dominos Baptistellum de Auria et Iacobum de Burgo tempore felicissimo fuit hoc opus tamquam patroni fundatores et edificatores ecclesie in remedio animarum suarum».

Appare chiaro che sono due uomini, e non – come cita Ciliento - solo Battistella Doria; ed anche  comunque non da porsi come costruttori del 1206.

2.C======Chiesa N.S. della Cella==== Commenda

L’anno dopo, 1386, venuto a cessare in forma completa l’impegno dei Canonici Agostiniani, i Doria concessero al cardinale di Genova, Ludovico Fieschi (al tempo di papa Urbano VI - 1381), di scegliere per sé o di dare l’incarico di amministrazione del complesso, divenuto Commenda; questi scelse il canonico fra Giacomo De Borgo (lo stesso del ‘Iacobum de Burgo’ della targa del 1385), della Congregazione dei Canonici Regolari di Mortara che col titolo di ‘conductor ecclesie S.Marie de Cella’ gestì, ma solo per pochi anni, il convento (il 13 marzo 1386 già compare col notaio Foglietta dare in locazione una terra della chiesa).

  Nel 1387 l’arcivescovo applicò una tassa straordinaria imposta dal papa Urbano VI (detta “Lodo per tasse”) al fine di ricuperare denaro speso in guerre e contro gli scismi; per il ‘Monasterium de Cella’ la  cifra fu di 10 ‘libre’ (o soldi, da pagarsi alla Camera Apostolica perché la Chiesa è “exempte” dalla giurisdizione dell’Arcivescovo).

   Nel 1389 appare come rettore-conductor l’arcidiacono della Cattedrale, Domenico Fieschi (egli, aderendo alle idee dell’antipapa Pietro di Luna, fu privato di poteri; ma ravvedutosi alla chiesa di Roma, fu reintegrato il 6 gennaio 1411, con atto del consiglio degli Anziani sottoscritto dal marchese di Monferrato); il tutto rimarrà immutato sino alla sua morte, avvenuta in Roma il 3 apr.1423.

   Sempre più la chiesa, lambita dalle onde sul fianco, in asse con la strada vicina, con vicino il castello e poco dopo il monastero del santo Sepolcro, coagulò attorno a sé -mantenendo le caratteristiche della chiesa di famiglia- il primo nucleo abitativo vicino al mare, sia popolare che poi aristocratico, seppur la spiaggia fosse più a rischio di attacco nemico –

2.D=========Chiesa N.S. della Cella ===Domenicani  

Nel 1422, subentrano i frati predicatori Domenicani. Lo si dedurrebbe da uno scritto - segnalato dal Remondini - riguardo frate Paolo Vivaldi, genovese del convento di s.Agostino a cui il Generale dell’Ordine diede l’incarico di «poter accettare per la nostra religione la chiesa di s.Maria de Cellis, e di avere cura speciale di quella e di tutte le altre case ad essa spettanti». Venne così creato Vicario Generale, sia del convento di s.Agostino che della Riforma, da trapiantare nei conventi di Belvedere e della Cella. Ma l’incarico durò poco, sino al successivo passaggio di religiosi.

    Remondini riporta uno scritto relativo al 1425 in cui si segna che Giovanni Doria q.Bartolomeo fu mandato a Chiavari come capitano degli armati, e dopo altre notizie la lettera conclude che “esiste sua cappella nel claustro di s.Maria della Cella del 1446”: Remondini pensa che ‘claustro’ sia riferito all’antichissima chiesetta, e non ad un altare nella chiesa.

   Datata 10 febbraio 1427, Remondini riporta a pag. 36 una lettera in latino, dalla quale si legge che per aiutarli furono esentati dalla gabella –solita a pagarsi - di 15 misure di vino. A deciderlo erano stati “ Cardinalis -Ducalis Ianuensis gubernator - et Stectabile officium dominorum ancianorum - in totali et integro numero congregatum - presentibus etiam ac sedentibus et consultantibus IIII ex protectoribus Sancti Georgii et totidem Capituli”; a favore di “novos fratres predicatores de observantia”.

   In altro documento di quell’anno, si legge che cappellano era frate domenicano Cristoforo Spinola dell’ordine dei predicatori; e del patrono Ideto Lercari “ad quem ius patronatus spectat”: come dire che non era più dei Doria a meno che il Lercari non avesse sposato una Doria.

 2.E=======Chiesa N.S. della Cella======Benedettini

Ma nel 1436, dopo soli nove anni, su ordinanza del papa Eugenio IV (nel corso di una generale revisione ed organizzazione delle strutture ecclesiali liguri), questi lasciano la guida -sempre  provvisoriamente- ai Benedettini della badia di San Benigno, della congregazione della Cervara, che avevano preso le redini della badia di Capodifaro nel 1421 e che qui rimasero fino al 1440-1 (da Firenze, atto del 29 nov.1435, papa Eugenio IV diede mandato all’abate Domenico Vento del monastero di Capodimonte di procedere all’unione del priorato di S.M.della Cella al monastero di san Benigno.  Il commissario delegato del Papa, procedette all’unione in data 17 febb.1436 davanti al notaio Bartolomeo de Valarano).

2.F=======Chiesa N.S. della Cella =====Agostiniani

1441: finalmente in questo anno (per bolla emanata in Firenze sempre dallo stesso  papa Eugenio IV su istanza del p. Giovanni Rocco Ponzia,  pavese ed autore della riforma agostiniana lombarda, che sarà il nuovo priore del luogo, e che poi verrà beatificato),  subentrano in forma definitiva –ovvero sino al 1798- i padri Agostiniani Calzati, della congregazione di Lombardia (o Eremitani lombardi di sant’Agostino). Nella chiesa di SM della Cella in quell’anno sono numericamente il secondo approdo dopo quello di Milano, accompagnati da altrettanto nutrito e vigorosamente spirituale gruppo di monache;  costituiscono così una specie di testa di ponte per sviluppare nuovi fertili nuclei di religiosità e di civiltà.

  Questi manterranno l’amministrazione del complesso monastico per oltre tre secoli, fino al 1798 quando -per ordine del governo democratico-, dovranno abbandonare chiesa e convento.   

Sono rimasti famosi alcuni religiosi che vi abitarono:  da ricordare il  genovese Benigno Peri, dotto della chiesa del XV secolo, divenuto beato; e p. Battista Poggio, nobile genovese nativo di Rapallo, fondatore (anno 1450) di un’altra riforma agostiniana  (che, da lui ebbero il nome di Battistini, con chiesa e congregazione presso il Bisagno).

   Il 18 nov. 1442 il priorato di S.M.della Cella risulta debitore di 450 lire genovesi nei confronti di Raffaele Imperiale; questi cedette il credito nel 1455 a Francesco di Torriglia: pertanto Bartolomeo Doria figlio di Giacomo a nome del priorato della Cella si riconosce debitore a quest’ultimo. Infine però il debito viene ceduto (19.5.1455) a Paolo de Rocha priore di s.Benigno  Nella stessa data 18.11.1442 il priore Giovanni Rochus de Portiis di Pavia, donò al monastero di san Benigno sei luoghi delle compere di san Giorgio e l’atto di donazione fu ratificato pochi giorni dopo da Gerardo da Rimini, priore generale dell’ordine agostiniano.

É datata 1446 la lapide che si trova nella chiesuola di s.Agostino relativa ad una sua riedificazione (vedi a s.Agostino).

   Nel 1453, appena sistemato il chiostro  (le tracce appaiono su una parete, riferite ad una porta: i mattoni appaiono gli stessi della ristrutturazione della cappella di sant’Agostino fatta nel 1446; si suppone inglobasse la cappella stessa. Il chiostro andò parzialmente distrutto in un bombardamento nel 1944, liberando però la chiesetta di sant’Agostino rendendone leggibili le forme)Bartolomeo Doria q.Giacomo assunse il giuspatronato e volle adottare migliorie strutturali sovvenzionando vari interventi dei quali ben poco rimane ai giorni d’oggi: il chiostro, il campanile, la sacrestia ed alcuni locali adiacenti  hanno impostazione quattrocentesca; e nei sottotetti delle navate minori, la struttura degli alzati, sovrastanti le arcate fra i pilastri, è formata di conci di pietra di Promontorio perfettamente squadrati ed assemblati caratteristico delle maestranze antelamiche del XIII secolo (sappiamo che anche si costruì una cappella di famiglia (detta ‘cappella magna’); prolungò il coro (costruendolo come è ora, al posto dell’abside originaria) ed aggiunse due cappelle vicino all’ingresso).

 Era priore frate Giovanni Roceo e vi viveva assieme ad 11 frati. Furono ordinati far celebrare messa quotidiana e perpetua nella cappella, per l’anima del Doria.

La chiesa doveva essere a tre navate divise da quattro piloni per lato; lunga 61 metri (di cui 37 dalla porta alla balaustra, 17 da essa all’abside, e 7 il presbiterio e coro (Remondini, pag. 39)).

Questa data è fissata dall’Alizeri, mentre altri riportano il 1449)

  Il complesso monastico, vede nel 1464 la presenza di ben 12 frati, con priore p.Agostino da Crema, “aventi voce in capitolo” (da atto notarile)

   La cronologia continua, leggendo di ulteriori migliorie e momenti di vita particolari: quando:

- nel 1466   È di questa data – 17 marzo- la prima lapide del corridoiio della Sacrestia, con due stemmi familiari ai lati «+ Fratres . sancte . Marie //  de . Cella . pro.ter . multa // beneficia . acepta . obligarunt // se . ex . caritate . partecipes // facere . o . Lucianu . de . Grimaldis // et . Salvagiam . uxore . suam . oniv  // misar . officior . et . bonor . operum // m . perpetuu . conventus . istius // M . CCCCLXVI . die . XVII . marsii» (da tradurre*** e stemma***)

Lavorò nella chiesa il pittore Giovanni Mazone producendo per il terzo altare di destra, un cospicuo polittico dedicato a san Nicola

MAZONE= la famiglia Mazone, alessandrina,  è presente a Genova dal 1414 con Guirardo –padre- e Giacomo –zio-; proseguirà poi col figlio Giacomo, il nipote Giovanni ed i suoi figli fino al 500.  Notizie di Giovanni al massimo risalgono al 1453, quando era allora già pittore di certa fama; solo dieci anni dopo - nel 1463- gli venne ordinato un polittico per il Duomo (una Maestà; perduta) ;  lavorò poi in santa Maria di Castello (Annunciazione); per le più importanti famiglie, ed anche a Savona; nel 1481 è citato primo dell’elenco (‘matricola’) dei lavoratori dell’arte pittorica e scultoria.É considerato ‘la personalità più tipica dell’ambiente genovese nella seconda metà del Quattrocento...ove fu uno dei più reputati e influenti maestri’.  Quando compì l’opera era già famoso ma sono state ritrovate influenze d’oltreappennino –padovane- importate da artisti lombardi. Morì nel 1510 o 1512). 

Tosini scrive che si impegnò a produrre per ordinazione di Paolo Doria un polittico di s.Nicola da Tolentino (ne fa testo la descrizione sul libro datato 1644, di T. de Herrera, Alphabetum Augustinianum, edito a Madrid), oggi però disperso dopo la rimozione e smembramento avvenuti nel 1799; da e ricca di è la ricomposizione di questo polittico i cui singoli pezzi erano stati attribuiti ad altri: è accertato che si trovasse in chiesa alla data 1466 –quindi agli inizi della carriera-, e che avesse molte (si scrive dodici) immagini di beati.

S.NICOLA DA TOLENTINO= nato a sant’Angelo di Colle nel 1245;  visse,  e morì a Tolentino n comune di Macerata nel 1305. Vestì l’abito degli Eremiti di sant’Agostino e la sua vita fu tutta dedita alla carità, pietà cristiana, funzioni del ministero sacerdotale, contemplazione e predicazione. Fu canonizzato nel 1446 da papa Eugenio IV. É riproposto con alcuni attributi specifici: il saio da agostiniano; il sole nel petto;  un giglio nella destra; un crocificco ed un libro aperto nella sinistra (ove appare scritto “precepta // patris m//ei servav//i et ideo // maneo i//n eius dile//ctione).

IL QUADRO Stilisticamente viene giudicato di un pittore  ancora in fase di assimilazione di nuove correnti artistiche, lombarda, o padovana (squarcionesca in particolare), o Francia meridionale, o nuovi modelli liguri, essendo le figure in pose scultoree, segnati da sfondo a losanghe e con motivi vegetali e damascati). Caratteristici: gli angeli che suonano trombe con bandiera genovese stranamente bordata di blu

LA RICONGIUNZIONE è stata difficile, graduale e confusa, avendo avuto varie ipotesi da personali giudizi critici,  ed i singoli pezzi altrettante diverse attribuzioni. La progressiva ricostruzione prese l’avvio da episodi della vita di s.Nicola da T. Comunque, tutto è stato chiarito dall’Herrera che descrive essere stata una grossa composizione, di 2m,70x3m. I volti dei beati, quasi tutti rivolti a destra lasciano presupporre fossero incolonnati al lato sinistro; uno –quello di collezione svizzera- è con lo sgardo a sinistra e quindi faceva parte del pilastro opposto; anche san Nicola ha lo sguardo a sinistra.

In particolare, secondoZeri&DeMarchi (Dipinti, bibl.Gallino): 

= Al centro , tagliato in ovale per essere inserito in una cornice adeguata preesistente, e prima di un restauro, profondamente tagliato in due,  il Nicola in gloria o ‘l’apoteosi del Santo’ (l’ovale ritagliato, di cm. 97x52; conservato prima a Firenze in collezione privata e poi al Museo Collezione Civisa Amedeo Lia di LaSpezia fig.220 pag.237).

=Ai lati ,  figure di santi ed arcangeli, che sormontano riquadri più piccoli con dipinte storie della vita del santo Nicola; questi riquadri sottostanti non ci sono in alcuni

==a destra. sAgostino e arc.Michele (ambedue con sottoriquadro: ora propr.priv. milanese).

==a sin., erano s.GBattista (ora in pinacot Ambrosiana di Mi.) e l’arc Raffaele con Tobiolo (custoditi nei depositi del Kunsthaus di Zurigo).

=Alla base la canonizzazione di sNicoladT di 23,5x57,5 cm.ora in proprietà priv.

=Sui pilastri laterali del polittico, 12 tavole (sette note e 5 disperse) di vescovi e monaci agistiniani, beati, a mezza figura, disposti in verticale come pilastrini laterali del complesso. Tutti quelli con lo sguardo rivolto  a destra forse erano incolonnati a sinistra (beatoGuglielmo Da Cremona (Ambrosiana); b.Agostino da Roma (Ambrosiana); b.Giovanni Bono (Serrao, Mi.);  b.Giovanni da Rieti (coll..pri.v.); b. anonimo agostiniano (coll priv.);  e viceversa, con lo sguardo a sinistra (b.anonimo (coll.priv Svizzera)).

In altro testo (Algeri DeFloriani, il 400), non combaciano la posizione della ricostruzione:

==a dx arc Raffaele e Tobiolo (oggi a Zurigo, Kunsthaus, di cm.98,5x32,5, in precedenza assegnato a Bembo) + altri 2 mancanti

==a sin=  sAgo+arcMichele  e s.GBattista (cm.131x65; ora in una raccolta milanese; hanno alla base o predella due più piccoli riquadri descriventi 2 storie di s.Nicola fig. 217 presumibilmente presenti anche nelle altre immagini)

-nel 1469,  i Grimaldi  comprarono una propria cappella in cui tumularono due loro discendenti: Giacomo ed Agostino;

-nel 1471,  quando venne aperta una biblioteca;

-quando 1485 venne eretto il campanile più alto;

-quando, in un atto notarile (Baldassarre de Coronato), datato 25 marzo 1495 i frati  è scritto che fossero venti, con priore fra Benigno da Genova;  

-quando nel 1500 si  produssero per  cinquant’anni sempre con l’appoggio dei Doria, proficue migliorie strutturali -come la costruzione delle navate laterali, e fu sostituita la copertura lignea con un sistema analogo alle nuove navate,  in laterizio sostenuto da volte a crociera-.   Nel 1500, San Pier d’Arena è già un discreto borgo, con qualche villa patrizia, e terreni od orti che suscitano interesse dei nobili; aumentano le persone di ceto che usufruiscono della chiesa per continuare ad essere onorati anche dopo la morte;

--così il cardinale Gerolamo Doria, fu sepolto (senza epigrafe) nella cappella di san Nicola da Tolentino –cappella n° 8 navata destra (1558) assieme (1569) ad Antonio ed Ingone Doria; 

--la famiglia di Ceva Doria, che desiderò una cappella in proprio (quella di s.Nicolò);

--GioBattista Doria che scelse un sepolcreto personale; 

--1599 Lazzaro Grimaldi olim Cebà q. Domenico q Lazzaro: nobile del Portico di san Luca della vecchia nobiltà, difese il Garibetto contro i neo nobili; occupò l’Officio di Sanità ed il Magistrato della Misericordia negli anni della peste (1579-80); fu eletto  doge della Repubblica il 7 dic. 1597 fino al 15 febb.1599: per ragioni di salute, contro lo statuto dei dogi che proibiva  uscire di palazzo se non accompagnato comunque mai dormirne fuori, si permise a lui per la prima volta poter soggiornare per 12 giorni nella sua villa a San Pier d’Arena; benemerito per aver favorito la costruzione di una chiesa e convento agostiniani in Masone (feudo della Repubblica, quando Campoligure lo era ma dell’Impero) ove era signore e feudatario. Morì precocemente –si presume di infarto considerato il grosso dolore al petto, dopo aver subìto grave, clamorosa ed ingiusta umiliazione- il 16 febb.1599 (altri scrivono il 10 dic.1597 ma è la data di elezione a doge;  Roscelli dice il 7). Dopo solenni cerimonie durate alcuni giorni, venne sepolto in SM della Cella nella cappella di famiglia chiamata di sanPaolo,  il cui sepolcro è distinto da una epigrafe relativa al nonno omonimo “+ Jesus Maria 1506. Die 11 Genuariis Sepulcrhrum Nobilis Lazari de Grimaldis q. D.Dominici et haeredum suorum”;

--Filippo Doria, che aveva lasciato in dote annua lire 400 di cartularj;

--ed infine 1574-1604 i tre fratelli Ottaviano, Nicolò e Filippo Doria, q.GioGiacomo che eressero ciascuno un proprio sepolcro.

   Nell’anno 1582 mons. Bossio, quale visitatore apostolico, visitò anche la Cella includendola nei suoi decreti. Cita l’esistenza degli altari dedicati a s.Rocco ed a s.Paolo.

1584 É di questo anno una lapide posta nel corridoio della sacrestia.    Alizeri ricorda che nel 1596 Filippo Doria dotò la chiesa “d’annue lire 400 di cartularj, ed i...discendenti in più età l’arricchirono di monumenti marmorei, di pitture di plastiche e d’oro”.

Nel 1639 fu realizzata dagli Agostiniani la  cupola ellittica ben raccordata con il corpo delle navate (anche se il Remondini scrive che “vi sta a disagio, poiché basata sull’ultima arcata anziché sopra i soliti piloni, che formano crociera”); in contemporanea si effettuò la copertura con volta a botte della navata centrale in sostituzione delle crociere quattrocentesche.

Nel 1657 il 6 gennaio morì un figlio abortivo del nobile GioFilippo Spinola q. Bacchignone: due giorni dopo avvenne la sepoltura al Boschetto di Cornigliano. Il Parroco della Cella descrisse la cerimonia riferendo i complessi cerimoniali di quei tempi per nulla legati alla mesta situazione quanto ad un preciso e pignolo cerimoniale che prevedeva l’ordine dei presenti in base al censo: i seggi a sedere, il numero delle incensazioni, perfino quanti passi fare, diversi per ognuno a cui andare incontro per salutare; queste precedenze e regole erano fonte di ininterrotte liti -non sempre pacifiche- tra personaggi laici ma anche e spesso tra categorie di religiosi;  “...li preti di s.to Luca sono andati sotto la mia croce essendo stata la prima; il mio curato è andato a la mano dritta del curato di s.to Luca e io per cortesia mi sono compiaciuto di dar la mano dritta al sig. Prevosto di s.to Luca...”

Durante la peste del 1657, nel convento gestito dagli Agostiniani di Lombardia, vi furono 8 morti; dei tre sacerdoti andati a servire nel lazzaretto di S.Pier d’Arena aperto nel convento di s.Giovanni Battista (oggi s.Gaetano-Don Bosco) due morirono ‘per la carità’ ovvero per assistere il prossimo: furono i RR.PP. Pietro Canale e Gio.Agostino Mazzola. L’altro monaco, tal AntonioMaria Giudice riuscì invece a risanarsi e vi restò molti mesi a servizio.

Dal 1663 visse nella comunità agostiniana della Cella, Ludovico Della Casa, sacerdote letterato, scrittore, molto apprezzato come predicatore, disponibile ed alla mano, accreditato nelle alte sfere religiose, civiche e dalla povera gente. Morì –forse a Genova- nel 1693.  Alla stessa data, il 5 ottobre, il mag.co Giulio Levanso q. Ugone , prima di entrare nel monastero dei Padri Agostiniani della Cella, promette di pagare 400 £ di Ge., per i suoi alimenti e vesti durante il noviziato (Regesti di vP II.270).

Il 2 giu.1760 appare priore p. Felice Leonardo Chiappara.


Alla banca Carige è stata regalata una carta-progetto topografica dell’ing. Giacomo Brusco – del genio Militare della Repubblica, datata 1782, che sappiamo valente e preciso relatore di tante zone genovesi, nella quale si legge che davanti all’ingresso della chiesa della Cella, esisteva allora una cappella-oratorio, con abside verso levante, descritta sotto, quando la chiesa fu allungata.


Nel 1795 il convento alienò dei libri della biblioteca degli agostiniani scalzi che la gestivano; tramite il libraio P.P.Pizzorno 22 pezzi furono acquistati da Giacomo Filippo Durazzo pagandoli 240 lire genovesi (in altre pagine scrive ‘unico fortunato baratto col convento’; in altra pagina ’lire 240 pagate per due edizioni moderne prese in cambio’), quasi tutti i libri preziosamente rilegato in marocchino rosso da Carlo Zehe. Tra essi, tre manoscritti; venti incunaboli; la ‘Polyanthea’ savonese del 1503; edizioni moderne delle opere di sant’Agostino; la ‘Summa casuum conscientiae’ di Baptista de Salis, necessari allo studioso per rintracciare le origini della stampa a Genova; una ‘summa theologica’ di s.Antonino del XV secolo anch’essa rilegata in marocchino rosso dallo Zehe che attribuì l’opera a s:Tommaso, su cui fu scritto una annotazione di possesso “ S.Mariae de Cella extra Ianuam ad usum fratris Cypriani de Ianua. Frater Paolus (Olmi) de Bergomo vicarius g(eneralis) manu propria”; un volume stampato a Genova nel 1474; altro con due scritte ‘ad usum fratris Io. Marie Bog. (Boggio?) de Taurino’  (vissuto nel XV-XVI sec) e ‘ad usum fratris Basili de (?)’.

2.G======CHIESA n.s. DELLA Cella===========sfratto

Nel 1798, per ordine governativo (4 ottobre), vengono allontanati i religiosi, alcuni licenziandoli dalle funzioni ma i più sfrattandoli (a spese del Comune) e concentrandoli in pochi conventi (nel 1795 in Francia si formò il Direttorio, consiglio esecutivo composto dai cinque membri giacobini più estremisti e che ebbe vita fino al 1800 quando rientrato Bonaparte dall’Egitto non tolse loro l’autorità. Pertanto, nel marzo 1799 venivano espulsi i Carmelitani dagli Angeli, i Benedettini di san Romualdo da Certosa ed i Benedettini da s.Nicolò del Boschetto; e nell’ottobre il governo giacobino democratico autorizzò ad incamerare i beni conventuali evacuati.

Concentrata così la funzionalità religiosa, il Municipio locale ne reintegrò la pratica, esponendo una petizione (ininfluente il parere della Curia) per convertire in parrocchia la chiesa della Cella al posto di san Martino (che era l’ultima Plebania della valle di Polcevera).

In data 13 marzo 1799 fu ottenuta l’autorizzazione dal Consiglio dei Sessanta, firmato Torre.

2.H =======Chiesa N.N. della Cella=== parrocchia

Il  5 aprile 1799 un ordine comunale nominò la Cella parrocchia del borgo (essendo SanPierd’Arena sede di governo = è l’ anno in cui Massena inizierà ad essere assediato in Genova), trasferendole – anch’essa a spese della comunità sampierdarenese - il titolo e gli arredamenti da SanMartino, divenuta scomoda per i fedeli ed in abbandono progressivo.

Tutto il trasloco fu compiuto nel breve tempo di 23 giorni, dal 13 marzo al 5 aprile. Furono ricuperati il masso del SS Salvatore –che fu posto nel secondo altare destro-, il quadro di s.Bernardo del Grechetto, un quadro di s.Pietro ed una statua in legno del SS.Rosario); i locali dei frati saranno convertiti in abitazione per il nuovo parroco; per scuola, causa l’occupazione delle case da parte delle truppe francesi, mancavano sedi di scuole: per cui alcuni maestri avevano chiesto alle autorità “una stanza nel convento della Cella per esercitarvi le loro funzioni e i ragazzi non rimangano così privi di tanto bene”; magazzini sequestrati, esclusi quattro vani a piano terra  posti ‘vicino alla casa detta del forno’.

Fu poi insignita anche del riconoscimento di pieve ed arcipretura (il suo arciprete diviene anche Vicario Foraneo avendo a suffragio altre parrocchie (san Gaetano, Grazie, nonché a Cornigliano San Giacomo, S.M.di Lourdes (a Campi), e San Michele a Coronata). 

Malgrado questi riconoscimenti ed apparente libertà, il regime francese napoleonico manteneva un atteggiamento ambiguo: concedere la funzionalità religiosa ma limitata e controllata politicamente, mentre in realtà alle chiese erano stati appena  sequestrati tutti i beni preziosi in dotazione: denaro, oro, monili ed argenti: il Commune (scritto alla francese) – per ordine del Commissario del Governo della Polcevera da cui dipendeva San Pier d’Arena - aveva provveduto a registrare i preziosi voce per voce ed insaccarli, per inviarli al ‘cittadino Ministro delle Finanze’ che li prendeva in carico in nome della Nazione (lo scopo era pagare i soldati  il materiale bellico e tutte le miriadi di spese necessarie all’alleato della Repubblica. Non è dato sapere che fine fecero: Massobrio dice che nel 1804 Napoleone stesso fece restituire a mons. Spina l’argenteria prelevata dal governo democratico (a parte il catino del Santo Graal ‘arraffato’ dai francesi quando abbandonarono la città, e restituito poi dai soldati russi, però sbrecciato).

Alla Cella erano stati ritirati valori preziosi per la somma di lire 6.048, più lire 159 alla Compagnia del Rosario (tra cui due pendenti d’oro). Girava allora un canto popolare di protesta, in trallalero con una voce maschile in falsetto (pubblicato anche su “La Gazzetta nazionale della Liguria” il 30 maggio 1801), che diceva “tanti ôri e tanti argenti – ch’eran drento e nostre Gëxe – e che tutti a nostre speise – eran staeti fabbrichæ! – prima i çinque, poi i trenta – tutti unïi coi sciuscianta – se n’ân ben impîo a pança, - ma ghe i faiêmo vomitâ!” ; significativa l’allusione al Consiglio dei Sessanta.

1802  (17 giu) per il giorno del Corpus Domini, in un tentativo di rinormalizzare i rapporti con la Chiesa assecondando i desideri del popolo, fu concessa una solenne processione. Dopo pranzo, una infinità di persone, donne con fiaccole, sacerdoti, confraternite, truppa francese e banda, concorse a riempire le strade del giro: iniziato dalla porta laterale si avviò verso il palazzo del Vento. Facendo varie pose in altari preparati all’uopo; in questa prima posa, sulla marina; una seconda in una cappella privata sulla stessa crosa; una terza in un altare preparato ai piedi del ponte di Cornigliano; quarto, tragitto di ritorno fino all’Oratorio dei Morti; poi altro fino alla chiesa delle suore Terziarie; poi al piccolo oratorio in testa alla crosa Larga; poi altro fino al cancello del palazzo DeFranchi alla Coscia; da qui ad altro altare ai piedi della crosa Larga; e rientro in chiesa.

Il 14 maggio 1804 il “Magistrato dell’Interno” stilò “l’elenco delle  parrocchie comprese nel territorio della Repubblica Ligure, al tempo della sua aggregazione all’Impero Francese”; nel ‘quarto Cantone, di Rivarolo’ al ‘n° 2 ci sono SPier d’Arena e Promontorio’

Nel 1807 Napoleone tentò colpire l’Inghilterra imponendo la chiusura al commercio inglese nei porti europei. Papa PioVII rifiutò per Ancona e Civitavecchia; cosicché il francese incaricò il re di Napoli Gioacchino Murat- di occupare Roma, detronizzare il Papa, prenderlo prigioniero e cercare di sollevare il popolo contro di lui; egli obbedì, sino alla sua misera morte a Pizzo Calabro due mesi dopo. Intanto, essendo stato deciso di esiliare il Papa, fu inviato a Savona. La feluca prima di arrivare a destinazione sbarcò in gran segreto il S.Padre sulla spiaggia di SPd’Arena.

Alla riva già l’attendeva in gran segreto una carrozza con la quale  fu trasferito dapprima a Campomorone da dove poi, via terra e sempre in incognito, fu avviato a Savona). Abdicato Napoleone il 6 apr.1814 il Papa tornò a Roma.

Pio VII venne di nuovo a Genova nel mag.1815. In occasione ripassando per SPd’A si fermò alla Cella visitando la nostra  chiesa (il fatto viene ricordato in una lapide -dapprima affissa sul frontespizio, poi all’interno, subito a lato dell’entrata-). Ripercorse il tragitto fino a Campomorone in un tripudio di folla, 53 colpi di cannone, soldati in parata, fiori e drappi alle finestre.

   Nel 1818 nelle sale del convento venne aperta una ‘scuola di carità’ , su invito del sindaco rivolto a ‘ecclesiasti che sentissero lo zelo abbastanza per esibirsi a fare insegnamento gratis’…’e, se abili, ne sarà fatta menzione onorevole al processo verbale del Consiglio come benemeriti della scuola e della Comunità ‘.

Viene scelto il maestro Giuseppe Comandi, già agostiniano a Bossana, di anni 62, che inizierà il 26 aprile ed al quale verrà corrisposto un onorario diescluso giovedi £.400 trimestrali  anticipati; dovrà dire messa tutti i giorni. Altre somme sono stabilite per libri, quaderni, cancelleria e premi agli studenti più diligenti e savi.

   Carlo Felice scese a Genova nel 1822 in occasione della celebrazione del centenario della traslazione dell’effige del ss.Salvatore, dalla Lanterna a san Martino. Il Salvatore fu riconosciuto patrono del borgo scalzando il titolare san Pietro (ancora riconosciuto titolare e onomastico della città, da mons. Olcese nel 1913).

   Il 2 marzo 1825 il municipio stanzia £. 1000 per l’acquisto di un orologio per la chiesa. 

   Nel 1826 morì il parroco arciprete Giovanno Luxoro, e fu sostituito in luglio da don Giuseppe Dova. Il consiglio comunale accettò delle modifiche alla canonica, affinché divenisse più decente, dopo la perizia fatta dall’arch. Scaniglia, per £. 4371,42.

   Nel’anno 1828 avvenne un terremoto che fece crollare la guglia del campanile. Esso fu riparato nel 1896 innalzandolo fino a 45m.

  Nel 1836 divenne arciprete don GB Antola, qui trasferito dalla cura di sanMartino dove operava dal 1800. Rimase in carica sino al 1843 quando subentrò per solo tre anni don Angelo Boccardo. Fu in quest’ultimo anno di transizione che dagli impresari Nicolò Scaniglia e Domenico Fossa furono appianati i livelli del pavimento, delle mense agli altari ed altri lavori; arcivescovo era mons. Tadini scomparso nel 1847.

Nel 1843, dagli impresari Nicolò Scaniglia e Domenico Fossa furono appianati i livelli del pavimento, delle mense agli altari ed altri lavori.

Si iniziò un nuovo progetto – affidato all’architetto sampierdarenese Angelo Scaniglia – di allungamento della navata, da migliorarsi con rifacimenti e decorazioni barocche  (che praticamente prevalgono ancor oggi, e formano un’insieme architettonico più ricco) lasciando intatta però la struttura del XIII secolo, in particolare rimettere in evidenza la volta a crociera nella navata davanti alla porta della sacrestia

Negli anni attorno al 1860 venne aperta la attuale via Giovanetti, cercando di favorire la confluenza verso la chiesa; anche se costruirono case in ogni angolo di orto disponibile e lasciare le vecchie troppo gravemente a ridosso della facciata 

  Dal 1846 fu arciprete il genovese don Stefano Parodi, già arciprete di Sori (che lasciò l’incarico nel 1862 per divenire canonico o magiscola della Metropolitana di s.Lorenzo; morì  il 30.12.1891). Quando nel 1853 il Comune deliberò di aprire una biblioteca pubblica comunale, il parroco fu tra i primi a collaborare regalando 200 libri (che furono accettati dal Consiglio ‘unanime e con senso di gratitudine’; un resoconto molto distante nel tempo (1929) stilato dal bibliotecario, precisa 162 volumi). Fu sostituito da don Michele DeCavi, da Voltaggio, che rimase in carica fino al 1874; poi dal chiavarese don Stefano Daneri fino al 13 giugno1883; da don GioLuca Pizzorno  da san Biagio Rossiglione,  sotto cui il territorio di SPdA venne diviso in tre parrocchie (questa con 14mila parrocchiani) e  fino al 1891 quando anche lui fu eletto canonico della Metropolitana.

   Nel 1850 si realizzò il progetto dell’architetto Angelo Scaniglia: l’allungamento della navata,  alcuni rifacimenti e decorazioni barocche  (che praticamente prevalgono ancor oggi, e formano un’insieme architettonico più ricco) lasciando intatta la struttura della volta a crociera del XIII secolo davanti la porta della sacrestia.


Datato giugno 1853 un disegno di Angelo Scaniglia riproducente la pianta della chiesa allungata, il cui estremo a nord andava a lambire una casa – di proprietà Samengo - la cui entrata era in via della Cella:


evidentemente –per aprire via Giovanetti- la casa fu tagliata per quanto necessario ed ora rimane la facciata -ovviamente senza portone- con due sole entrate per negozio, corrispondente ai civv. 14 e 16rosso, ad un solo piano. Ricordiamo, riferendosi a questa casa, che nella carta topografca del G.Brusco del 1782, appare evidente che l’edificio, in quegli anni, era una chiesina della quale nessuno parla. Si ragiona descrivendo essere stato un oratorio confraternale collegato alla chiesa; il quale, nell’allungamento, fu  parzialmente inglobato nella chiesa in modo tale che -appare evidente-  la prima cappella attuale, ha una sua autonomia architettonica rispetto la controlaterale. L’altra parte di quell’oratorio dimezzato, rimase - all’inizio - con la stessa funzione di  oratorio divenendo –a metà del 1800- quel vano a monte della facciata, occupato oggi dalla sez. sportiva calcio Cella.

 

Nello stesso disegno dello Scanglia,  il palazzo più a nord – attuale civ.2 - apparteneva ad Arnaldi così come quello di fronte che risulta il civ.2 di via F.Aporti, il quale di fronte – sul fianco della chiesa - non aveva la bassa costruzione nella quale ora ha sede il Cella calcio              

La facciata sarà completata nel 1896

Venne comperato ed installato l’organo Amati.

I due altari di fondo, che erano inizialmente rivolti verso il coro, furono lateralizzati ed in loro corrispondenza furono aperte le porte laterali.

  Negli anni attorno al 1860 venne aperta la attuale via A.Doria (oggi G.Giovanetti), cercando di favorire la confluenza verso la chiesa; anche se costruirono case in ogni angolo di orto disponibile e lasciare le vecchie troppo gravemente a ridosso della facciata.

2.I   Nel 1861 monsignor Magnasco  aprì per ‘dismembrationem a parochiali ecclesia matrice” due nuove parrocchie ‘paroecia nova sanctae Mariae Gratiarum” e quella “sancti Cajetani”, stabilendone i relativi confini (a ponente “viae Bovorum (nello stesso testo è chiamato anche ‘viae Bovum’ e ‘viculo Bovum’) ad occursum viae sancti Antonii (nunc via Mercato)...usque ad viam ascendentem ad colles (via dei Colli); ad oriente  littore maris cum recta linea per viam largam (via Larga).

   Nel 1876 la parrocchia conta 17mila anime.

   Si arriva a  quando nel 1881 vengono aperte le cappelle quadrangolari ai lati del presbiterio; ed a quando il territorio pastorale - della ormai divenuta città (1865) -  La chiesa viene intitolata a San Martino vescovo,  ed a santa Maria della Cella quale contitolare; mentre il Santissimo Salvatore, San Giovanni Battista ed san  Pietro apostolo, sono i Patroni.

Completando gli arredamenti ed abbellimenti interni.

   L’anno dopo, 1882, l’archeologo A.D’Andrade fu chiamato a controllare il ritrovamento di antiche mura, risultanti l’antica ‘cella di sant’Agostino’.

  Nel 1884 la parrocchia conta 23 mila abitanti (si sono aggiunti moltissimi operai immigrati per lavorare nelle officine metallurgiche). Il 16 lug.1884 l’arcivescovo mons. Saporiti divide il territorio in tre parrocchie (S.M.delle Grazie ad est;  S.Gaetano a nord-ovest); la Cella in centro, col titolo di arcipretura ed una presenza di 14 mila  fedeli.

   Nel 1885 furono aperte al culto le cappelle di NS dell’Olivo e di s.Pietro.

   Nel 1889 divenne parroco don Olcese Francesco da Cornigliano fu G.B., decimo arciprete della parrocchia e rimase in carica fino al 1915 quando se ne andò perché promosso abate di NS del Rimedio.

Egli nel 1896 rinnovò ed innalzò il campanile a 45m, arricchendolo di un concerto di sei campane. Scrisse e pubblicò un opuscolo sulla storia del SS Salvatore. Nel 1907  subì la spiacevole situazione di veder arrestare il fratello, don AngeloGiuseppe di 62 anni e coabitante nella casa canonica, accusato dopo severa inchiesta di “fatti nefandi e inenarrabili di cui furono vittime alcuni ragazzi minori di 10 anni, abitanti nella nostra città”. Questo turpe avvenimento di luglio si sommò a concomitanti accuse riguardanti i salesiani di Varazze (accuse rivelatesi poi infondate e false) ed un assalto  di ‘teppaglia’ al don Bosco di San Pier d’Arena ed a san Lorenzo di Genova.

 Nel 1896 il nuovo ed attuale campanile, arricchito di un concerto di sei campane è stato rinnovato ed innalzato sul troncone del primitivo   quattrocentesco.

Il giornale ‘la Settimana Religiosa’ del marzo 1896 annuncia  per le ore 5½ l’esposizione della reliquia della S.Croce.

   Negli anni 1896-8  l’architetto Scaniglia (secondo Novella e Tuvo; mentre Guida Sagep dice nel 1850)  completò la nuova facciata in stile classicheggiante, pur senza però un rigido rigore stilistico; comunque non ripeté il barocco anche esternamente;  fece dirigere il lavoro dall’ing. Nicolò Bruno (che si firmava “Niccolò”).

1909. il presidente della fabbriceria Felice Liberti, in memoria del suocero Raffaele Morando, fa restaurare - e con ciò definisce il vano da destinare al Battistero - gli stucchi della cappella Salvago, per opera degli artisti Piotti Carlo (stuccatore-confermato in tutte le ricerche); Rossi Angelo (non confermato nell’opuscolo Fides Nostra) e Ortelli Federico (marmista, citato nell’opuscolo di cui prima; e Pasciutti (per i bassorilievi in gesso ed i bronzi - idem precedente).

   Nell’anno 1913 si festeggia il SS Salvatore. Nell’opuscolo dell’ arciprete mons. Olcese Francesco si legge ricorrere la ‘festa XVIcentenaria costantiniana’ in memoria dell’editto di Pace e libertà della Chiesa emanato da Costantino nel marzo del 313 a seguito della vittoria ottenuta il 28 ottobre dell’anno prima su Massenzio (figlio di Massimiano) a Ponte Milvio. Ad esso conseguì il concilio di Nicea nel 325. Era anche ricorrenza nella nascita di Federico Ozanan (23.4.1813 a Milano, da genitori francesi, fondatore a Parigi della “Conferenza di s.Vincenzo de’ Paoli”). Ricorreva anche il 25° del dono della Madonna dell’Olivo (detta anche della Pace). In particolare -in quest’anno- fa rifare il tetto della cupola con aggiunta del lanternino.

   Nel 1915 la pieve è curata da don Giovanni Bozzano da Coronata.

Curò da subito i lavori dell’interno della cupola, affidando la direzione dei lavori coordinati dall’ing. Pietro Sirtori (che faceva parte della fabbriceria), aiutato da ampia squadra: dal prof genovese Carlo Dellepiane per i disegni ornamentali e tinteggiature; e pure per la copertina dell’opuscolo Fides Nostra; da Luigi Boni modellatpore di stucchi; da Teobaldo Pinto, scultore, autore delle 4 statue poste nelle nicchie; dalla ditta genovese Novarina per  i vetri delle finestre (su disegno del Sirtori); da Angelo Carpi, indoratore; dal pittore GB Moltedo (ritoccatura dei peducci e ripulitura delle pitture delle mezzelune); e sia dal pf A.Vernazza (affresco dei putti nelle cartelle delle arcate che reggono la cupola).

   Nel 1921, in preparazione del 2° centenario (1922) del ricupero dell’immagine del SS Salvatore, tutta la chiesa proseguì a sottoporsi al restauro; così in particolare vennero ad essere messi in atto: il tetto ed il frontone laterale a mare (affidati alla ditta Bartolomreo Rebosio); la cupola (esternamente da ultimarsi con lanternino ed -internamente- con stucchi indorature marmi e pitture=in particolare, mirando a far gravare il peso degli stucchi non sul canniccio della volta ma verso i lati: furono artisti in questo i giovani Mario Fornoi; Paolo Balocco; Umberto Colò modellista); cornicione; la volta della navata centrale (da ultimare e ‘scoprire’); ed i muri della stessa navata (nel settore soprastante le arcate, essendo artisticamente lavorati: si prevede la indoratura e pittura); fare per il SS Salvatore un apposito tempietto da porre a fianco del Battistero. Le navate laterali che non erano coperte dal finanziamento pubblico, trovarono la vil moneta tramite fiere con lotteria di oggetti regalati, iniziative di volontari e quindi venivano affidate alla volontà di singoli privati. 

   A don Giovanni seguì dal 1925 il nostro concittadino  arciprete Raffetto GB Emanuele, che nel 1933 appare avesse come curati don Luigi Adrianopoli e don Camillo Cavo; con l’incarico di gestire anche la prevostura di NS della Sapienza delle madri pie Franzoniane il cui prevosto era don Giovanni Schiappacasse. 

   L’anno 1929 vede l’apertura della specifica ‘cappella del ss.Salvatore’.

   Nel 1934, quale beni culturali, l’intero immobile, il chiostro ed il ‘battistero sporgente c/o Chiesa S.Maria della Cella’  furono separatamente vincolati e tutelati dalla Soprintendenza per i Beni architettonici; assieme poi, dal 1942 alla Cappella e Oratorio di s.Agostino.

   Nulla di rilevante successe, fino al 9 giu.1944 quando una bomba danneggiò il tetto permettendo infiltrazioni di umidità che erosero parte della Natività del Fiasella; devastò l’antico chiostro che andrà parzialmente perduto; venne danneggiata anche la chiesupola di San Pietro-Sant’Agostino, che nel frattempo era dimenticata, sommersa  da altre costruzioni che interamente la occultavano.

La Soprintendenza ai monumenti provvide allo sgombero delle macerie irrecuperabili; alla ricostruzione e restauro (un muro, una parte della volta); allo scavo tutt’intorno di una intercapedine atta ad evitarne ulteriore rovina; ed a traslocare le pitture.

   Nel 1950 era ancora arciprete vic. foraneo il sac. Raffetto GB Emanuele, e la pieve, arcipretura,  si chiama “S.Martino e S.Maria Assunta”.

    Parroco dal 1926, morì il 20 maggio 1957 don Emanuele Raffetto. Venne sostituito dal 28 giugno da don Bartolomeo Ferrari  (nativo a Sestri Pon., il 15 agosto -giorno dell’Assunta - del 1911, da genitori entrambi operai al tabacchificio nezionale. A dodici anni entrò in seminario a genova, divenendo sacerdote  il 15.6.35 (ordinato dall’arc. Minoretti) prestando servizio come coadiuvatore del parroco ab. Cavassa a sMartino d’Albaro e poi dal 1938 alla parrocchia NS. (Madonna) della Neve a Bolzaneto dove divenne parroco nel 1943. Durante il conflitto, con l’autorizzazione dell’arc. Boetto, la parrocchia divenne centro di raccolta per aiuti ai partigiani; nel 44, alla quale seguì –essendo ricecato dalla questura fascista- la via della montagna assieme ai partigiani,  divenendo “don Berto” il prete cappellano della Mingo. Nel 1947 fu inviato a ventimiglia, nella cosidetta ‘colonia degli sciuscià’: un edificio già appartenente alla Gioventù Littoria e ospitante i tanti orfani della guerra.

Nel sett.1954, richiamato dal card. Siri, divenne coadiutore del parroco (don Raffetto) della Cella; e nel 1959 Arciprete e Vicario foraneo (sino al 20 sett. 1991 quando nominato monsignore fu mandato in pensione). Non era solo un opttimo predicatore con alto carisma, ma anche infaticabile missionario locale, sicuramente vantaggiato dal suo precedente di partigiano ma anche per un carattere deciso e decisivo, forte specialmente per l’interesse al modo del lavoro. L’arciv. Siri se lo portò in un viaggio in Russia nel 1975. Era presidente della Croce d’Oro; della cooperativa il Giglio; delle prime associazioni rappruppanti gli handicappati. Scrisse alcuni libri della sua vita ‘in montagna’ (“Sulla montagna con i paertigiani”, “Prete partigiano” e “il Ribelle”). Mai mancò agli appntamernti di commenorazione dei fucilati alla Benedicta e dei monti liguri.


Grande amico della famiglia Mantovani (presidente della Sampdoria) fu chiamato a celebrare le nozze della figlia. Morì all’ospedale Villa Scassi, a 95 anni, il 21  aprile 2007).


   Al ‘vecchio’ e glorioso parroco mons. Ferrari, uscente per motivi di età, nel 1991 subentrò nell’incarico don Alessandro Tomaso Ghigliotti, che morì prematuramente per neoplasia all’inizio di novembre 2000; (Era arrivato alla Cella nel 1960, con funzioni di vice parroco, sino al 1973, tornando dopo una breve parentesi a Fontanegli; e come parroco, al pensionamento di mons-Ferrari.


Memorabile l’accoratoappello per la salvaguardia della chiesuola, lanciato il 18 marzo 1998; al quale seguì -l’11 aprile- l’ annuncio dell’ interessamento alla ristrutturazione da parte della Provincia, di Italia Nostra, dei Beni Ambientali della Regione, del Fondo per l’Ambiente Italiano: non sappiamo come sia finita ma…forse s’era vicini a qualche elezione?…

Nel novembre di quell’anno un concerto della ‘Poliphonia consort’ suonò per iniziare i festeggiamenti del duecentesimo compleanno della parrocchia.


Furono conclusi alla successiva  sagra del SS.Salvatore con bancarelle su tutto il percorso del carro col sacro Sasso, accompagnato dai fedeli, da bande musicali (la Risorgimento locale e la Filarmonica sestrese), da un corteo della Croce d’Oro; ed infine un concerto al Modena con il coro C.Monteverdi. Il 29 mag.1999 fu lanciato «l’invito a conoscere…» con visita guidata e tavola rotonda sul tema, presenti la Circoscrizione, il Comune e la Sovrintendenza ai beni ambientali ed architettonici nonché il Conservatore della Galleria di palazzo Bianco.

Nel nov-1999 fu riannunciato un restauro sia della chiesetta di sant’Agostino che del chiostro e dell’impianto elettrico.

Dal 4 mar.2001 divenne arciprete, con funzione ministeriale  di parroco (fu spostato da Busalla) don Carlo Canepa: egli è anche uno dei cinque Vicari del ponente, presidente del Consiglio Pastorale vicariale di San Pier d’Arena (il Vicariato locale, con (nel 2002) solo 19 sacerdoti e due diaconi copre una superficie di 3,2 km. con una popolazione di 45.054 distribuita in 9 parrocchie; tramite incaricati, gestisce un Centro di ascolto (in Cso Martinetti, 12/14r), la Charitas, Catechesi, Evangelizzazione; Giovani e Famiglia); ha come vice parroco don Migliori Carlo ed aiuto pastorale mons. Ferrari Bartolomeo (deceduto nel 2007).

Nel dicembre 2001 si ripartì con l’iniziativa degli ‘itinerari guidati’ compiuti da persone ultrabenigne e volenterose, nel tentativo di far scoprire l’opera d’arte locale mentre tutto intorno si sta avverando la desertificazione delle attività commerciali ed artigianali. Nel 2002 si parlò di ‘rinascita del centro storico’ con un finanziamento di tre miliardi (pavimentazione, illuminazione, zona pedonale). Ma ormai di promesse politiche...forse, non serve cambiare colore basta iscriversi al partito giusto).

Nel 2007 si sono concretizzate sia  la pulizia dei marmi della facciata (da quando -1850- era  stata progettata nuova da Angelo Scaniglia) e sia la restituzione del grosso quadro di GBCarlone, restaurato, di san Francesco Borgia.

Nel territorio parrocchiale ci sono circa 10mila anime; e come strutture religiose ci sono le M.Pie Franzoniane (con la Chiesa di NS della Sapienza e l’Istituto)

TRADIZIONI parrocchiali:

==viene descritto che – non specificato quando ma considerato la qualità dell’espressione, si presume già nel XIV o XV secolo -  nel giorno del Giovedì Santo si esponevano alcuni fantocci vestiti come i personaggi della Passione; e in tale circostanza venivano eseguite dalle Confraternite  le ‘Cantëgoe de Canandò’ (nenie, cantilene) ossia i canti della ‘coena Domini’ (il pasto comune con i poveri, simbolo dell’ultima cena, spesso preceduto dalla lavanda dei piedi). 

==La chiesa ha ospitato la ‘Confraternita di Morte e Orazione’. Disciolta con la distruzione nel 1935 dell’omonima chiesuola in fondo a via NDaste per far transito a via ACantore.  Tuvo segnala la presenza, nel 1826. di una Confraternita della Misercordia, che si era incaricata di somministrare razioni di pane, minestra e paglia ai detenuti nelle carceri comunali (il pane=2/3 di frumento, 1/3 segala-la razione/die 28 once (=750 gr.); (la minestra= per tre giorni- 125g. riso o pasta di frumento, 2 once di legumi secchi (o 4 verdi), condita con sale, lardo, butirro o olio).   

   Anche la ‘Confraternita di san Martino’, già disciolta con la distruzione dell’Oratorio omonimo (vedi vico Cicala-via A.Caveri), fu riattivata per sacrificio e tenacia di alcuni fedeli (alcuni parrocchiani, guidati e sponsorizzati dai fratelli Bisio gestori del negozio di sanitari e figli del farmacista Aristide) che, costituirono il ‘Gruppo spontaneo del SS.Crocifisso’. Dopo svariate avversità e numerose difficoltà, riuscirono a rifar fare il Cristo da processione (dallo scultore rapallino Osvaldo Cipolla che rispettò antiche tecniche di costruzione locali gelosamente custodite, usando il legno di un albero secolare di alloro dovuto abbattersi nel cortile della Croce d’Oro. Sono 115 chili  trasportati dai cristezanti o ‘portôuei’ ed aiutati dai tramutatori ‘stramûôei’, dovendo sfidare il peso sulle vertebre, la gravità, il vento, le fronde degli alberi, i fili tesi in alto, la fatica della camminata non sempre ritmica. Le grandi croci possiedono vistose ‘appendici’ decorative staccabili realizzate in lamierino argentato finemente lavorato a fiori ed immagini, rappresentazioni artistiche e simboliche dei doni e delle offerte dei fedeli. Ovvia una assicurazione per danni agli altri, anche se  mai utilizzata).

E con l’effige, rifare anche le vesti, ricuperare il gonfalone, mantenere e conservare alcuni  riti e tradizioni dell’antica confraternita.

     

confraternita s.Martino

confraternita pugliese                  

 

Seppur separate di fatto, ampia è la collaborazione con l’altra Confraternita sampierdarenese, quella di Promontorio anche se a livello pratico rimangono - tra le società del territorio ligure - frequenti contrasti e divergenze (per la storia della Confraternita di san Martino, vedi a vico Cicala).

Per tutte le Confraternite liguri, gestite da un priorato comune – che vede elette anche delle signore - in carica biennale, il 10 aprile è il giorno comune di inizio dell’anno sociale coincidendo con la festa di NS della Misericordia.

Nel 2003 i vescovi liguri hanno emenato una nota pastorale, bocciando nelle processioni certe musiche e le scenografie di forza e destrezza, onde favorire negli astanti il senso della pietà, del raccoglimento e meditazione specie quando in processione per strada; invitando i parroci a far sì che nei singoli oratori si faccia preghiera comunitaria ed esercizi di carità, catechesi ed istruzione

== La festa del SS Salvatore, è descritta nel testo

==La festa dei santi Cosma e Damiano, particolarmente ossequiati dalla confraternita della comunità pugliese, è anch’essa descritta nel testo

==L’U.S.Cella, che nel 2001 milita a mezza classifica, in 2a categoria girone C . Fondata nel 1960, fa parte della FIGC; ha i colori sociali giallo blu e campo sportivo usato è quello del Mauro Morgavi a Belvedere.

==Viene descritto che nel 1924 esisteva un ‘circolo Giosué Borsi(nativo di Livorno il 10 giugno 1888, fu scrittore autore di opere narrative e saggistiche, pubblicate postume, testimonianti una sofferta conversione religiosa. Ricordate “Testamento spirituale” del 1915, “Colloqui” del 1916, “Confessioni a Giulia” del 1920. Morì a Gorizia il 10 novembre 1915).  L’occasione è legata alla devastazione della sede da parte di prepotenti fascisti, che nel caos oltraggiarono pure l’ immagine del Sacro Cuore.

 

                   L’EDIFICIO 

per mia comodità ed usando una piantina tratta dall’opuscolo della chiesa, ho suddiviso in:

Chiesa ==Esterno==confini, campanile, facciata, cupola, chiostro

                Interni==cripta, pavimento, volta, cupola, cantoria, controfacciata, navate

sAgostino == sAgo....

 

ESTERNO  :

===I confini: Nella carta del Vinzoni i confini parrochiali sono ben definiti: a mare (tutta una serie di case di proprietà privata, due delle quali dei RRPP della Cella, altre dei Crosa, Nicolò Pittaluga, Magistrato della Misericordia, Camillo Costantini); a ponente (la crosa della Cella), a nord, di proprietà e sopra la chiesa, il chiostro e tre spiazzi ad orto (confinanti con gli appezzamenti dei Grimaldi Gerace, Ambrogio Doria, march.Giuseppe Serra); a levante (la proprietà dei fratelli Mongiardini che la separava da quella dei Cambiasio (sic)).

     

 confine di levante: -a sin. esterno della proprietà (a cui si accede da via San Pier d’Arena, con scala e  porticina che apriva al piano superiore del chiostro); -a destra lo stesso muro con contrafforti e strano semicerchio (per sorreggere il peso o antica porta?)

Attualmente, rispetto al Vinzoni, manca lo spazio occupato dalle case di via G.Giovanetti poste a levante; il rimanente appare invariato: a ponente ed a mare confina con la strada comunale e le case; a nord è conservato il terreno da via F.Aporti all’antico muro limitante a levante.

La strada. Aperta ex novo nel 1860, più larga della antica crosa della Cella non modificabile, fu  dapprima chiamata via Andrea Doria.

Nel 2003  la strada - di discreto traffico - a diretto contatto con l’entrata, pone difficoltà per le cerimonie, specie le auto nei matrimoni e l’auto funebre nei funerali, che possono sostare solo occupando i marciapiedi. In quell’anno dall’Aster fu rifatta la pavimentazione antistante ricuperando tutti gli spazi attorno, dei micro-slarghi esistenti.

===Il campanile fu eretto nel 1485. Nel terremoto del 1828, subì una frattura alla guglia, che fu rifatta a cupola. Le campane furono installate nel 1896. Allora sino al cornicione di coronamento, era alto 30,1 m. a partire dal pavimento (corrispondente a m.20,65 a partire dalla volta), diviso in 4 piani raggiungibili con scala in muratura; aveva un perimetro di 5,4m e dimensioni interne di 4x4m, con muri spessi 070m di pietre dure da taglio; fu calcolato un peso totale di 600t.

Nel  giu.1877  fu fatta una prima perizia da parte dell’ing. Carpineto, della Curia arcivescovile. Nell’ott.1893 l’ing. Virginio Garneri  di San Pier d’Arena, consultato in proposito, aveva rinunciato alla proposta di riparare, giudicando la sua stabilità un miracolo perché ‘fuori della logica ingegneristica costruttiva, e propose rifarlo tutto nuovo’.

L’ing. Carpineto ripeté un controllo nel 1895 valutando un progetto redatto dall’ing. Ratto mirato ad ampliare e regolarizzare le due cappelle con possibile compromissione della stabilità del campanile.  Nell’ago. 1895 si iniziò uno studio più approfondito col fine di innalzarlo e munirlo di campane (da posizionarsi sopra le case circostanti. Grave apparve subito -per la stabilità- il problema della loro oscillazione funzionale nella parte apicale): essendo parroco l’arciprete Francesco Olcese, dal fabbriciere Francesco Dall’Orso furono separatamente incaricati dei rilievi l’ing. Sirtori Pietro e poi (lug.’96) anche Niccolò Bruno. Il primo, rilevò che le condizioni di stabilità e struttura erano ottimali e che i lavori si potevano fare pur di non aumentare il peso, perché mentre la parte nord poggia sul muro perimetrale, quelle a sud, levante e ponente sono sorrette dismetricamente dalla volta a crociera della navata laterale (dello spessore di 35 cm)  e –a sua volta- impostata su archi (presso l’entrata della sacrestia; una volta uno dei bracci del transetto dell’antica chiesa, ad una sola navata); propose demolire la cupola e le pesanti scale, costruire in alto una nuova gabbia fenestrata e leggera per le campane e fare in maniera che esse poggiassero su armature gravanti sul pavimento e non sulle pareti come precedentemente. La commissione edilizia comunale, interessata dal presidente della Fabbriceria ed assessore comunale cav Gherardi Carlo, e sulla base della relazione Bruno, nell’agosto 1896 accordò il benestare quando già alcuni lavori (abbattimento della scala interna) erano stati eseguiti. L’opera fu commissionata alla ditta Grosso & C, anche per l’innalzamento delle 5 campane; essa si avvalse nel 1897 del fabbro ferraio Antonio Storace (‘costruzioni in ferro’, residente in piazza XX Settembre; responsabile della fabbricazione su misura degli arnesi necessari: chiavi, inferriate, balconiere, ossatura della cupola e croce, innumerevoli ferri specifici, bulloni e quant’altro necessario; fu pagato in 7 rate mensili senza interessi aggiunti per la cifra totale di 2100 lire; e si firmò rinunciante a qualsiasi azione civile e giudiziaria rimettendo l’adempimento dei reciproci doveri alla onestà delle parti).

  

 

campana posta a levante          a nord-ovest

 

     

campana a sud                  a nord est                           panorama dal campanile, verso ovest

 

==La facciata

La facciata. 1850: “su progetto di Angelo Scaniglia (1791-1870, sampierdarenese, allievo di Carlo Barabino), si allunga l’edificio e si rifà la facciata con stile neoclassico”, con tre grossi portoni di ingresso, tutti praticamente delle stesse dimensioni e tutti e tre di eguale fattura. Tutta l’intera facciata è divisa in tre parti rettangolari corrispondenti alle tre porte, coperte ciascuna da tre tetti spioventi, eguali, anche se ovviamente a due altezze diverse. Le due parti laterali sono eguali tra loro e più basse; la centrale è sopraelevata, in basso da un  timpano basale (nel quale c’è la sola scritta IHS con croce sovrastante la H) e sopra da due piani soprastanti nei quali, in quello superiore c’è un lunotto semiocircolare.

 

Alizeri -1875- segnalando oltre al ‘novello prospetto ed il nobile ingresso’, anche la ‘fresca giunta fatta alla chiesa per il suo lungo’, e  che ‘sulla quale per mano dello Storace è un dipinto che allude all’antico ed al nuovo titolo’.

 


 

 

 

Il Remondini ripete pari le stesse parole aggiungendo che «sopra il dipinto c’è un marmetto ove leggesi un’epigrafe, che si crede di Sebastiano Canale:  D.O.M. ET AD COMMEMORATIONEM AVSPICATISSIMI DIEI  -  XV MAII MDCCCXV  -  DVM ISTAS  -  PIVS VII PONT. MAX.  -  INNVMERIS CVM CLERO GESTIENTIBUS POPVILIS  -  AD HOC IN ARENARIO  -   ILLECTIS  -  SACRAS INGREDIEBATVR AEDES  -  TVNC TEMPORIS CVRATORES  -  HOC PRO AETERNIS POSUERUNT. E quei buoni marinai questo avvenimento tramandano di padre in figlio.»).


I marmi  nei lunotti raffigurano i due titolari ed il patrono.

 

           

 

a) la facciata centrale.

Circondata da quattro colonne con capitello  sorreggenti una travatuta senza decorazioni ma di poco più avanzata delle laterali.  Nel lunotto sopra la porta, in altorilievo sono raffigurati -in forma sfumata- delle figure di vescovi del Concilio; ai lati dei due  santi, esistono due tondi di difficile lettura:  a sinistra forse dell’ archiepiscopis ed a destra del parroco(?); ed al centro tre figure ben rilevate i cui nomi sono scritti sul sottostante capitello sovrastante la porta stessa: «SS Salvatore (al centro) con ai lati s.Giovanni Battista e s Pietro apostolo – patroni».

== la porta in bronzo fu scolpita da G.B.Airaldi (1914-1998) e fusa nel 1967: bassorilievi con immagini caratteristicamente  stilizzate, abituale forma espressiva dello scultore. Le foto sotto, in ordine dal basso:

porta centrale- metà sinistra=p.t (decollazione di san Giovanni Battista) -2° (Concilio Ecumenico con il nostro vescovo di allora, mons. Siri) -3° (battesimo di Gesù) – 4° (Gesù e due apostoli).

 

   

decollazione s.GB     Concilio Ecumenico     battesimo                     Gesù e due apostoli

 

porta centrale-metà destra=riquadro di piano terra (martirio di s.Pietro), 2° (i due papi del Concilio Vaticano II: Giovanni XXIII e dal 1963 Paolo VI) -3° (resurrezione di Gesù) -4° (consegna delle chiavi a Pietro);

 

   

Martirio sPietro         concilioVaticano II      resurrezione                   consegna chiavi a Pietro

                                   I due papi

 

                                  

b) Quella laterale a monte, inquadrata tra due colonne piatte con capitello all’apice, mostra nel lunotto marmoreo la Madonna circondata da due angeli alati inginocchiati in evidenza e due appiattiti dietro; la scritta sotto specifica «Santa Maria della Cella- contitolare». La porta anch’essa fusa nel 1967 è dedicata alla vita della Madonna di G.B.Semino (1912-87);

porta a monte -metà sinistra = (la successione storica è descritta dall’alto del 5° riquadro al basso e, prima sinistra e poi destra): 5° p., annunciazione;  4° p., visita di Maria;  3° p., nascita di Gesù; 2° p., fuga in Egitto; 1° p.terra,  i re Magi o circoncisione(? dovrebbe essere prima della fuga).

 

                

 

porta a monte-metà destra = 5° p. Gesù dodicenne, disputa con i dottori; 4° p. le nozze di Cana e mutazione dell’acqua in vino; 3° p. salita al Golgota; 2° p. deposizione di Gesù;  p.t (Madonna tra alcuni apostoli, dei quali quello a sin. è il ritratto di mons. Ferrari).

 

               

Madonna con apostoli

 

 

c) quella laterale a mare ha nel lunotto  l’altorilievo di san Martino nell’atto di donare la metà del mantello. La scritta sotto infatti specifica  «San Martino vescovo – titolare».

La porta ==di  Valdieri Pestelli (1925-  ), fusa nel 1967, è la porta a destra con scene della vita di san Martino vescovo divenuto titolare quando la chiesa assunse la funzione parrocchiale trasferitale dalla vecchia abbazia omonima in abbandono.

metà sinistra =

   

Porta a mare – metà a destra =

   

 

  

d) Infine, la porta laterale aperta sull’arenile -oggi su via San Pier d’Arena- presumibilmente è la stessa, antichissima presente dai tempi dell’erezione della chiesa.

nel timpano  sotto la protezione di Gesù e della Madonna, una barca traghetta marinai e donne in difficoltà.

Sottostante, c’è un lunotto semicircolare vetrato

Nel sovraporta rettangolare una chiesa in centro  ha in basso come un porto con tante barche, a fianco una riga di case ed alle spalle sulle colline ville turrite = non è certo riprodotta sPdArena perché non aveva un porto allargato, né la chiesa che ha una sola entrata; forse riproduce la Chiesa in genere. In basso a destra si può leggere il palazzo della Fortezza, quadrato e massiccio, con a fianco una torre saracena.

La porta le ante furono inaugurate nel 1986; sempre opera di V. Pestelli. I soggetti erano stati modellati in cera e fusi presso le fonderie d’arte ‘Battaglia’ di Milano. Sponsorizzata dalla Carige,  fu benedetta dall’arcivescovo Siri il 5 magg.1988; raffigura storie e tradizioni locali, religiose o marinare nel  medioevo:  

=a sinistra ‘i contadini che difendono dai saraceni il frutto del lavoro’; ‘guerrieri medievali in lotta’; ‘re Liutprando che riceve le reliquie di sant’Agostino’; ‘la costruzione della chiesa’; ‘la funzione religiosa dell’opera’.

=a destra  dal basso = la scritta “Donati dalla cassa di Risparmio di Genova”;  1° ‘la flotta spiegata, pronta a partire‘; 2° ‘

 ‘un calzonaio ed un fabbro testimoni della primitiva organizzazione del borgo’; ‘i fedeli festanti al rito’; ‘le donne offrono all’altare di san Pietro i doni della terra e del lavoro’; ‘nei cantieri si costruiscono le navi per le crociate’;.

 

 

 

 

 

Tutti e tre i portali in bronzo dei tre ingressi principali,  ed anche quello del laterale in via San Pier d’Arena, furono fusi favoriti dall’instancabile opera del parroco don Berto Ferrari, figura cardine della città per due lustri nel dopoguerra.

===La cupola Alizeri ha ‘salde notizie’ per confermare che l’opera fu eretta nel 1639 per desiderio degli Agostiniani. Prima di allora, già dal 1200, si scrive ci fosse un tiburio (che è una struttura nel rivestimento esterno di un edificio, a tipo cupola, a spicchi, su pianta poligonale – la più elementare è la piramide; già usato nell’architettura romanica e gotica ma poi soprattutto in quella lombarda; in genere veniva sormontato da un’altra struttura  detta lanterna). Nel 1639 fu definitivamente fatta a forma ellittica; e poi rifatta o aggiustata nel 1913 e 1921. Vedi dopo, a interno→cupola la descrizione della struttura e decorazione interna.

===il chiostro    come tutti i conventi, il chiostro era l’elemento centrale del complesso, per la meditazione, per la preghiera, per l’aggregazione. Ed il nostro monastero non era da meno. Adesso è praticamente distrutto, e quindi bisogna lavorare di fantasia per ricostruirne la struttura. Rimangono:

---il corridoio che dalla chiesa porta alla sagrestia, è una parte del vecchio chiostro, opportunamente tamponato da farlo comparire come un corridoio. I pilastri che lo delimitano, restano a testimonianza di come erano.

---il camminamento doveva essere a due piani: quello sopra coperto e quello sotto aperto al centro

---tracce e segni sulle pareti esterne, ne segnano l’altezza e la dimensione.

   

dopo il bombardamento

    

dopo il bombardamento

 

A sin- il piazzale corrisponde all’area interna del chiostro le cui arcate si leggono anche nei palazzi attorno

colonna-capitello nel corridoio

verso la sacrestia

INTERNI  

  Ripetiamo  la successione==cripta, pavimento, volta - cupola, cantoria, controfacciata, navate

  Raggiunge i 60 m di lunghezza; a tre navate, divise da due fila di colonne, come in tutte le basiliche. 

  Ebbe un allungamento nel 1850, quando -per mettere in asse la facciata con la strada testè aperta al traffico, quando allora si chiamava via Andrea Doria- si provvide a coprire dall’ultimo pilastro al frontespizio e rifare la facciata esterna  (favorevole e propugnatore dell’ampliamento, fu anche un ventiduenne zelante membro della Fabbriceria della parrocchia, che si chiamava  Daste Nicolò, non ancora sacerdote).

  Consta di 11 cappelle.

 

===CRIPTA. È collocata sotto l’altare maggiore. Sino al 1798 circa, i defunti venivano sepolti in chiesa (ci sarà un ossario comune?); in quell’anno il parroco don Giuseppe Luxoro, fa denuncia alla Municipalità perché a sua insaputa e quindi senza il suo consenso, il Priore del convento aveva fatto controlegge seppellire nella chiesa dei cittadini defunti. Ancora nel tardo 1800 vi fuorono  sepolti componenti della famiglia Rolla, grandi imprenditori locali di tessuti e munifici benefattori della chiesa.

 

=====PAVIMENTO  fu posizionato con lastre marmoree nel 1960 su disegno dell’ing Strura Piero (lavoro eseguito dalla ditta Henraux di Querceta di Serravezza in quel di Pietrasanta). 

Sul quotidiano locale del marzo 1990, venne pubblicata la notizia relativa a questo rifacimento, specie nella parte che si apre al sagrato verso il mare: due operai, scavando, trovarono un profondo ossario con teschi, tibie, ecc. che li costrinse a fermarsi: una necropoli, sia con ossa sparse e sia di altre in ‘caselle sistemate una di fianco all’altra’; già don Berto ne era a conoscenza da vent’anni prima; adesso, settantanovenne, è scritto abbia riconosciuto, nei resti, i sepolti in chiesa di come era consuetudine sino all’editto napoleonico: “gente che ha voluto essere sepolta qui”; e di conseguenza che ha detto agli operai “femmo fîto altrimenti qui non ci fanno finire”: il tutto fu coperto da uno strato di cemento con soletta sopra l’ossario, e poi sopra i marmi. Don Berto aveva già constatato che alcune tombe, decorate con stemmi, erano state profanate: il sospetto che la soldataglia francese fosse andata alla ricerca di preziosi non era stato escluso a priori.

 

===== VOLTA:  Navata Centrale:

 

F=   soprastanti l’orchestra (cantoria ed organo), area ricuperata con il


prolungamento ottocentesco, opera di Luigi Gainotti (1859-1940) sono gli “Angeli cantorisorreggenti un grosso libro musicale.

Egli dipinse anche le figure dei Profeti che fiancheggiano in alto la navata centrale.


Nei dieci medaglioni, vi sono figure rappresentanti ‘i dieci Comandamenti’,

disegnati da allievi del Barbino: uno affrescato di A.Vernazza (1869-1937) gli altri nove su altrettanti pannelli, di GB Semino (1912-1987; dipinti negli anni 1960).

 

 Seguono gli affreschi più datati, allusivi alla vita di san Martino, racchiusi ed ornati da ricche decorazioni di stucco dorato sullo stile barocco:   

E=  san Martino iniziato alla fede da s. Ilario di Poitiers  di Nicolò Barabino (1832-1891), affrescato nel 1864 (nell’opuscolo della chiesa si scrive 1871) per 1000 lire (altri, compreso Tosini, scrivono nel ’71; comunque in piena maturità e formazione accademica, legata ai moduli classici). L’immagine propone il santo inginocchiato ai piedi del sacerdote, sant’Ilario di Poitiers, ed attorno della folla. Sono descritti come  in una stanza, con loggia ad arco, aperta su un paesaggio

D= la  Visione del Santo Martino, di Giuseppe Passano (1786-1849 prolificissimo affrescatore); assieme a C= e  B= preesisteva ad E=. Descrive il Santo con  la metà mantello dopo averla donata ad un povero; egli è a terra, o perché ridestato da un sonno o perché da cavallo ha ricevuto l’apparizione del Redentore, come in un sogno. Accanto,  tramite cartiglio, si spiega: “Martinus catecumenus hac me veste convexit” 

C= il  Miracolo del vino al banchetto, di  Giovanni Fontana (1795-1845; alunno dell’accademia Ligustica di Genova), espose in maniera tradizionale  neoclassica la cena: per alcuni è quella delle nozze di Cana ove, alla tavola la folla in varie espressioni assiste alla trasformazione dell’acqua in vino. Per Tosini invece  è un banchetto dell’imperatore Massimo ove il Santo porge la prima coppa al suo presbitero riconoscendogli dignità superiore.

B= Valentiniano sbigottito  dalle fiamme miracolose, di Luigi Morasso  (sampierdarenese, 1797-1872, di scuola barabiniana fu definito da Alizeri ‘pittore oscuro e vissuto gran tempo lontano dalla nativa San Pier d’Arena), rappresenta in modo tradizionale ed -anche lui- accademico, la storia di sanMartino: già vescovo di Tours fu rifiutato dall’imperatore Valentiniano; però  penetrò egualmente nel palazzo di Treviri ed al suo ingresso il trono prese fuoco. Una figura in alto, con spada, simboleggia la giustizia. 

 

A=CUPOLA    nei lunettoni  (o arco di imposta)   sottostanti la cupola,

===a destra =sud) un olio su tela formato a lunetta, raffigurante l’elemosina del santo vescovo Agostino, ad un gruppo di poveri che gli stanno attorno (Tosini scrive che è s.Tommaso da Villanova che porge l’elemosina. La tela è attribuita ‘forse a GB Carlone (1603-1684)’; prima era di ignoto pittore seicentesco.

===a sinistra  =nord) olio su tela formato a lunetta, di Orazio De Ferrari (1606-1657), descrivente sant’Agostino che lava i piedi a Gesù in veste di pellegrino con i piedi immersi in un catino. A sinistra un gruppo di angioletti sono intenti a scrivere; a destra il santo è in preghiera davanti ad un libro aperto. Il dipinto è una delle opere meno conosciute e descritte del grande pittore. Alizeri ricorda che eguale soggetto, ma con sceneggiatura diversa usò per un’altra tela commissionatagli dagli Agostiniani che possedevano l’abbazia della Crocetta di promontorio e che adesso è all’Accademia Ligustica

                                 Pennacchi della volta  descrivono le 4 virtù= 1)  le figure affrescate della  Giustizia (con manto rosso, spada e bilancia) e della  Prudenza (figura sdraiata che sorregge uno specchio), sono dovute a Giovanni  Fontana. Vi lavorò nella seconda metà del XIX secolo,  in stile accademico.

                                                                            2)   mentre gli affreschi rappresentanti la  Fortezza (figura femminile in armatura) e la Temperanza (giovane fanciulla che sorregge un ramo di ulivo), sono   produzione di  Giuseppe Passano.

                                 Vetta della Cupola === ai quattro estremi dell’ovale sono poste altrettante statue in stucco degli Evangelisti,  rispettivamente di s.Giovanni,  (con in mano la penna e nella sinistra  sul fianco, il Vangelo, ai piedi l’aquila), di  Luca (con la destra sul petto, a sinistra il Vangelo, ai piedi il bue), di  Matteo (con la mano destra alzata e l’indice rivolto verso il cielo; in basso un angioletto), di   Marco (con il Vangelo aperto nella sinistra ed una penna nella destra, ed un leone ai piedi).  Tutte opere in stucco di fine 1800, di  Teobaldo Pinti (1878-sec.XX-Tosini scrive Pinto).

 

Sono di A.Vernazza (1869-1937) ed allievi, i “medaglioni con Angeli” ***controllare dove sono

 

===== Nella parte centrale della CANTORIA, ampliata in un restauro del 1920, fu ricollocato un mastodontico organo, costruito nel 1940 dalla ditta Parodi&Marin di Bolzaneto. Le lapidi sotto descritte, fanno risalire ad un primo strumento, e ad una data di primo secolo non specificata.

 

=====CONTROFACCIATA INTERNA

Tre porte (una centrale più grossa e quotidianamente chiusa e due laterali più piccole) dividono la parete della controfacciata in sei parti.

=====Solo su queste ultime sono poste  sei lapidi di inizio secolo 1900, e ricordano:

=1- porta lat. a monte - entrando, a sin.: «D.O.M. IOSEPH DALL’ORSO D.SEBASTIANI (1852-191-) HUIUS TEMPLI DECUS / PRAE  PRIMOS / OPE DILEXIT».

(questo Sebastiano Dall’Orso lo ritroviamo –sestogenito- in via Gioberti quale grossista in olio; e in lapide nell’atrio del palazzo Serra-d’Oria-Masnata quale donatore per l’ospedale. Suo padre Francesco era fabbriciere nella Cella e si interessò – vedi - della stabilità del campanile dopo il terremoto del 1828).

1-   2-

=2- porta lat. a monte - entrando, a dx.:  «D.O.M. / FRANCISCO OLCESE / PROT. AP. AD. INSTAR / HUIUS PARRAECIAE ANN. 1887-1911 / ARCHIPRESBITER V.F. / TEMPLI DECUS ERGA SS. SALVATOREM / PIETATEM ANIMARUNQUE SALUTEM / ZELAVIT»  (in memoria dell’arciprete della parrocchia, che in quegli anni, ebbe cura della chiesa e delle anime).

=3- porta lat a mare  - entrando, a sin -sopra = seconda lapide ricordo di alcuni donatori dell’organo «D.O.M./ BENEFATTORI INSIGNI / DEL NUOVO ORGANO / COMM.i  ETTORE TITO ALFREDO / F.lli NASTURZIO /  CESARE MURATORI / S.A. DUFOUR LE PETIT».

=4-                                                        -sotto = dedicata a memoria della visita di PioVII nel 1815 (D.O.M. / ET / AD COMMEMORATIONEM AUSPICATISSIÆ DIVI / XV MAI MDCCCXV / DUM ISTAS / PIUS VII PONT. MAX. / INNUMERIS CUM CLERO GESTIENTIBUS POPULIS / AD HOC IN ARENARIO / ILLECTIS / SACRAS INGREDIEBATUR ÆDES / TUNC TEMPORIS CURATORE / HOC / PRO ETERNIS / POSUERUNT)».

3- 4-  5-

 

=5- porta lat. A mare – entrando a dx. –sopra= seconda lapide a ricordo dei «benefattori emeriti del nuovo organo...    segue elenco»

=5- porta lat. a mare - entrando, a dx. –sotto:  = lapide a ricordo visita di Paolo P.P. V

= porta lat. a mare entrando, a dx., nell’angolo, un crocifisso (in data 14.9.08) completamente fasciato

===== sotto la cantoria, attorno alla porta principale centrale,

=una serie di bassorilievi raffiguranti i vari Misteri del s.Rosario, (oppure una via Crucis***) sono opera del Pestelli del 1990.

=una lapide con «5° centenario dell’apparizione della Madonna della Guardia sul monte Figogna, La comunità parrocchiale della Cella. Testimonia la sua fede e devozione. – seguono nomi-.»

 

(N.B. Non i soffitti, ovviamente, ma gli altari delle navate, tutte, nell’arco dei secoli sono stati spesso spostati o rinnovati o dedicati ad altri santi; tutte modifiche che rendono difficile descriverli con correttezza, potendo essere stati nel frattempo cambiati. Così è stato a lungo appoggiato alla parete, prima del primo altare di sin., un marmo di S.Rita da Cascia, 1,50x1, scolpito (negli anni recenti attorno al 1990) da V.Pestelli con stile moderno, liscio, con appena segnati i lineamenti dell’abito. Nel 2003 fu riposto nel museo). 

 

 

 

===                          NAVATE                                                               ===                                                                           

 

=====SINISTRA:

 

1ª) cappella:  si presenta, quale solo sotto-navata.

Nel 1888 era l’ultimo altare in marmo, con una ancona dell’Annunziata definita “meschino lavoro dei Semino”.

===la volta è a bombée (foto sotto), affrescata  come  una falsa cupola al cui  centro –immersa in una esplosione di luce raggiata- è dipinta la Sacra Colomba dello Spirito Santo.   

 volta      L.Cambiaso                                         

===Altare marmoreo, posto su un palco alto due scalini, direttamente appoggiato alla parete nord

=l’altare è sormontato – racchiusa da due colonne nere marmorizzate, laterali- da una grande tempera su tavola, di 244x130 (foto sopra); è la Madonna col Bambino e san GiovanniBattistaAngeli e DioPadre, del 1562-5. Dipinta da uno dei grandi: Luca Cambiaso (Moneglia 1527- Escorial di Madrid 1585 – detto Luchetto o Luchino da Genova; introdotto nell’arte –lavorando assieme- dal padre Giovanni il quale ovviamente si esprimeva nel modo tradizionale tardo400. Si perfezionò a Firenze ed apprese i grandi esempi dell’arte veneziana; focoso di temperamento, era velocissimo nel lavorare essendo ambidestro. Rimasto vedovo, andò a lavorare in Spagna col figlio Orazio, alla corte di Filippo II decorando il palazzo- convento dell’Escurial –vicino a Madrid-. È considerato il ‘rinnovatore della pittura genovese del cinquecento’).

Rappresenta Dio in alto tra le nubi, pregato dai Santi, Angeli e dalla sacra Famiglia. Il dipinto ricevette gli elogi di tutti i critici, e citato in tutte le fonti: l’Alizeri, lo definì  come “la più bella opera “ del monegliese, ed il Ratti  lo giudicò “uno delle più singolari”; l’artista interpreta con particolare raffinatezza e sull’esempio della dominante pittura veneta, la dolce vivacità del colore, e la distribuzione tridimensionale ed espressiva dei soggetti. Tosini conferma essere “tipico esempio della produzione dell’artista, del periodo migliore, di massima originalità ed autonomia”.

Tosini scrive che la  tavola fu commissionata dai Salvago per la cappella di famiglia (divenuta poi Battistero) e quivi era venerata come ‘Madonna della Neve’ fino al 1822.

In “La pittura a Ge. e Liguria”.vol.I-pag.239 + Tuvo.Campagnol-pag.142, chiamano il quadro con il diminutivo “san Battistino e Angeli”.

=sopra l’icona, l’altare termina con una struttura ad apice piramidale sormontata da una croce e confinante con un lunotto vetrato a semicerchio posto sulla parete in alto.

= a coprire un segno sulla parete, a volte, c’é collocato il piccolo quadro della Madonna della Salute (riproduzione di quella di Promontorio) in


cornice lignea, in alto aggettante con una corona sorretta da angeli; ed in basso una cassetta   delle elemosine con scritto “SALUS INFIRMORUM”. A lungo ha soggiornato anche nella cappella di s.Agostino e nel Museo.

   


=Sotto questo quadro, c’è una porta che dà accesso ad una stanza laterale, usato quale saletta confessionale

 

        

2ª cappella:

anch’essa sottonavata; possiede una retrostanza, oggi adibita a battesimale.

Dipinti laterali, Ai lati, due dipinti ad olio su tela di autore ignoto del XVIII secolo ma poi attribuita a Aurelio Lomi (pittore pisano, 1556-1622 nipote e discepolo di Baccio; Lomi fu il soprannone del pisano Gentileschi Orazio, presente con opere nella villa Doria di salita Belvedere; sue opere oltre a Pisa, a Firenze, Roma, Lucca, Bologna): -a destra  135x89, raffigurante  santa Caterina da Siena (rappresenta la Santa in abito domenicano, col rosario nella mano destra e lo sguardo al cielo. In basso sono rappresentati i suoi simboli:  il giglio ed un libro);      -a sinistra il santo Vincenzo Ferrer (con penna, libro e giglio. Dapprima si credeva che rappresentasse san Domenico).

                                                           

                                                                                s. Vincenzo Ferrer

 

-Altare,  direttamente appoggiato alla parete, nell’insieme è somigliante al primo: due colonne laterali sormontate da elegante struttura architettonica piramidale.

Sul lato destro dell’altare sta inciso: CONGREG.SS ROSARI B.V. ERECTA 1587-1897 (è presumibile che precedentemente la statua fosse collocata nel quarto altare e fosse originariamente dedicata alla Madonna della Cintura o altri dice del Carmelo, poi riadattata alle necessità della Congregazione).


-Statua, Al centro, l’altare è

 

 

 

 

 

 

 

sormontato da un marmo raffigurante la Madonna del Rosario, della prima metà del XVII secolo, prodotta da ignoto scultore (Tosini la attribuisce a Tomaso Orsolino (1587-1675)). Inizialmente questa statua seicentesca era una ‘Madonna del Carmine (altri scrivono ‘del Carmelo’)’ venerata a san Martino ove ornava il non altare ddicato al Rosario; fu trasferita alla Cella e posizionata nel quarto altare della stessa navata. Nel desiderio di cambiare l’altare, anche la statua fu modificata adattandola al culto quale ‘Madonna del Rosario’ ed ivi trasferita. Sorregge a sinistra il Bambino, mentre con la destra offre il Rosario. Di cm.163x68x46,  è posta su un doppio basamento  (sul primo dei quali è scritto “qui me invenerit invenist vitam. prov. 8” = chi trova me, trova la vita: dai proverbi, 8).

 


-Arco, La statua è circondata da una colorata architrave fatta ad arco, sulla cui facciata sono visibili – inseriti in cornici mistilinee - una serie di quindici quadretti ad olio su tavola, formato 26,5 x17,5.  Raffigurano scene della vita di Maria e di Gesù, detti ‘Misteri del santo Rosario’, oppure ‘fatti della Madonna’ dipinti pochi anni prima del  1650 da Domenico  Fiasella   (Sarzana 12 ago.1589-1669;  studiò  a Roma e si stabilì a Genova nel 1617, con feconda e vastissima produzione artistica). Comprendono “Nascita di Maria; visita dell’Angelo; Annunciazione; Spirito Santo; presentazione al tempio; Maria sale verso il Golgota; ascesa al cielo di Maria; Maria incoronata regina; Gesù disputa con i savi; Angelo all’ultima cena; ultima cena; Gesù incacerato; Gesù flagellato; Gesù crocefisso; Gesù ascende al cielo.

 

   

annunciazione                 ascesa al cielo                 Gesù incarcerato            Angelo all’ultima cena  

-Volta,

c’è un’ opera  (giudicata di “minore impegno”; Remondini invece la giudica “fra i più diligenti lavori”) in più medaglioni (uno centrale quadrato, con quattro ottagonali ai lati) affrescati da  Bernardo Castello (1557-1629) raffiguranti scene di vita di Maria (nel riquadro centrale, la nascita; nei quattro  attorno ci sono l’Adorazione, la Presentazione al tempio, l’ Annunciazione, l’Assunzione). Risale al periodo relativo ai primi anni del 1600,  in cui il pittore era celebratissimo e molto presente anche con gli affreschi nelle ville vicine (72.I.316).   

-Retrostanza,  

Raggiungibile attraverso due porte, poste rispettivamente sotto i due dipinti laterali (s VFerrer e sCaterina) sopra descritti. Infatti, dietro la cappella, si apre un vano raggiungibile attraverso due distinti cancelli oggi detto del Battistero.che vi fu posto nel 1835.

Ma inizialmente questa era la Cappella Salvago. Con atto notarile del 16 marzo 1602, la cappella fu data in concessione a Nicolò Piccamiglio, che volle regalarla alla figlia Battina andata sposa a Castellino Pinelli (nello stesso scritto si precisa che la cappella retrostante appartiene al mag.co Stefano Salvago, e che alla sua destra esiste un’altra cappella (oggi trasformata, ma nella quale allora era sepolto dal 1599 il ser.mo doge della Repubblica Lazzaro Grimaldi Cebà). Da Castellino Pinelli (altri,  riferendosi però alla terza cappella, lo chiama Pirullo. I Pinello nel 1414 formarono un Albergo detto De Scipionibus, formato da più famiglie come gli Ardimenti, i Luciani, un ramo dei Cebà, i Conforti ed altri. Su tutte i Pinello ebbero maggioranza., e di loro –ambedue Agostino- divennero doge di Genova nel 1555 e nel 1609) per conto della moglie Battina, fu commissionata il 24 apr. 1602  (altri scrivono nel 1606; un primo opuscolo della chiesa, poi corretto, scriveva 1608) agli scultori di origine lombardo-ticinese Alessandro  Ferrandino (attivo a Genova nel  periodo 1600-22, nel commercio e lavorazione del marmo; divenne consigliere  nella Società d’ Arte degli scultori e lapicidi di nazione lombarda; spesso associato al nome del Paracca, in società, nella committenza di cappelle ed altari) ed a Santino Paracca (da Valsoldo, noto dal 1562. Così lo elenca l’Enciclopedia Sonzogno; Tosini: scrive Parraca;  Bartoletti scrive Paraca. Vedi di “GioGiacomo Paracca”, alla tomba di Ceva Doria).  Quietanzata nel giu.1603 ed in parte poi modificata,  con l’impegno scritto di usare dei marmi, come nell’uso di allora, del “mischio di Polcevera ed altri mischi, in modo ben lavorato, lustri e ben accomodati“; l’alternativa,  non usata qui, era il marmo bianco. Il committente però non la vide ultimata, e quindi il lavoro fu pagato dal figlio Paride.

(N.B.= molti gli arredi che furono collocati in secondi tempi, rispetto l’età della cappella stessa).

Remondini segnala che la cappella già dapprima del 1799 era titolata a Maria Lauretana (o di Loreto) per una tavola di Bernardo Castello, oggi nel Museo. E già prima del 1888 aveva l’altare in marmo, fiancheggiato da colonne. Dopo quella data, l’altare fu dedicato al santo Rosario. E ancora, Remondini scrive  che la stanza è “...un grazioso santuario, avanzo del vecchio edifizio e raccommodato nel nuovo Battezzatoio: elegante di una gentil cupolina, messa tutta a rilievi lacunari e rosoni...più tardi restauri lo deturparono in parte e una tela che vi è del Battesimo di GianLorenzo Bertolotto o del Paggi che sia, mal risponde allo stile dell’opere.”.

Come detto, anticamente, sino ancora con parroco l’arciprete Luxoro era una cappella di giuspatronato Salvago, dedicata alla ‘Madonna della Neve’ (pala che, come già detto, oggi è collocata sul primo altare di sinistra, ma che ha lasciato la geometria semicircolare nella parete di frontale. Tosini informa di un probabile equivoco perdurato fino al 1822: la tavola di Luca Cambiaso raffigurante la Vergine, il Bimbo e san GB, era venerata in questo locale e pertanto ritenuta essere lei l’immagine della Madonna della Neve; questa ‘antica collocazione è riconoscibile nella geometria semicircolare dell’imposta che appare nella parete frontale contornata da raffinati rilievi plastici’.

Ratti descrive l’ambiente ancora cinquecentesco, con queste parole “di bellissima architettura tonda con istucchi di ottimo gusto e si crede opera del Bergamasco”.    Anche Alizeri “elegante di una gentil cupolina, tutta messa a rilievi di lacunari e rosoni, e incrostata per forma di zoccolo di quadri invetriati a colori”.

Si crede sia stata architettata e prodotta -compresi gli stucchi- da G.B. Castello (proveniente da Gandino (Bergamo), nella zona della val Seriana, e pertanto detto ‘il Bergamasco’; per distinguerlo dall’omonimo nato a Genova (“il Genovese”, specializzato in miniature); nato negli anni 1500-9circa, e m.1569; in quegli anni il pittore era in attività nelle vicine ville Imperiale e Centurione. Dal maestro Busso fu accompagnato a Genova, presentandolo al nobile Tobia Pallavicini che lo inviò a Roma a perfezionarsi ed al cui rientro affrescò la sua chiesa di s.Marcellino. Acquisita reputazione, fu assunto dal duca Grimaldi per il suo palazzo alla Nunziata; dai Doria per s.Matteo, dagli Imperiale per la casa in Campetto. Si trasferì poi in Spagna, alla corte reale ).

Stanza quadrata di circa 6mx6, ha pareti che fino ad una altezza di 180 cm sono piastrellate a mattonelle multicolori, di ignoto ceramista ispano-moresco; ciascuna di circa 15cm x15. Formano dei più larghi quadrati policromi (di lato eguale all’altezza), ciascuno in stile diverso ispano-arabeggiante, come un unico disegno floreale racchiuso dentro una cornice poligonale  (queste piastrelle policrome sono molto probabilmente manufatti del XVI secolo, o genovesi o importati dalla Spagna.

 

 

      

Storicamente la piastrella -che in  arabo si chiama “al zuleija”-, è perciò spagnolescamente detta “azulejos” si diffuse in Liguria come rivestimento dalla metà del 400 alla fine del 500, generalmente importate dalla Spagna che a sua volta le ereditava dalla sottomissione araba, la quale ultima può esprimere la sua arte non riproducendo figure di viventi ma solo attraverso “codici geometrici”: se la stella è il motivo dominante e ricorrente della decorazione,  nella religione, filosofia e nell’arte islamica profondo significato sino alla venerazione ha la perfezione delle forme, della luminosità e delle proporzioni geometriche che assumono per loro vari e precisi  valori. Dopo il 500 le piastrelle iniziarono ad essere prodotte localmente, assumendo il nome  di  ‘laggioni’; rappresentano quindi una tappa molto importante nella storia della ceramica locale e quali ‘segni di prestigio e ricchezza’ specie dei Doria che adornarono anche il loro palazzo di san Matteo 17 con azuejas spagnole appunto del XV-XVI secolo).  Nel bordo in alto, fu inciso la frase «AEDIT SACELL MDL» e sul lato opposto - sopra una porticina poco visibile tra le mattonelle - «RESTAUR.SACELL.MCMXIII».

Tutto l’ambiente ha subito trasformazioni a fine 800-primi 900.

Stucchi. Sopra le piastrelle, le pareti sono decorate da grandi ornati a  stucco, con figure in altorilievo ed affreschi riproducenti scene tratte dal Vangelo: opere del 1913 dello scultore simbolista-liberty Giacinto Pasciuti (1876-1941); esse rappresentano “il battesimo”, “i discepoli ad Emmaus”, “l’Angelo sul sepolcro di Gesù risorto”, “La Maddalena ai piedi del Risuscitato”, “La samaritana convertita da Gesù”.

   

battesimo                                     Maddalena                                 donne al sepolcro

Due altorilevi più piccoli, semicircolari, sono anche sopra le due porte, rappresentanti uno, un angelo con bimbo e l’altro un angelo con una pecorella.

-Volta è dipinta a decorazioni lacunari quadrate, con rosoni,  in stile cinquecentesco; risalente quindi al XVI secolo.

 

 

-Interno     vi sono –a volte- custoditi:


A)= il  Gonfalone                                    

 

Nicolò Barabino dipinse su stoffa,  nel 1854, “La Madonna del gonfalone del S.Rosario“, riproducente la Madonna col Bambino, tra s.Caterina e s.Domenico,  per uso della Compagnia omonima -fu prodotto quando era ancora ventiduenne, da poco all’ esordio pubblico; l’accoglienza a questo suo primo prodotto fu tale che si commenta avrebbe potuto stimolare vanto o superbia: invece il giovane proseguì umilmente la scuola, con impegno e modestia.


B)=  un crocifisso scolpito da Oneto, artigiano di Rapallo, e che è posto sopra un robusto reggicristo la cui targa ricorda essere stato donato dalla Confraternita di sant’Erasmo di Voltri ai Cristezzanti di Sampierdarena A.D.1995. Ha come caratteristica il perizoma color crema, avvolto sui fianchi, decorato da una striscia arancione, visibile a tratti.

 


 

C)= la fonte battesimale in marmo, a forma di edificio ecclesiastico per contenere due tabernacoli; sebbene riutilizzi materiali seicenteschi provenienti dalla chiesa di san Martino, è opera di più recente fattura


essendo stato così composto nel 1913: sul lato è inciso EXCIT FONS BAPTESIM. MCMXIII. Ai lati due finestrelle con vetri a piombo colorati ad immagini, e piccole opere in bronzo siglate dallo stesso Pasciuti: due statuine di Adamo ed Eva, l’ostiolo dell’Acqua battesimale


raffigurante il Battesimo di Gesù, e l’ostiolo dei ss. olii con Mosè ed il serpente biblico.

Sulla porticina centrale è inciso «qui percussus aspexerit eum vivet».


 

  

 

D)= due vetrate recenti, regalate dai parrocchiani all’arciprete don Ferrari il 15 giugno 1960 in occasione del 25° anno di sacerdozio. Riproducono rispettivamente il Battista e Gesù immersi nel fiume per il battesimo.

 

la  3ª cappella, come le altre sottonavata, ma si sviluppa in profondità - laterale verso nord - rispetto la facciata della navata sin. Fu completata, con gli attuali arredi, nel 1929, in stile ottocentesco.

=un sacello, opera di Angelo Scaniglia q.Francesco.

 


La cappella sormonta l’altare, e racchiude nell’interno - in una elegante cappella di stile ottocentesco - il masso sulla cui roccia fu affrescata su calce (intonaco di muro chiamato l’”arriccio”, di 71x59) l’immagine raffigurante il SS.Salvatore, ovvero Cristo coronato di spine, che porta croce. Relativo a quando Gesù   salì il Calvario portando il legno.   Questa opera, disegnata sopra un grezzo intonaco apposto su di un pezzo levigato dei dirupi scoscesi di san Benigno, era stato dipinto vicino al ponte levatoio  dove era il corpo di guardia, dalla parte ad ovest della porta Lanterna e del colle. Si ritiene sia stato fatto a cavallo tra fine XVI e  primi anni del XVII secolo, da un soldato (unico, che ‘doveva’ stare lì) fiammingo o comunque oltralpe arruolato dalla Repubblica


 (Che esistessero questi mercenari, lo attesta un regolamento in uso per le ‘soldatesche’ del 1710; in esso c’è un articolo che minaccia ‘tre anni di galera a chi ruberà biancheria, galline ed altro bestiame o tenderà lacci ai gatti. Non tutti pittori quindi, tra i mercenari; ma almeno uno ha lasciato una traccia di sé molto più  profonda che nobilita la massa degli altri  ‘rubagalline’).Poiché la Porta era nel territorio parrocchiale di s.Teodoro, ricerche nei suoi archivi parrocchiali (già mons. Francesco Olcese, nel suo opuscolo sul Centenario del SS Salvatore/ed.1913 lo segnalava definendolo soldato fiammingo o dei ‘sgrizzardi o tudeschi a far servizio alle porte della Lanterna tra 1500-1700’) hanno fatto trovare da A.Remedi l’esistenza nel 1630  di un soldato fiammingo, leggibile in Heinrich Stokman. Allargando le ricerche, sul dizionario francese dei pittori, disegnatori, ecc., di Benezit, ha trovato citato un David Henricsz Stokman che fu “à La Haye de 1627 à 1632” – ed anche un altro o lo stesso- “Stockman(s)  paysagiste à Harlem, mort le 9 juillet 1670 il etait en 1637 dans la gilde”.

   Il dipinto, evidentemente ben riuscito, dapprima attrasse l’attenzione,  poi la devozione, dei pochi passanti. Ma via via la voce si sparse ed aumentò la frequentazione dei fedeli, prevalentemente donne di minolli e di pescatori della Coscia sottostante,  per cui fu giudicato infine opportuno proteggerlo, dapprima racchiudendolo in una cappella locale eventualmente con moccolo d’olio acceso, ed affidandone la cura ai frati del sovrastante convento di san Benigno. Ben presto divenne sempre più frequentato, luogo di incontro e preghiera, di far voti o ringraziamenti, quindi – per i militari attesi alla porta - troppo affollato.

   L’8-12 agosto 1718 inizia la storia documentabile, perché, questo progressivo aumentare dei fedeli pose il Magistrato degli Inquisitori nel dover chiedere un ‘opportuno riflettere’:  se era ragionevole un tale afflusso di pellegrini in una zona di alto interesse nevralgico militare per le difese della città, costantemente ‘studiate’ da emissari al soldo dei piemontesi e comunque dei nemici della Repubblica.

   Così l’ill.mo Magistrato di Guerra, e per lui l’illustre ‘Sargente Generale’,  come dettato ed ordinato dal Senato che usasse mezzi efficaci e pressanti, dispose di vietare che si entrasse ‘ne siti delle fortificazioni e Porta lanterna ove è situata detta Cappelletta, ovvero –dove “esservi la Santa Immagine in picciol nichio di pilastro, situato al di sopra la tagliata della lanterna...(ove è) il corpo di guardia...ch’è la prima venendo da San Pier d’Arena”-. Quindi proibito l’accesso ai fedeli, sia in Compagnie di oratori ‘in cappa’, che in folla di persone, o comunque “che non eccedessero in   un tempo il numero di due sino in tre...”.

 L’ordine dapprima non fu considerato, anche se reiterato e sempre più minaccioso (bontà della fede e delle ‘bustarelle’ alle guardie); ma l’aumento della severità militare  generò la popolare richiesta di trasloco, in sede più idonea ad una manifestazione di fede.

   Al Senato della Repubblica era intanto giunta una lettera anonima e senza data (si presume sia stato il parroco di san Martino, valutando che era l’unico a trarre beneficio da una simile operazione) che diceva «Cristo al Rastello della Lanterna merita un tempio, ma se non si può fare per il luogo dove è, si faccia almeno trasportare nel suo altare del Salvatore (e l’unico altare già dedicato era a san Martino). Si trasportano i marmi, si può trasportare Cristo sul muro, basta farlo con divozione, ed applicare le elemosine raccolte e da raccogliersi per il fondo di cappellania al detto altare. Cristo merita tutto il culto: per ora si deliberi, questa pia deliberazione può darci la pioggia. Amen».

    Nell’autunno 1718, a risolvere il problema subentrarono i progetti della Giunta militare, quando nel contempo essa espose la decisione di ristrutturazioni locali che avrebbero intaccato quel lato del monte, con necessità di rimuovere il dipinto o doverlo distruggere.

   Nacque allora un altro contenzioso, tra i parrocchiani di san Teodoro e quelli di San Pier d’Arena per il possesso della santa effige: così la Giunta dapprima dovette interpellare (5 dicembre 1718) il vicario della Curia, il quale (già sollecitato dal volere popolare che aveva dettato una supplica al Doge ed al cardinale arcivescovo Lorenzo Fieschi), diede parere favorevole per san Martino, ritenendo che la zona era in suo territorio parrocchiale  (negativa per san Teodoro. Ignorato Promontorio; e se non lo sapeva lui come erano distribuiti i territori delle chiese...  Indicò nelle persone FrancescoMaria Clavesana e GioBattista Raggio gli incaricati ad usare il denaro raccolto dai fedeli -equivalente a lire 2837-  per l’adornamento della cappella, per delle messe da dirsi in essa e per girare il rimanente in uno dei cartolari del Banco di san Giorgio).

   Nella primavera 1719 fu bandito il bando di concorso per la rimozione: lo vinse il ‘capo d’opra’ (architetto) Domenico Orsolino (un altro maestro, tal Cipriano Lagomarsino -altrove è chiamato Lagomaggiore- aveva preventivato l’8 marzo 1719 una spesa di 76 lire contro le 85 dell’Orsolino; ma la tecnica, le garanzie di sicurezza  proposte da quest’ultimo lo fecero prevalere; un terzo, GB Richieri aveva rinunciato).

   I lavori, iniziati il 28 mag.1719 (effettuati con relazione dettagliata delle spese fatte: per tre giornate lavorative per il distacco, ed altre  tre –giorno e notte- per imbragare e trasportare il masso. Controllarono i lavori GiovanniGiacinto Tavarone, arcipreste di s.Martino; Lorenzo Fieschi arcivescovo (1705-26) di Genova, anche a nome di papa Clemente XI (1700-21) ed il Doge Benedetto Viale (1717-9) e Ambrogio Imperiale (1719-21). Collaborarono come primo maestro GB Pozzo, i maestri GB Pichetto e Francesco Orsolino, e (presumo operai) Cristoforo Ferrari, Simone Ragio, Angelo Cavalieri, un bancalaro per far la cassa, e tal Paolo Magio e lavoranti; furono necessari 11 rubi di gesso, 200 mattoni ferioli, tavole, ciape, tella cottone, 200 chiodi da dinari 4, taglie,corda, stopa, 2 torchie e cavi; nonché ‘per beveraggio della notte alla gente’) si conclusero felicemente il 4 giugno.   Il masso staccato è alto m.1,4, largo …il GazzettinoSamperdarenese dice m. 20,95?!, spesso m.0,95, e pesante 70 quintali.

      Come atto finale –così avrebbe dovuto essere- il Senato decretò e diede le disposizioni il 4 giugno 1719 per il trasporto verso l’abbazia parrocchiale di san Martino. (La leggenda ha colorato l’evento, raccontando che i due buoi al traino, furono pungolati ma lasciati liberi di decidere da che parte andare, visto la controversia tra genovesi e san pier d’arenesi;  sottintendendo un ‘volere divino’, si diressero verso ponente).

   Il 10 giu.1719, il vicario della Curia arcivescovile genovese Salvatore Castellini, a nome dell’arcivescovo card. Lorenzo Fieschi, concesse al rev.Gio Giacomo Tavarone, arciprete di san Martino “loci Sancti Petri Arenae, recipiendi titulo deposito Imaginem Santissimi Salvatoris depictam in muro trasportandam a loco ubi dicitur ‘al posto della Lanterna’ sub finibus dictae parochiae et collocandam in una ex Capellis… et a dicta ecclesia removendam ad beneplacitum Serenissorum Collegiorum…”(i quali ultimi si tennero liberi di ergersi arbitri di decidere se eventualmente trasferirlo altrove qualora non fosse trattato al meglio e circa l’impiego del denaro raccolto).

   Una nota del 12 agosto 1719 si conclude con un decreto di pagamento da parte dei mag.ci Deputati della Giunta Giuridiszionale di lire 250 al maestro Orsolino.

    Alla traslazione, il masso fu trasportato in gran processione nella chiesa parrocchiale di san Martino: nell’avvio alla nuova sede, questa sacra immagine fu oggetto di così particolare e profonda devozione popolare, essendo la pupilla di tutte le opere sacre esistenti nella città; al punto che per volere generale, sottoscritto poi dalle autorità civili e religiose, il SS.Salvatore fu dichiarato “patrono di San Pier d’Arena”. E non potendo stabilirne la giornata festiva nel giorno proprio dell’Ascensione, fu spostata al  giorno dopo, il 3 maggio.

Nel 1722 l’immagine fu ufficialmente riconosciuta di proprietà della parrocchia sampierdarenese ove rimase fino al 1799.

Lo storico mons. Francesco Olcese scrive due cose: sull’opuscolo/1913 che «il titolare e onomastico della città era san Pietro» e che il Salvatore è stato riconosciuto patrono del borgo «la festa del SS Salvatore è patronale per tutta la Città e Pieve di S.Pier d’Arena. -D’antico, allo 3 Maggio, ora da quasi un secolo si celebra la domenica tra l’ottava di S.Croce. -E’ preceduta da solenne novena e seguita da triduo.».. scalzando

   Dall’abbazia di san Martino del Campasso, il sacro macigno fu trasferito, assieme al titolo di parrocchia,  alla Cella il 2 maggio 1799 (qualcuno -erroneamente- ha scritto nel 1759), il giorno della festa dell’Ascensione. Qui fu collocato nel primo altare, che poi per allungamento della chiesa divenne il secondo; ed infine trasferito definitivamente nel terzo quando nel 1929 fu completato l’arredamento.   

  

Il giorno di S.Salvatore è divenuto festa sacra principale locale, civile e religiosa, sotto forma di vera e propria sagra: in ricorrenza della traslazione dalle pareti vicino alla Lanterna,  la celebrazione viene effettuata solennemente con riti,    festeggiamenti popolari, e portata in processione.

   Già nel 1899, in occasione del centenario del trasloco alla Cella, la laicissima giunta comunale governata dal sindaco Federico Malfettani dispose erogare al comitato festeggiamenti la somma di 5mila lire, imbandieramento ed illuminazione del Palazzo ed altri immobili comunali, mobilizzazione dei VVUU , dei VVFF, e della Banda musicale civica,  e presenza per venerazione in chiesa.

   La folla partecipava in massa ed i viciniori  imbandieravano e drappeggiavano le finestre.

   Furono attribuite alla sacra immagine provvidenziali interventi in due guarigioni miracolose registrate nel 1722 e 1799 (nella chiesa sono conservati due ex voto dipinti su legno); nella fede e speranza apportata ai fedeli  durante l’assedio del 1800 ; nel maremoto del 1821; nel terremoto del 1828 ed in riviera del 23 feb.1887; nelle epidemie che flagellarono il borgo dal 1835 al 1886.

Numerose sono a tutt’oggi le donazioni, i ringraziamenti di grazie ricevute, tovaglie d’altare, epigrafi di avvenimenti solenni

   Fu onorata la presenza per pregare, del papa Pio VII nel 1915 (vedi epigrafe murata nella controfacciata; altri papi hanno riconosciuto la devozione all’immagine: Benedetto XIV, Clemente XV, Pio IX, Leone XIII), e dei reali (s.m.il re d’Italia Carlo Felice e consorte, il 3 maggio 1822,  parteciparono alla processione in occasione del primo centenario; la cappella fu decorata di affreschi dal Passano, ed alla cerimonia intervenne anche l’arcivescovo Lambruschini. 

    La sagra del SS.Salvatore, dal 1981 si arricchì della concomitante mostra dell’artigianato, in genere ospitata nel palazzo del Centro civico,  e molte altre attività di cornice. In quest’anno fu ripresa la processione per le strade della parrocchia, che era stata sospesa – non so quando né perché -.

     A questo punto emergono alcuni dubbi:

---uno  riguardante il lungo arco di tempo -tra il 4 giugno 1719 quando fu dato il via al trasporto, ed il 10 giugno 1722 quando arrivò a san Martino. Si formulano così due ipotesi, ambedue con  alcuna prova a carico:

1a- il masso, in attesa della soluzione dei vari problemi (soprattutto attrito tra s.Martino e s.Teodoro sulla proprietà) fu collocato ‘in attesa’ alla Coscia in casa del Console dei Minolli, e trasportato poi alla chiesa nel 1722: le cerimonie centenarie della traslazione datano infatti 1822 e 1922. L’Olcese scrive che il masso appena staccato fu calato su una barca che lo portò sino alla spiaggia “di S.Maria del 1° Quartiere. Qui fu deposto provvisoriamente presso un buon popolano”; e che alla chiesa  fu portato  “l’anno 1722 (com’è tradizione), ed alli 3 maggio, festa della Esaltazione di S.Croce, Domenica IV post Pascha”; in altre righe spiega che la controversia con san Teodoro aveva differito di  quei tre anni la legalizzazione del possesso dell’Immagine durante i quali essa era rimasta ‘a noi in deposito’

1b- Il masso fu portato direttamente alla chiesa nel 1719, ma la processione fu organizzata tre anni dopo

 ---l’altro è  la diatriba sollevata molto dopo, nel 1916, da don Brizzolara, parroco di Promontorio. Per lui, tra le due chiese pretendenti, è mancato porre attenzione alla parrocchia con maggiori presupposti legali di proprietà: l’abbazia di Promontorio. Motivò scrivendo che a) essa, ai tempi del masso rimosso dalla Lanterna, aveva competenza parrocchiale della zona della Lanterna, ed è lassù che doveva finire il masso distaccato. b) per suggellare questo, il sacerdote si appella ad un particolare legale: il sasso era lungo una strada di proprietà della città di Genova e non di SanPier d’Arena, e Promontorio (che come parrocchia era allora estesa anche dentro le mura quasi sino a Granarolo) era quindi il vero ‘suburbio’ occidentale di Genova, mentre san Martino era una parrocchia  che faceva parte della ‘plebania della val Polcevera’; c) L’abbazia di Promontorio non si era proposta come candidata principale, solo perché il titolare ecclesiastico, il cardinale Carlo De Marini (abate dal 1700-1747), risiedeva a Roma (e seppur lasciando la cura abbaziale a don Girolamo Bacigalupo, questi non si prese cura né cuore non solo dell’avvenimento ma lasciando la parrocchia in uno stato di ‘quasi abbandono’); d) c’era stata infine anche la furbizia dell’arciprete di san Martino, don GioGiacomo Tavarone (parroco da ben 32 anni, conosceva bene la zona e compì un ‘furto sacro’ giocando sull’inerzia di Promontorio, scrivendo al Senato quella lettera anonima e senza data: lo stile colto, il contenuto, l’accenno del trasporto ‘nel suo altare’; considerato che solo a san Martino c’era già un apposito altare dedicato al ss.mo Crocifisso).

ALTRE TRE COSE DA CHIARIRE. 1) TOSINI SCRIVE CHE DAL 1719 AL 1722 STETTE IN CASA DEL MINOLLO; 2) NEL 1981 FU RIPRESA LA PROCESSIONE MA NON DICE QUANDO FU SOSPESA  3) I CROCEFISSI DI CHI SONO.

      

la volta                                                                     

    

lunette 

 

==Cupola sopra il terzo altare

=Alla base, nei pennacchi laterali, immagini di santi; ai lati, posti reciprocamente di fronte, due affreschi a lunetta, raffigurano.

--uno, il paesaggio della Coscia, con in primo piano un cavaliere in atto di devozione o addirittura il pittore; dietro, lo scoglio col dipinto; e poco discosta la Lanterna.

--l’altro, il carro con i buoi che trasporta – senza la guida di alcuno - la sacra effige verso la pieve di san Martino e non verso san Teodoro,  dalla Porta Lanterna alla chiesa, contornata da sacerdoti e folla in preghiera: una specie di segnale divino circa l’appartenenza del sasso-.  Ambedue opere del 1929, attribuite al nostro pittore Giovanni Bottai (1909-1978. Tosini scrive nato 1904). Da alcuni storici ambedue le lunette erano state attribuite ad Ernesto Massiglio (1895-1974, già direttore dell’istituto delle Belle Arti ed artefice di altri restauri nella chiesa. Quest’ultimo, dal 1938 membro di merito dell’Accademia Ligustica di BA, seguendo i corsi di Tullio Quinzio, praticò diversi generi di pittura: paesaggi da cavalletto, da ponteggio (decorazione di edifici sacri) e cartellonistica (per il Comune e libri). Espose alla Biennale di Venezia, e Quadriennale di Roma; nonché ricevette vari Premi nazionali e internazioneli (America Latina)).  

=Sulla volta, affresco (dei primi anni del 1800), raffigurante la ‘gloria del santo Nome di Gesù’, con angeli e putti racchiusi in un tondo centrale e sorreggenti corona floreale, fiori e turibolo e posti sotto la Colomba dello Spirito Santo ed intorno il monogramma IHS; opera di Giuseppe Passano che volle riproporre i temi del dipinto genovese del 600.  

  

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la 4ª cappella       Come a 1, è solo sottonavata        

Tosini scrive che la ‘cappella è di ‘fondazione agostiniana’, e che è ‘attualmente (2006) dedicata a san Giuseppe, ma era - un tempo - della Madonna della Cintura’.

Prima del 1888 aveva l’altare in calce; e cinquant’anni prima ancora, era dedicato a s.Anna. Poi fu dedicato a N.S.della Neve per il quadro che - dopo il 1888 - fu posto nel battistero: la più bella opera di Luca Cambiaso, squisitamente capace di raffigurare poeticamente Maria durante una sosta nel viaggio in Egitto, con il Bambino, gli Angeli, ed il Precursore in adorazione.

 

===ad un lato, un dipinto (225x86) del XVIII secolo (nell’opuscolo della chiesa riporta ‘seicentesco’), di ignoto autore (Tosini scrive che questo e quello seguente sono attribuibili alla bottega Borzone, come anche la tela di s. Monica), raffigurante sant’Agostino   che  tiene in mano un cuore fiammeggiante e lo sguardo rivolto in alto verso lo Spirito Santo. In basso sono rappresentati gli attributi vescovili.

===dall’altro, una tela con santa Monica (madre di sant’Agostino) della stessa epoca; un olio su tela (225x86) di ignoto autore del XVIII secolo,  raffigurante la santa in estasi, circondata da cherubini e dall’alone di luce proveniente dallo Spirito Santo

===altareanticamente l’altare era dedicato alla Madonna della Cintura, fu poi dedicato alla Madonna del Carmine: infatti  sul lato c’è inciso “CONGREG. B.V. CARMELI ERECTA 1600-1897”.  Sopra l’altare c’era   una figura in marmo della Madonna ora posta sul secondo altare, verso cui volgevano il capo i due santi posti ai lati, sant’Agostino e santa Monica.  Per un lasso di tempo degli anni 2000, è stato dedicato al ‘sacro cuore di Gesù’, con moderna statua in marmo bianco scolpita da Valdieri Pestelli, ora portata nel museo.

Oggi, sopra l’altare c’è una sacra effige di san Giuseppe.

La costruzione dell’altare marmoreo è opera di Domenico Parraca per committenza di Benigno Drago, priore del monastero degli Eremitani nel 1621. Il paliotto a sarcofago, è fatto di marmo detto ‘mischio’ (bianco e rosso), raccordato alla mensa da una testa di angelo, ed è decorato da due festoni floreali che si uniscono al cartiglio centrale, sormontato dalla mitria episcopale di s.Agostino, ed ove si legge il monogramma SMC (sancta Maria Cinturae).

====la volta  con affreschi multipli: il centrale è racchiuso in un ottagono (rappresenta la Madonna della Cintura: ‘Maria seduta su una nuvola, circondata da angeli, mentre dona uno scapolare a santa Monica’); questo è  attorniato da quattro riquadri (con Annunciazione, visita ad Elisabetta, Nascita di Gesù, fuga in Egitto) e quattro tondi (con figure di santi),  il tutto si presume dipinto da  Bernardo Castello: incertezza dovuta alla profonda rielaborazione negli anni 1925 da Ernesto Massiglio.

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Vano n° 12  (rimane sotto la navata, ma non è una cappella: - al posto degli altari - ha la porta verso la Sacrestia.)                           

   Sopra la porta di accesso alla Sacrestia,  un grande (430 x 271)  olio su  tela  di G.B.Carlone (16.2.1603-1684. Figlio di Taddeo, scultore artefice dei monumenti dei Doria retrostanti l’altare, e fratello minore di Giovanni; anch’egli valentissimo decoratore contemporaneo a B.Strozzi,  A.Semino, B.Castello, L.Cambiaso, L.Tavarone, A.Ansaldo, che decorarono numerose ville sampierdarenesi, ancor oggi apprezzabili), risalente alla seconda metà del XVII secolo, proveniente (come anche l’altra tela rappresentante Ignazio e Francesco Saverio) dalla chiesa-convento di San Pietro in Vincoli di salita Belvedere  nella quale prima officiavano i gesuiti, seguaci –come il santo rappresentato- di sant’Ignazio di Loyola (eretta nel 1630 da MarcoAntonio Doria su suoi terreni, e regalata ai Gesuiti; oggi delle suore Pietrine.  Nel 1773 i Gesuiti  -causa i torbidi politici legati alla rivoluzione francese- dovettero abbandonare la nostra chiesa che già usavano poco,  solo nei periodo estivi. Contemporaneamente, la municipalità napoleonica allontanava tutte le varie corporazioni religiose lasciando l’incarico di assistenza religiosa, per tutto il borgo, alla chiesa di  S.Maria della Cella  facendola nominare parrocchia. In essa, furono trasferiti molti beni materiali già appartenenti alle chiese sconsacrate. Infine, nel 1799 il Consiglio dei Sessanta confiscò tutto il complesso, donandolo alla Repubblica Ligure, che utilizzò l’edificio ad uso commerciale o militare; e tale restò fino alla Restaurazione).


 Raffigura san Françisco Borjia (Francesco Borgia) in preghiera che mentre circondato da fedeli si tiene avvinghiato al Crocifisso, quale atto di amore alla missione sacerdotale, secondo i dettami del fondatore della Compagnia dei Gesuiti. Mentre col braccio sinistro rifiuta le armi,  uno scudo con insegna araldica ed il grosso galero (cappello cardinalizio, sorretto da un giovane paggio).

Il Borgia fu santo spagnolo; nato a Gandia il 28 ott. 1510, dal duca Giovanni e da Giovanna d’Aragona primo di venti figli e quindi col  titolo di quarto duca di Gandia; poi divenne barone (di vaste tenute e di numerosi castelli), Grande di Spagna di prima classe, cavaliere di Santiago, commendatore e cavallerizzo privilegiato della regina e della provincia di Leon,  ecc.

Pronipote di papa Alessandro VI (un Borgia) e del re Ferdinando II, studiò appassionatamente lettere e filosofia e contemporaneamente l’arte della guerra. Per volere del re CarloV dovette sposarsi  con la portoghese Eleonora de Castro ricevendo il titolo di 


marchese e di vicerè di Catalogna. Ebbero otto figli. La morte improvvisa della consorte nel 1546, lo portò ad una profonda meditazione che si concluse scegliendo la vocazione religiosa nella Compagnia del Gesù e lasciando ai figli i beni e titoli. (Suo figlio primogenito Carlo, quinto duca di Gandia, fu ambasciatore del re spagnolo a Genova. Il nipote, settimo duca di Gandia, Carlo Francesco Borgia Centellas y de Velasco nel 1593 sposò a Madrid Artemisia Doria delCarretto figlia del principe GianAndrea Doria –quello della battaglia di Lepanto-; i loro dodici figli ebbero il doppio cognome Borja y Doria). La predilezione dei gesuiti genovesi fu sicuramente dovuta al legame di sangue tra le due famiglia, oltre che alla stima personale ed ai legami con la corte spagnola: molti dei Doria entrarono a far parte dei Gesuiti in quel periodo: tra essi Marc’Antonio (nato a Ge il 6 ott.1596 e morto il 26 ago 1676)  che fu il committente dell’icona a Carlone ispirandosi alle frequenti fondazioni di conventi e collegi che il futuro santo fece in vita e quindi ideale tema da proporre per l’istituzione collegiale educativa creata dalla Compagnia a SanPierd’Arena. La chiesa del Gesù a Genova, dedicata al nostro santo,  ha un grosso quadro di Andrea Pozzo (1642-1709), fratello laico della Compagnia, che lo dipinse in occasione dellla canonizzazione: in esso la scena descritta è similare a quella sampierdarenese.

Così a 41 anni Francesco fu nominato sacerdote rivelandosi ottimo predicatore ed organizzatore, al punto che ben presto fu promosso commissario generale dei Gesuiti di Spagna. Scrisse opere teologiche di grande peso ma che - per l’acutezza del pensiero – non furono capite ed andarono perfino sotto l’attenzione dell’Inquisizione, la quale prudenzialmente le mise all’indice. L’imbarazzo fu tolto da PioIV, il quale lo chiamò a Roma e lo nominò direttore generale dell’Ordine. Con questo incarico, dimostrò vieppiù le capacità organizzative e di riordino, dando grande impulso e potere –spirituale ed  economico- alla Compagnia. Ebbe anche funzione di ambasciatore presso i turchi.

Morì giovane, a 62 anni,  a Roma nel 1572;  fu traslato a Madrid nella chiesa dei Gesuiti. Fu canonizzato da ClementeX  nel 1671.

 Nel mese di giugno 2007 - da parte del soprinendente ai Beni artistici della Liguria (dr Zanelli GLuca; restauratori c/o laboratorio di Aramengo, presso Asti ) - è avvenuta la restituzione - dopo averlo ripulito, restaurato ed incorniciat - e la ricollocazione sopra l’ingresso alla sacrestia

     

===nel 1880 veniva definita dal Remondini “altare del Carmine, in marmo con ancona e statua pure in marmo; è ricco di ori e di pitture. Prima era l’altare della Cintura.


 

===la volta  appare a lastroni di pietra scura, grezza, senza stucchi, come era  in origine, senza intonaco.  Fungono da base di scarico del campanile.                       Infatti, all’estremità della navata sinistra, sono visibili le uniche componenti medievali rimaste dopo le ristrutturazioni: una volta a crociera, formata da un costolone di grosse pietre nere regolarmente squadrate, come era


in uso presso i maestri antelami dei muri (‘fabri murariii antelami’): questa disposizione -presente anche in san B.d.Fossato- ha dato credito all’ipotesi di un’antica primitiva pianta a TAU greca, avene il transetto combaciante con le attuali campate di test delle navate minori, ed esteso (oblungum) per tre campate, verso ponente; ciò, anche considerato che nel territorio della Repubblica numerosi furono nel XII secolo gli edifici ecclesiastici eretti in questo stile; il Novella invece scrive sicuro che la chiesa iniziale del 1253 era a croce latina), sorreggente la parte inferiore del campanile (anch’essa medievale; poi innalzato dopo); mentre, come già detto, il corpo lungo si sviluppava nell’identica

 

direzione per una profondità corrispondente a  tre arcate (la quarta-di fondo-fu aggiunta dallo Scaniglia a metà 1800; un’antica parete fu ritrovata nel sottotetto della navata a sud , sopra le arcate, occultata sotto i più moderni stucchi: furono distinte le tracce di cinque monofore strombate, quattro archi corrispondenti a quattro volte di cui la prima, più spessa delle altre costituiva il braccio a sud del transetto).

Sulla base di questi rilievi, l’unica ipotesi - e tutt’oggi valida interpretazione - sulla struttura primitiva, fu stilata alla fine del 1800 da prof. Pietro Sirtori incaricato del progetto di restauro: propose l’antica e primitiva chiesa ad una navata (detta oblungum, e corrispondente alla centrale odierna), che terminava con un transetto sporgente (che dal lato nord corrisponderebbe alla volta costonata su descritta e dal lato sud all’apice di quel tratto di parete dell’oblungum); il tetto doveva essere in legno nell’oblungum ed in muratura nel transetto ed abside.

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5ª  cappella

ottocentesca, posta nell’abside di sinistra,  oggi è detta dell’ Olivo.

Prima del 1880, c’era un altare in ...« marmo ornato di due colonne...e dall’ancona scorgesi intitolato alla Natività di Maria, ma che il popolo chiamava dell’Annunziata. Questa tela, dice Alizeri, robusta e varia alle tinte, spedita e fiera all’esecuzione, briosa e lieta nel suo complesso, rivela il magistrale pennello del voltrese Andrea Ansaldo. Ciò malgrado nel 1887, ristorata la Cappella, con graziose e ricche decorazioni e affreschi del Gainotti e del De-Lorenzi, le fu mutata l’ancona e sostituita con altra, che compete per bellezza...traslocata quella dell’Ansaldo nella Cappella interna, detta di san Giuseppe». (Remondini)

Sistemata nel 1887 (4.22 dice nell’82 su disegno dall’ing. Giuseppe Ratto e con l’opera di Gainotti e Delorenzo), vede (in più parte intaccati dalle muffe di infiltrazione acquea) .

=== sulla volta, ricchi affreschi con pitture ornamentali e decorative,  racchiusi nei tondi posti all’imposta dell’arco e nella cupola (con angeli, cherubini e putti); e nei quattro pennacchi, le immagini dei profeti; opere di Luigi Gainotti (1859-1940),  e di  Francesco DeLorenzi (1830-1900), entrambi allievi e collaboratori del Barabino.

===a destra un olio su tela (186 x 139) raffigurante la Natività di Maria; la tradizionale attribuzione ad  A.Ansaldoè stata ritratta. Oggi è ritenuta copia seicentesca di autore ignoto genovese, da analogo soggetto  del  Morazzone (pittore lombardo il cui vero nome è Pier Francesco Mazzucchelli =1571-1626; nel 1617 venne a Genova, e non è chiarito se produsse la tela,  o è una copia (oggi è la tesi più accreditata);  comunque lasciando una traccia profondissima della maniera lombarda che sarà  poi

adottata da tutti i pittori genovesi): in alto è rappresentata la nascita; ed in basso la cura e fasciatura della neonata affidata alle  donne. L’opera, prima del 1887 era posta centralmente sopra l’altare, poi fu trasferita nella cappella di san Giuseppe, ed infine ricollocata nella cappella, nel fianco.

                     

parete sinistra : natività di Maria                             parete destra : tela di Domenico Piola

===sull’altare la Madonna con Bambino detta dell’Olivo, di Nicolò Barabino ( 1832-1891) ( grande tela di 200 x 103, fu prodotta nel 1887).       

Il pittore  in questa chiesa , ricevette il battesimo, essendo nato il 13 giugno al civ. 77 di via C.Colombo, oggi il 99 di via San Pier d’Arena.Si descrive che per fare ossequio alla volontà materna, il Barabino compose  un primo dipinto con l’immagine della Madonna,  con l’intento di farne dono alla parrocchia,  dedicandola a N.S. dell’Olivo (o come lui stesso amava definirla “ quasi oliva speciosa in campis” su ispirazione di un versetto biblico dell’ Ecclesiastico e come fu scritto in un cartiglio sulla cornice alla base - o, alla Cella, posto in alto del riquadro-.

  

    Nella Bibbia, nel capitolo “Encomio della Sapienza”, al 24.19 - tra altre caratteristiche che essa Sapienza possiede - è citato che anche è “…come bell’ulivo nei campi”. Nell’interpretazione ebraica, la Sapienza ha messo radici nel popolo ebraico. L’interpretazione cristiana della Sapienza è Maria: san Bonaventura insegna che Maria è misericordiosa; anche san Bernardo raccomanda rivolgersi a Maria quale nostro avvocato perché dolce, benigna, uliva (dall’oliva esce l’olio, simbolo di pietà). Quindi dalle Sue mani escono grazie e misericordie che Ella dispensa come nostro avvocato. L’olivo è anche pianta-simbolo della nostra regione, specie del ponente, per la resistenza e tenacia con cui sopravvive; del legame familiare e generazionale per la longevità; della religiosità perché rappresenta la pace; del lavoro, per la lunga preparazione al prodotto finito ‘lentissimo a crescere, tardissimo a dare’).

 

Questa tela, concepita per la chiesa della Cella e nata - come bozzetto - col titolo ’Madonna della primavera’, fu esposta alla mostra nazionale di Belle Arti nel 1887 a Venezia; veduta dalla regina Margherita di Savoia fu da lei acquistata per metterla a capo del proprio letto, poi fu posta nel Castello di Racconigi ed infine fu donata ad un dignitario di corte che – scrive Gilardi - lo rivendette ad un certo Julius Schmidt); questo fatto creò notevole pubblicità all’artista: rapidamente l’immagine divenne la “madonna degli italiani”;  riprodotta in mille modi, ebbe diffusione presso molte famiglie per essere collocata nelle camere da letto. Dopo Venezia, fu esposta all’Esposizione Internazionale di Berlino suscitando altrettanta altissima ammirazione.

Così nel 1888 al Barabino toccò, per soddisfare la madre e l’impegno preso,  produrre una nuova tela non meno meravigliosa della prima (si differenzia anche perché nella prima, in basso sotto i rami di ulivo, ci sono delle arance, mentre non ci sono i  variopinti fiori di campo, e perché il Bambino ed il trono hanno posizione diversa. Un’alta copia del primo, ridotta, fu prodotta dall’artista per un privato genovese di nome Rossi. Precedenti di ben sei lustri, altre due Madonne ma “colsolatrix afflictorum” hanno stessa posa ed indumenti, quasi ad essere una preparazione a quanto voleva la sua mamma, committente dell’opera; invece più vecchia di una dopzzina d’anni, una “Madonna del Rosario” ove appare più palese la maturità artistica). Il quadro donato alla chiesa venne collocato dagli allievi nel centro dell’altare, nel corso di una cerimonia il 21 ott.1888, quando predicò un noto oratore barnabita (r.p. Francesco M.Parisi).

La critica, fu triofalistica nel pubblico e nella maggior parte dei critici  (solo qualcuno ravvide un abuso di colori) vede nel volto un’estrema soavità, uno sguardo insieme supplicante e di tenerezza; nella posa un atteggiamento regale, maestoso ma  anche  molto semplice; nelle vesti che ombreggiano la fronte ed impaludano il corpo, un disegno altrettanto delicato e trasparente; il tutto, molto terreno e molto divino.

DeLandolina ravvede nei tre dipinti similari dallo stesso titolo il messaggio di aver voluto raffigurare una semplicissima “donna fra le donne, madre tra le madri” senza segni evidenti di divintà escluso l’aureola, espressa con erfetta naturalezza ed esrimendola nella compostezza abituale, nell’attimo del riposo e del raccoglimento: il simbolo più caro all’umanità.

Una mostra sul Barabino, a Genova, nel 1990, non ebbe il quadro in esposizione, non si sa perché . =41A.                                                                                        

==a destra,  un  San Francesco Saverio e santo Ignazio di Loyola, di incerta attribuzione  seppur nell’ambito o bottega di Domenico Piola (4.23 lo attribuisce decisamente al Piola). L’olio su tela di 194 x 155, di forma ovale, vedi foto sopra, dipinto nel periodo a cavallo tra XVII e XVIII secolo, raffigura i due santi, il primo con le braccia aperte, il secondo con la destra sul petto, che guardano estasiati in alto la colomba dello Spirito Santo. In basso un gruppo di  angioletti che  sorreggono un libro (dove è scritto “Maiorem Dei gloriam”), ed un bastone da pellegrino, attributo del primo santo. Anch’esso (come quello di s.Francesco Borgia) proviene dalla chiesa in salita Belvedere, già dei gesuiti e dedicata a san Pietro in Vincoli

 

6 =====CAPPELLA CENTRALE, PRESBITERIO

Nel 1453 Bartolomeo Doria, titolare del giuspatronato della cappella maggiore, ampliò e fece rifare il coro; tutta la zona, fu poi arricchita e fastosamente trasformata in un solenne sacrario familiare, nei secoli seguenti dai discendenti. Il sottosuolo di questa parte della chiesa era adibito a cripta sepolcrale nella quale sono le tombe di tre esponenti della famiglia Rolla (Francesco ed i suoi figli Costantino e Giuseppe, industriali con opificio in zona Fiumara, grandi imprenditori e benefattori della chiesa: a loro è legata la statua dell’Immacolata, attualmente nel museo).

È stata restaurata nel 2003.

=== l’altare maggiore, settecentesco,

                                                                    

con statua marmorea felicissima rappresentante la  Madonna Assunta, ambedue di Pasquale Bocciardo   1705circa-1790-1;   scultore; allievo di Filippo Parodi e di G.Antonio Ponsonelli; divenuto accademico di merito e direttore della scuola di scultura dell’Accademia Ligustica dal 1763 al 1788); prodotti nel 1740; la statua è alta 280 cm., con 120 x 100 di dimensione; raffigura con chiari riferimenti alla struttura architettonica decorativa suggerita dai due maestri, la Vergine ritta su una nuvola con angeli in atto di condurla nell’Ascensione, in gesto estasico di braccia aperte e sguardo verso l’alto.

   

Nel 1975, con la presenza del cardinale Siri, fu consacrato il nuovo altare  costruito secondo le nuove norme liturgiche: oltre a candelieri e fioraie offerti da fedeli operatori economici locali, ha sigillata nel manufatto una  teca  porta reliquie, regalata dall’orefice Salvemini (Remondini scrive «Invano cercheresti adesso la reliquia del braccio di san pantaleone, di cui parla il Giscardi, e quella del braccio di S.Martino.Ora trovasi soltanto la reliquia del dito di S.Ferrando»). L’inserimento del nuovo altare richiese l’opportuno arretramento del ‘vecchio’ di qualche metro, onde permettere la migliore conservazione della funzionalità e conservazione dell’estetica artistica (questa operazione determinò pure ritocchi alle tombe retrostanti dei Doria, che furono compiuti con il consenso dell’attuale governatore discendente della famiglia)

===Al lato dell’altare, a lungo è stato il Crocifisso del Ciurlo, ora nel 10° altare.

===alle pareti  del presbiterio, fanno da cornice cinque sepolcri, di cinque fratelli Doria la cui origine è unica con il ramo dei Doria che curò la cappella di sAgostino e la cappella di s.Nicola da Tolentino. Infatti tutti provengono da Cesare, figlio di Lamba Doria.

Cesare↓, vivente nel 1334, ebbe quattro figli: Giovanni, Argenta, Opicino (che darà origine ai due rami suddetti) e Andreolo↓(che originerà il ramo della “cappella magna” ovvero dei mausolei .

Andreolo, vivente nel 1350, da Margheritta XYX (non conosciuto il cognome) ebbe dieci figli vissuti alla fine del 1300: Filippo; Alaone; Pietro; Giacomo↓; Maria; Simone; Pietra; Franca; Benedetto; una morta giovane dopo le nozze, della quale non è segnato il nome; Giacomo.

Giacomo, sposato con Ginevra Doria qNicolò e –in seconde nozze- con Novella Fieschi de Caneto,  avrà sette figli: Isabella, Paolo, Maria, Lamba, Pietro, Oberto e Bartolomeo

-Bartolomeo (quindi nipote di Andreolo) nel 1453 ottenne dal priore dei monaci Agostiniani la concessione del giuspatronato sulla cappella maggiore, come da marmo affisso  nel corridoio «nomine suo proprio et nomine et vice aliorum nobilium De Auria et successorum suorum...et quoniam dicta ecclesia fuit per spectabiles et egregios dominos DeAuria jam ducentis et pluribus annis transactis constituta et aedificata, qui capitulari specialiter deputata anno nativitae Domini MCCCCLIII». Bartolomeo –sposato con Gironima Doria qCeva avrà 10 figli tra i quali Ceva↓.

-Ceva, sposando Peretta Doria q.Filippo avrà tre femmine e Gio Giacomo↓ vissuto nei primi del 1500

-GioGiacomo (Battilana 61)↓ sposato con Cattarina Doria qGiovanni, ebbe 9 figli vissuti a metà del 1500: Paolo, Bianca, Minetta, Maria; fanno parte del complesso monumentario gli altri cinque:   Ceva, Filippo, Ottaviano, Nicolò, GioBattista.

Dei figli maschi, manca quindi il monumento di Paolo; forse morì giovane, di lui si sa poco o nulla.   Il loro ossario -secondo un inventario effettuato nel 1908- si trova in una stanza di 2m.x7 posta sotto il pavimento del Sancta Sanctorum

 

 

Tutti inseriti in una ampia arcata, hanno la stessa  dimensione (2,30 x 4,20) e struttura:  in basso un grosso basamento rettangolare, con targa e scritta dedicatoria personale;  sopra, il sarcofago decorato da due aquile dei Doria poste agli estremi; sopra ancora, appoggiate a due volute, due figure allegoriche fanno cornice  al busto del defunto posto al centro dentro una nicchia;  il tutto è sovrastato da una edicola architravata, in cui è posta una personalizzata figura sacra sotto la cui protezione fu posto il compianto.

In tutti, le aquile che ornano le tombe, ebbero gli artigli smussati negli anni 1797 quando il borgo era in mano francese con la neonata Repubblica Ligure: il  gesto voleva simboleggiare l’aver bloccato l’avidità e l’arricchimento ai danni del popolo, dei nobili aristocratici in genere, dei Doria in particolare.

Il complesso è testimonianza di piena adesione sia alla cultura artistica dell’epoca (epoca della controriforma; primo esempio di celebrazione funebre monumentale conforme ai dettami del Concilio Tridentino), sia alla funzione sepolcrale delle chiese –ed in particolare di quelle familiari o sotto giureconsulto (come lo erano tutte, escluse le parrocchiali).

I primi due monumenti furono commissionati a Taddeo Carlone, quando già maturo per il primo e vecchio per il secondo. Appare ovvio che gli altri furono commissionati ai figli ed alla bottega dello scultore.

 (La famiglia dei Carlone vede, per primo

== GIOVANNI da Rovio, detto “il vecchio”, scultore–o scopelino- di marmi, specie di arabeschi e fogliami (Rovio è un nucleo antichissimo, sede parrocchiale autonoma dal 1238; in Ticino, alle pendici del m.Generoso, sulla sponda sin. del lago di Lugano). L’emigrazione iniziò sia per espansione demografica, sia per le periodiche minacce di epidemie, in coincidenza di un aumento di richiesta e committenza in tutta l’Europa. Caratteristica il ritorno al paese dalle mogli e figli per il giorno di s.Andrea –30novembre-, e ripartenza per carnevale. Era a Genova  dal 1555; morì tra il 1574-6.

==CARLONE GIUSEPPE scultore, figlio di Giovanni. Sposò la sorella della cognata

==CARLONE TADDEO  1543-1613  scultore figlio di Giovanni, nato a Rovio, imparò l’arte nella bottega del padre, e la perfezionò recandosi a Roma in soggiorno. Si dice a Genova 17enne; è sicura la sua presenza dal 1571, quando lavorò col padre. Venuto alle dipendenze dei Doria dal 1574, eseguì il monumento funebre per Gio Battista nel 1576-7, divenendo lo scultore dalla personalità più rappresentativa del momento, e tale da essere presente nelle più qualificate produzioni e progettazioni  nella città di Genova. Sposò  a 40anni, nel 1583, Geronima figlia di Pantaleo Verro da Voltaggio una genovese abitante in s.Sabina. Nel 1585 rischiò il carcere per debiti, non essendo in grado di restituire 25 scudi d’oro prestati da Giovanni Spinola di Nicola: fu salvato da un amico conterraneo. Suoi figli sono:-

=CARLONE GIOVANNI omonimo del nonno, primogenito figlio di Taddeo, pittore, formatosi –con B.Strozzi- alla scuola del senese P.Sorri; poi andò a Fiurenze, Roma; sposò il 223.1609 Ersilia, figlia di Bernardo Castello. Ebbe figli Taddeo, Bernardo, AnnaMaria. Tenuto d’occhio dal padre e dal suocero, autorevoli ed autoritari,

=CARLONE GIOVANNI BATTISTA pittore –secondogenito figlio di Taddeo (battezzato 16 feb.1603-1677 oppure 160_?).  Studiò a Roma e Firenze, ma svolse tutta la sua attività a Genova e Liguria (con brevi puntate a Milano, Nizza e Pavia).  Molto ampia la produzione di affreschi  in città ed a Busalla, Sassello, Lerici, Rapallo. Sposò Nicoletta Scorza di Voltaggio, da cui ebbe un figlio poi pittore pure lui, GiovanniAndrea. Durante le epidemie, si rifugiava con la famiglia a Voltaggio ove aveva proprietà.

=ed anche TOMMASO, battezzato 11.8.1586; LUCIA, battezzata il 12.5.1598; FRANCESCO divenuto sacerdote).

  

==1° da sinistra) per Giovanni Battista Doria (divenuto sacerdote); datato 1577 (altri scrivono erroneamente 1576), fu il secondo ad essere collocato nella chiesa, di fronte al primo, lateralmente all’altare maggiore. Dopo disegno preparatorio (recentemente ritrovato e pare studiato con il Cambiaso), l’opera marmorea, sovrastata dalla statua di san GiovanniBattista, è di  Taddeo Carlone.

         

La scritta recita “D. O. M. - IOANNI BAPTISTÆ DORIA IO. IAC.F. PONTIFICIJ CÆSAR /  EIQ. IVRIS CONSVLTISSIMO : VTRIVSQ. SIGNATVRÆ / REFRENDARIO : APOSTOLICI DECEM VIRALIS MAGISTRATVS / DIGNITATE INSIGNITO : LATIJ , VMBRIÆ , ÆMILIÆQ. PROVINCIÆ / NEC NON BONONIÆ SUB SVMMIS PONTIFICIB, PRÆFECTVRA /  PERFUNCTO HOC EX TESTAMENTO MOESTISIMI FRATRES / MONVMENTV POSVERE AN.DNI MDLXXVII OBIIT AVTE / ROMÆ PRID.NON.JAN. AN.MDLXXIII ÆT VERO SUÆ LVII“.

L’opera fu commissionata da Nicolò e da Ottaviano Doria, per la cifra di 1600 lire più altre cento in dono, nel 1577. Novella dice 1576, ma non corrisponde con la scritta latina.                    

==2°) per  Nicolò Doria (sposato con Nicoletta Gentile q.Paride, ebbero  sette figli),  il monumento è datato 1604 e fu commissionato dai figli a Taddeo Carlone ormai vecchio (quindi come il 3° e 4° appaiono essere più opera della sua bottega); e l’Alizeri lo sottolinea affermando «Nè fa mestieri di troppa acutezza a conoscere che in linea di diligenza, se pur non vogliamo di virtù e di dottrina, queste (le prime due, ndr) due sepolture prevalgono alle tre altre..»). Alla sommità c’è l’immagine di san Pietro.

 

La scritta dice: “D.O.M. NICOLAO DORIAE PARIDIS, IO.IAC.US, CEVA, / PHILIPPUS ET IO.BAPTA FILY POST ERECTAQ / PATRIUS  MONUMta . PATRIS TITULOS SILERI / IMPIUM RATI HOC PIETATIS OPUS / PIJSSIMO VIRO DICAVERE / ANNO DOMINI MDCIV / PRID. NON. MAY“. Questo sepolcro, assieme ai due successivi, furono collocati nell’abside, non appena ultimata la ristrutturazione, negli ultimi anni del secolo.

==3°) per Filippo Doria   è anch’esso del 1604, della bottega del Carlone;  in alto sovrasta l’immagine di Cristo risorto.

 

L’iscrizione dice : “D.O.M. PHILIPPO DORIAE IO. IAC. FILIO DE UNIVERSA FAMILIA  / AMPLISSIMIS LEGATIS OPTIME MERITO AD / TESTANDAM VIRI PIETATEM AC MUNIFICENTIA / POSTERISQ. INSIGNE IMITATIONIS EXEMPLU / PROPONENDUM EADEM FAMIGLIA GRATI ANIMI / ERGO, HOC EX S. CON. EREXIT MONUMENTUM, / ANNO DOMINI MDCIV .PRID. NON. MAY. “      

==4°)  Il sepolcro di Ottaviano Doria   ordinato nel 1604 a Taddeo Carlone ma lavorato prevalentemente dalla sua bottega;  vede nell’edicola architravata alla sommità, l’immagine di san Giovanni Evangelista (la critica vede una copia dal Francavilla).

 

La scritta recita “D.O.M. OCTAVIANO DORIAE OMNIBUS FERE REIPca / MUNERIBUS INTEGRE PRUDENTERQ / PERFUNCTO PARIDIS IO. IACOBI, CEVÆ / PHILIPPI ET IO. BAPTAE EX NICOLAO  / FRATRE NEPOTUM PIA CURA / HOC MARMOR ERECTUM EST  / ANNO DOMINI MDCIV / .PRID.NON.MAY. “

==5°) per Ceva Doria, il più antico  perché eseguito tra il 1574 ed il 76, è pure di migliore qualità,  e dovuto anch’esso  al trentunenne Taddeo Carlone agli inizi dell’attività genovese, con l’aiuto del socio di bottega Bernardino di Novo e Gian Giacomo Paracca (Tosini scrive sempre Parraca; fu Antonio, nato circa nel 1525 e detto Valsoldo perché proveniente dalla vallata Valsolda di Como; Taddeo, due anni dopo ‘scalzò’ le commissioni del Valsoldo entrando con lui in vertenze e vincendole ma producendo figure di qualità inferiore), costato alla famiglia 500 scudi,  sovrastato dall’immagine della Madonna col Bambino. La tomba, segue lo schema di una edicola con timpano sovrapposto al sarcofago dal profilo svasato posto su un basamento e sovrapposto dalla mezza figura del defunto seduto al centro ed affiancato da due putti.

Reca la scritta: “D.O.M. CEVA DORIA JOANNIS IAC.P. IN GERENDA REPca./  IUSTITIAQ. TUEDA MAIOR VESTIGIA SEQUUTO OCTAVIANUS FR. POSUIT. //  OBIJT ANNU AGENS SEXAGESIMU SEPTIMU XIIIJ FEB. / ANO SALUTIS NRÆ MDLXXIIIJ .”

Il monumento venne poi arricchito da piedini a zampa di leone a sostegno del sarcofago, quando fu rielaborato l’ambiente del presbiterio.  Questo schema di monumento funebre, fu  ampiamente copiato e divenne repertorio riproposto da varie altre botteghe.

 

 

 

 

===sulla volta del presbiterio, gli affreschi di Domenico Fiasella detto il

Sarzana (1589-1669), commissionati dagli Agostiniani intorno al 1650 (=Gavazza; 63.242 dice del ’20; un opuscolo della chiesa dice ‘35-45): il soggetto, caro all’Ordine committente, esalta la figura della madre di Cristo focalizzando dieci episodi della sua vita (tratti dai Vangeli o dalla tradizione, significativamente esclusi gli episodi direttamente connessi alla presenza del Figlio) narra in dieci medaglioni, la vita di Maria’ e per questo è descritto come  “I Misteri di Maria” o “le storie della Vergine” o “la vita della Madonna”: un’opera certamente e vistosamente grandiosa, arricchita dalle decorazioni barocche che accrescono il senso di importanza ai dipinti anche se sono -per la critica- di stile manierato sia perché opera del pittore in età avanzata, sia perché in parte dovuta agli allievi purtroppo assai meno capaci del maestro, sia perché soggetti a ritocchi post deterioramento. Vi sono figure di Santi e Profeti, stagliati su un cielo dipinto da Domenico Fiasella  programmato ad esaltare i sottodescritti riquadri della Madonna

Inquadrati da 10 grosse cornici di stucco dorato, descrivono gli episodi determinanti della vita di Maria, sia tratti dai Vangeli che dalla tradizione o addirittura leggendari ma comunque e significativamente in nessuno è segnata la presenza di Gesù. Sono: l’annunciazione a Gioacchino (secondo il racconto fatto nel protovangelo di Giacomo, risultato apocrifo: il nunzio celeste –l’arcangelo Gabriele presumibilmente- annuncia la gravidanza della moglie Anna; Gioacchino sacrificjherà dieci agnelli senza macchia a Dio, dodici vitelli per i sacerdoti ed il consiglio degli anziani, e cento capretti per il popolo); natività di Maria; presentazione al tempio; annunciazione dell’Angelo; sposalizio;  visitazione;   morte (o transito o ‘dormitio’: nel riquadro Maria giace supina su un letto a baldacchino –introdotto originalmente nella pittura in quei tempi- con le mani conserte sul ventre; Pietro la abbraccia¸gli altri apostoli sono attorno, e tra loro due donne piangenti,vedove ed  amiche, alle quali Maria ha lasciato i suoi vestiti);  funerali (o esequie. Come descritto nella Legenda Aurea di Iacopo da Varagine, Maria è stesa su una portantina sorretta a spalle da Pietro e ?Paolo affiancati davanti; preceduti da un giovane –forse Giovanni- e da un sacerdote con tipico copricapo; attorno gli altri apostoli); assunzione in cielo; incoronazione.  

 

=====NAVATA  DESTRA

 

         7ª cappella, posta nell’abside, a destra  “di san Pietro”: 

==Nella cappella === un olio su  tela di 213 x 151, con  San Pietro, sant’Ugo e san Carlo  di  Gian Lorenzo Bertolotto  (1640-1721-educato alla pittura dal padre, crebbe sotto la guida del Castiglione ; lavorò a Genova ed in Liguria : il suo stile viene definito ‘facile e discontinuo’ nel senso di facile influenzabilità da parte di altri, giudicabili maestri per lui). La tela è proveniente dalla chiesa di san Martino ove era nella cappella della Compagnia dei Pescatori  “distrutta;  altare e cappella fu ben preparata dall’Arciprete Stefano Daneri” (Remondini). Un capitolo dello statuto della ‘Societas piscatorum loci Sancti Petri Arenae’, fondata nel 1615 prescriveva che le spese di mantenimento della cappella fossero sostenute con parte del ricavo del pescato dei giorni festivi. La scena  descrive la carità dei santi  verso dei poveri (un uomo ed una donna sdraiati in basso); nello sfondo un volto barbuto (sant’Ugo);  a destra un avambraccio che regge un calice; in alto teste di cherubini.

=== un olio su tela (176 x 124) di ignoto pittore della fine del XVII secolo  raffigurante una  Santa in estasi (probabilmente s.Rita) con braccia aperte, di fronte alla sacra Famiglia (Madonna  Bambino e san Giuseppe seduti sopra una nuvola, tra angioletti); in basso un libro.

===un olio su tela ( 173 x 124) di ignoto autore del XVIII secolo, raffigurante la beata Veronica da Binasco  (figura mistica  agostiniana del XV secolo straordinariamente nota in quel tempo), precisata da un cartiglio in basso, che riceve l’Eucarestia direttamente da Gesù sporgente da una nuvola. 

===Il paliotto dell’altare, come nell’11°, è di falso marmo: una lastra di scagliola dipinta a riprodurre preziosi intarsi marmorei. Tipico esempio di ‘arte povera’ dell’epoca precedente l’800 e della sistemazione degli altari.

 

         8ª cappella  (quarta da destra)  “di san Bernardo.

Precedentemente e storicamente era dedicata a ‘san Nicola da Tolentino’agostiniano canonizzato nel 1446, esistendovi anticamente un polittico (vedi nella cronologia, all’anno 1466), che nel 1799 fu sostituito con la grande tela del Grechetto perché durante la repressione, il polittico fu smembrato e dopo, alla restaurazione, in parte risultò disperso.

La primitiva dedica a san Nicola, è testimoniata nei cartolari P, di san Giorgio, nella colonna di Brancaleone Doria 1485.

La cappella fu curata, fin da prima del 1485, da un ramo dei Doria individuato dall’ing. Tosini nella sottodescritta discendenza (quelli che hanno una dimostrazione di rapporto con la cappella dedicata a s.Nicola da Tolantino, sono evidenziati in rosso):

1 - Lamba Doria, figlio di Pietro,  capitano di Genova, vincitore della battaglia contro i Veneziani a Curzola nel 1297 (quando fu fatto prigioniero Marco Polo). Ebbe 6 figli Zenoardo, Alberto, Tedisio, Maria, Lambino e Cesare=2.

2 - Cesare Doria, vissuto a cavallo tra 1200 e 1300. Nel 1334 sposo con Franca Giudice; ebbe tre figli, Argenta,  Opicino=3 ed Andreolo 3A.

3 - Opicino Doria vissuto nella seconda metà del 1300, è conosciuto per un lascito testamentario rogato a Chio, datato 19 ago.1435 -che forse non riguarda la nostra chiesa,  sottoscritto dal notaio Lazarini q.Nicolai de Rapallo).

Ebbe sette figli: Cattarina, Francesco, Chiara, Leonardo,  Androlo, Brancaleone=4A, Bartolomeo=4B.

3A – Andreolo diede origine ad una discendenza che dopo 6 generazioni sarà protagonista con i monumenti funebri  dell’abside, dove verranno descritti

4A – Brancaleone Doria qOpicino; lasciò alla chiesa il provento di 15 ‘luoghi’,  per una messa quotidiana da farsi all’altare di s.Nicola da Tolentino, ed officio annuo per sé ed i suoi avi (cartulario di s.Giorgio, P c 32, del 1485). Sposo di MariaDoria q.Ceva q Antonio, ebbe 4 figli: Maria, Ginevra, Battista=5A1 e Ceva=5A2.

4B –Bartolomeo Doria q.Opicino; citato nell’iscrizione sull’architrave nella cappella di s.Agostino, dove viene descritto

5A1 Battista q.Brancaleone vissuto nel 1420; sposo con Chiara De Marini q.Cattaneo, ebbe un solo figlio Brancaleone=6A1

5A2 Ceva qBrancaleone;  vissuto nel 1420, andò sposo  a Selvagia Spinola q.Luciano con la quale ebbe due figli: Gironima e Paolo=6A2

6A1 Brancaleone qBattista, vissuto negli anni 1441 (anche lui degno di statua in piedi nella sala delle Compere innalzata nel 1574). Sposo con Bartolommea XY e –in seconde nozze- con Pellegra Lomellini q. Raffaele, ebbe tre figli: Tommasina, Francesca e Agostino=7A1

6A2 Paolo qCeva vissuto nel 1469; il quale -scrive Tosini- fu il committente del polittico di san Nicola da Tolentino, ordinato all’alessandrino Mazone Giovanni nel 1466; i suoi meriti gli furono riconosciuti con l’innalzamento (1668) di una statua in piedi in palazzo san Giorgio nella sala delle Compere con la scritta “Paulo Doria Cevæ ad vectigalia minuenda locorum mille multiplici perpetuo largitori MDCLXVIII”;  e luogo di sepoltura -1474- scelse san Nicolò del Boschetto.Andato sposo a Maria Vivaldi q.Ottaviano, ebbe 5 figlie femmine.

7A1 Agostino q. Brancaleone; nato dalla prima moglie del padre; vissuto 1496. Nel suo testamento del 30 giugno 1499 chiese essere sepolto nella cappella di san Nicola di Santæ Mariæ de Cella –notaio Franco Camogli-ASC. Sposo di Pellegra Doria q. Paolo q.Ceva, ebbe 5 figli vissuti a fine 1400 Gironima, Bartolommea,  Paolo, Girolamo 8A1  e GioBatta=8A2

8A1 Girolamo q.Agostino; Fu nominato -alla fine della vita- cardinale, diacono e vescovo di Tarragona, riformatore di leggi nel 1528; Andrea Doria gli affidò l’incarico di sollecitare Baccio Bandinelli perché finisse una sua statua; mentre il pontefice lo incaricò di risolvere una controversia tra Agostiniani e le monache di sant’Andrea riguardo i beni del monastero del s.Sepolcro in SPd’Arena.  Fu “sepelito nella cappella di s.Nicolò fabricata da Brancaleone Doria...senza epitaffio e senza altra insegna”. Sposo di Luigia Spinola q.Battista, suo figlio Nicolò=9A1

8A2GioBatta, q.Agostino,  sposo con Maria Lomellini q.Agostino, ebbe 5 figli  vissuti nella prima metà del 1500: Bartolommea, Pellina, Brancaleone, Paolo=9A2, Agostino=9A3,  

9A1 Nicolò q.Girolamo, sposo di Camilla Fieschi –sorella di GLuigi- si fece coinvolgere nella congiura del 1547.

9A2 Paolo q.GB; il nome è scritto nella lapide del corridoio, del 1603 e legata ad un lascito per l’altare di s.Nicola «pro anima quondam Thomasina de Auria ac quondam Pauli sui viri».. Fu un grande benefattore dei Gesuiti, riconosciuto dalla congrregazione quale fondatore del ‘collegio genovese’. Ebbe tre figli: Gerolamo, Ambrogio (nato 1550, doge nel 1621) e Stefano=10A.

9A3 – Agostino  qGB. Sposando Maria Spinola qFrancesco, ebbe 8 figli: Giulio, Paola, Claudia, Marc’antonio, Cesare, GB, Cristofaro e  Francesco. Quest’ultimo, a sua volta, sposando Livia Cibo qFrancesco, ebbe 9 figli: Ansaldo, Agostino, Ippolita,  Marc’Antonio, Agostino, Catetta, Brancaleone, Paolo e Pagano=11A.

10A – Stefano qPaolo, sposa in seconde nozze Virginia Doria q. Agostino. Divenne patrone della Cappella al Gesù.

11A – Pagano q Francesco. Ebbe cura della sistemazione dell’altare di s.Nicola da Tolentino.  Infatti oggi, sotto il grande quadro è un marmo dell’altare, che porta una scritta  rivelante che la pietra fu scolpita nel 1667,  per commissione di Pagano Doria, al fine di dedicarlo a san Nicola da Tolentino (“maximo Tolentino taumaturgo ne temporum iniuria desint obsequia hoc marmore aeternari voluit Paganus Doria q. Francisci maiorum suorum Pauli ac Brancaleonis fratris amatiss. Beatricis filiae et suorum non immemor - anno d.ni mdclxvii”=1667). Il polittico andato perduto, sarà poi sostituito nel 1799 con la pala di s.Bernardo dipinta dal Grechetto.

          

altare                                                          volta

==sopra il marmoreo altare, c’è un grosso olio su tela (305 x 222= La scheda fornisce misure lievemente più piccole 301x214) raffigurante  la visione mistica di San Bernardo abate di Chiaravalle, messo  in preghiera davanti al Crocifisso  di  Gio.Benedetto Castiglione detto il Grechetto (1610-1665 (Tosini anticipa ambedue le date di un anno); nacque a Genova ove si formò alla scuola del Paggi; si trasferì a Roma ventiduenne ove divenne anche accademico e formò famiglia con Maddalena Cotuzia. Tornò nel 1645 -per un anno o due-, e nel  1659 e nel 1661 (Zanelli precisa: nato 23 marzo 1609, a Genova dal febb.1639 al 1647 e sicuri dal 1650 per 6 anni); a Venezia nel 1660 e Mantova l’anno dopo; da Napoli dovette fuggire per rissa e processo; a Mantova fu alla corte dei Gonzaga e vi morì (Zanelli: il 5 maggio 1664).


 

   Il quadro proviene dalla abbazia (ex plebania) di San Martino commissionato per un apposito altare nell’anno 1642 dal sampierdarenese Sebastiano Bocconelli -personaggio mai conosciuto in altre occasioni-; e trasferito alla Cella alla chiusura della parrocchia per ordine della Repubblica Ligure.


   Delle opere dell’artista –qualificato a livello nazionale come massimo artista del seicento-, questa  viene considerata una “delle bellissime e delle più spiritose che egli mai lavorasse”.

   Delle poche sue prodotte utili come pale d’altare (come quella  in san Luca ed altra in san Giacomo della Marina), in questa descrive il santo inginocchiato ed a braccia larghe, vestito della tonaca della congregazione dei frati riformati detti Foglianti (cocolla con cappuccio che copre l’intera schiena, e cintola) che beve il sangue spremuto dalla mano destra del Cristo e sprizzante dal costato ferito dalla lancia. Il Crocifisso come staccatosi dalla croce con gli arti superiori, tiene invece la mano sinistra appoggiata sulla spalla come per attirarlo. Il  cartiglio dell’ INRI è scritto in esteso ma con lettere ebraiche. Intorno, tre figure di serafini (uno che bacia i piedi del Cristo ancora inchiodati e sanguinanti e che tiene il pastorale; gli altri due che contemplando, reggono la mitria, (ambedue simboli di dignità vescovile, ma che il santo avrebbe rifiutato per umiltà) ed un libro (simbolo dell’appartenenza ai Dottori della Chiesa) e di tre angeli in adorazione; dal più basso all’estrema destra fuoriesce  un cartiglio con la scritta “non obliviscar tui” (passo tratto da una lettera scritta nel 1133 dal santo ai genovesi (Grumo scrive nel 1311 precisando “ep.129 in P.L.182, coll.283-285). Tosini scrive che il Santo venne a Genova nel 1132 e successivamente scrisse la lettera: il ché spiega il senso del cartiglio ‘non obliviscar tui’). In basso -ai piedi della croce- il teschio di Adamo ed  il demonio riverso e tenuto a terra dal piede del santo; nello sfondo a sinistra il panorama di San Pier d’Arena con la Lanterna, simbolo della città di Genova che lo aveva  da poco  proclamato  copatrono della Repubblica.

   La tela segue il culto del santo che riaveva avuto un certo fervore, quando nel 1625 Carlo Emanuele di Savoia aveva mosso guerra alla Repubblica: nella mobilitazione di difesa, il padre cappuccino Cirillo Mazza auspicò la protezione delle truppe da parte del santo, sulla scia della lettera da lui scritta appunto quattrocento anni prima. L’idea fu accettata dal Senato e fu poi ratificata dal Papa,  col voto di stabilire come festa di precetto locale il giorno dedicato al santo; e con l’impegno di costruire una chiesa a lui dedicata, usando denaro pubblico.

   Il tipo di immagine, definito ‘Amplexus’, ebbe larga  diffusione nel periodo barocco spagnolo, per soddisfare l’interesse della Chiesa verso le immagini  di santi in estasi e del sangue di Cristo simbolo per eccellenza del sacramento eucaristico.

   Trae origine da una delle leggende fiorite dopo la morte del santo e mirate a descrivere le sue qualità vicine al soprannaturale ed al narrato suo frequente contatto fisico e spirituale con Gesù: il santo è conscio delle sofferenze della Passione e si immedesima nel tormento che servirà a schiacciare sia il demonio che il peccato originale(il teschio di Adamo); Dapprima  Menardo, abate dell’abbazia di Mores narrò che  il santo passava  molto tempo prostrato davanti al crocifisso in mistica comunione e che lui stesso vide la scena descritta nel quadro; poi il frate domenicano Felix Faber scrisse nel 1480-4 nel suo ‘Evagatorium in Terrae Sanctae’ che un giorno Bernardo quando era in preghiera era come se accostasse le labbra al costato di Gesù e succhiasse le nozioni di dottrina (‘melliflua doctrinarum’). Da un fatto simbolico al racconto testimoniato il passo fu breve, e tal Corrado di Eberbach riunì tutte queste leggende in un libro ‘Exordium Magnum cistercense Liber miraculorum’ .

   Tutta la scena vuol sottolineare il legame tra il sangue di Cristo versato sulla Croce e  la ripetizione del sacrificio eucaristico all’offertorio di  ogni messa: questo  parallelismo fondamentale nella cultura religiosa, il  Grechetto lo descrive con personale interpretazione del soggetto sacro (il Cristo che usa gli ultimi aneliti della sua vita, staccandosi dalla croce, per abbracciare il santo e parlargli, accordandogli un privilegio unico e miracoloso); in più aggiunge la continuità del concetto protettivo: da dio al santo intermediario, e da lui sia al borgo di San Pier d’Arena ( committente), che la città di Genova rappresentata dalla Lanterna.

   La pala, per chi ha cultura in merito, fa intravedere delle ascendenze pittoriche lombarde miste alle grandi novità romane di ascendenza berniniana;  alcuni altri leggono una forte influenza stilistica di Van Dick. Comunque concordi che rappresenta un punto fermo innovatore di un’evoluzione pittorica, sul cui cammino maturerà un seguito di artisti (tra cui Domenico Piola) sempre più bravi interpreti  e capaci. Due disegni dello stesso autore, conservati  a Roma (Istituto Nazionale per la Grafica) ed a San Francisco(Achenbach Foundation) in parte nell’uno ed in toto nell’altro, riproducono  le figure del quadro. Quest’ultimo fu restaurato nel 1990 in occasione della mostra svoltasi a Genova dedicata all’autore (durante esso, fu possibile leggere la sottostante traccia grafica preparatoria stesa dall’autore, con uno stile tutto suo personale)

   Forse vi esisteva una cappella dedicata a san Nicolò- nella quale 41.146 segnala furono sepolti nel 1558 e 1569 rispettivamente il card. Gerolamo Doria (uno dei dodici riformatori delle leggi del 1528), di Antonio Doria ed Ingone Doria.

   Remondini segnala che “sui gradini stanno due marmorei fregi, già sepolcrali”

==Sulla volta, opera affrescata da Giuseppe Passano (1786-1849), raffigurante la  gloria di san Bernardo: questi, vestito di tunica bianca è portato in cielo da due angeli ; in basso altri due angeli, posti sopra una nuvola, sorreggono i simboli vescovili della tiara e del bastone pastorale . Lo stesso tema è espresso in maniera stilisticamente migliore su una tela del Grechetto.

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         9ª cappella  (terza, da destra) “del Sacro Cuore”

==sull’altare (che nel 1880 era “in calce, ed è sacro a s.Martino: il popolo, da un sottoquadro, lo dice l’altare di N.S. del buon Consiglio.”) c’è stato un dipinto (tecnica mista) su legno di 200x140, raffigurante san Martino che dona il mantello al povero e proveniente dal coro della pieve di San Martino. Prodotto da ignoto pittore del XVI secolo, rappresenta la classica scena del taglio del mantello, in un ambiente all’aperto con sfondo campestre. La parte superiore del legno è centinata. Recentemente restaurato, è stato posto nell’11° altare .

 

 

L’ovale con il Sacro Cuore è una delle opere di Giuseppe Passano (1786-1849) eseguita nel 1820; la corona di angioletti, che lo circonda, appare retrodatata, dell’ottocento, e probabilmente circondava un altro quadro.

==Vi era stata anteposta una statua modernamente scolpita in marmo, raffigurante san Martino di Tours, opera di V.Pestelli, ora al museo.

==Sulla volta c’è affrescato al centro il simbolo dello Spirito Santo; intorno appare circondato da stucchi a  volute floreali allargate; opera di scarso impegno artistico.

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         10ª cappella  (seconda, da destra) “del Crocifisso”

==Ai due lati dell’altare, due grandi figure femminili disegnate sull’intonaco,  raffigurano le sibille Eritrea e Frisia, ambedue con cartiglio scritto in latino: in quella a sinistra è scritto «Jesus Christus Filius Dei Servator»; in quella a destra lo scritto appare illeggibile.

Sotto esse, rispettivamente sono due lapidi. In quella a sinistra appare scritto «ANNO . M.D.CCC.XC.III . NONIS .  MARS / THOMAS . REGGIUS . MARCH . ARCHIEP . N . / ALFONSUS . MINSTRANGELUS . EPISC . APUANORUM /       FIDELIS . ABBATIUS . EPISC . DIOCLETIANOPOLITANUS / SACRO . SOLEMN . PERACTO / SERVATOREM . JESUM / ANTE . IMAGINEM . QUAE . TUTAMEN . NOSTRUM . EST / SUPPLICES . APPOSUERUNT /». In quella a destra si legge «HIERONIMUS THOME DE SYLVA / SANCTI SERVATORIS IN BAHIA ARCHIEPISCOPUS / BRASILAE PRIMAS / LIMINA APOSTOLICA ADITURUS / HIC LIBENS CONATITIT / PRIDIE NON MAI MDCCCXCV / DIE FESTO SANCTISSIMI SERVATORIS».

           

==sulla volta, affreschi (dal Remondini giudicati «moderni affreschi non trascurati») di  Giuseppe Passano  raffiguranti, nel tondo centrale l’immagine di Dio con la colomba dello Spirito Santo ed un angelo sorreggente il calice -simbolo dell’eucarestia-; nei peduncoli più in basso, varie immagini di profeti e sibille che si alternano a scene della Passione di Cristo (= nell’orto di Getsemani - crocifissione - sepoltura - risurrezione)                           

==l’altare. La prima alzata, sopra il piano dell’altare, è composta da due teche rettangolari, contenenti reliquie. Sopra essa, la parete del muro è coperto da una tela.; in questo vano –nell’ott.2000- è posto il Cristo del Ciurlo con ai piedi le due statue lignee tedesche, che sono descritte nel museo.

Infatti, da recente (maggio 2004), è divenuta cappella del Crocifisso perché ospita opera lignea del secolo XVIII di  Pier Maria Ciurlo (1679-17__?=XVIII sec),. Storia= Era stato attribuito a  Gerolamo Pittaluga (attribuzione fatta da O.Grosso nel 1939, ma recentemente riattribuito. Prima del restauro era collocato davanti al pilastro di destra, appena entrati: fu spostato perché il tempo, il contatto dei fedeli, il fumo dei ceri, faceva consumare alcune parti ed addirittura staccarle. Nel 2004, si completò il restauro sponsorizzato da un Lions Club Ge.EUR, approvato e con la supervisione dalla Soprintendenza ed eseguito nel laboratorio «Marchi Restauri» di Nerio Marchi ed Angela Mambelli.

Il legno= di grosse dimensioni (205 x 100 x 26,5 – altrove vengono riportate altre dimensioni 310 x 120 x 30), in alto il cartiglio con la scritta INRI;  dall’incrocio dei legni scuri, si allarga posteriormente una raggiera; alla sommità dei bracci vi sono dei capicroce dorati. Il corpo del Cristo è abbandonato, col capo reclinato sulla spalla destra. Le dita della mano destra hanno indice e medio in estensione, le altre dita in flessione: nella mano sinistra sono tutte in flessione. Il ginocchio destro è davanti a quello sinistro mentre è invertita la posizione per i piedi. Mostra da parte dell’incisore una particolare cura nello studio dell’anatomia e della posizione del corpo, con raffinata attenzione nell’intaglio delle pieghe del panneggio, dei fili della barba e dei capelli.

 

Le estremità dei legni, sono prive di  capicroce  (ci sono o no?) (reclinato a dx o sin?).

 

== Inizialmente, vi fu ospitato –fino al 1929- il masso con l’affresco del SS.Salvatore; allora aveva un altare in marmo, a due colonne.

Poi  ospitò sia l’Annunciazione (ora trasferita al museo), che la tavola ora all’altare  seguente; in seguito venne detta Cappella di san Giuseppe, per la presenza di una   statua lignea del Santo.   

==Ha pure ospitato anche i santi Cosma e Damiano: oggi (2008) installati all’entrata centrale. Fortemente desiderati dalla comunità pugliese, sono rappresentati da due statue lignee di fattura recente (1960), con vesti arabescate. Dapprima furono posti dentro una grossa teca di vetro sostenuta da una intelaiatura di alluminio che mal si addiceva allo stile generale della chiesa. Tolta l’invasatura, troneggiano presso l’ingresso principale. I PUGLIESI  Tradizione in Puglia celebrare solennemente i due santi medici, patroni di quelle terre, come per noi genovesi san Giovanni Battista. Riccamente venerati a Bitonto (festa la terza domenica di ottobre; e da questo centro, a Ruvo di Puglia), Oria (nel santuario di s.Cosma alla Macchia, si troverebbero reliquie dei 5 fratelli), Alberobello (dal 1635 è festa il 26 settembre). Tradizione per i pugliesi sparsi nell’ Italia, specie Milano Torino e Genova,  sobbarcarsi un lungo viaggio per  andare e partecipare. I SANTI  Poco o  nulla si sa di certo. Una ricostruzione tarda dell’antica “passio” offre spunti di conoscenza, soffermandosi su “antichi atti processuali per beatificazione” riguardanti quindi una ricostruzione dei momenti di vita e delle eroiche virtù che sottolinearono col martirio la fede incrollabile in Gesù. La fantasia successiva portò perfino a doppiare con personaggi omonimi, a mutare località o date di nascita e di martirio, a volte in maniera nettamente contraddicentesi.

Cosma e Damiano furono due fratelli (forse gemelli) arabi, nati da Teodata (o Teodora; viene ricordata solo la madre, convertita cristiana; come spesso succede quando il padre moriva prematuramente); in terra Egea; nel  III secolo.

Divenuti medici in Siria; esercitarono la professione a Egea (in Cilicia. Qui era una scuola di medicina, seconda solo a quelle più famose di Epidauro e di Pergamo. Si distingueva per la gratuità –caratteristica dei precetti e Esculapio ed ampiamente confacente con i dettami della dottrina cattolica-  a favore dei poveri –ed in seguito alla conversione- nel nome del Dio cristiano); divenendo famosi per cultura, bravura (guarivano molti) e grandi esempi di carità (al punto che già nel V-VI secolo furono ritenuti senza dubbi essere comandati dallo Spirito Santo a loro apparso in sogno e nelle icone spesso raffigurato come colomba emanante raggi ed aleggiante sul loro capo).

Cresciuti nella religione di Cristo, oltre che medici anargiri (ovvero senza argento cioè non pagati), divennero -per l’apostolato compiuto- diaconi e predicatori.     Si può presumere avessero carattere mite, dolce, aperto e disponibile, di facile presa sulla povera gente.

Fanno parte  della primitiva Chiesa Ortodossa d’Oriente, dalla quale poi quella di Occidente attinse tradizioni, liturgia e ordine giuridico.

Il martirio:  si pensa avvenne a Ciro in Siria, presso Antiochia; oppure in Egea stessa, comandata allora dal prefetto Lisia  -governatore della Cilicia durante Diocleziano, quindi nel 287 o 303 dopo Cristo  (altri scrive vissuti nella seconda metà del terzo secolo; altri  addirittura nel V secolo)-.

 La “passio” araba, riporta come tradizionale la martorizzazione assieme ad altri compagni tra cui assieme anche altri tre fratelli di nome Antimo, Leonzio ed Euprepio, tutti commemorati nella stessa data del 17 ottobre). La procedura allora prevedeva una prima fase determinata al tentativo di far abiurare tramite anche tortura reiterata applicando pene e tormenti vari: flagellando i corpi appesi; gettandoli legati tra i flutti del mare – e quindi la leggenda li vuole sospinti a riva ancor vivi, dalle correnti-; bruciando con ferri roventi –dai quali ovviamente restarono illesi-; bersagliando con frecce o sassi; mutilando. A seguito, si procedeva alla sentenza di morte vera e propria tramite decapitazione (come nel caso nostro, il 27 settembre) ma anche con crocifissione o lapidazione.

Dopo la morte, i corpi –ricuperati dai fedeli- furono sepolti fuori delle mura della città. Le spoglie vennero poi trovate a Kyros (Ciro), sepolte nell’interno di un santuario. Nel VI secolo Costantino ampliò ed arricchì la chiesa in ringraziamento dell’evento sottodescritto.

La santificazione: a Roma, con la presenza del papa di allora Felice III (526-530, malgrado affiancati da leggende e contrastanti testimonianze, come spesso accade nell’ambito medico), vennero santificati (non tanto per le guarigioni miracolose ma solo perché riconosciuti che lavoravano disinteressatamente e seppero indirizzare al vero Dio i malati, specie quelli senza speranza), e fu da Felice IV (526-530) a loro dedicata una nuova basilica (trasformando un tempio sulla via Sacra, eretto da Massenzio in memoria del figlio Romolo; ma già un tempi erano stati dedicati a loro a Costantinopoli (abbellito da Costantino nel VI secolo ché, portatovi moribondo, dopo preghiere ne uscì guarito), e già erano venerati a Gerusalemme, Edessa, e Perna in Egitto).

Le loro spoglie-reliquie  si dice furono traslate da s.Alfredo nel duomo di Hildesheim nella Ruhr; da qui altre le trasferirono a Brema e poi a Bamberga sino al XVI secolo quando MassimilianoII le portò nella chiesa di s.Michele a Monaco di Baviera. Altri scrive diverso e le fa traslate da Ciro –di tutti e 5 i fratelli- nella chiesa eretta in Roma -sub altare maius-, per volere di papa Gregorio Magno (590-604). Si venerano reliquie anche a Lusarches (Parigi), a Chartres, Venezia, di nuovo a Roma in san Marcello. Ed infine, del capo di Damiano , nella chiesa omonima di Genova.

Iconograficamente sono ritratti giovanissimi, somiglianti come gemelli con nella mano destra una palma (simbolo del martirio) e nella mano sinistra una cassetta (contenente gli attrezzi del mestiere, dagli unguenti ai ferri)

 Sono considerati patroni della  Boemia, di alcune terre della Puglia (a  Bari venerano san Nicola) e  di tutti coloro che esercitano le arti sanitarie (facoltà di medicina, farmacisti, medici chirurghi e malati; essi sono in genere effigiati con in mano attrezzature sanitarie come cassetta di medicinali, spatola per unguenti, ferri chirurgici).

Bibliograficamente, ricca di particolari –vita e miracoli dei due santi- è la “Legenda Aurea” di Jacopo a Varagine (1226 c.a.-1298), ai tempi il libro più letto dopo la Bibbia. Sul libro: ---è confermata nella loro deposizione a Lisia (nomi di tutti i fratelli, la provenienza araba, la loro povertà); ---viene descritta Palladia, una donna guarita che volle concretizzare a Damiano la sua guarigione con un dono non rifiutato non per cupidigia ma per soddisfare la donna,  mettendo però così in disaccordo i due fratelli. al punto che Cosma ordinò essere sepolto separato dal fratello. Cosa che poi non avvenne interpretando che il Signore avesse scusato i due giudizi. ---un contadino che recatosi dai santi per forti coliche, fece uscire dalla bocca una serpe entrata –si pensa- mentre dormiva nel campo da falciare; ---una donna che falsamente ingannata dal demonio e messasi in viaggio per raggiungere il marito, quando aggredita si appellò ai due santi che intervennero essendosi ella fidata del loro aiuto,  cacciando e mettendo in fuga l’attentatore ; ---il guardiano della chiesa dedicata ai due santi e fatta erigere in Roma da papa Felice aveva una cancrena ad una gamba; invocati i due, si svegliò con la gamba guarita ma di altro colore: nella notte i due santi avevano preso una gamba sana ad un etiope morto recente ed avevano sostituito i due arti: un controllo nella fossa del morto confermò la gamba malata fissata al negro.

A Genova l’abbazia millenaria a loro dedicata sorge sovrastante i ruderi del palazzo di Agrippa in piazza Cavour. Pare che già nel VII-VIII secolo vi fosse una cappella dedicata a san Damiano; la notizia certa è del 21 aprile 1049 per una donazione, quando quindi era già eretta. Ben presto la leggiamo che fu eletta a Collegiata, con possibilità nel 1163 di partecipare alla nomina dell’arcivescovo. Il titolo di abbazia fu concesso nel 1798 per interessamento della marchesa AnnaMaria Grimaldi. La chiesa, posta in piazza san Cosimo, è in stile romanico; fu colpita dal bombardamento di Luigi XIV che distrusse la cupola bizantina ed il tetto a capriata. Fu ritoccata (la facciata) nel seicento. conserva il quadro dei due santi, di Giacchino Assereto (1600-1649) ed altri quadri di GA Ferrari; forse un Bernardo Castello. Anche in san Donato si celebrano i due santi; in genere si eseguono concerti di musica classica e visite guidate della chiesa romanica. 

A San Pier d’Arena la comunità si costituì in confraternita negli anni ’70; con quella genovese, ritrpovandosi composti da oltre due decine di migliaia di conterranei, decise commemorare qui la tradizionale festa: dapprima nella chiesa di san Giuseppe a SestriPonente; dal 1981 nella chiesa della Cella di San Pier d’Arena, legalmente riconosciuta dal 2001, con proprio stendardo e medaglione da portare al collo. Presidente è stato Rocco DeVenuto; oggi è il sarto  Aldo Sorice, con vice Giuseppe Avella. Negli anni, diverse celebrazioni  (ultima domenica di settembre) hanno solennizzato la festa: dapprima venerazione dell’effige dei due medici riprodotta in un quadro; essa nel 1959-60 fu sostituita dalle  due statue fatta venire dalle terre di Puglia (Bitonto o Bari); a seguito anche tridui, conferenze, vespri, ed infine processione con suoni della banda locale “Risorgimento” e della  “Filarmonica Sestrese”; i Carabinieri in divisa solenne; lancio di palloncini. La  SAGRA ligure  Un santuario ligure è a loro dedicato a Gavenola in zona di Pieve di Teco. A San Pier d’Arena, alla fine di settembre, si dà il via ad una sagra che dura alcuni giorni e che si conclude religiosamente il giorno festivo con la s.Messa solenne celebrata dal parroco; con canti  (ultimamente della Corale Shalom);  la Processione con le statue poste vicine, su unica cassa portata a spalle e normalmente giacente all’ingresso della chiesa; accompagnati da altre Confraternite, con i nostri tradizionali Cristi,  in prima fila quella ‘padrona di casa’ di san Martino Morte e Adorazione;  la -o le- bande;  la Croce d’Oro che presta servizi sanitari gratuiti; le strade invase dalle bancarelle degli ambulanti.

 Sono previsti arrivi da tutto il nordovest italiano: tanti dei 25-30mila pugliesi, ‘invaderanno’ la città per partecipare

 

 

 

 

        

11ª cappella  (prima da destra ) 

Remondini segnala che il primo altare destro “spetta ai Doria”

==all’altare, una tempera su tavola di 277 x 198,  con  San Francesco d’Assisi, stimmatizzato  di ancora ignoto pittore di scuola lombarda del XVI secolo e che prima era ubicata nella cappella a fianco.


Recentemente restaurata, la cornice appare datata 1540 -in alto nella grande ed imponente cornice dorata-. In precedenza ebbe varie attribuzioni, tutte risultate erronee malgrado la data di riferimento (tra essi, anche di Agostino Bombelli o della sua scuola (Remondini e 72.I.174) o di un fiammingo (Ratti). Raffigura il santo che mostra le stigmate ad un monaco, sotto la protezione del Cristo in Croce avvolto in un manto rosso di spicco nel cielo azzurro intenso,  


 


in un ambiente all’aperto (villaggio alberi, rocce, fiume, colline).


Fu un dono  ragguardevole alla chiesa, forse –alla luce di alcuni documenti testamentari- è più associabile alla famiglia Grimaldi che da parte della famiglia Doria (Nicolò Grimaldi, detto ‘il monarca’, aveva nella chiesa una cappella dedicata a san Francesco).

Il sottostante paliotto è pregevole esempio di ‘arte povera’, di scuola lombardo-emiliana: fu infatti realizzato usando una base di gesso (scagliola) pigmentata a riprodurre un prezioso marmo; ed ha una origine presumibilmente anteriore all’800.

     Nel 2010, il quadro di san Francesco è stato sostituito con quello di recente restauro di San Martino e il povero, attribuito a Lazzaro Calvi (nato 1518 ca ; mentre il Soprani lo fa erroneamente nascere nel 1502)  con interventi della bottega, come del nipote Marco Antonio, viste le non poche imprecisioni che fanno presupporre una ‘committenza provinciale, o secondaria’ essendo in quegli anni impegnato a lavorare decorando la casa di Fassolo per  Giovanni Andrea Doria e la consorte Zenobia del Carretto ed in cui aveva ricevuto numerose commissioni di altre pale. Lazzaro aveva iniziato ad evidenziarsi al declinare dei più grandi Semino, Cambiaso, ecc., e dipinse questa tavola nel momento migliore e maturo della sua carriera alla fine della 2° metà del XVI secolo: una scritta sul retro della tavola traversa ottocentesca, non originale perché aggiunta in un successivo restauro, riferisce “1584”; confermata da altra scritta ritrovata sul legno originale -sotto questa tavola- con identica data in cifre romane “MDLXXXII” ;).

La tavola, alta 227 cm e larga 160; costituita da 4 tavole assemblate verticalmente e centinate, a detta dei fratelli Remondini (1897), era nel coro (definito ‘assai angusto’) della parrocchia di san Martino prima che nel 1799 l’edificio finisse completamente distrutto; e del dipinto se ne persero le tracce, essendo stata fortemente ridipinta (fuorvianti) in epoche successive specie ottocentesche e riscoperta con le nuove tecniche di indagine in modo da poterla attribuire con sicurezza a Lazzaro Calvi.

Portata a restauro, dopo 5 anni - nel magg.2009, e dopo è rimasta esposta al Museo Diocesano – infine è stata restituita alla Cella (Laborio Rest Reg.Lig.; sotto la direzione scientifica della Soprint. Per Beni Storici Artistici e Etnoantropologici+Univ di Ge. – Con l’uso dell’infrarosso, sotto il colore si possono individuare la struttura ed i disegni preliminari: a livello delle gambe del povero emerse l’ipotesi di essere opera di Perin del Vaga il quale alleggeriva le forme rendendole più brillanti, ottenendo effetti di migliore decorazione e di più accentuata funzione simbolica).

Evidente il significato anche storico: quando la tavola fu trasferita dalla Palmetta, la Cella non solo assunse il nome aggiunto del santo, ma anche decorò specificatamente una cappella (si scrive, ‘la terza’ della navata destra) con le vicende salienti della storia di Martino, accertata dalla Legenda Aurea di Jacopo da Varagine

 

==sulla volta  appaiono degli affreschi di ignoto della seconda metà del XIX secolo, (dopo che nel 1850 la chiesa fu allungata, aggiungendo quest’ultimo spazio : appaiono opera non di rilievo artistico) raffigurante putti e cherubini, inclusi in medaglioni separati tra loro da intrecci floreali che dipartono da erme poste ai quattro angoli

======PULPITO  datato 1926, di Giacinto Pasciuti (1876-1941) e allievi. Con la scritta AD MAIOREM DEI GLORIAM ANNO D.M. MCMXXVI.   

Ai lati due piccoli bassorilievi (in bronzo) di s.G.Battista-visione di s.Caterina Fieschi-Cristo nel Sinedrio-s.Francesco.

Precedente a quella data, c’era un altro pulpito marmoreo, dei frati, ove sotto la coppa era scolpito «Piovrum et Conv.Sumptibus Erectum.Anno 1616» ed -aggiunto dopo- «S.P.Arenae

.

===== Corridoio agli UFFICI PARROCCHIALI   

 


 

 

 

 

Superata la porta, lungo un corridoio chiuso, che un tempo corrispondeva a una parte del loggiato del chiostro (quadrangolare, a due piani) andato distrutto col bombardamento del  giu. 44; vi sono (e già vi erano anticamente) alcune

lapidi (dette ‘carte lapidarie’, in uso nelle città d’arte per ricordare, in forma più duratura e leggibile da tanti, un evento o un messaggio diverso dal cartaceo; ed allo scopo da applicare nelle chiese o nei palazzi), datate:


-1466 (lapide corredata da due stemmi, dei Grimaldi a sinistra e degli Usodimare a destra) «+Fratres Sancte Marie / de Cella proter multa / beneficia  adepta obligarunt / se ex caritate partecipes / facere  d Lucianu de Grimaldis / et Salvagiam uxore suam oniu / misar officior et bonor operum / m perpetuu conventus istius / m cccc lxvi die xvii marsii»  (sottolineate le parole incomprensibili; le tre r finali sono seguite da un segno trasversale sconosciuto)

 

(accenna alla fondazione di una cappella fatta da Agostino Negrone); 

-1446 (Giovanni Doria è citato su una iscrizione nell’architrave del tempietto di s.Agostino:–il cui figlio Nicola –sposo di una Fieschi-. Nel 1484 risulta presente a Roma come Capitano al servizio di InnocenzoVIII e nell’occasione introduce alla pratica delle armi i giovani Andrea e Filippo Doria); -

-1452 (di Giacomina, figlia di Nicola Doria  e di una Fieschi, e sorella di Domenico (anche lui legato alla chiesa della Cella e sepolto nella chiesuola di s.Agostino): «Giacobineta comitissa uxor q.Filippi...» era vedova di Filippo ---(cognome?) («comes», morto a metà gennaio 1531; a sua volta conte di Sassocorvaro (titolo ricevuto dai DellaRovere di Urbino) e di Castellamare (titolo ricevuto da CarloV); aveva una rendita annuale di 3mila ducati d’oro; fu vincitore sulla flotta spagnola della battaglia di Capo d’Orso a Salerno nel 1528 per conto di Andrea Doria di cui era stretto collaboratore, ed al servizio di FrancescoI. Giacomina nel testamento elesse come esecutori sia il GB (il creatore della villa Doria oggi delle Franzoniane); sia un altro nipote Ottaviano (figlio di GioGiacomo e di cui esiste il grosso monumento funebre nel presbiterio della chiesa della Cella) dai quali volle questa lapide di marmo (‘carta lapidaria’), con le sue volontà, e da porre nel coro della chiesa; aveva avuto due figli GioTommaso e Filippo  (come il padre;  sposò Peretta Doria di Tommaso –sorella di Giannettino-, rimasta vedova di Giulio Cibo);

    

1466 - medievale                         1584                                             1603

     

stemma Grimaldi                  DeMarini Usodimare

-1469 (copriva il sepolcro che Nicolò Oderico ergeva al benefattore Giacomo Grimaldo);   ------1603 «libras centum decem fructus annui pro anima quondam Thomasina De Auria ac quondam Pauli sui viri» (di Paolo Doria di GB. Per un legato (dire delle messe) all’altare di san Nicola per l’anima della moglie defunta Tomasina D’Oria”: Paolo fu anche grande benefattore della Compagnia di Gesù ed è riconosciuto quale fondatore del ‘collegio genovese’),

-XVIII  secolo, riguardanti personaggi i famiglie illustri con i loro stemmi, come i Doria, i DeMarini, i Grimaldi, i Gentile. Alcune scalpellature sugli stemmi ricordano le ordinanze  francesi del 1797, contro la nobiltà.

    In un angolo a sinistra dell’entrata, un’altra lapide, già posta nell’interno del campanile al primo piano ad ascendere. Nel 1999 il parroco saggiamente la fece spostare e pulire: ora è da tutti visibile nel corridoio; vi è incisa una lunga poesia in genovese, datata 1896 e firmata P.L.R., in cui il campanile racconta la sua storia :


                       O CAMPANIN DA CELLA

   GOTICO SON NASCIUO MILL’ANNI FA

   SOLO ERTO OTTANTA PARMI E LARGO VINTI

   AIVA QUATTR’EUGGI LARGHI CH’EAN BINELLI

   QUAND’EO ZA VEGIO D’ANNI QUATTRO - CENTO

   HO AZUNTI A-A MAE STATUA QUARANTA PARMI

   I EUGGI CH’EAN VEGNUI DE VISTA CURTA

   PE-E CASE CHE M’AVEIVAN FAETO ATTORNO

   I MASSACHEN DO TUTTO M’HAN TAPPOU

   FACENDOMEI CIU IN SCIU CIU GRENDI E NEUVI

   E IN SCIA TESTA M’HAN MISSO UN BERETTIN

   MA SON TORNA INVEGIO CAZZEIVO A TOCCHI

   E PAEIVA A-A- GENTE FUISE ANCON PICCIN

   E VISTI I FONDAMENTI CHE SCROLLAVAN

   ME DIVAN POVEO DIAO TI L’E IN T’UN PE

   QUATTRO CAMPANN-E DE DUXENTO RUBBI

   CIU VINTIQUATTRO CHE STAVAN CON MI

   FIN DA-O MILL’EUTTO CENTO SEI SCAPPAE

   SON DA-I BARCOIN E SOLO M’HAN LASCIOU

   MA O SCIO BACCICCIU PIN DE COMPASCION

   O M’HA LEVOU DA DOSSO O GRAN VEGGIUMME

   DA-I PE O M’HA RECASOU CIU GRANDE E BELLO

   O M’HA FAETO E RIAVERTI I EUGGI ANTIGHI

   O I HA BEN AGGAIBAE E O ME N’HA AZUNTO

   DI ATRI NEUVI DO TUTTO ED AGRAZIAE _

   E UN ERMO DE METALLO IN CIMMA A-A TESTA

   QUARANTACINQUE METRI AOA SON GRANDE

   E SEI CAMPANN-E CHE SON BELLE NEUVE

   DE QUATTROCENTO E CIU SCIUSCIANTA RUBBI

   STAN DENTRO IN CASA E NON CIU IN SCIO BARCON

  

   OH SAMPEDENN-A CAA TUTTA TE VEDDO

   E TE SALUO DE SEIA E DE MATTIN

   E A MEZOGIORNO CO-O SON DE MAE CAMPANN-E

   EVVIVA CENTENA DE SAN MARTIN

                                         1896   _                          P.L.R.


Il campanile della Cella  -  sono nato gotico mille anni fa, alto solo ottanta palmi (=20m. - 1 p=25cm) e largo venti (=5m) avevo quattro occhi che eran gemelli. – Quando ero ormai vecchio di 400 anni ho aggiunto alla mia statura 40 palmi (10m). Gli occhi, che erano diventati di vista corta per le case costruite attorno a me, i muratori del tutto mi hanno chiuso costruendomeli più in alto grandi e nuovi e sulla testa mi han messo un berrettino. -Ma sono nuovamente invecchiato, cadevo a pezzi ed alla gente sembravo ancora piccolo e, visto che le fondamenta traballavano mi si diceva “povero diavolo, ce l’hai in un piede”.-Quattro campane di 200 rubbi (1600 kg. -1 r =8 kg) più ventiquattro che erano con me fino dal1806 sono scappate dalle finestre e mi hanno lasciato solo.- Ma il signor Baciccia, pieno di compassione  mi ha tolto di dosso il gran vecchiume mi ha restaurato dai piedi, più grande e bello mi ha fatto e riaperti gli occhi antichi, li ha ben ornati e me ne ha aggiunti altri del tutto nuovi e graziosi con un elmo di metallo sulla testa. –Ora sono alto 45 metri e sei campane che sono belle nuove, di 460 rubbi (3680 kg.) sono dentro casa e non più sul balcone. –Oh Sampierdarena cara, ti vedo e ti saluto di sera e di mattino e a mezzogiorno con il suono delle mie campane! – Evviva il centenario di san Martino.

Dal corridoio si accede,  sia al cortile ove trovasi l’antica cappella di Sant’Agostino; sia, in fondo, all’ufficio e –a destra- alla vera

 

=====SACRESTIA , ambiente seicentesco , addobbato con vari dipinti  e con  massicci e possenti mobili ( armadio e due casettoni della fine del XVII secolo).

    

parete a destra                                                                   parete di sinistra

 

 

(1)                                   (10)                                (11)

Per chi entra dagli uffici, vede

--sulla parete di fronte: 2 porte (quella a destra serve per l’ingresso verso l’altare maggiore), ed  i quadri 10 e 14 ;

--sulla parete a destra   sopra il cassone in legno, i quadri  8-9-15-16-17 ;

--sulla parete sinistra, due porte, un crocifisso (attualmente è sull’altare,  ed è stato sostituito con uno più piccolo del XVIII secolo) ed i quadri 12-13 ;

--sulla parete alle spalle, un cassettone, con sopra  i quadri 1-11-18

 

Quadri : (1) olio su tela di 139 x 111, raffigurante la  Madonna con Bambino e san Giovannino, attribuito con sostanziale sicurezza a  G.B. Paggi (1554-1627, allievo di Luca Cambiaso, influenzato da conoscenze toscane) e databile dei primi decenni del XVII sec.; lo stesso tema trattato in un’altra tela posta nel museo-vedi 5,  vede la Madonna con Bambino in braccio che gioca  col santo; a sinistra san Giuseppe addormentato; a destra un angelo; sullo sfondo un paesaggio campestre interrotto a sinistra da un drappo dipinto di rosso.

(8) un dipinto ovale di s.Luigi Gonzaga di autore ignoto del XVIII secolo;

Olio su tela, di 78 x 59, rappresenta il santo in abito di novizio gesuita, che si sorregge meditabondo, con la mano sinistra ad un crocefisso; sul tavolo sono dipinti i simboli attribuitigli : una corona ed un giglio

(9) un dipinto ad olio su tela, di 98 x 74,  raffigurante la  Madonna del Rosario di ignoto autore del XVII secolo, forse addirittura di Domenico Fiasella; propone la Madonna vestita di rosso e con manto blu, che sorregge sulle ginocchia il Bambino mentre più in basso san Domenico e santa Caterina sorreggono le estremità di un rosario; in alto due angeli sorreggono una corona sul capo della Vergine.

(10) un dipinto ad olio, su tela di 224 x 137, raffigurante  La Madonna e Santi  di ignoto pittore, della seconda metà del XVIII secolo, raffigurante  san Giovanni Nepomuceno, santa Caterina Fieschi- canonizzata nel 1737- ed altri santi, ai piedi della Madonna con Bambino e della colomba  dello Spirito Santo attorniati da cherubini festanti.

(11) un dipinto raffigurante l’ Adorazione dei pastori  di ignoto autore del XVIII sec.. È un olio su tela di 146 x 97, ed evidenzia la capanna in legno, avvolta da cherubini festanti, con la mangiatoia entro cui è posto il Bambino, mostrato dalla Madonna ai pastori in adorazione;

 (12) dipinto raffigurante  Lo sposalizio della Vergine di pittore ignoto del XVIII secolo; olio su tela di 68 x 96, ricorda la cerimonia degli sposi, circondati da quattro testimoni

(13) un dipinto olio su tela ( 68 x 96) de  La fuga in Egitto, di ignoto autore del XVIII secolo.

(14) un  Battesimo di Cristo  di  G.Lorenzo Bertolotto (1640-1721) che era nel battistero; molti critici lo attribuiscono a Pietro Paolo Raggi (1646-1724). Olio su tela, di 222 x 165, con la parte superore centinata,  raffigura il Battista versante l’acqua sul capo di Gesù che è chino di fronte; mentre il alto risplende lo Spirito Santo e poco sotto un angelo è pronto per asciugare il capo bagnato.  

( ) il  Crocefisso del XVIII secolo; di Gerolamo Pittaluga (1691-1743), posto abitualmente  nella nicchia sotto il finestrone sulla parete di fondo;

( ) un antico sacrario in marmo del 1400

(15) un dipinto  olio su tela, di 74 x 61 raffigurante l’  Ecce Homo, di ignoto del XVII secolo, col Cristo avvolto in un drappo rosso, su sfondo nero.

(16) una  Ricognizione delle reliquie di san Nicola da Tolentino, di ignoto autore della fine del XIX secolo, già attribuito a Luca Cambiaso, oggi è stato attribuito a GB Resoaggi (1662-1732). È un olio su tela di 132 x 181 raffigurante vari frati che considerano le reliquie del santo, steso sul fondo.

(17) un dipinto di  sant’Erasmo, di pittore ignoto seicentesco (forse G.B.Carlone), in olio su tela di 200 x 121  raffigurante  il santo, patrono dei marinai, in abito vescovile che ha in basso, una caravella (simbolo iconografico), in alto un angioletto che sorregge un cartiglio con la scritta  “S.te Erasmo ora pro nobis” e, in basso, un secondo cartiglio illeggibile.

(18) una  Adorazione dei Magi di pittore ignoto del XVIII secolo. Anch’esso olio su tela di 146 x 97  presenta la Madonna seduta che porge il Bambino all’adorazione di uno dei re Magi chino davanti a lei in atto di pregare; dietro gli altri due re ed una folla di  figure secondarie fino a degli angioletti in alto.

 

======al primo piano superiore, (ove si aprono le porte per il campanile ***, del museo e di una segreteria), in una nicchia c’è il busto di Salvatore Pittaluga. La lapide sotto spiega  “COMM. SALVATORE PITTALUGA CAV. DELL’ORDINE EQUESTRE DI S.MARIA DI BETHLEMME NELL’ANNO DEL SIGNORE 1964 CON  GESTO MUNIFICO E DELICATO ABBELLI LA SUA CHIESA PARROCCHIALE DI ARTISTICO E PREZIOSO PAVIMENTO E LA RESE PIU’ CONFORTEVOLE  CON UN’ATTREZZATURA DI EFFICIENTE RISCALDAMENTO”.  Nato nel 1899, morì per cause cardiocircolatore nel 1963; da garzonetto (o ‘bocia’) di scagno di importatori di carbone, divenne presidente di una fiorente società di navigazione ed infine (1930) autonomo imprenditore di importazione di carbone (quando il petrolio ancora non aveva totalmente  invaso il campo di produzione di energia). Volontario nella guerra del 15-18,  comprò una prima nave per il trasporto del materiale fossile: assieme ai Bertorello fece crescere l’impresa sino a possedere una flotta di  navi (tutte con nomi ‘nostrani’ tipo Righi, Grifone, san Giuliano, Carignano, san Nazaro) e,  nel 1947 dirigere la soc. di Navigazione Ligure-Toscana funzionante anche con  navi a noleggio. Nel 1959 si ritirò in pensione, mantenendo contatti con l’ambiente portuale ed  elargendo da anonimo benefattore buona parte delle sue risorse economiche (tra cui la Croce d’Oro e la chiesa della Cella) .

 

======SALONI PARROCCHIALI

A)  In una sala al 2° piano superiore, è riposto l’archivio: antichi registri, anche della antica parrocchia di s.Martino, con atti di nascita, morte e matrimonio risalenti dall’anno 1543. 

Con paziente ricerca, sono stati ritrovati gli atti di nascita di Gio Vincenzo Imperiale (vedi alla via titolata alla famiglia), degli scultori Pier Maria Ciurlo e Gerolamo Pittraluga (vedi alla via a lui dedicata), dell’architetto Angelo Scaniglia (vedi), dei pittori GB Monti e N.Barabino (vedi), di capitan Bavastro (vedi), di don Daste (vedi), del figlio di Salgari, dell’ing. Nicolò Bruno (vedi), del gen. Antonio Cantore (vedi).  

C’è un grosso quadro di A.Vernazza riproducente a mezzo busto un sacerdote in abiti solenni.

B)  al 1° piano superiore (MUSEO, o antica SALA CAPITOLARE); era una volta il salone refettorio del convento agostiniano. É posta sopra la 3ª cappella della navata sinistra.

Remondini precisa «attiguo alla chiesa, entro una sala del soppresso convento o per meglio dire nell’antico refettorio, un locale dei padri agostiniani, nel 1799 trasformato in “oratorio dedicato a san Giuseppe”». Nulla si sa da prima quella data, ma già doveva essere in attività perché la trasformazione fu conseguenza del passaggio delle opere religiosa da s.Martino, tra cui un quadro rappresentante il “S.Patriarca”. Riferisce esservi un solo altare con appunto il quadro del santo, le statue in legno del Crocifisso, della Vergine e san Giovanni, un quadro di Andrea Ansaldo del XVI secolo raffigurante la Natività. Infine ricorda che ‘questo oratorio ebbe una cappellania Franzone (per una messa festiva), perduta né tempi recenti’. Il gonfalone dipinto dal Barabino con la ‘Madonna del Rosario’, era per la confraternita ospitata nell’oratorio.

Il Novella, più recente, negli anni 1900-30 descrive solo che esiste, nell’antico convento di s.Maria della Cella.

 

 

    Attualmente qui sono state raccolte varie opere d’arte  

(in rosso, quelle confermate dall’elenco di Tosini. Mancano la (9 da controllare) e (11-12 che sappiamo esistere); nell’elenco Tosini ci sono in più a)- una tela con ‘sant’Antonio Pierozzi, vescovo domenicano di Firenze, di autore ignoto; e b)-lungo la parete est due sculture lignee di ‘san Carlo’ e di un ‘monaco in estasi’).  


 

 

(1) la lapide, è a memoria di

 

 

 


Urbano Rela; essa ricorda: «D.O.M. – Prestantiss. viro Vrbano Rella navalis disciplinae -undequoq. sollertissimo qui

(ser.mo domino Ioanne austriaco - totam classem tum Pii V Pont. Max. tum Philippi - hispaniorum regis atq. Rei publicae Venetae  in


-  unum connexam – contra turcas gubernante) tanta – in ordinandis triremibus collocandis – que falangibus in illo conflictu in oris Lepanti – habito proelioq. committendo est usus prudentia – navalisque militiae peritia ut maximum sibi ho – norem patriaeq. suae laudem ac omnibus christianis – devictis ac undique confractis hostibus – victoriam immensamq. laetitiam attulerit. Qui – tandem senio confectus hunc lapidem ad perpetuam rei memoriam celo iam fruens sibi posterisque suis – poni iussit anno Domini MDLXXII».

“URBANO RELA, UOMO CAPACISSIMO NELLA DISCIPLINA NAVALE E SOLERTISSIMO, CHE (SOTTO IL COMANDO SUPREMO DI GIOVANNI D’AUSTRIA – TUTTA LA FLOTTA ASSIEME – DI PIO V PONTEFICE MASSIMO E DI FILIPPO RE DI SPAGNA E DELLA REPUBBLICA DI VENEZIA – UNITI – CONTRO I GOVERNATORI TURCHI) – NELLO SCHIERAMENTO DELLE TRIREMI ORDINATE DA FORMARE UNA FALANGE IN QUELò CONFLITTO PRESSO LA BOCCA DI LEPANTO – USANDO COME SIA ABITUDINE PRUDENZA ED ESPERIENZA MILITARE DA APPORTARE MASSIMA PER Sé, PER LA PATRIA, PER TUTTI I CRISTIANI IL MASSIMO DELLA LODE – VINTI E DISTRUTTI I NEMICI – IMMENSA VITTORIA E LETIZIA. QUI AD ETERNA MEMORIA DEL FATTO, VIENE POSTA QUESTA LAPIDE  PER GLORIA SUA E DEI SUOI POSTERI, NELL’ANNO DEL SIGNORE 1572»

(FRATELLO DI FILIPPO II DI SPAGNA E COMANDANTE SUPREMO DELLA FLOTTA CRISTIANA) E IL PONTEFICE PIO V  E  FILIPPO II  RE DEGLI SPAGNOLI E LA REPUBBLICA DI VENEZIA IN UNA UNICA CONTESA CON I GOVERNATORI TURCHI”.

In origine apparteneva ad un monumento tombale dello stesso, che era stato posto nel chiostro del convento.

Remondini dice che ve ne era una datata 1572 e «proveniente da stranio luogo e qui fermata nel muro»:

Alla battaglia di Lepanto,1571, c’erano anche i genovesi, guidati da Gian Andrea Doria: tra la nutrita flotta, c’era anche la trireme comandata da Urbano Rela, con 150 uomini, quasi tutti sampierdarenesi come il capo. Ma tutta la flottiglia  genovese non partecipò allo scontro diretto perché mai ricevette l’ordine di intervenire: malgrado la vittoria della flotta cristiana, questo comportamento inattivo dell’ammiraglio  G.Andrea Doria (nipote del famoso A.Doria) suscitò un vespaio di sospetti,  gravi illazioni, pesanti accuse.    (vedi a U.Rela)

(2) un Ecce Homo, dipinto ad olio su tela (200 x 156), di autore ignoto del XVII o XIX secolo, di buona fattura; raffigurante il  Cristo, avvolto in un telo rosso, col capo chino e coronato con spine.

(3) una tela, la Flagellazione  dipinto attribuito a L.Borzone, o altro allievo del Cambiaso; del XVII secolo. È un olio su tela, di 124 x 94, raffigurante Gesù coronato di spine ed esausto, con alla sua sinistra un giovane in atto di coprirlo con un manto rosso, ed alla destra un soldato con la verga.

                   

Gesù flagellato               Madonna di Loreto        Annunciazione

(4) un dipinto della bottega del Semino, del XVI secolo, raffigurante l’ Annunciazione; più volte spostato: una volta presente dietro il battistero, poi sul terzo (la scheda dice 1°) altare sinistro;  giudicato negativamente da alcuni critici; è un’olio su tela di 271 x 163, che  evidenzia la Madonna a sinistra, inginocchiata davanti all’ Angelo che le annuncia il messaggio; in alto l’immagine di Dio, della colomba , di putti.

(5)  un dipinto della  Madonna col Bambino e san Giovannino, dipinto da allievo del Cambiaso nel XVI-XVII secolo (probabilmente GB Paggi); è un olio su tela di 117 x 94, con la Madonna che tiene il Bambino sulle ginocchia ed -destra- il santo ; a sinistra un uomo i penombra è atteso a leggere (san Giuseppe); in alto un drappo scuro mette in risalto la veste rossa ed il manto blu della Vergine.

(6) un olio su tela di  Bernardo Castello (Genova, 1557-1629; precocissimo allievo del Semino e del Cambiaso, a dieci anni già era padrone di tecniche segrete della professione, da produrre opere attribuite ai maestri. Ammalatosi, iniziò a viaggiare nella vana speranza di trovare il medico guaritore. Morì al ritorno, sepolto in una tomba che lui stesso si era fatto costruire in s.Martino) intitolato  Madonna di Loreto del 1606 circa, quando fu edificata la cappella della famiglia Piccamiglio-Pinelli ed ove fu collocato (vedi Battistero), corrispondente al secondo altare sinistro (altare precedentemente intitolato a S.M.Lauretana e poi sostituito –prima, nel 1799 - da una statua lignea definita ‘di scarso valore ed attribuita ad Agostino Storace; e poi, da quella in marmo di Tomaso Orsolino). È un olio su tela, di 246 x 151, raffigurante gli angeli che sollevano la casa, la Madonna ed il Bambino; in basso sono due scene della vita nella casa, subito prima dell’impresa.

(7) parte di un affresco -di pittore ignoto, di scuola lombarda- che già era in quella sede dal quattrocento (Guida Sagep.13 conferma genericamente del XV); già all’origine applicato in questo locale, adibito a refettorio, sulla parete nord; fu rinvenuto durante un restauro nel 1965-6. Il punto più ben conservato presenta la scena dell’ Ultima Cena, tipico soggetto dei refettori conventuali; si  vedono in alto anche dei tondi, raffiguranti  i monaci agostiniani e - sulla destra - un monaco con cesta di pane in figura intera, ed una tavola bandita con dei coltelli.

 (7-11-)

Risale all’epoca del 1442 quando papa Erasmo IV affidò  il complesso conventuale ai frati agostiniani lombardi (ai quali rimase fino al 1797).

(8) sulla parete a sud, sono resti di affresco, fatto a ferro di cavallo (attorno ad una porta). In origine era sulla parete sinistra, tra il secondo pilastro e l’abside. Doveva essere più vasto, prima che la finestra –aperta nel centro della parete in epoca assai più recente- non ne distruggesse il centro.

 

affresco d’insieme                     annunciazione

 

   natività                                                                   cena in casa di Simone fariseo

                                                                                               

Quello su una delle due volte a crociera (le figure dei quattro Evangelisti e di due Santi (quasi sovrapposti), collegate da una cornice, la quale lascia presupporreche fosse distesa per tutta l’arcata e comprendente numerose altre figure: il Dandrade nel 1888 eseguì un acquarello riproducente un santo che è ancora esistente ed un altro scomparso), fu lasciato in sito, perché ormai illeggibile e di scarso valore artistico;

L’umidità ha fatto il resto, considerato che ai tempi della prima descrizione del Dandrade del 1882, erano più leggibili di quando se ne decise il distacco. Il quale fu eseguito sotto la direzione della Soprintendenza ligure,  nel 1958 con modalità più idonee per ragioni conservative essendo gli affreschi  più antichi della  regione Liguria.

L’affresco fu eseguito quindi da mano di un ignoto artista  genericamente chiamato ‘maestro della Cella’ che  decorò la chiesetta di sant’Agostino nel periodo tra il  XII e XIII secolo (la datazione è varia secondo i critici: va dai primi anni del XII sec. (Toesca P. nel 1906; e van Marle nel 1923) a passaggio tra XII e XIII (Ceschi, 1954), a fine XIII (Procacci, 1961); dopo il 1291 (G.Terminiello Rotondi, 1966)).

Si tratta di frammenti, di affresco rudimentale, prodotto da un artista alle prime armi, che ripetè -senza personale ispirazione- immagini facenti patrte dello stereotipo del tempo: stilizzate e piatte sul piano prospettico, con colori forti (azzurro, verde, giallo)  poco distribuiti mentre sono troppo evidenti le striature che appaiono intensamente colorate (bianche, rosse). I tratti pittorici, rispetto ad altri della stessa epoca, sono tendenzialmente primitivi e con affinità alla tradizione bizantina (che precede le novità del Cimabue ed allievi), attribuibili o ad un giovane alle prime armi o ad un artista con poca ispirazione.

Alla fine del duecento, Genova aveva migliorato i rapporti commerciali con Pisa e numerosi furono i toscani che vennero da quelle terre; tra essi Manfredino, al quale alcuni critici hanno fatto riferimento  (Manfredinouesti fu DQ d’Alberto, da Pistoia, q.Alberto fu seguace di Cimabue con cui lavorò nel 1272 in Assisi;  documentato in Genova negli anni 1292-3 impegnato in s.Michele di Fassolo (oggi nella Galleria di Palazzo Bianco; quindi forte di una decisa esperienza che non traspare nel Nostro della Cella): la “cena”, rappresentata in ambedue gli affreschi, ha molte affinità che permetterebbero una singola attribuzione o quantomeno la copiatura (un allievo?) ma con notevole discapito per il nostro affresco, specie nella lettura degli spazi, la plasticità ed il disegno delle figure. Quindi il Nostro riprese i tratti iconografici e stilistici di Manfredino ma in modo più grezzo rispetto alla seppur ancora semplice ed iniziale raffinatezza del maestro.

In definitiva il nostro affresco va letto quale testimonianza di presenze sacerdotali di diversa cultura -o perché provenienti da diverse regioni o anche spontaneamente ricche di esperienze diverse, anche pittoriche.

I vari riquadri raffigurano ciascuno momenti della vita di Gesù: si riconoscono con certezza,

====sulla lunetta una figura indistinta che è stato identificata come  l’immagine di s.Giovanni Battista in quanto il cartiglio posto sotto di essa porta la scritta “Ecce” (Ecce agnus Dei).

====a sinistra e dall’alto

a)    L’angelo Gabriele della Annunciazione. Ben conservato l’arcangelo, meno la Vergine. É una scena cassica negli affreschi medioevali. Il Dandrade descrive tra le due figure un pilastrino a separazione, non più leggibile.

b)    Subito sotto, la scena della Natività. Questo presepio, è pittoricamente appiattito con sullo stesso piano s.Giuseppe in meditazione, pastori, pecore e l’asino. Già posto nel presbiterio della chiesetta; inizialmente vieppiù eroso dall’umidità penetrata dopo la distruzione parziale della copertura, ad opera del bombardamento del 9 giu.1944.

c)    la fuga in Egitto si intravvedono le figure della Madonna e del Bambino quasi uscenti dali limiti del riquadro; scomparso l’asino.

d)    L’ultimo in basso fu interpretato dal Dandrade, che ancora lo distingueva, comeritorno dalla fuga in Egitto”. Oggi è ormai illeggibile.

====a destra e dall’alto

a)       il  convito di Betania o cena in casa di Simone il fariseo (cita di una peccatrice che unse con unguenti preziosi i piedi di Gesù ; Luca 7,36-50). É la scena meglio conservata essendo andata perduta solo la figura di Cristo che –secondo Dandrade- era seduto su uno sgabello all’estremo sinistro del riquadro.

b)       Il battesimo di Gesù. C’è rimasta solo la sinopia, che è una delle più antiche e rare della Liguria. L’evento bellico fece sgretolare l’intonaco lasciando visibile solo traccia, che prima di allora ovviamente non era conosciuta. Sono disegnati due angeli chini su una figura centrale.

 (9)  un dipinto della Madonna con Santi di ignoto autore del XIX secolo, in olio su tela di 179 x 136 cm., regalo di una  famiglia genovese all’arciprete; rappresenta la Madonna -circondata da una raggiera luminosa e da due cherubini-a braccia aperte benedicente san Giovanni Battista e santa Caterina, circondata da cherubini.

 (10)  (12)

(10)  una  scultura marmorea dellImmacolata Concezione  dovuta a  Filippo Parodi  (1630-1702) ai suoi esordi di artista (diverrà il maggiore scultore genovese del seicento), seppur già influenzato dallo stile del romano Bernini (soggiornò a Roma per due volte); databile quindi anno 1670 circa, di cm.106 x 50:  su un piedistallo di nuvole, in cui volteggiano chiome di cherubini, la Madonna ha le vesti come spinte a lato dal vento, il ginocchio lievemente flesso le mani sul petto, il volto lievemente reclinato verso destra; il tutto in forme morbide e molto aggraziate; il marmo pulito e lucente come una porcellana sembra sciogliersi nel fluido sventolare del manto.    Proviene dall’Oratorio della Morte, distrutto nel 1938 per aprire via Cantore (al quale era stata donata dalla famiglia Rolla -sepolti nella cripta- (in SPd’A dal 1825, il capostipite morì nel 1860 dedito prima al commercio e lavorazione della seta, poi del cotone) che l’aveva acquistata per una cappella personale di famiglia nella casa posta nella Fiumara e costretta alla distruzione per l’industrializzazione della zona);  non si hanno documenti più precisi  ma i critici la definiscono di ‘assoluta raffinatezza formale’ perché vi leggono i segni stilistici del passaggio (iniziato dagli scultori genovesi a fine del 1600) dallo stile romano (tendenzialmente rigido) ad uno più sciolto, capace di interpretare un movimento  naturale del corpo; nel caso specifico una tendenza alla torsione del tronco per atteggiare le braccia al petto a due altezze diverse, quasi ad adattarsi al vento che sventola il mantello verso il lato sinistro della Madonna; quindi una materia più fluida, a modello di Pierre Puget; un critico la definisce “immagine tipica da devozione privata”, secondaria ad una committenza che desiderava un “decoro” tipo aristocratico. A sua volta l’immagine divenne scuola per splendide rielaborazioni di altri scultori (Ponsonelli per es.).  

(11-12) due sculture lignee processionali, dipinte con sgargianti colori rosso e blu, invertiti (lui con veste blu e manto rosso; lei con veste rossa e manto blu) e sotto i quali a tratti emergono tracce di doratura applicata a missione.  La segnalazione più antica della loro presenza risale al 1837 quando sono descritte essere conservate in sacrestia assieme ai Cristi del Pittaluga e del Ciurlo. Facevano parte di una Crocefissione, di scultore ignoto: dapprima definito di scuola tedesca -come scritto su un inventario del 1909, ipotizzando Giusto di Ravensburg, pittore-scultore presente in S.M.di Castello; poi invece, per somma di caratteristiche, di scuola fiamminga, in particolare di artisti di metà 1400 delle terre meridionali dei Paesi Bassi, in particolare la città di Tournai. Sono comunque uno dei pochi lavori d’oltralpe dell’epoca, presenti a Genova. 

 

Nessuna notizia della parte centrale, ovviamente un crocefisso o comunque la figura di Cristo, forse commissionate da qualche ricco commerciante locale, trafficante nelle terre dell’alta Francia –Borgogna- o dell’Olanda –Bruges, Anversa- (ove molto spesso veniva usato un legname di quercia similare, detta ‘del Baltico’), con  con l’intenzione di ornare una cappella: in San Martino esisteva un altare dedicato al Crocifisso, ed è forse così che si giustifica da dove provengono; e se così fosse, il crocifisso del Pittaluga avrebbe potuto sostituire la figura centrale già mancante.

Una raffigurante san Giovanni Evangelista, abito dipinto di azzurro, manto di rosso, piedi nudi; con la sinistra sorregge un libro chiuso, con la destra in atto bendicente; capigliatura lunga oltre le spalle; di 146 x 50x 29,

L’altra statua anch’essa dipinta, della  Madonna dolente,  di 147 x 50 x 29, facente parte dello stesso gruppo della precedente statua. L’atteggiamento è di attesa, con una mano tiene un lembo del manto azzurro,  la sinistra è poggiata sul grembo, sopra l’abito rosso fluente a coprire anche i piedi.

(13) È probabile per entrambi la funzione primitiva di chiave di volta. Sono due “tondi” prodotti da ignoto autore: uno, del diametro di 38 cm, del XVI secolo che lavorando la nera pietra di Promontorio, in una cornice a tortiglione ha riprodotto un busto  vescovile con mitra e pastorale: si attribuisce l’immagine di sant’Antonino Pierozzi, vescovo domenicano di Firenze; nell’altro del XVII secolo, di 36 cm di diametro, su marmo bianco, propone un volto anch’esso vescovile riferibile a san Giovanni Battista con due vescovi santi (inconsueta la presenza del libro) 

 (13)  

 (14) due tabernacoli (o sacrari) marmorei di ignoto scultore del XV secolo; forse utilizzati per contenere l’olio santo.

                                                 (14)

=== uno in marmo (che nel 1888 era nel chiostro), più piccolo (128 x 62) porta la data 1468 ed in centro una iscrizione in carattere gotico “RAPHAEL DE CORONATA LUCHINUS DE CANALI MINISTRARII MCCCCLXVIII“: i due uomini ai lati dello scritto e scolpiti in bassorilievo, vestiti con cappa in atteggiamento di preghiera dovevano essere ‘ministrarji’, cioè amministratori (o preposti o confratelli) dell’ospizio-convento-chiesa di san Giovanni Borbonoso (da salita san Barborino, incorporato in Pammatone  -con bolla di Sisto IV nel 1741- assieme agli ospizi di Rivarolo e di MongalloPaganetti scrisse averlo visto nella parrocchiale di san Martino). Questo sacrario, nel XVI secolo fu posto sopra un basamento avanzo di una ricca sepoltura, munito di volute barocche sui due lati.

In un arco ogivale in alto, l’immagine di Gesù che risorge dal sepolcro;  sotto, una cornice con bassorilievi  a volute vegetali e simboli eucaristici; agli angoli i simboli degli evangelisti; nel fondo l’iscrizione tra due uomini preganti .

=== l’altro  in marmo, ferro e legno, di 190 x 170, intagliato nel 1400 da artista ligure, ha anch’esso in alto il Cristo risorgente; al centro una porticina in ferro battuto con lo stemma dei Doria: un’aquila coronata ed attorniata da cherubini e festoni; in basso un festone rotondo con uno stemma abraso ed illeggibile, sostenuto da un cherubino

(15) proveniente dalla chiesa di san Martino, e prima collocata sul secondo altare della chiesa, parte di una ‘cassa processionale’, statua lignea dipinta, di ignoto scultore del XVIII secolo vicino al Maragliano, raffigurante la  Madonna del Rosario alta 167  x 90 x 92; la Vergine, col manto azzurro e la veste rossa, damascati in oro, siede su una nuvola circondata da angeli, e sostiene con la destra sul ginocchio il Bambino in piedi, ed entrambi porgono un rosario.

 

(16) la riproduzione dell’effige del SS.Salvatore, necessaria ed utilizzata per il trasporto in processione durante la festa. In legno di balsa, con le identiche caratteristiche di forma e dimensioni, fu elaborata dallo scultore pittore Gianni Clerici nel 1980; il carro fu fornito da un privato (fam Bisio di via san B.d.Fossato), fatto in noce con bronzi e ferri battuti; i buoi sono forniti da comuni limitrofi (nel ’81, Savignone).

(17) due gonfaloni processuali, uno quello della Compagnia del ss.Nome di Gesù dipinto su damasco e probabilmente della bottega del Piola (Tosini scrive ‘di Storace’) del XVIII secolo; rappresenta la ‘circoncisione’.

l’altro della Compagnia del s.Rosario dipinto su tela da N.Barabino nel 1852, ornato di preziosi ricami con la Madonna, Bambino, s.Caterina e s.Domenico. Spesso è riposto nel battistero (e là è descritto).

(18) alcune statue marmoree contemporanee, scolpite da Valdieri Pestelli, di ‘Santa Rita da Cascia’, e del ‘Sacro Cuore di Gesù’ ed un ‘san Martino di Tours’, albergate dapprima in chiesa negli anni 2004, e poi trasferite al museo.

(19) mobile-armadio da coro, con badatone: veniva utilizzato dai monaci per esporre i grandi libri corali ed antifonari, durante le recite comunitarie dell’Ufficio.

 

 

DEDICATA  al giureconsulto ed economista nato ad Orta (NO) il 17 giu. 1787 da Filippo Giovanetti (chirurgo) e da Angelina Jori.     

Laureato in legge a Pavia il 10 giu.1807, divenne dapprima discepolo di Romagnosi; tre anni dopo  si avviò ai pubblici impieghi occupandosi come segretario della regia Procura generale di Trento (presso la Corte di Giustizia dell’Alto Adige: qui trovò una situazione esplosiva sul piano della tensione nervosa, non essendosi ancora spenta la rivolta dell’eroe alto atesino Andrea Hofer: con rapidità d’azione seppe riportare alla normalizzazione il dipartimento tirolese).

Tornato a Novara, la sua personalità lo fece spiccare nel suo ambiente per la molteplicità e l’illuminazione dei suoi interventi; per la sua brillantezza oratoria e culturale, divenne ben presto il principe del foro piemontese, interessandosi a vasto raggio sia di argomenti popolari (contribuendo efficacemente alla diffusione della cultura negli strati sociali più bassi e nell’infanzia, elemento base per entrare nel novero degli stati europei più progrediti), che altamente scientifici tradotti anche all’estero (pubblicando opere specifiche legali, come un ‘commentario degli statuti novaresi’, opere commerciali sulla produzione della seta, sulla raccolta della biada, sui sistemi di irrigazione ed idrici in genere), contribuendo alle riforme legislative (in particolare quelle riguardanti il libero scambio di merci e di moneta nello stato sabaudo).

Questa sua poliedrica capacità intellettiva lo portò a divenire consulente del re e ad avere notevole influenza nelle sue decisioni, in un periodo storico del regno in fase di nascita, crescita e individuazione di una personalità nazionale necessariamente adeguate e dipendenti dagli indirizzi internazionali:  Carlo Alberto gli conferì il titolo nobiliare nel 1841,  lo fece partecipe del Consiglio di Stato nel 1845 quale presidente, ed infine senatore .

 Nel 1848 fu lui che nel febbraio aiutò il re nel gravoso problema della concessione dello statuto detto ‘albertino’, e nel marzo -rotte le ostilità con l’Austria, malgrado i tempi non fossero ancora politicamente maturi e quindi causali dell’insuccesso militare- molto si prodigò alla coalizione tra LombardoVeneto e Piemonte, gettando le basi culturali e politiche del Risorgimento .

La morte lo colse all’improvviso a Novara, nelle prime ore del 22 genn.1849

 

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GIUSTI                                     vico Giuseppe  Giusti

 

   Il vicolo, citato dal Novella “da via Aurelio Saffi” corrisponde all’attuale vico Giovanni Scanzi.

   Nell’elenco stradale ufficiale del Comune stampato nel 1910, appare aggiunto a penna (quindi denominato pochi anni dopo), limitato ‘dalla via Montebello alla via A.Saffi’, e con civv. fino a 2 e 3.

   Nel Pagano 1912 compare il nome della levatrice Mangini Angela, al civ. 3 (attiva ancora nel 1921, non più nel 1925). Nel Pagano 1925 all’1-8 troviamo Severi, uno dei tre accordatori di pianoforti.

   Nell’elenco del comune di Genova stampato nel 1927, compare il nostro vico, di 5a categoria, in concomitanza di omonima a Pegli e come piazza in Centro.

   Nel 1933 era ancora della stessa categoria, e limitata da via A.Saffi a via Montebello (cioè come ora da via C.Rolando a via A.Stennio). Pagano/33 vi segnala all’ 1-8 l’ accordatore, riparatore e venditore di pianoforti Severi Ugo; e non specificato dove, l’ottonaio Molinari Romolo.

    Il 19 ago.1935 fu deliberata dal podestà la variazione.

   Attualmente, come piazza,  è a san Fruttuoso.

 

DEDICATA  al poeta toscano (Monsummano di Lucca 13 maggio 1809 – Firenze 31 marzo 1850), scrittore di poesie briose, giocose, sagaci e satiriche, nonché libri vari, dai tratti gentili e delicati, e con sfondo malinconico come poi in genere il suo carattere (più famosa  la poesia “Sant’Ambrogio” nella quale prende in giro garbatamente ma con satira corrosiva la componente militare ed il clima da essa creato.


Appassionato della sua regione, ne descrisse le caratteristiche e ne studiò il dialetto (“Raccolta di proverbi toscani” del 1853; “Epistolario” del 1859; “Cronaca dei fatti di Toscana”, del 1890).


Laureato in legge, fu anche repubblicano convinto (per poi spostarsi su posizioni più moderate con la monarchia arrivando ad osteggiare nel 1848 il governo democratico di FD Guerrazzi e con lui gli estremisti.  Comunque fu patriota combattente.

Cagionevole però di salute, fu pure ospite a Genova con lo scopo di distrazione e  cura.

 

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale - Toponom scheda 2188

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GLUCOSIO                                          via del Glucosio

 

Questa strada non ha mai avuto l’onore dell’ufficialità, anche se c’è andata vicino quando nell’anno 1900 fu proposto questo nome, a quella chiamata popolarmente “alla fabbrica del Glucosio”, coerente con l’uso pre-novecentesco di indicare le zone in rapporto a qualcosa di significativo esistente nel posto. 

È ovvio quindi il riferimento a una fabbrica di tale zucchero chiamato anche destrosio, anticamente ricavato dalla frutta, specie dall’ uva e dal miele, poi dalle canne specifiche americane e barbabietole e, solo dopo, sintetico.

Ma non credo faccia riferimento ad una  fabbrica di zucchero sotto forma di cristalli, altrimenti sarebbe stato chiamato zuccherificio, come lo erano  per esempio quelle dei Dufour e dell’ Eridania.  

Fiumara - a sin. la ‘Fab.ca da corde’, e a dx ‘da zucchero’

Quindi era produzione solo sotto forma di sciroppo o melassa, già dal 1800  commercializzati e molto usati non per uso casalingo ma per mille impieghi dell’industria alimentare o  dei farmaci.

 

Sappiamo da una carta toponomastica che tale fabbrica era posta al confine nord del borgo, e corrispondeva al prolungamento verso est (verso Belvedere) di via Campi (oggi tale percorso è stato arrestato dal muraglione e dal campo ferroviario); infatti sbucava in via Campasso laddove essa  inizia a fiancheggiare il muraglione del parco poche decine di metri dopo l’ex stabilimento dei polli.

Nel 1889 un decreto del 16 dicembre promulgato a scopo definire i confini della  neo eletta parrocchia di san Gaetano, cita come linea di confine “la privata -vulgo- del Glucosio (da una fabbrica di glucosio che vi si trova all’angolo con via del Campasso)”.

Quindi, questa strada è scomparsa perché letteralmente coperta dal parco dei treni.

 A conferma, in una altra carta dell’inizio secolo 1900, si legge che  lungo via Argine del Polcevera, vicino a via Campi c’era un’altra vasta fabbrica “Raffineria Zuccheri“; probabilmente una fabbrica concorrente o una ‘filiale’ della più famosa.    Nel 1933 ancora esisteva in via Argine 1 di Rivarolo una  «Fabbriche Riunite Amido Glucosio, Destrina» che, a detta di Roncagliolo, esisteva anche al ‘Canto’ ove rappresentava uno dei tre opifici del settore più grandi (con Dufour e Ligure Lombarda, anche oleificio)

Il glucosio, sotto la forma  di monosaccaride, quando assorbito e circolante nel sangue (=glicemia) è la fonte di energia utilizzata dai tessuti di tutti gli organi animali.

 

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico comunale

-Autore anonimo-Chiesa di san Gaetano-don Bosco-manoscritto-pag.83

-Pagano/33-pag.1393

 


GOITO                                           via Goito

 

 

Attuale via Augusto Albini, come appare anche sottoinciso nella targa stradale. 

   È risaputo che a San Pier d’Arena la prima domenica di ottobre 1851  ci fu la nascita di una delle prime società operaie in Italia, col titolo di Unione Umanitaria e con sede al Mercato (in un capannone posto nell’angolo tra l’attuale corso L.Martinetti e via N.Daste).

   A dicembre nacque la seconda associazione operaia chiamata “Unione fraterna”.

   Le due, ma più attiva la prima, con l’aiuto di alcuni privati cittadini nel 1854, in “via dei Banchetti”, primo nome popolare dato alla strada, probabile perché sede di un mercato rionale o forse in relazione ad un tipo di pasta prodotta dal Rebora Andrea,  poi ufficialmente chiamata via Goito a fine secolo, fondarono un  Gabinetto di Lettura con culturizzazione politico associazinistica in un gran salone intitolato a "Zane”, un popolare marionettista in vernacolo che nel posto aveva iniziato un teatrino. In certe ore veniva insegnato anche ‘a dare di scherma’, nonché l’uso della carabina e fare ginnastica.

   Il Gabinetto fu sciolto nel 1862 dalla polizia, ma ricostituito subito dopo con altro nome.

In quegli anni avvenne l’erezione del viadotto ferroviario; in corrispondenza della strada fu lasciato un sottopasso specifico, detto ‘sottovia Goito’. Allora, la strada allora aveva ai confini con la ferrovia:

A LEVANTE:  giardini ed orti della villa-allora pastificio Rebora, ai quali corrispondevano sulla facciata nord del viadotto due arcate con assegnato i civici 51 e 53. La proprietà Rebora, con in testa la villa, aveva in via V.Emanuele (Buranello) un sottovia specifico, chiamato ‘sottovia Rebora’, che dava adito ad una stradina la quale oggi non esiste più, e che affiancava da est quei terreni.

A PONENTE, prossimo alla ferrovia, c’era l’edificio di Grosso Ester al quale sulla facciata dei viadotto corrispondevano altre due arcate delle quali la più vicina a via Goito assegnata ad orinatoio pubblico, aperto in via V.Emanuele (Buranello) e l’altro col civico 55. L’edificio era separato con un alto muro, verso ovest, dallo stabilimento Nasturzio, il quale a sua volta aveva un omonimo ‘sottovia Nasturzio’, posto tra i fornici con i civ. 61 e 63, che entrava nel mezzo dell’opificio, come oggi sono da una parte la biblioteca e dall’altra il Centro Civico.

Nel 1867 don Daste assunse l’impegno delle orfanelle; dopo le prime sedi in via san Bartolomeo e via Bombrini, la terza fu in via Goito ma non si sa dove né quando. Allora la strada collegava via Vittorio Emanuele (oggi via G.Buranello) alla via che forse ancora era via De Marini o già era divenuta via s.Antonio  (il prete, da questa via si trasferì nel palazzo Boccardo in piazza G.Bove e poi in via G.Mameli ed ultimo in salita Belvedere).

  Prima dell’anno 1900 era quasi, non ancora completamente, tracciata dalle case costruite tra le due  vie parallele, chiamate Vittorio Emanuele e via sant’Antonio. Aveva a quei tempi solo 5 civici (di allora;  dei quali erano proprietari: dell’ 1 , 2, 3, 4 eredi Grosso; 5 Rebora Andrea).    Infatti, in quegli anni, si aprivano nella strada: a levante ancora lo ‘stabilimento Rebora’, che sotto la ferrovia possedeva un sottovia specifico (a levante rispetto quello di via Goito, della via stessa) a significato dell’importanza  dell’azienda.

 Dal Pagano 1902 leggiamo unico: al 5 Giordano Costatino – ancora attivo nel 1912,  in “già proprietà dei Rebora”, con forniture per molini (nel 1920 sarà scritto come costruttore edile,  tel 4204).

Nell’elenco strade del 1910, era con l’identica delimitazione non essendo stati ancora cambiati i nomi,  e possedeva case con i civici  neri fino al 10 e 1.

Nel Pagano 1911, 12, 20  appaiono in più: il negozio di mode di Gatto e C. ancora attivo nel 1912;  l’ottonaio Canale Pietro produttivo ancora nel 1920;

Nel Pagano 1925, compare al civ. 1 l’officina di costruttore meccanico Giordano Costantino (omonimo parente ? allora usava), tel. 4124;---al 34r il negozio di stracci di DeBarbieri Renzo.

Negli  anni venti, scemata un po’ l’epopea garibaldina a favore della recente vittoria bellica, ma soprattutto nella selezione per una unicità stradale con la Grande Genova essendo avvenuta l’unificazione nel 1926, nella titolazione delle strade presero posto i nomi di personaggi più famosi per cultura ed ingegno, specie dell’800, o degli eroi distintisi nel sacrificio bellico, continuando un messaggio nascosto di importanza politico sociale.

Nel 1933 appare sempre collegante le stesse strade delle quali però la superiore ha cambiato nome assumendo la titolazione di “via generale Cantore”; ed era di 4.a categoria come quando col vecchio nome.

Il 19 ago.1935 una delibera del podestà decretò la definitiva variazione del nome. Cosicché non è più a San Pier d’Arena , ma a Castelletto.

 

DEDICATA a ricordo della località mantovana, ove avvennero due battaglie relative alla prima guerra di indipendenza con la diretta partecipazione delle loro maestà.

La prima, avvenne  l’ 8 aprile 1848: i piemontesi sconfissero gli avamposti austriaci e poterono così varcare il Mincio.

Più importante la seconda, il 30 maggio quando i piemontesi (guidati personalmente dal re Carlo Alberto) si scontrarono con  il primo e ben più nutrito ed addestrato corpo dell’esercito austriaco: al comando del gen Bava Eusebio i fanti riuscirono a rompere la linea nemica e metterla in fuga,  mentre la riserva (guidata dal principe ereditario Vittorio Emanuele, allora ancora duca di Savoia) sconfisse il primo e secondo corpo d’armata austriaco comandati da Radetzky.

Fu una vittoria delle truppe piemontesi,  che costarono al re ed al principe due lievi ferite.

 

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale Toponomastica -  scheda 2201

-Archivio Storico Ferrovie

-DeLandolina GC.-Sampierdarena-Rinascenza.1922-pag.43

-Durante A-don Nicolò Daste-tipog.don Daste.1964-pag.75

-Enciclopedia Sonzogno

-Morabito L.-Il mutuo soccorso-Ist.Mazziniano 1999-pag324

-Morabito&Costa-L’universo della solidarietà-Priamar1995-pag 346

-Novella P.-guida di Genova-manoscritto B.Berio 1930-pag. 18

-Pagano/1908-pag.877---/1933-pag.246

 

 

 

 

 

 


 

GOVERNOLO                                              vico Govérnolo

 

TARGA: VICO GOVERNOLO

                                                    

                                            

angolo con via W.Fillak

 

QUARTIERE MEDIEVALE: san Martino

Non reperibile nella carta vinzoniana

N° IMMATRICOLAZIONE:   2785,     CATEGORIA  3

da Pagano 1967.8

 

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA - n°:   30760

UNITÀ URBANISTICA: 24 - CAMPASSO

 da Google Earth, 2007. In giallo via vicenza; in rosso via Campasso

CAP:   16151

PARROCCHIA:  s.G.Bosco

STRUTTURA:   stradina che si diparte da via W.Fillak verso levante, a mare rispetto via del Campasso, e finisce chiusa.


   Già esistente anonima agli inizi del secolo 1800, divenne - nei primi anni del 1900 - “da via UmbertoI ,  verso la collina “.

  


Per alcuni è collocata “nella zona Palmetta”. Infatti Tuvo riporta -relativa all’8 marzo 1826- di un progetto pervenuto in comune: “il signor Bartolomeo Tuvo (lo chiama così)  costruisce - su progetto dell’arch. Scaniglia - una palafitta alla sboccatura dell’acqua del suo mulino posto alla Palmetta” ...segue “pianta della palafitta costrutta dal molinaro Tuvo con relativo argine o muro di sostegno alla strada Reale detta della Palmetta”. Nel 1839 il mugnaio Bartolomeo, chiede al Comune poter avere in affitto un terreno vicino alla rampa sinistra del Ponte, a fianco della strada comunale, onde costruire un truogolo nel quale lavare il grano quando d’estate la condotta è in secco.

   Nell’anno 1900 fu proposto la titolazione attuale, alla  “via  al molino Tuo” (molto presumibile corrisponda alla casetta sul lato a mare che si apre in via W.Fillak): evidentemente posto in corrispondenza di un torrente, che proveniente dal Campasso passava per via Vicenza e tramite il vicolo scendeva e  proseguiva in via del Chiusone verso il torrente Polcevera.

   Nell’elenco stradale stampato dal Comune nel 1910, il vico compare ufficialmente con questo nome, delimitato ‘da  via Umberto I  verso la collina’, e già con civv. 1 e 2.

Nel 2009 è stato posto un cancello all’inizio della strada, quale appunto, strada privata (e quindi per ragioni di posteggio auto).

CIVICI    NERI= 1 e 2      ROSSI = 1r, e dal 2r all’8r

   Nel Pagano 1925 è segnato solo il civ.2, ove Porta Primo ha un negozio di calzature (oltre un altro in via UmbertoI)

   Nel 1926, all’atto del passaggio delle città limitrofe nella Grande Genova, la titolazione non subì variazioni essendo SPd’Arena l’unica a titolare così una strada.

   Nel 1933 possedeva gli stessi civv. 1 e 2.  Il Pagano/33 segnala il recapito degli appaltatori edili Merlo & Repetto.

   Dal Pagano/40 si rileva che si dipartiva da via delle Corporazioni; e un privato impresario strad. abitava al 2 nero.

   Il Pagano/1950 segnala sempre un civico nero, il 2; ed al civ.2r la fabbr. e riparaz. botti di legno e mastelli, di Casella Carlo.

   Nell’anno 2003, non ha negozi.

 

DEDICATA

 al paese di Govérnolo, piccola frazione del comune di Roncoferraro (MN), affacciato sul Mincio poco prima che il fiume sfoci nel Po; testimone e protagonista di grandi fatti storici.

Il nome si fa derivare sia dal “governare le acque”; sia perché punto di passaggio per la navigazione fluviale dal Veneto alla pianura, lungo il Mincio.

Per il primo toponimo, la denominazione dipende dal fatto che Mantova era circondata da laghi, aneurismi del Mincio, ed il suo territorio era soggetto alle ‘acque libere’ con tutta una serie di acquitrini e paludi (usati poi come risaie): le bizzarrie dei due fiumi (Mincio e Po) inondavano spesso la città di Mantova rendendo obbligatorio già negli anni mille porre delle opere idrauliche a valle per regolarizzare le acque a monte; e quindi a Govérnolo nel cui territorio il primo sfocia nel secondo (è citato anche nell’Inferno di Dante, XX, 76-78).

Il secondo tiene conto del comodissimo uso di barconi per il trasporto (questi, tirati da cavalli posti ai lati del corso d’acqua, permettevano trasporto facile, sicuro, veloce, di grosse derrate, truppe (la via è stata chiamata Teutonica, appunto per il trasporto di eserciti imperiali), pellegrini, animali, signori in viaggio (coloro che preferivano –alla  via terreste in mezzo a paludi- la via fluviale: numerosi  re, regine ed imperatori, di passaggio per viaggi (tra essi, la marchesa Isabella d’Este, per nozze; e papa PioII)  arrivando i canali fino a Mantova,  a Verona-Venezia, e col Po, sino a Reggio Emilia o Torino)).

La sua storia si fa partire da 1000 anni a.Cristo con la presenza degli Etruschi fuggiaschi da sconfitte contro Roma e creatori di Mantova. Dopo la invasione dei Galli, nel 189 aC i Romani arrivarono fino ad Ostiglia con la via Claudia Augustea (del 47 dC. Il centro, oltre alle legioni, dava rifugio sino a 250 navi romane atte all’uso fluviale).

Importante nel 452 dC l’incontro tra papa s.Leone Magno ed Attila; dopo che quest’ultimo, conquistata Aquileia, minacciava arrivare a Roma.

Poi arrivarono Ostrogoti, Longobardi, e nell’800, i Franchi (CarloMagno).

Decisivo l’arrivo degli imperiali (ungheresi) e, con loro dei Canossa (famosa nell’anno 1090 la contessa Matilde (guelfa, filo papale) che osò affrontare l’imperatore Enrico IV, già scomunicato (la famosa frase “venne a Canossa” per indicare pentimento). Sotto di loro, i primi tentativi di governare le acque per fronteggiare un naturale ulteriore spostamento del letto del Po che con gli avvallamenti e straripamenti sistematicamente distruggeva ed impaludava il territorio. I Canossa, favorirono in maniera decisiva il monachesimo: il grosso convento di san Benedetto, ancor oggi eretto imponente e ricco di reperti, allora era più potente perché proprietario di immensi territori circostanti e seppur inquinato da –allora normale- comportamento di sfruttamento della mano d’opera, costituiva punto di allargamento della cultura.

Dopo loro, dal 1430, i Gonzaga, fino alla fine del 1700 quando il territorio divenne austriaco.

Nel 1526, presso il paese, fu ferito mortalmente Giovanni dei Medici, più famoso come Giovanni delle Bande Nere, comandante della fanteria della Chiesa.

   La motivazione della titolazione stradale, fa riferimento al 1848 quando il paese fu teatro di due scontri contro gli austriaci.

   Il primo, di minore coinvolgimento, avvenne  il 24 aprile 1848  

A marzo si era diffusa la notizia che l’imperatore FerdinandoI avrebbe concesso la Costituzione: numerosi cittadini si recarono dal governatore Gorzkowsky che dapprima li assecondò facedo creare una Guardia Civica di 900 persone, seppur male armate; però il 2 aprile bloccò tutto dichiarando uno stato di assedio, sciogliendo ogni iniziativa. Molti fuggirono aggregandosi ai regolari che l’8 (o il 9?) combatterono a Goito dopo che Carlo Alberto aveva liberato Milano e puntava su Mantova; altri si riunirono in circa 300,  formarono la “Legione Mantovana” e accettando dal Governo Provvisorio il nuovo comandante nella figura di Ambrogio Longoni, luogotenente dei bersaglieri. Invece, nella ‘Compagnia Modenese’ che si aggregò al Longoni il 23 aprile - e che possedeva tre cannoni - militava il ‘famigerato’ LaMarmora.

Nella prima mattinata (presenti Mameli -che incitava i commilitoni facendo loro cantare il famoso inno- e Nino Bixio (ambedue si erano aggregati al Longoni, dopo le 5 giornate di Milano, perché in fase di scioglersi per mancanza di mezzi) i piemontesi fermarono a Governolo più di mille tedeschi (fu Bixio che si accorse che gli imperiali stavano soprafacendo i volontari: ordinò il fuoco dei cannoni – muto sino ad allora per paura di colpire i volontari;  i colpi, ben diretti, fecero sbandare gli austriaci che, entrati nel panico, fuggirono lasciando 9 morti e 18 feriti – mentre nei volontari si ebbe un solo morto e sette feriti) e li fecero retrocedere entro le mura della città di  Mantova -che nel 1800 faceva parte del famoso quadrilatero austriaco, assieme a  Peschiera, Verona, Legnago-.  

   Però, a vittoria conseguita, il comandante Longoni, fedele monarchico, cambiò nome alla ‘Legione Mantovana’ di volontari, chiamandola ‘battaglione  Bersaglieri Mantovani Carlo Alberto’: indispettito, Mameli  e tutti i genovesi repubblicani abbandonarono il gruppo.

   Ma a maggio gli austriaci vinsero a Montanara e Curtatone,  riprendendo Govérnolo, considerato nodo stradale basilare e strategico. Lasciarono a custodire la posizione un forte presidio, per proteggere: sia l’ampio ponte steso sul fiume Mincio (fondamentale per far attraversare le truppe oltre il fiume stesso per poter arrivare a Mantova); sia perché snodo di comunicazione fluviale con il Veneto tutto e sia perché punto di attacco al fianco destro ed alle spalle di chi assediava Mantova.

   Così il 18 luglio 1848, nel corso della prima guerra di Indipendenza, avvenne la seconda battaglia - più importante. Occorreva occupare Governolo per completare l’assedio di Mantova

I 9mila bersaglieri (ai quali sono aggregati una ventina di volontari liguri della brigata “Regina”) guidati dal gen. Bava, riuscirono con brillante ed abile manovra a sgominare i nemici (composti da un battaglione di 1500 croati, comandato dal maggiore Rukavina munito di quattro cannoni asseragliati in posizione imprendibile perché posto al di là del fiume inguadabile e quindi, per raggiungerlo occorreva per forza passare sul ponte).

   Il generale, dopo una ricognizione il giorno prima, diede avvio alla riconquista della fortificazione di Govérnolo.  A mezzogiorno, dopo due ore di aspra battaglia combattuta da lontano e mirata a tenere sgombro il ponte onde evitare sabotaggio o distruzione di esso, avvenne la rotta delle truppe austriache quando 200 bersaglieri imbarcati su dei barconi a Borgoforte, arrivarono via fiume non visti e si gettarono nella mischia, assalendo i tedeschi alle spalle ed aprendo il ponte levatoio sul Mincio attraverso il quale il ‘Genova cavalleria’  irruppe generando scompiglio nelle forze croate e completando la vittoria (conquista della bandiera del glorioso reggimento croato, cavalli e 3 cannoni; perduti 60 soldati; prigionieri 6 ufficiali e 400 soldati; (alcuni di quelli fuggiti nelle campagne, furono catturati dalla cavalleria o uccisi negli scontri anche dai contadini).

   Tra i piemontesi ci furono 12 morti e 33 feriti molti dei quali non sopravvissero.

   La conquista della postazione galvanizzò le truppe italiane favorendo il blocco di Mantova. 

   Ma, come noto, questa prima guerra d’Indipendenza, finì col totale ritiro dalla Lombardia, che tornò in mano austriaca

   I bersaglieri ebbero l’onore di nominare un reparto col nome del paese; ed ancora nel 1982 il battaglione Governolo ha fatto parte della prima missione di pace in Libano. 

   Ora la zona è compresa nel Parco Naturale del Mincio

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale Toponomastica -scheda 2209

-AA.VV.-Annuario guida Archidiocesi-ed./94-pag.410; ed./02-pag.448

-Compagnoni A.-Governolo incrocio tra Po e via Teutonica-Sometti.02-

-DeLandolina GC- Sampierdarena-Rinascenza.1923- pag.43

-Enciclopedia Motta

-Enciclopedia Sonzogno  

-Gobbetti C.-Governolo, un viaggio nella storia...-Alce.1987-pag.141

-Lamponi M.- Sampierdarena- LibroPiù.2002- pag.136

-Novella P.-Strade di Genova-Manoscritto bibl.Berio.1930circa-(pag.18)

-Pagano/1933-pag.264---/40-pag.306---/50–pag.496---/61-pag.235

-Pastorino.Vigliero-Dizionario delle strade di Ge.-Tolozzi.1985-pag.893

-Tuvo T.-Memorie storiche di SanPierd’Arena-dattiloscr. inedito-pag. 112


GOZZANO                                              largo Pietro Gozzano

 

 

TARGHE:

Largo - Pietro Gozzano – 6-9-1922 – 28-10-1990

 

centro dei giardini

 

ovest, sul muro della proprietà Franzoniane

 

QUARTIERE ANTICO: Limite tra Mercato e Coscia

 da MVinzoni, 1757. Il piazzale sottostante la villa.

 da Pagano/1961

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA – n° 30775

UNITÀ URBANISTICA: 26 - SAMPIERDARENA

 da Google Earth, 2007

CAP: 16149

PARROCCHIA :  NS sM delle Grazie

   Una striscia di spiazzo, orizzontale al mare, sottostante l’antica villa, racchiusa tra la via N.Daste e l’entrata della villa stessa, a ponente della via D.Chiesa fino al confine con le suore Franzoniane, il giorno 23 marzo 2002 è stata ufficialmente dedicata al medico sampierdarenese.

Nel commento inaugurale, si è cercato un parallelismo di collegialità tra O.Scassi e P.Gozzano, ambedue medici.

Ogni anno vi viene svolta la rassegna-mostra dei “cani fantasia”.

  

2006 – i vincitori, con l’assessore Calvi

 

CIVICI

2007 – NERI   =  da 1 a 5

 

   Ai due estremi est-ovest del Largo, sono due corpi scolastici limitanti lo spiazzo con aiole, posti ai fianchi della villa Imperiale-Scassi. Furono eretti subito dopo l’acquisto della proprietà da parte del Comune di San Pier d’Arena. 

   Ambedue vincolati dalle Belle Arti

   Sulla facciata di entrambi, oltre alle titolazioni, spicca in alto un grosso stemma col  sole nascente,  simbolo della città.

civ.1= L’edificio più ad est è dedicato (anno 2000/1) scuola elementare  Giuseppe Mazzini” attualmente con indicazione di “direzione didattica Ge 34-Sampierdarena”; la scuola elementare ha diritto allo spazio a monte dell’edificio (campetto il via Cantore); 


civ. 3= è la villa. Viene descritta sotto, per ultima, essendo di più lunga descrizione.

Nel retro a monte, prospiciente via Cantore, un opuscolo della Circoscrizione vi segna la sede dell’associazione Ansaldo; ma detto solidalizio ha gestito solo il campetto da tennis sini agli anni 2008-9.

civ.5= quello ad ovest, dedicato alla madre Maria Drago Mazzini.  Come il civ.1, hanno ospitato vari istituti scolastici; attualmente la targa indica che al civ.5 c’è una succursale del liceo Linguistico.

 

 

Maria Drago Mazzini - Miniatura al Museo Risorgimentale


   Nel 1934, in piena era fascista, fu messa all’ordine del giorno una delibera comunale col fine di donare le due aree ‘a nord dei fabbricati scolastici e fronteggianti via Carducci, per la costruzione della casa del Balilla, a cui si concedeva anche -per 29 anni- l’area tra loro interposta’: evidentemente -e per fortuna- non se ne fece nulla .

===civ.13Ar: Posto sul fianco a ponente della villa Scassi, dagli anni 1960 (e forse anche prima) c’era la sede dell’Unione Sportiva Sampierdarenese “1946”: società sportiva non controllata dal Coni, che aveva anche funzione di bar e circolo. Una volta aperto lo stadio Morgavi la società Sportiva si trasferì), e della CFFS Landi Sampierdarena”.

 

 

anni 1960 - sede della US Sampierdarenese

Sostituita dall’attuale “Circolo ARCI  ‘La Bellezza’ la quale nel 2010 offre sede per segreterie e incontri sociali ed anche conviviali, a tre società sportive: “G.S.D. Culmvpolis Genova(con oltre 600 soci, molti della polizia e dell’assoc. contro il Neuroblastoma. Un pulmino proprio, porta i ragazzi ad allenarsi al campo sportivo DeMartini di Begato, collaborando con la USCalcio Cella)AACV (dal 2008, “Associazione Amatori Cella Volley”. Nata nel 1977 dal nulla è risalita fino alla serie B2 nazionale nella quale, con alterne vicende ha militato anche nel 2007 col nome “Ecologital Aacv-polis” ed  hanno il campo di gara al CentroCivico.È dal 1999 che fa parte della Polisportiva Polis, che riunisce altre società del ponente come il Palagym ed il donBosco, a sua volta iscritta nella FIP (Feder.Ital.Pallavolo). Presidente 2008 Ubaldo Fini;  ed il “CFFS Polis DLFerroviario (dal 1967 organizza attività sportive andando al di fuori dei risultati ma indirizzati all’insegnamento dei valori)”.  

Il Circolo propone manifestazioni canore, danzanti, nonché ospita l’”assoc. Donne insiemedove solo donne fanno attività motoria, socializzazione della terza età; il CIV (centro integrato di via; presieduto dall’orefice Mango); un laboratorio musicale (con corsi di ballo); e si spera gestirà i campetti a nord della villa.

===civ. 15r  a ponente del civ.5 un cancello dal marzo 2005 apre alla sede della Sarda Tellus (già in via s.Luca), associazione che dal 1956 aggrega i sardi di Liguria e che occupa il piano inferiore sotterraneo dell’edificio (il cui piano terra infatti è un po’ sopraelevato e raggiungibile con una breve scala davanti al portone).

La sede è stata restaurata a spese degli oltre 17mila trasferiti o comunque con radici sarde (si riferiscono contatti con altre 65 sedi corrispondenti a  350 mila nel ‘continente’ e con 160 sedi per gli 800mila all’estero). Stampano a Cagliari il mensile “il Messaggero sardo”; concedono sconti ai soci per viaggi nell’isola; organizzano aggregazione culturale e tradizionale.

Associazione che cerca di mantenere i contatti con le tradizioni, le cerimonie e pratiche burocratiche (biglietti dei traghetti, ecc.) di tutti gli isolani che abitano nella zona ligure.

 

Sarda tellus - entrata                                                                      foto 1906

 

=== civ. 3  è il grandioso edificio degli Imperiale ( poi del conte O.Scassi):  la più  imponente della città, definita artisticamente “ la Bellezza” o comunemente la villa IMPERIALE-SCASSI.

Per queste sontuose ville che le potenti famiglie genovesi vollero costruirsi nella riviera, occorre che il lettore riesca ad immedesimarsi nei tempi in cui vennero ordinate: i dettami della moda ( in cui si innesta la persona giusta nel momento giusto, l’Alessi : un illuminato architetto che seppe dare un volto nuovo, originale e raffinato all’estetica ed alla funzionalità delle costruzioni)  associati alle enormi disponibilità economiche di pochi che, in traffici -marittimi e non- con la Spagna, erano entrati nel giro dell’oro; il loro bisogno di evidenziarsi per aspirare a cariche pubbliche di potere;  la necessità di possedere un ‘luogo di fuga’ vacanziero, possibilmente vicino, visto che era da raggiungersi in carrozza o in barca, ma sufficientemente distaccato come era il borgo; non ultimo un posto dove poter dar libero sfogo alle fantasie di divertimento, quando il Senato in città aveva vietato gli sfarzi ed i grossi festeggiamenti; il basso costo della mano d’opera in genere, e di tutto ciò che è artistico in particolare appreso dai contatti che questi personaggi avevano cn tutte le corti europee ma anche in tutta l’Italia (Venezia, Firenze, Roma, Napoli, Palermo) 

  Fu eretta tra il 1560 e 1563, utilizzando pietre tratte dalle cave vicino alla Lanterna, per ordinazione della nobile famiglia Imperiale (vedi a vico Imperiale) ed a villa Serra di via Daste, governata allora dal principe Vincenzo, figlio di Michele e molto probabile committente (per notizie sulla famiglia, vedi a vico Imperiale. Vincenzo in particolare a Genova si era fatto erigere un’altra villa in Campetto ed un’altra a Lavagnola (SV). Alla sua morte -8 dic.1567- fu stilato un inventario delle suppellettili esistenti nella casa capaci di dare idea della sobrietà e ricchezza delle dimore: mobili liguri e di  Fiandra (come letti, tavoli, bancali, sedie: ‘carreghe’, distinte da uomo, da donna e miste); forzieri, gioielli, tessuti pregiati, ecc.); e poi dal figlio Gio Giacomo (Il 25 aprile 1617, questi venne eletto doge; nell’orazione encomiale fatta da Pasquale Sauli,  si fa cenno alla villa ed ai giardini, abbelliti ed ingranditi dallo stesso. Fu sepolto in san Siro. 

 

   La primitiva e tradizionale attribuzione all’architetto Galeazzo Alessi da Perugia (le cui capacità e realizzazioni si concretizzarono in Genova nell’erezione di ville maestose e concepite con stile innovativo, specie la Giustiniani-Cambiaso in Albaro), viene oggi ad essere esclusa perché accertato che in quegli anni il perugino era in Lombardia. Rimane quindi di lui la lezione tecnico-stilistica impartita agli allievi che riportarono la sua scuola in una realizzazione di alto contenuto artistico e, come dice il Ratti, “oltremodo deliziosa, e vasta, ornata anch’essa con gusto squisito di viali nobili, fontane bellissime e giardini molto vaghi, ed ameni”. Descritti dagli esperti, diventano evidenti, rispetto alle ville personalizzate dall’Alessi, una certa pesantezza e la eccessiva -ma meno fantasiosa- decorazione del fregio superiore tipica del gusto di tempi successivi.

 Ritrovati i contratti stilati per la costruzione - seppur ricalcando a pieno le forme dettate dall’ Alessi - si da con certezza il nome dei capi dei lavori,  quelli che in data 1560-3, ebbero scritto l’incarico di edificare: i fratelli Giovanni e Domenico Ponzello (quest’ultimo - Magnani dice che era il padre - in quegli anni appare essere frequentemente fuori Genova, anche se forse fu il maggiore progettista sicuramente ambedue costruttori anche del grandioso parco retrostante.

Alizeri li chiama Ponsello, pressoché tutti ‘capo d’opere’, qualcuno architetto; dice che Giovanni fu il capostipite proveniente da Caravonega della val d’Oneglia – oggi Caravònica, Imperia, a 360 slm, sul torrente Impero - con un figlio (di cui non conosce il nome). Da quest’ultimo nacquero Tomaso e Sebastiano e da loro una intera progenie di nomi uguali per cui lo stesso Alizeri rinuncia a capire; molti falcidiati dalla peste;  Domenico non lo cita = potrebbe essere il figlio di cui non conosceva il nome; e neppure li segnala a lavorare per la nostra villa).

   La manodopera impiegata nella costruzione di una villa, includeva diverse categorie di lavoratori, ciascuna già dai primi decenni del 1400 organizzata in corporazione con propri statuti mirati, con norme tecniche ed a volta anche religiose e sociali, a tutelare gli iscritti ed il loro lavoro: i muratori (o massacani o cassolari; dai carpentieri derivarono i primi costruttori che i più provenendo dalla lombarda valle d’Intelvi, furono chiamati ‘maestri Antelami’ che dovevano pagare tasse, giurare fedeltà alla Repubblica  ma risiedere per almeno 10 anni continui  per essere considerati cittadini genovesi), gli scalpellini (o piccapietra), ponteggiatori, scavatori (o rompitori), falegnami (o bancalari o carpentieri), marmai, vetrai, pittori, ferrai, calafatori e maestri d’ascia. Senza inquadramento le fasce più deboli, gli apprendisti ed i manovali occasionali. Esisteva l’obbligo di celebrare le feste, quasi tutte religiose e pari a tre mesi all’anno (275 giorni lavorativi)

 Gli architetti incaricati si trovarono liberi di scegliere ed agire su una vasta area  priva di condizionamenti spaziali; i primi loro disegni ponevano la casa spostata decisamente più in alto rispetto l’asse stradale, sulle prime alture;  poi, forse per miglior agio  e praticità, fu costruita nel  basso della proprietà: vollero quindi l’edificio prospettante direttamente sull’asse viario principale, in diretta vicinanza con le ville dirimpettaie, quasi a creare con loro un borgo nel borgo, lasciando una piazzetta antistante per rendere visibile la magnificenza, e porre la casa a barriera del privato giardino retrostante, visibile solo dall’abitazione  e sviluppato con struttura tipicamente  italiana;  vasto, sontuoso e maestoso, già allora il primo parco monumentale nel già fitto tessuto di ville, quel tanto da dover convincere i senatori che l’ Imperiale era il doge ideale per una grande Repubblica.

   Dal 1563 furono affiancati dal marmista Giacomo Guidetti per le balaustre ed i portali (in particolare la grande porta del salone, simile a quella già eseguita per i Pallavicino); e dal 1564 , per la facciata esterna, affrescata in “chiaro e scuro “, dai pittori Domenico da Passano e Tomaso Barlone.


   Nel 1602, quarant’anni dopo, il

terzo erede, Gio Vincenzo (signore di ampia liberalità, di cultura aggiornata, membro di molte Accademie; scrittore egli stesso -compose  “lo Stato rustico” in versi sciolti,  edito nel 1607, e “il ritratto di

Casalino” nel 1637, ambedue con esaltazione della vita pastorale e di fiabeschi giardini, sublimando con estrema fantasia il suo stesso giardino con le  siepi, i viali, le acque, i laghi, i boschi-; nonché collezionista di rara capacità: una ricca biblioteca di oltre mille volumi - tra cui anche le opere di Giordano Bruno e di T.Tasso -; 


GioBernardo Carbone – Vincenzo Imperiale e fam.

 

antiche fonti lo indicano come il primo committente genovese  del Rubens ed una vasta quadreria - vanamente ambita dal duca di Mantova Carlo II Gonzaga - alla sua morte sarà acquistata in blocco dalla regina Cristina di Svezia  (ella, nata a Stoccolma il 18 dicembre 1626, divenne regina di Svezia nel 1632 succedenda al padre quando aveva 6 annui; e tale rimase, sotto reggenza, per 18 anni. Artista, letterata e collezionista, chiamò a corte i più illustri e dotti personaggi §(Cartesio, Grozio); favorì i commerci concedendo ampie libertà ai traffici. Poco dopo i 34anni di età si convertì al cattolicesimo, abdicò a favore del cugino Carlo X Gustavo e da Innsbruck scese a fissare la sua definitiva dimora a Roma (1655); ove fondò l’Accademia reale – poi chiamata Clementina dalla quale poi sorse l’Arcadia; e forse fu là che si fece traslocare questi beni, che furono poi ereditati (1689) dal Vaticano).

Si sa che G.Vincenzo durante un soggiorno romano per udienza papale con Urbano VIII Barberini, acquistò sei statue in marmo restaurate, raffiguranti i vari pianeti; ed altre, ritrovate nell’inventario dei suoi beni steso nel 1648,  esistenti nella casa in  Campetto. Sposò Caterina Grimaldi di Nicolò (la “Dama col nano” del Rubens)

Un suo ritratto (vedi sopra), datato 1642, (firmato da G.Bernardo Carbone. Baldacci, scrive  che fu eseguito da Domenico Fiasella ed aiuti), lo mostra già settantenne, con la seconda moglie Brigida Spinola (anche lei vedova di Giacomo Doria), il figlio e la nuora, posti all’interno della loggia:  è ben visibile  sullo sfondo il giardino della villa, ripreso sino a Belvedere con i laghetti, statue, terrazze e viali. Tutti sono vestiti rigorosamente alla moda spagnola con per i maschi prevalenza del nero; le donne hanno il guardinfante (ovvero un bustino con piccolo scollo rotondo, tipico delle vesti spagnole; sarà abbandonato negli anni successivi alla grande peste del 1658, per inserire alla pari con la politica, la moda francese) ed i capelli che coprono le orecchie; Brigida, in età matura, ha un abito severo e nero;  Ginevra, moglie del primogenito Francesco Maria, veste di azzurro con ricami d’oro;  solo le bambine hanno abiti dai colori più sgargianti.

Acquistò pagandolo anche la signoria feudale di sant’Angelo dei Lombardi nel napoletano, e fu commissario durante la costruzione delle mura del 1626 . Si presume che nacque nella villa, curandola come residenza preferita) .

Si avvalse del pittore genovese Bernardo Castello (1557-1629 divenuto poi anche presidente  della corporazione dei pittori. Amico del Tasso e del Chiabrera, dipinse tematiche prevalentemente tratte dalla mitologia letteraria; frequentando ambienti intellettuali e raffinati ed aristocratici ebbe commissioni importanti anche oltre confine ligure: a Roma per esempio è presente nel palazzo del Quirinale; fu il primo in assoluto in Italia a rappresentare  negli affreschi l’opera del Tasso, dapprima nella villa genovese degli Imperiale in Campetto e subito dopo nel 1602 a San Pier d’Arena; per questo il palazzo viene definito ‘tassesco’; il pittore nell’edizione genovese del 1590 illustrò il poema con  meravigliosi disegni trasformati in  incisioni,  e curò la riedizione del 1604  che comprendeva gli ‘Argomenti’, scritti dall’Imperiale)  per la decorazione di una parte dell’interno (la loggia ed alcune sale del piano terra, in cui descrisse le “storie di David ,  e il trionfo di Saul” : nelle prima sala a destra del piano terra, sul soffitto ci sono 5 medaglie , corredate di putti agli angoli, e con -al centro- David che precede il carro di Saul . In altra stanza la presentazione di David al re, l’ira di Saul, l’incontro nella caverna di Engaddi. A sinistra del portone - in un recesso di minor interesse-, una “Flora”  ed una “Fauna” soggetti che vogliono sottolineare il ruolo dell’edificio non solo adibito a spazio per l’esistenza quotidiana e decorata con consueti motivi biblico-moraleggianti, quanto anche premessa al giardino quale sede di esistenza  nei semplici piaceri della natura: un concetto ben chiaro nel committente, quale rifugio nella vita all’aperto, dall’affanno e dalle frustrazioni della frenetica vita degli affari; idea  espressa anche nelle varie sue opere scritte, assieme al suo motto “vivus qui liber”.

   Il rimanente - in un tempo successivo non precisato -, fu completato da Giovanni Carlone (Ge, 1584-Mi,1630, genero di Bernardo dal 1609);  suo è il “Sansone che strozza la fiera” dipinto sulla volta dell’atrio), e da Marcello Sparzo, da Urbino (attivo negli anni 1565-1606), (con documento  datato 30 lug.1602, dichiara ricevere cento lire genovesi, come pagamento per i lavori in stucco fatti e da farsi in stile rococò: così sue sono le quattro statue dell’atrio, lo scalone, le decorazioni della loggia (ove le figure giungono ad un alto livello artistico con una caratteristica del manierismo bilanciata tra il drammatico ed il grottesco).

   Tutta questa ricchezza, distribuita fittamente in tutte le stanze, conferisce all’insieme alta signorilità e ricchezza inusuali, e da questo la villa fu chiamata ‘la bellezza’. Ciò malgrado non è inserita nel volume del Rubens: si pensa – ma non si dice per certo – sia per questioni di rivalità tra proprietari (e lui dovette essere ligio al Gonzaga; o anche che, essendo stato il libro disegnato col fine di proporre delle abitazioni per i signori di Anversa, questa villa fu giudicata dal pittore eccessivamente monumentale e non adatta per la città olandese; invece fu citata e riprodotta da  Fürtenbach nel suo libro ‘Architectura civilis’ (Ulma, 1628).

    Nel 1576 il Senato diede vita al meccanismo dei ‘rolli’: l’arrivo sempre più frequente di sovrani e persone di alto lignaggio (da ammiragli ad ambasciatori, da letterati, pittori, a ospiti forestieri vari), impose un sorteggio tra i vari nobili proprietari di ville rappresentative affinché a turno non solo ospitassero ma si prendessero cura dell’ospite (festeggiamenti, salve di mortaretti, gite, cene, ecc) e non fossero a totale carico spese della Repubblica.

   Nel 1712 (Levati scrive il 3 marzo 1713; Traverso –documentato all’Archivio- scrive  aprile 1713)  ). l’erede Francesco Maria (doge nel 1711-3), vi ospitò  Elisabetta Cristina  di Brunswich (famiglia tedesca, con origini ducali feudali; ella, dopo aver abiurato il luteranesimo divenne dapprima arciduchessa, poi sua maestà regina apostolica di Spagna ed infine imperatrice di Germania.  Infatti il marito Carlo II arciduca d’Austria in lotta contro FilippoV  divenne re di Spagna col nome di Carlo III;  alla morte del fratello Giuseppe I venne eletto anche imperatore di Germania col nome di CarloVI.

Era già venuta a Genova nel 1708, quando la Repubblica parteggiava per FilippoV e pertanto ebbe fredda accoglienza.  Descriviamo questo evento a questa villa – ma non sappiamo con precisione se il fatto avvenne in questa casa; anche se è probabile, poiché soggiornò nel borgo- quanto era successo pochi anni prima: Traverso –tratto dall’Archivio di Stato- descrive avvenimenti dell’ 11 luglio 1708 quando la stessa Elisabetta, allora promessa sposa e futura regina, arrivò  -in carrozza  da Teglia- “a Sampierdarena a notte”, -ma non precisa dove dormì-. Proveniva da Certosa (pranzo), Novi (notte), Gavi (pranzo), Voltaggio (notte), Campomorone (pranzo,  col suo seguito tra cui le contesse di Oeting e di Cuefelt, il principe Carlo di Lorena ed il vescovo di Ornagrugg. La relazione, dettagliatamente descrive i programmi e movimenti, (previsti fin dal 17 febbraio) del lungo corteo: 300 persone tra cui 32 donne al servizio della regina compresa una ‘lavandiera dei pizzi’, nonché paggi, precettore, 3 medici, un chirurgo, uno speziale, 22 palafrenieri, 25 cocchieri, 3 sarte, un interprete, un musico, 9 fra cuochi e sottocuochi. Il Doge aveva predisposto l’accomodamento della strada, disastrata anche causa abbondanti piogge (i Capi d’opera maestri Domenico Orsolino e GioMaria Gallo) per la Bocchetta; ed il Capitano di Polcevera messer Filippo Pinelli assistito da GioGerolamo Massucone per strada e ponti della valle), la percorribilità in “sedia rolante” o in bussole ed in carrozze ricuperata dai singoli proprietari della zona.

   La seconda volta, dopo la pace di Utrecht, ebbe invece tutti gli onori dovuti: proveniente da Barcellona su nave inglese, diretta i Germania. I Serenissimi Collegi dovettero predisporre il  tragitto all’inverso, da san Pier d’Arena a Campomorone, Voltaggio, Novi. Fu scortata da sei galee della Repubblica comandate da altrettanti patrizi guidati da GioFrancesco Doria che le erano andati incontro a Vado; scesa dalla nave alla Lanterna entrò in una bussola privata ed appena sulla via montò in carrozza pure essa propria e si recò nella nostra villa scortata da proprie guardie, rifiutando quindi tutti i servizi locali. Vi arrivò alle 19 circa. Dopo cena e nei giorni dopo democraticamente non si negò alla folla di nobili e di popolo; e partecipò alla cerimonia dell’entrata in società di otto giovani (Marta –o Marzia- Imperiale, Giovannetta Viale, Anna Neuroni (Negrone), Teresa Raggi, MariaValeria Grimaldi, Barbaretta Durazzo, Settimia Pallavicini, Geronima Gavotti) che poi la servirono e l’accompagnarono fino a CampoMorone (ove erano presenti anche GioGiacomo Imperiale, marchese Costantino Balbi, Benedetto Viale, GiacomoFilippo Durazzo, Niccolò Cattaneo, Agostino Grimaldi), quando se ne partì verso Novi. Il Senato le offrì oltre con le salve dei cannoni, anche con in regalo 24 cassette contenenti dolci, profumi (‘acque d’odore’), velluti, broccati e trine.

Non sappiamo quanto si trattenne, ma Traverso segnala che alle ore 15 del 6 aprile 1713 era arrivata a Campomorone per il pranzo, sempre (come all’arrivo) in casa di Costantino Balbi.

   Vale come per il 1707 che non sapevamo dove fosse avvenuta la sosta nel borgo, che il re Carlo III di Spagna, marito di Elisabetta Cristina di Brunswich, (poi Imperatore di Germania) proveniente da San Pier d’Arena, via Rivarolo, Pontedecimo, Campomorone, andò nel nord. Lungo l’itinerario, fu accompagnato da ‘rollanti’ come calessi e mute di cavalli, lauti pasti, nonché da regali (tra cui 277 scarpe per uso dei soldati di scorta, 71 cappelli per soldati e vetturini, marsine per 11 vetturini).

  Elisabetta Cristina fu la nonna di Maria Antonietta, regina di Francia.

(Confermata la data del 1712 (Ciliento), non può trattarsi di Cristina di Svezia citata dal Lamponi, perché già defunta dal 1689 –di questa leggiamo sopra, nelle note di GioVincenzo).

Nel 1746 Lamponi erroneamente pone in questa villa la presenza del BottaAdorno; invece era in villa Serra-Doria-Masnata di via A.Cantore.

  Nel 1757, la mappa vinzoniana segna l’appartenenza a Gio Giacomo .

  Di quest’epoca, Alizeri attribuisce al Bernasconi da Bergamo, dei plastici stucchi, che coronano  ed illeggiadriscono varie stanze.

   Nel 1764 (dal 25 luglio) vi fu ospite il duca di Jork, fratello di re Giorgio III d’Inghilterra. Era già stato a Genova, ospite a Sestri; adesso veniva come  privato, senza deputazioni, cerimonie e regali ufficiali, rimanendovi assai a lungo e festosamente (più di ogni altro principe).  Ovvio alto interesse ci fu perché non gli mancassero i divertimenti: teatro, feste da ballo, accademie di musica, cene sia ospitato (uno in casa Grimaldi PFranco ed uno da Marcello Durazzo) sia ospite (il 13 agosto con 20 e più cavalieri e 4 dame). Se ne ripartì sempre privatamente verso Antibes a bordo del vascello Centurione, il 17 agosto.

  Nella guerra austro francese del 1799, con Genova e Massena assediati, il borgo fu usuale sede di passaggio e di scontri tra le due armate; la villa –sede appetita per le comodità che offriva - fu rovinata e disastrata perché utilizzata come caserma ed ospedale dalle truppe austriache.

      Nel 1801 divenne proprietà del conte dott. Onofrio Scassi (vedi) famoso e ricco studioso medico dell’ateneo genovese (anche: cavaliere, professore, senatore del regno, membro dell’Accademia imperiale, socio onorario della Colonia Ligure dell’Accademia Italiana;  è del 1802 l’atto di requisizione della villa inviato alla municipalità di San Pier d’Arena da parte delle autorità francesi, al fine di  adibire la villa ad alloggio per ufficiali dell’Armata ed usare i magazzini per depositare viveri e materiale militare).

Ma l’atto notarile tra O.Scassi (dimorante in strada Balbi) e Giulio Imperiale di S.Angelo (dimorante il piazza Campetto) fu stilato il 19 aprile 1816 dal notaio G.F.Sigimbosco: la proprietà costò 84.500 lire, moneta di Genova corrente fuori Banco: nell’atto è descritta essere racchiusa a sud dalla Strada Pubblica; a levante dalla crosa che divide dal sig. principe di Francavilla in basso ed i sigg. Giovo e Tribone in alto; a ponente dalla crosa che separa in basso dalle Madre Pie, poi dai beni dell’ill.mo sig. PaoloGerolamo Pallavicino ed in alto da Mongiardino; a tramontana dai beni di Campantico.

   Viene descritto che nel 1817 in conte ospitò nella villa (ancora da restaurare ovviamente,  anche se il relatore dice ‘restaurata’), il granduca Michele, fratello dello zar russo.

   Il restauro vero e proprio iniziò nel 1821, riportandola al fasto originario.      Incaricato ufficiale fu l’architetto Carlo Barabino (Genova, 1768-1835), che appose la scritta all’ingresso “ Dirutum Onophrius Scassi refecit”, ma soprattutto ridisegnò la sala principale che era nuda di arredi,  utilizzando per abbellirla famosi artisti, quali il pittore Francesco Baratta  (che dipinse la volta e pareti), e gli scultori   Michele Canzio e Gaetano Centanaro (compirono le decorazioni neoclassiche in stucco; il Canzio, nato a Genova nel 1784 divenne un geniale personaggio caratterizzato non solo dall’eclettismo artistico di alto livello (pittore, architetto (ornati in numerose, chiese, teatri, ville tra cui a Pegli la Durazzo Pallavicini con sfoggio di fantasia da capolavoro; il monumento a C.Colombo in piazza Acquaverde), scenografo, insegnante all’Accademia Ligustica, impresario del Carlo Felice) ma anche dallo spirito bizzarro e sempre pronto a comporre più o meno clamorosi scherzi (far finta di cercare una grossa moneta d’oro, coinvolgendo numerosi volenterosi fino poi a riconoscere che ‘sperava’ di trovarne una; in chiesa dipingere il volto del parroco tra i dannati all’inferno; con spago e metro prender misure del ponte di Carignano spiegando ai passanti doverlo abbattere e rifare: ad uno del grosso capannello di curiosi chiese di reggere un capo dello spago e con la scusa di prendere una misura si eclissò dietro l’angolo lasciandoli tutti ad attendere che tornasse. Ebbe figlio Stefano, a cui  San Pier d’Arena ha dedicato una via. Morì nel sett.1868, facendo pensare ad un ennesimo scherzo) e Giovanni Barabino con un busto della figlia Francesca Agnese Scassi. Questi, con altri completamenti, terminarono il lavoro nel 1861 (nel restauro successivo del 1937 fu criticata la scelta di aver allora rivestito la facciata nord con un intonaco spesso 2 cm (che aveva contribuito ad appesantire nonché rendere goffa e rigida la snellezza della struttura originale) e che poi  ‘marcì’ favorendo screpolature, muffe e deterioramento della decorazione a stucco).

   Nel 1888, dopo pochi anni quindi, passò di proprietà alla famiglia Piaggio (in particolare al senatore del Regno, armatore, industriale, Erasmo Piaggio, nonché benefattore: di sua proprietà lo stabilimento saccarifero “Raffineria Genovese” che fece sorgere appunto nel 1888 e che funzionò fino al 1905), che la gestì per pochi mesi poiché già nello stesso anno 1888 appare rivenduta al Comune di San Pier d’Arena (forse aveva in mente un progetto di investimento immobiliare, ma cedette di fronte alla pressante richiesta del Comune)

   Quest’ultimo, lungimirante nello spendere il pubblico denaro per salvaguardare tale patrimonio, fu altrettanto cieco nel sacrificare gli spazi, edificando in quegli anni i due grossi edifici laterali per dedicarli  a scuola (in stile rinascimentale come i quattrocenteschi palazzi fiorentini; essi alterano pesantemente lo snello equilibrio  precedente, che vedeva il piazzale d’ingresso racchiuso da due più basse costruzioni  che facevano da apertura alla grande costruzione della villa), ed ospitando in tutti le scuole elementari e quelle di avviamento professionale femminile A Cairoli.

   Nel 1922 DeLandolina scrive “Vi àn sede ora le regie Scuole tecniche e nel piazzale che si stende dietro il palazzo, per concessione del Municipio, vi alternano i loro ludi domenicali i ginnasti della <Sampierdarenese> in contendenza spesso con altre società sportive nazionali e straniere”.

    Ancora nel 1929, Masini scriveva : “Sampierdarena aveva altre aree ed altri terreni per costruire case, scuole e spedali e per organizzare campi di gare senza fare l’ultimo scempio di tanta magnificenza di giardini e di parco”.

   Inizialmente, vi fu posta anche la sede della scuola complementare Dante Alighieri.

   Nel 1937-8, come già scritto, avvenne un successivo restauro generale per opera del pittore prof. Urbano Signorini e del restauratore Angelo Porcile: essi trovarono le pareti esterne laterali in buone condizioni, giudicarono la facciata principale arbitrariamente dipinta (ma che fu solo ripulita); la nord in completa rovina perché nel restauro precedente l’avevano rivestita di un intonaco troppo spesso e che nel tempo si era screpolato ed ammuffito: fu tolto tutto e rifinito come primitivamente con polvere di  marmo: infine ridipinsero sia la facciata  nord (dando un rosso cupo alle pareti del piano terra, e rosato al primo piano con le metope rosse; il gioco di colori metteva in risalto le decorazione ed i triglifi) che le due meridiane esistenti.

Questo intervento fece tornare a vivere la bella villa, che fu adibita così all’ Istituto professionale commerciale ‘Principe di Napoli’ (ovvero  UmbertoII, figlio di Vitt.Eman.III); e –dopo la grande guerra- G.Casaregis (e ospitando anche le scuole professionali di avviamento al lavoro a tipo commerciale O.Scassi. Poi vi si insediò la scuola media, intestata a G.Mazzini, infine l’Istituto professionale di Stato per servizi commerciali e turistici G.Casaregis (il ‘500’, dice A. Casaregis; la targa esterna riporta: “ISTITUTO STATALE P. GOBETTI – sede LICEO DELLE SCIENZE SOCIALI – succursali LARGO GOZZANO 5, VIA SPATARO 34 – INDIRIZZO PSICOPEDAGOCICO”.

È formato da una sede centrale ospitata nella villa e da tre succursali, con più di 80 insegnanti per oltre 900 studenti , divisi in otto corsi di qualifica, tre di postqualifica e tre collaterali, tutti con accesso all’università; attrezzato anche per corsi di informatica.

   Il Pagano 1950 cita solo il nome ‘villa Scassi’ nel gruppo delle 10 ‘ville’ genovesi; mentre il parco non è incluso in quello dei ‘giardini’.

   Alla Soprintendenza risulta che solo nel 1955 l’immobile sia stato vincolato e tutelato dalle Belle Arti: molto probabilmente è un errore trascrittivo e penso che la villa sia stata giudicata tale nel 1934 come le altre più importanti vicine, ed il vincolo rinnovato nel 1955

   Un successivo restauro avvenne nel 1974. La parte che prospetta su via Cantore, per i frettolosi passanti, da facciata di retro è praticamente divenuta quella principale: su essa la pittura data allora con piacevole effetto, ebbe durata di pochi mesi iniziando irresistibilmente a scrostarsi ridonando dopo nemmeno un anno l’aspetto di triste abbandono che ormai la caratterizza da anni.

Infatti, il valido ricupero che, con onerosa spesa, è avvenuto rifacendo il tetto e ridipingendo la facciata ha espresso come sarebbe effettivamente bella se restasse pulita; ma la pittura ha resistito pochissimi giorni prima di sfogliarsi miseramente e ridare alla casa un aspetto assai deprimente. Si dice sia colpa del salino, ma... in tempi di economia esasperata, il dubbio è più raso terra.

Mentre, per fortuna i giardini della villa,  con l’intento di migliore  conservazione di quello che a dispetto di tutti, si sono salvati.

   Il mago Alex scrive su un libro edito nel 1998 che nella villa sono state individuate delle creaturine tipo gnomi, alte 50 cm.; un vago Gino, ragazzo che percorreva il giardino col cane, trovò un cappellino rosso orlato di filamenti d’oro, leggero ma resistentissimo, calzabile da un bambolotto: se lo portò a casa, ma nella notte dormendo nella sua camera fu svegliato da un barbuto gnomo che era entrato per ricuperare il ‘suo’ berretto lasciando in cambio una preziosa moneta. Da quel giorno lascia delle caramelle dove trovò il berrettino, ed in contemporanea ha più volte vinto al gioco.

   Nel 2003 si parla sul Secolo XIX di rivalutazione e ridestinazione: da sede scolastica (non essendo in regola con le norme CEE sulla sicurezza,  impianti elettrici ecc.), previo trasferimento delle scuole in sedi idonee (i cui servizi non sono a norma di sicurezza come prevede una legge europea che scadrà nel 2004 ed i costi di adeguamento non sono di poco rilievo (assieme alle altre scuole, tutte locate in siti analoghi)) a sede museale (proposto il museo del fumetto o della passata storia locale industriale).  

Nel 2004 per la Bellezza e la Fortezza –ospitanti il Casaregis e sua succursale- si riprende a parlare di modifiche: seppur di proprietà comunale, sono divenute fuori norma e senza i requisiti di sicurezza, con obbligo di abbandono da parte dei VVFF (scale antiincendio, caldaie, vie di fuga adiacenti, barriere architettoniche (disabili), ascensori. Non più uso scolastico quindi, essendo difficile rimanere nelle attrezzature a norma della CE, ma a riqualificanti sedi dirigenziali scolastiche (alla Fortezza, l’ex Provveditorato agli studi (oggi Direzione scolastica regionale)). Nell’aprile 2005, circa 200 studenti in piazza Sopranis

In aprile 2005 si riprospettò il trasferimento dei 260 studenti a sanTeodoro ed il riutilizzo della villa a Centro culturale. Ma la crescita del numero  degli studenti con ‘fame’ di aule; gli studenti stessi che hanno fatto corteo e sit-in  di ribellione all’idea manifestando contro il loro trasferimento; malgrado il problema economico della messa a punto della sicurezza secondo le Norme CEE e la riparazione dell’impianto di riscaldamento che ‘perde’ gasolio; hanno fatto fallire l’operazione.

 

===della PROPRIETA’, attualmente residuano: **davanti alla villa, un muretto con i segni di una cancellata, tolta per dare ferro alla Patria prima dell’ultimo conflitto mondiale; **parti di muro di cinta: *ai lati -di  originale della cinta degli anni iniziali della villa - dove è il gioco delle bocce: una nicchia, ora vuota, sul muro che separa a ponente il territorio della proprietà da quello delle suore Franzoniane. *Più netti i residui di muro ai fianchi del parco e giardini (descritti in via A.Cantore), sino all’apice di essi che si concludono col muro di sostegno del laghetto ed un fornice di porta che permetteva raggiungere la chiesa di san Giovanni. Ed ancora più intatti – anche se esternamente marchiati da condutture dell’Enel – *quelli di appartenenza dell’ospedale (descritto in via O.Scassi). che fiancheggiano a ponente la salita Superiore Salvator Rosa, ed a levante salita D.Conte, sino alla base di Promontorio.

  

foto biblioteca Gallino

   idem                     

===STORIA  della porzione del parco rimasta collegata alla villa

 Infatti via A.Cantore ha irrimediabilmente ‘segato’ il parco dal palazzo, cosicché  nella realtà odierna la maggior parte di esso, comprendente i ‘Giardini della villa Scassi’, che si trova a monte di via Cantore,  è ormai definitivamente svincolato dalla villa (a meno che …un progetto non ancora progettato non fara scorrere via A.Cantore in tunnel sotterraneo….) e pertanto descritto in via A.Cantore.

                                  

facciata principale su  via Daste                            facciata di retro

 

   Il taglio previsto della strada (in quegli anni dedicata ancora via G.Carducci), fu anticipato negli anni 1920-30 dalla distruzione della parte di giardino appoggiato alla villa, che divenne sede provvisoria di un campo sportivo per il gioco del foot-ball, successivo a quello ‘delle monache’.

Il gioco del calcio a San Pier d’Arena, vede la luce nei primi mesi dell’anno 1897 ad opera di tecnici inglesi assunti nelle maggiori fabbriche cittadine (l’Ansaldo prima di tutte; essi avevano fondato nella sede consolare il 7 sett.1893 il famoso ‘Genoa Cricket and athletic club’,  frequentabile in esclusiva solo dai loro connazionali. Pare sia stato proprio Spensley ad allargare le possibilità di gioco anche ai non inglesi, accettando volontari nella massa degli operai. Si è così autorizzati quindi a confermare che i primi calci del gioco del pallone a livello popolare, furono dati a San Pier d’Arena). Nacque a metà 1897 la ‘soc. Foot Ball Liguria’ (o Pro Liguria, con casacca bianca e banda trfersale rossa; affrontò il Genoa nel primo derby cittadino in piazza d’Armi, nell’anno 1900, perdendo; e che trasferitasi poi nel prato della zona Fornace (via C.Rota) riuscì nel 1915 a giocare in prima categoria fino al 1919). Gradatamente questo sport acquistò una sempre più crescente fetta di interesse dei giovani rubandolo al locale gioco al tamburello con cui occupava la piazza d’Armi al confine nord della città (vedi).

         Nel frattempo, provenienti dalla soc.Operaia di MS Universale, il 6 giu.1891 un gruppo di atleti, aveva fondato la soc. Ginnastica Sampierdarenese, dai cui iscritti, nel 1911 si formò la sez. Calcio (Enrico DeAmicis e Luigi Cornetto; con calzoncini neri e casacca bianca traversata in diagonale da una fascia nera, come quella dei ginnasti).   

   In carenza di un campo locale, per anni e con mezzi fortunosi andarono a giocare sul campo di Rivarolo (che poi sarà chiamato ‘del Torbella’); di quest’epoca -1918-  vengono ricordati: presidente: E.DeAmicis; fondatori: L.Cornetto, Lenuzza, Riccardi, Scatti, Berlingeri, Pastorino, Calvi; giocatori: EnricoCanepa portiere; Delfo Bellini (poi anche azzurro) e Giuseppe Riparelli terzini; Renato Boldrini, Ermenegildo Melandri ed Ercole Carzino (poi anche azzurro) mediani; Carlo Migone, Mario Garrone, Gatti e Pietro Mazzella avanti) .   

Nel 1919 (Tuvo scrive 1920, sotto la presidenza del sig.Ravenna), proprio per approfittare di un salto di qualità, la Sampierdarenese Calcio assorbì la Foot Ball Liguria, o“Pro Liguria”, di cui sopra, acquisendo così di diritto al campionato di 1.a categoria. Questa fusione determinò un primo cambio della maglia: nel bianco, fu inserita una fascia rossa sopra quella nera originaria trasversale.

   Fu notizia pubblicata sul giornale locale del 24 nov.1919, che nella zona retrostante l’ex convento dell’Immacolata di via DeMarini, fosse avvenuta l’inaugurazione di un campo sportivo sampierdarenese, su terreno concesso dalla società edilizia RES.

   Ma solo nel 1920 (primo anno calcistico, di ripresa post bellica), inserendosi nell’insensibilità generale mirante a conservare quel poco di bello che c’è,  l’impresa Stura realizzò dietro la villa Scassi, tagliando il primo tratto degli splendidi giardini,  un campo al limite delle misure regolamentari, per più o meno 10mila spettatori, senza fondo erboso, senza panchine per allenatori (tra i quali viene ricordato Rumbold).  Fecero squadra Enrico Carzino (I°) portiere, ed i mitici Marchisotti (il papà del giovane che poi morì in un incidente stradale ed  a cui fu intitolato il torneo estivo del DonBosco), Storace, Ramasso, Ercole Carzino (II°), Dapelo, Masoni, Derchi

 Sarà teatro tra il 1920 ed il 1927 di tante battaglie, tra la Sampierdarenese nei derby contro le due genovesi Andrea Doria e Genoa, ma anche contro la ProVercelli, il Livorno, il Parma, la Juventus, il Milan, e le migliori d’Italia di allora.

Per l’inaugurazione (la squadra fu composta da: Grassi, Marchisotti, Storace, Ramasso, CarzinoI, Dapelo, BoldriniII, Aloise, Michelin, Frugone II, Carzino II, Masonevenne invitata la soc. genovese Andrea Doria, che vinse sui ‘lupi’  per 4-1. Per la pubblicità sul campo sportivo, fu concessionaria esclusiva la soc. “Cepis” che aveva sede al civico 20.

Nel 1921 divennero azzurri gli atleti Renato Boldrini (riserva), Sebastiano Ramasso, Ercole Carzino.

Possedendo una lunga tribuna coperta, tutto lungo il lato nord ed una transennatura a teloni per scoraggiare i “portoghesi” non paganti, dal giornalista Carlo Bergoglio fu chiamato affettuosamente “la scatola dei biscotti” (Roncagliolo scrive ‘delle pillole’). Con l’apertura della via, il campo fu trasferito a provvisoriamente alla marina ma subito dopo a Cornigliano, in un più moderno complesso: un trasloco obbligato (come per il torneo Marchisotti in tempi più recenti).

   Ma già dal 1926, in parallelo alla creazione della Grande Genova ed alle disposizioni dall’alto di natura politica autoritaristica, le due squadre:  Andrea Doria detta ‘i ricchi’ e la  Sampierdarenese ‘i poveri’ (malgrado la loro orgogliosa autonomia) furono coattamente riunite  nella ‘Dominante’, divenendo assieme al Genoa una delle maggiori società sportive genovesi. Le cose non andarorono come preventivato per cui fu meno traumatico il passaggio nel campo di Cornigliano, ove potevano assistere 25mila paganti e da dove con pochi metri si arrivava a fare il bagno sulla spiaggia. La nuova squadra nel campionato 1928-29 retrocesse in B; e malgrado tentativi di fusione con la Sestrese e Rivarolese, l’anno dopo finì in C.

   Ancora negli anni 1930, il nome era ‘Associazione Calcio Sampierdarenese’ con sede presso il caffé Roma e come presidente l’on. Storace Cinzio, commissario straordinario. Nel 1930 fu richiamato alla dirigenza Luigi Cornetto, il quale impose ritornare alla separazione delle due squadre; col  nome e maglia della Sampierdarenese ripartirono da zero (giocatori: Gino Poggi, Vincenzo Ciancamerla, Nervi, Bodrato, Gallina, Fossati; e nel 1933 portiere Manlio Bacigalupo imprestato dal Genoa) gradatamente fino al campionato 1933-4, risalendo la china in serie A.

Gli Sponsor industriali imposero nel 1937 un nuovo cambio di nome: divenire “Liguria”. Dall’iniziale 11° posto, due anni dopo è nuovamente retrocessione ma solo nel 1941, in piena guerra, ci sarà il ritorno in A del Liguria, ma solo per un anno perché nel 1943 fu di nuovo B. Ma, per motivi bellici in quell’anno ci fu la sospensione del campionato.

Nell’anno della ripresa, 1945-46 valse la presenza in serie A (detto Campionato di transizione) delle squadre che tali erano nel girone del 1942-43: la Sampierdarenese c’era, e si ritrovò nel girone settentrionale  col Torino, Internazione, Juventus, Milano, Bologna. Ma l’anno si risovette con una ultima posizione dei ‘poveri’; che non significò sacrificio perché all’istituzione del ‘girone unico nazionale’ rimase mantenuta in serieA.

Fu allora che il presidente Cornetto, privo di possibilità economiche,  si incontrò col collega Parodi della’AndreaDoria (maglia azzurra con larga banda bianca orizzontale) per studiare la fondazione che venne firmata il 9 luglio 1946 nello studio del notaio Bruzzone, creando la Sampdoria ‘di Baldini e di Bassetto’.

   Nel giu.1946, sempre dalla palestra della soc.Ginnastica Comunale Sampierdarenese in via G.Marabotto (ora via D.Storace) un gruppo di appassionati non consenzienti alla nuova fusione (Tiraboschi G., Traverso A, Bargoni A., Buffagni C., Battistelli S., Pittaluga A., Pedemonte G., Roncallo G.), creò la U.S.Sampierdarenese 1946, società minore per calcio dilettantistico, per i cui colori fu recuperata la  vecchia banda rossonera in campo bianco, dei ‘Lupi’ locali, ed il cui primo campionato fu in 2.a categoria. Nel 1948, con sede nel bar Castello di via G. Giovanetti, vincendo il campionato, fece il primo scatto di categoria e riuscì ad avere dal CAP un campo dove ora è il Lungomare Canepa che fu intitolato a Luigi Bertorello (uno sportivo locale, caduto in Russia). L’anno dopo, 1949,  rivincendo il campionato, passarono in Promozione: in contemporanea spostarono la sede nei locali-giardino al piano terra-ponente della villa Scassi. Nel 1972 si diede avvio alla costruzione del campo sportivo di Belvedere su progetto dell’ing. Campodonico e con l’impresa Reglioni (vedi a Morgavi in salita Millelire).

In quegli stessi anni si ampliò di interessi, costituendo il settore pallavolo, sci-escursionismo (con la fusione del GEAM =Gruppo escursionistico amici della montagna, nato nel 1955 in via La Spezia ed affiliato al FIE= Federazione italiana escursionismo) e ciclistico (con la fusione col  ‘Pedale sampierdarenese’).

 

    Oggi, nel ‘retro villa’ e direttamente attaccata all’edificio, permane solo una striscia di terreno profonda una decina di metri: è l’unica parte che rimane dell’antico parco - prima che via A.Cantore la separasse da esso. Oggi essa è composto –a ponente- da un piazzale, dedicato al gioco delle bocce; -nel centro- al gioco del tennis; -a levante- da area ludica per gli scolari delle scuole.

Nel 1934 è descritto sulla rivista municipale Genova  un ordine del giorno mirante a donare queste aree per la costruzione della ‘casa del Balilla’.

Cosa che fortunatamente non avvenne perché avrebbe distrutto buona parte di giardino. Cosicché, attualmente, persistono alcuni campi sportivi comunali, che comprendono:

1°) uno centrale da tennis, lungo 36m, gestito dall’Ansaldo centro sociale interaziendale;

2°) uno a levante nato nel 1977 dal volontariato di un centinaio di genitori degli alunni  (finiti in dieci) che pure lo recintarono, è lungo 24m, con gradinate; funzionò per qualche anno finché aperto a tutti ed abbandonato a sbandati (1987) subì anni di incuria. Nel 1980 il Gazzettino scriveva “È rinato il «Campetto» di via Cantore; i lavori di ripristino sono stati ultimati: ...adesso il nero dell’asfalto brilla al sole”. attualmente è stato ricompletato dal Comune per pallacanestro- pallavolo dei bambini.

3°) un lungo campo da bocce a sei piste, posto più a ponente; è della SGC Sampierdarenese, sez. bocce. Questa struttura è al limite ovest dell’antica proprietà della villa: il confine infatti è il muro di cinta, eretto dagli Imperiale e vecchio oltre 500 anni: nel muro c’è una grossa nicchia ove probabilmente ai quei tempi stava una statua.

 

===La VILLA

La FACCIATA anteriore è decorata con fine gusto manieristico:  semicolonne di stile dorico  al piano terra,  e lesene corinzie scanalate, al piano nobile; esse sono alternate da monumentali finestre le cui tre centrali del piano nobile furono concepite come loggiato (novità rispetto all’usanza pre alessiana di porre il loggiato in zona latero-angolare, e così concepito volutamente per alleggerire il senso di blocco compatto che altrimenti avrebbe acquisito il palazzo) sia al piano terra che al piano nobile; e quelle centrali arricchite da un terrazzo; sormontate da timpani triangolari alternato con altri curvi; sul cornicione sono ricche decorazioni a stucco.

   Con l’apertura di via A.Cantore, la facciata posteriore, altrettanto imponente e bella, resa anche leggiadra dal portale centrale sormontato dal terrazzo alle tre finestre centrali, si è trovata a sostituire agli occhi dei passanti frettolosi e disattenti una ingannevole rappresentazione della facciata principale, riuscendoci con notevole dignità e prestigio.

I restauri del 1938, l’altro recente del 1974, e la ritintura esterna indirizzata alla ricerca degli antichi rapporti cromatici dell’intonaco (color albicocca nelle lesene, su fondo arancio-rosso), si sono troppo rapidamente deteriorati, lasciando la villa in un desolato ed immeritato aspetto esterno di degrado; si è dato colpa alla sabbia (di mare, non lavata) o a materiali scadenti. Nessuno, a nostro sapere, ha reso conto alla cittadinanza di questa malefatta.

Qualcosa è rimasto, di tanta magnificenza, seppur tragicamente alterato nei rapporti: dietro alla villa, dove si aprivano ampi giardini erbosi con palme, ora passa la grossa via A.Cantore che ha falsato ogni prospettiva di eleganza (i campi da basket, da tennis e di bocce , sono il classico esempio di come assurdamente si è dato la precedenza a determinati servizi definiti sociali, comodità, e forse economia, a scapito di qualsiasi razionalità estetica (e quindi anche turistica). La via Cantore stessa, aperta proprio a ridosso della facciata posteriore, sta valorizzando il retro della villa, spostando quindi l’attenzione a questa parte che non è la principale e diminuisce le più imponenti ed eleganti  reali espressioni dell ’ingresso principale ritrovatosi retrostante).

 

L’INTERNO Piano terra. All’ingresso la prima stanza è l’atrio: la decorazione offre un impatto che si ripresenterà costante in quasi tutte le sale: la magnificenza, ricchezza e severità manieristica, alleggerita e sdrammatizzata dalle leggiadre e fantasiose grottesche. Sulla volta a padiglione, in un riquadro di 3mx1, Giovanni Carlone  dipinse ‘Sansone che strozza un leone’, forse allusiva alla felice conclusione di una vicenda giudiziaria in cui rimase coinvolto Gio Vincenzo Imperiale; all’intorno leggiadre grottesche ed alcuni paesaggi nelle lunette, alleggeriscono l’insieme. Sul fondo l’andito al giardino: attraverso un fornice tripartito, era un vestibolo con volte a crociera da cui erano originariamente visibili ed accessibili il parco retrostante e le scale per ascendere; oggi questa prospettiva è stata distrutta, perché divenuta superflua essendo sconvolta la superficie retrostante alla villa.

      

atrio                                                                                            pietra nera di Promontorio

                    

atrio - porte alle sale laterali                                                                              sedili

Nelle tre sale poste a ponente, aiutanti di B.Castello dipinsero le volte ed i lati delle stanze, con grottesche e paesaggi nelle lunette; in particolare, nell’ovale centrale della prima stanza, appare una ‘Flora’ racchiusa in una cornice prospettica. Nella seconda stanza arredata ad alcova-camera da letto, in quattro ovali prospettici sono altrettante ‘figure allegoriche femminili’ (di una di esse è conservata solo la sinopia), circondate da raffinate grottesche più piccole. Nella terza, con volta a padiglione, compaiono sempre grottesche, e paesaggi nelle lunette.

Nelle sale poste ad oriente vediamo le “storie di Davide giovane” (I.Samuele, 16-17) di B.Castello  aiutato dai suoi allievi,  tutte  circondate da grottesche e paesaggi; si presume che questi affreschi abbiano subìto a restauro grossolane ridipinture nei tempi successivi:

--nella prima, centrale sulla volta  ‘David vincitore, reggendo la testa di Golia,  si avvia verso Gerusalemme’; a nord ‘Davide lascia il suo gregge e raggiunge gli accampamenti contrapposti degli ebrei e dei filistei’; ad est ‘l’incontro con Saul’; a sud lo ‘scontro vittorioso contro Golia’; ad ovest ‘Davide unto e consacrato da Samuele’ .

I vari riquadri, contornati da eleganti cornici modanate a stucco, sono contornati da ovali con delle erme; due statue color bronzeo dei re biblici Saul e Davide; due statue di guerrieri distinguibili dal bastone di comando; due statue raffiguranti ‘Fama’ e ‘Vittoria’ su fondo a mattonelle dorate; ovali agli angoli sostenuti da putti con le immagini a finto busto marmoreo di vecchi filosofi (quest’ultime immagini furono ritoccate da Picco).

--nel riquadro centrale di m.4x3 della volta della seconda stanza, composto come se fosse un arazzo steso ad una balaustrata prospettica in finto marmo, c’è l’immagine di ‘Davide davanti a Saul’ , in una lunetta un paesaggio assomiglierebbe al castello sul lago, nel feudo  degli Imperiale a Sutri .

--sulla volta della terza stanza, il riquadro centrale incorniciato di m.3x3 raffigura ‘Davide che suona l’arpa per Saul’; l’impressione di vedere il soffitto di un loggiato, sostenuto da erme di stucco appoggiate su mensole,

ed intorno grottesche, lumi e drappi, edicole in finte nicchie vuote e paesaggi nelle lunette.

-la quarta sala, dipinta dagli allievi di B.Castello, vede nel riquadro centrale simulante un loggiato con colonne binate, la ‘Fama seduta sul mondo, che suona la tromba e reggendone un’altra nell’altra mano’.

 

Attorno la decorazione simula un loggiato sorretto da colonnine binate, tre la quali appaiono grottesche e paesaggi.

-nella quinta sala è raffigurato ‘Davide che esce dalla grotta’, racchiuso in cornice prospettica, circondato da grottesche e due ovali con paesaggi; agli angoli delle nicchie mistilinee con paesaggi.

Dietro, nell’andito per il giardino allievi di B.Castello decorarono la volta con grottesche, paesaggi e due busti in nicchie sopra le porte .

 Lo scalone, composto di tre rampe, decorato con grottesche , ospita a metà due altre grandi statue su alto piedistallo, in stucco, opera di Marcello Sparzo da Urbino, raffiguranti il proprietario Gio Giacomo: una come guerriero ed una come doge .

             

Al piano nobile, la prima sala è la loggia che è posta a sud (anziché a nord, come era d’uso nell’Alessi: questo particolare rende tutta la villa un prototipo,  dalla caratteristica struttura definita ‘del triforio’ ossia della triplice loggia non esposta all’esterno del palazzo ma all’interno verso il giardino); sulla volta, di B.Castello in nove riquadri, sono raffigurate le ‘storie dalla Gerusalemme Liberata’ del Tasso, soggetto caro al proprietario ammiratore del poeta, ed al pittore fortemente ispirato dalla vicenda e dalle similitudini che si potevano trarre per descrivere in forma allusiva le desiderata dell’aristocrazia committente (nello specifico di questa stanza, a parte il quadro centrale, gli altri non vedono raffigurazione di precisi episodi descritti nel libro, a meno che non si tratti del libro ‘La Gerusalemme conquistata’, e non ‘liberata’):  al centro ‘il trionfo dopo la conquista della città santa’, circondata da ‘la flotta in mare’, ‘lo sbarco’,  due immagini de ‘l’assedio’, ‘una riunione di consiglio’ , due immagini de ‘la sottomissione’. 

Soffitto della loggia. Centro= la gloria //In basso, a sin lo sbarco /centro una sottomissione/ destra la flotta in mare

         

riunione di consiglio                              assedio                          altra sottomissione                                                     

I riquadri sono frammisti da ovali, alcuni lobati,  in cui sono dipinti dei putti alati (tra essi, due sono con pacifici rami di palma) e da stucchi dello Sparzo raffiguranti altri  putti con ghirlande, e grandi ‘divinità mitologiche’ viste in prospettiva.

 

porta di ingresso a levante della loggia – nel tondo scena amorosa; ai lati Diana e venere con putto

Nelle lunette: a est un tondo con ‘scene amorose tra Marte con Venere’ e ai lati ‘Diana con Venere ed Amore‘; ad ovest con ritratti di guerrieri vincitori: ‘Eracle con la pelle del leone nemeo e ‘Perseo con la testa della Medusa’.

Ai due estremi lo stemma di possesso  del Comune a partire dall’anno 1865 di acquisizione, circondato da ‘Marte e Giovee, sotto essi una statua femminile

  

sul lato opposto ‘Vulcano e Nettuno’.

Alle pareti otto busti in marmo, anonimi, ed un altro sopra la porta d’ingresso.

                

 

             

 

   Nella loggia, a destra della montata delle scale, rettangolare (circa3x5), parallela alla facciata posteriore, si apre una Cappella privata; sia mons Bossio nella sua relazione sia l’arciprete Borelli ne citano l’esistenza, e sia che fu dedicata a san Giovanni Battista, sia che fu sconsacrata da mons. Saporiti.

  

cappella,  situata al piano nobile, a sinistra della scala

 

Nell’ampio salone del piano nobile, con finestre sukl retro della villa,né  le pareti né il soffitto non hanno decoro ad affresco ma solo, alla base della volta, una serie di stucchi a festone con sottostanti riquadri in altorilievo. Vi si doveva conservare un grande affresco staccato, con ‘il ratto di Elena’ (vedi storia, al civ. 39 di via A. Cantore**).

 

 

 

       

soffitto del salone   

 

Dal salone, si può passare a quattro vaste sale laterali, che hanno il soffitto decorato con semplici disegni senza affreschi

  

 

                                 

 

Dal piano terra, con una scala si scende in uno scantinato sottostante dal quale si passa nel profondo della villa che – guardandola all’ingresso è sotto terra a destra: è un grosso vano alto 4-5 metri, lungo una decina e largo sette-otto, che aveva funzione di cisterna. Con botola in alto per la raccolta dell’acqua; un marmo forato di immissione (proveniente dai laghi soprastanti) ed un altro di emissione (scendeva alle ville sottostanti, chissà se a pagamento).

    

cisterna, con foro di emissione     segni di livello dell’acqua   facciata con marmo immissione

   

marmo di immissione       botola per raccolta col secchio

 

 

DEDICATA: al medico Gozzano, nato a Scandeluzza d’Asti il 06.09.1922; laureatosi all’Università di Genova il 25 luglio 1946; e mancato il 28 ottobre 1990 (il Gazzettino scrive nato a Montiglio di Monferrato e morto 1980).

Questa memoria fu voluta da buona parte della cittadinanza,  suoi pazienti ed amici, propugnata dal Consiglio di Circoscrizione (in particolare dal vicepresidente Paolo Cadamuro), Croce d’Oro e Gazzettino, tutti desiderosi venisse ricordata la figura non comune di questo professionista.

   Divenuto “medico della mutua”, la dedizione alla sua professione fu totale,  disinteressata, e praticamente sino all’ultimo della sua vita; per i suoi clienti era “o sciu mëgo”: si ammalò il giorno dopo essere andato in pensione e morì pochi giorni dopo aver rinunciato all’iscrizione all’Albo dei Medici; tardi dall’Ordine dei Medici gli giunse la nomina di iscrizione gratuita a vita, privilegio non concesso facilmente.

   Burbero e tendenzialmente schivo, era personaggio fuori del comune per la semplicità di smitizzare i problemi ed affrontarli con una capacità semeiotica superiore ai Colleghi; aveva parole buone per tutti; tutti potevano chiamarlo, interpellarlo e fermarlo in qualsiasi momento quando il servizio era 24 ore su 24: e lui di notte si racconta si appisolasse per qualche ora a fianco del febbricitante, o gradisse dividere la mensa con la famiglia dei pazienti se arrivava in casa dell’ammalato all’ora della cena; qualche parola in genovese per rendere semplice la comprensione di certi acciacchi banali; la partitina a bocce quando era stanco, staccando il lavoro mentre la gente attendeva pazientemente in sala d’attesa ignara della sua “fuga”; le sigarette; i saggi dei medicinali ammucchiati disordinatamente sulla scrivania. Tutto faceva di lui un personaggio strano, ma di rispetto.

   Già subito dopo il decesso, i suoi pazienti – in particolare i soci della Cd’Oro e, dietro il CdC. - erano riusciti a far apporre nel Cimitero della Castagna una lapide a ricordo. Dopo i dieci anni voluti dalla legge in proposito di riconoscimenti stradali (circa dodici per la precisione), gli è stato dedicato lo spiazzo: sulla targa non è scritto chi fu e, pur essendo assai popolare non tutti possono averlo conosciuto: se posso permettermi di interpretarlo, per il suo carattere, non avrebbe voluto quello che gli hanno dedicato; per i vituperati “medici della mutua” è sicuramente il più gratificante riconoscimento al proprio lavoro svolto in silenzio e dedizione.

   Ma la sanità sta cambiando mentalità ai giovani professionisti allontanandoli forzatamente da quel tipo di comportamento e con la volontà che simile figura scompaia perché costosa (a vantaggio del medico manager, computerizzato e parsimonioso amministratore di soldi della Regione;  oggi viene offerta la tecnologia, molto più precisa (e meno soggetta alle denunce della cittadinanza),  ma forzatamente fredda); però una parte della cittadinanza lo ha voluto premiare, inviando così alle autorità l’inascoltato messaggio che gradirebbe si conservassero anche l’umanità e comprensione nella sofferenza di cui lui è stato l’esempio più vivido.

 

BIBLIOGRAFIA

-da trasportare qui tutta la bibliografia riguardante la villa, selezionandola da tutta quella di via N.Daste. Già fatto per :

-Alizeri F.-Guida illustrativa per la città di Genova-Sambolino.1875-p.646

-AlizeriF.-Notizie dei professori...-Sambolino 1864- vol. I. pag. 439

-AA.VV.-Galeazzo Alessi (mostra)-Sagep.1974-pag.63-4

-AA.VV.-Catalogo delle ville genovesi-Bertelli.1967-pag.159

-AA.VV.-La pittura a Ge. e in Liguria-Sagep.1987-vol.I-p.291-vol.II-p.154         

-AA.VV.-Le ville del genovesato-Valenti.1984-pag.43

-Baldacci C-la danza a Genova-DeFerrari.2004-pag.110

-Boccardo&DiFabio-Los siglos de los genoveses-Electra 1999-pag.157

-Ciliento B.-villa Imperiale-Scassi-GuideSagep.1978-n° 70-

-Gazzettino Sampierdarenese 02.02.06 +

-Giannattasio&Quartino-Statue antiche e all’antica..-Xenia.n4.1982-pag.37

-Il Secolo XIX del:    23.03.02 + 10/5/03  + 19.4.05

-Porro S.G.-costi di costruzione e salari...-SocLiStPatr.1989-pag.341

-Remondini  -Parrocchie dell’archidioc di Genova-     pag. 75

-Roscelli D.-Nicolò Barabino-Soc.Universale.1982-pag.183

-Traverso C.-Campomorone-GraficaLP.1999-pag. 88.94

-Tuvo T.-Sampierdarena come eravamo-Mondani.1983-pag.141-155

-Tuvo.Campagnol-Storia di Sampierdarena-D’Amore.1975-pag.82

-Vitale G.-O.Scassi pioniere vaccin.-Genova riv.municip.-ott/1940-pag..31
GRANDIS                                           vico Grandis

 

TARGA:  vico -  Grandis

 

 

QUARTIERE ANTICO: Coscia

 da MVinzoni, 1757. In giallo, via GDCassini;  verde, ipotetico tracciato del vico.

 

N° IMMATRICOLAZIONE:   2786; CATEGORIA:  3

 

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA - n°:   30940

UNITÀ URBANISTICA: 28 – s.BARTOLOMEO

 da Google Earth 2007. In rosso palazzo della Fortezza; fucsia la chiesa delle Grazie

CAP:   16149

PARROCCHIA:  s.M.delle Grazie

STRUTTURA:  Senso unico viario, da via L.Dottesio a vico Grattoni.

Strada comunale carrabile, lunga 31 m e larga 3,7 m. con due marciapiedi.

CIVICI: comprende il civ. 1 e 2 neri

2007= NERI   =  1                  e  2

           ROSSI = da 1r a 9r          -

Esisteva nel Pagano/40, da via L.Dottesio a  via Grattoni, con civv. neri 1 e 2.

 

STORIA:  Nell’anno 1900 fu proposta la titolazione all’ingegnere a quel vicolo -da via De Marini - ancora anonimo, “contro la fabbrica Sanguineti verso giorno”

   Il Novella cita la strada come iniziante in via De Marini

   Una bella edicola di “Madonna con Bambino”, raffigurante la Madonna del Carmine (o del Carmelo), è affissa alla parete del palazzo posto a ponente, conosciuto come palazzo Sanguineti (vedi via Daste) (Lodovico Sanguineti utilizzò la costruzione per impiantarvi una fiorente industria conserviera, che ebbe attività per circa un secolo, a cavallo tra il 1800 e 1900; Gli eredi (→Guido→  ) si occupano delle luminarie dell’edicola, accese nel giorno della festa il 16 luglio)

   Nel 1910, l’elenco stradale pubblicato dal Comune, già dava ufficializzata la denominazione, specificando trattarsi del tratto compreso “da via Demarini all’incontro del vico Grattoni, con civv. sino al 3”.

   Vicino era  un altro stabilimento per la lavorazione della latta, (preparava confezioni per contenere cibi a base di pesce, funghi, trifoli, ecc) chiamato Pretto, poi trasferito a Cornigliano negli anni 1930 .

   Nel 1926 all’atto dell’unificazione nella Grande Genova era di 5.a categoria, e quella sampierdarenese l’unica via a lui intitolata.

 

   DEDICATA all’ingegnere Sebastiano Grandis, nato nel 1817 a san Dalmazio di Tenda (quando questa era italiana, in provincia di Cuneo; dal 1947 è francese e si chiama  S.t Dalmas de Tende).

   Dopo aver approfondito gli studi di tecnica ferroviaria in Belgio, ebbe la direzione della costruenda strada ferrata Torino-Genova, con particolari responsabilità direttive per il tratto  sotto la galleria dei Giovi.

Il  primo treno arrivò a Genova il


18 dic.1853***, e poi ufficialmente la linea fu inaugurata dal re e regina, con Cavour e ministri vari, arrivati a Caricamento, il 20 feb.1854, sconvolgendo in maniera determinante e totale la struttura della nostra città (vedi dettagli via G.Buranello).


   Partecipò agli studi della prima perforatrice ad aria compressa, ideata assieme ai colleghi Grattoni e Sommeiller, e costruita dalla Gio Ansaldo & C. Questo sistema di perforazione a compressione ripetuta, prevedeva l’utilizzazione di una caduta d’acqua (compressore idraulico) che, oltre al vantaggio per lo scopo specifico della frammentazione della roccia con minore  spesa energetica, permetteva di rinnovare l’aria nella galleria stessa.    Un ingegnere milanese, dr.Piatti, propose una lunga e clamorosa controversia, perduta proprio in virtù dei risultati positivi conseguiti nelle prove fatte alle Cave  (aperta per costruire la galleria del molo Nuovo) sui fianchi di san Benigno, per collegare il porto con San Pier d’Arena, utilizzando l’acqua Nicolay. Questa prova fu seguita dal Cavour in persona (2 mar.1857), e dal Paleocapa allora ministro dei Lavori Pubblici.     All’imbocco della galleria  dei tram fu posta una lapide dettata dall’Alizeri: “DEL MDCCCLVI - QUESTE ROCCE - OBBEDIENTI AL POSSENTE ORDIGNO - DEI PRODI INGEGNERI - GRANDIS SOMMEILLER E GRATTONI - MOSTRARONO POSSIBILE AD UOMINI - ENTRAR NEL CINISIO - E APRIR L’ALPE AI COMMERCI - LA CITTÀ’ DI SAN PIER D’ARENA - IN APRILE DEL MDCCCLXXVII - STANZIO’ QUESTO SCRITTO - GLORIANDO - CHE QUI S’AUGURASSE CON INGEGNO ANIMOSO - L’ESTREMA FATICA DEL SECOLO “.

   Una seconda lapide fu posta sopra la galleria ferroviaria, a ricordo della delibera firmata dal nostro sindaco G.B.Tubino per finanziare l’opera eseguita con grave dispendio economico per la nostra amministrazione. Aveva scritto : “ IL CONSIGLIO - DEL COMUNE DI S. PIER D’ARENA - QUESTO PASSAGGIO CON FERROVIA - PER LA PROSPERITA’ DEL COMUNE - DELIBERAVA - IL VI GIUGNO MDCCCLI” .

 

     Fu poi progettista tre mesi dopo, della galleria del Frêjus (o Moncenisio o Cenisio, dal colle al confine tra alpi Cozie e Graie. Il valico omonimo è posto a 2083 m. in territorio francese, e collega la valle Susa da quella dell’Arc in Savoia; la strada era stata aperta dai romani =mons Cinerum, e fu percorsa da Napoleone); per la ferrovia da Bardonecchia a Modane approvata dal parlamento Subalpino; la galleria traforata con la stessa macchina ad idropressione è lunga 13,6 km. ed  iniziata nel 1857  fu inaugurata il 17 settembre 1871.

   De Landolina scrive che studiò pure come potenziare l’efficacia delle locomotive

   Lasciò molti scritti tecnici. Morì a Torino nel 1892

 

 

 

BIBLIOGRAFIA  

 

-Archivio Storico Comunale Toponomastica -scheda 2221

-AA.VV.-Annuario guida archidiocesi-anno 1994-pag.411; 2002-pag.448

-DeLandolina GC.-Sampierdarena-Rinascenza.1922- pag.43

-Enciclopedia Motta

-Enciclopedia Sonzogno  

-Gazzettino Sampierdarenese : 7/80.3  +  8/80.11 + 9/80.7

-Gazzo E-100 anni dell’Ansaldo- Ansaldo 1953-pag. 32

-Lamponi M-Sampierdarena-LibroPiù.2002-pag.28

-Novella P:-guida di Genova-manoscritto B.Berio1930-pag. 18

-Pagano/1933-pag. 246; /40-pag.307;  /1961-pag.237

-Pastorino.Vigliero-Dizionario delle strade di Ge.-Tolozzi.1985-pag. 899

-Poleggi E &C-Atlante di Genova-Marsilio 1995- taV.51

-Tuvo.Campagnol-Storia di Sampierdarena-D’Amore.1975-pag.68


GRATTONI                                                  vico Grattoni

 

TARGA:  vico - Grattoni

                                                    

 

PASSAGGIO DI PROPRIETA’ PRIVATA

 

QUARTIERE MEDIEVALE: Coscia

  da MVinzoni, 1757. In giallo via GDCassini; verde, ipotetico tracciato del vico.

 

N° IMMATRICOLAZIONE:  2787,     CATEGORIA  3

 

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA - n°:  31040

UNITÀ URBANISTICA::  28 – s.BARTOLOMEO

 da Google Earth 2007. In rosso palazzo della Fortezza; fucsia chiesa delle Grazie; giallo via GDCassini

 

CAP: 16149

PARROCCHIA:  s.M. delle Grazie

STRUTTURA: carrabile, permette il transito da vico Grandis a via  GD.Cassini.

Rimane dietro alla villa Grimaldi- che si apre in via Daste, e visibile nella carta del Vinzoni, e con torre nella carta del Porro - poi adibita dai Sanguineti a fabbrica di latte per conserve, il cui piano terra visto dai finestroni, è decisamente desolante.

  

verso via Cassini                                                                                  verso vico Grandis                               


                 

 

   Viene classificata di tipo vicinale, è lunga m. 68 e larga m. 3,44, con un solo marciapiede a lato mare. Ha un civ. 1.

 

 

 

 

 

finestroni della villa Grimaldi


   La carreggiata è genericamente in pessime condizioni e laddove si è sgretolata, permette di vedere il sottostante originario ciottolato, che meriterebbe sorte migliore dall’essere totalmente ricoperto con bitume.

   A monte, come già scritto, costeggia il lato sud del palazzo-ex fabbrica Sanguineti.

   Anticamente viene ricordata chiusa da una catena, essendo privata.

   Nell’anno 1900 fu proposta la titolazione all’ingegnere di questo vicolo ancora anonimo “posto tra via Manin (via Cassini) e l’altro vico (poi Grandis) posto contro la fabbrica Sanguineti, da est ad ovest”.

   La scelta fu ufficializzata nell’elenco delle vie cittadine pubblicato nel 1910, con stesse delimitazioni scritte sopra, e civv. sino al 7.

   Nel 1927, anno di pubblicazione dell’elenco delle vie della Grande Genova,  era di 5.a categoria, ed unica quella di San Pier d’Arena.

   Nel 2000 nella base del palazzo, a mare, si trova la tipografia “Artigiani Grafici”.

Nel dic. 03 appare nell’elenco delle ‘vie private di interesse pubblico’ con programmazione di municipalizzazione e poter così usufruire di manutenzione e dei servizi di illuminazione, asfaltatura (!! cancellerà la pavimentazione antica?), spazzatura, fognature, ecc.

Nel 2010 è ancora tutto eguale, e c’è la crisi economica...

 

CIVICI:

2007=solo Rossi:  da 1r a 9r     e da 2r a 4r (compreso 2F)

Nel Pagano/40 è segnata andare da via GD Cassini a vico Grandis ed avere senza civv. Sanguineti L % C conserve; ed un saldatore.

 

DEDICATA: all’ing. Severino Grattoni, nato a Voghera nel 1816, e progettista assieme al Grandis e Sommeiller, della prima perforatrice ad aria compressa (vedi: Grandis);  e con loro attivo, nel traforo del Frejus e del nostro colle di san Benigno.

   Divenuto deputato al primo parlamento italiano, da Cavour fu incaricato di alcune missioni scientifiche, anche all’estero.

   Morì nel 1876

 

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale – Toponomastica  scheda 2228

-AA.VV.-Annuario guida archidiocesi-ed.1994-pag.411; ed.2002-pag.448

-DeLandolina CG.-Sampierdarena-Rinascenza.1922-pag.43

-Enciclopedia Sonzogno

-Gazzo E.-I 100 anni dell’Ansaldo-Ansaldo.1953-pag.32

-Il Secolo XIX : 25.11.03 + 23.08.04

-Lamponi M.-Sampierdarena   -LibroPiù.2002- pag.28

-Novella P.-manoscritto storia e strade di Genova-Berio.1930 c.a.-pag.18

-Pagano –annuario- ed./1933-pag.246; /40-pag 307; /61-pag.237

-PastorinoVigliero-Dizionario delle strade di Ge.-Tolozzi.1985-pag.901

-Poleggi E. &C-Atlante di Genova-Marsilio.1995-tav.51

-Tuvo Campagnol-Storia di Sampierdarena-D’Amore 1975-pag.68

non citato EM +


GROSSI                                                via Tomaso Grossi

 

TARGHE: via – Tomaso Grossi       - strada privata -

                      San Pier d’Arena – via Tomaso Grossi – scrittore e poeta – 1791-1853

                                                     

 

 

angolo con rientranza di via G.Spataro

 

angolo con via R.Pieragostini                                          

 

QUARTIERE MEDIEVALE: Mercato - Ponte

 da MVinzoni, ipotetico tracciato della via.

 

N° IMMATRICOLAZIONE:   2788,   CATEGORIA:  2

 da Pagano/1961

 

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA - n°:   31380           

UNITÀ URBANISTICA:  24 - CAMPASSO

 da Google Earth 2007

 

CAP:   16151

PARROCCHIA:  san Giovanni Bosco san Gaetano

STRUTTURA: con un percorso ad L, era doppio senso veicolare fino alla fine del 2006 quando fu creato senso unico da via Pieragostini a levante sino a dove si collega sia con via Eridania e –sempre senso unico- con via  G.Spataro. La piazza è quasi interamente occupata da posteggio d’auto; le aiuole nel 2007 sono affidate alla cura degli abitanti costituiti in  ‘associazione’ risonosciuta dal Comune.

   

1998

   Nel 1981 fu assegnato il civ. 2 all’impianto sportivo.

   È servita dall’acquedotto Nicolay.

 

STORIA: la strada era già presente nei primi anni del 1900 (quando via Pieragostini era via Cesare Battisti, e Tomaso si scriveva con due emme).

   Presente aggiunto a penna e come “vico” nell’elenco comunale del 1910 (quindi deliberato negli anni seguenti), aveva i  civici sino al n° 9, e  si distaccava –allora- ‘dalla via san Cristoforo verso la aff. Lig. Lombarda’. 

Essendo strada che affiancava grossi stabilimenti, era ovvia l’apertura di minuti e svariati negozi commerciali ed alimentari (soprattutto trattorie, osterie o friggitorie) ed officine, praticamente oggi tutte scomparse.

   Il Pagano 1925 segnala la presenza al civ. 13-15r del saponificio ‘della Torre’ di Morgavi A.E.;---  civico non precisato  la tipografia di Tosi Michele che esisteva ancora nel 1933.

   Nel 1926, anno di passaggio di unificazione comunale nella grande Genova, essendo unica via a lui intestata non subì variazioni e sempre classificata di quarta categoria.  

   Nel 1933, viene  descritta  ‘chiusa  alla fine’; ed in realtà così è ancora, anche se ha sfoghi multipli di comunicazione con le strade vicine. 

   Nel Pagano/40  andava da via Monte Corno  a  chiusa. Aveva mlti civv. neri ed un solo rosso, 3r carbonaio.

 

CIVICI

NERI= da 1 a 9       e da 2 a 4

ROSSI= da 1r a 29r      e 2r

 

===civ 2    Il complesso polisportivo Crocera.  in zona “Eridania“.

Alcuni libri lo pongomo in via Eridania, 3

Una diatriba è nata nel 2006 sull’uso del termine Crocera anziché Crociera come si vorrebbe nella lingua italiana. La conclusione sarebbe che, il termine - probabilmente nato da un ‘errore culturale’- è ormai entrato in uso senza la i, e come tale da accettarsi in parallelo a tanti altri toponimi deformatisi nel tempo per uso improprio o incultura popolare (per noi, vale san Barborino).

Nell’area su cui sorgeva lo zuccherificio, il primo piano regolatore previde utilizzazione ad abitazioni; quello successivo donò 8000 mq ad uso sport, tempo libero e servizi. Fu battezzato con questo nome, tratto dalla località su cui è sorto e conosciuta da tutti.

Tormentata è stata la sua breve storia, sia per motivi tecnici che politici, economici ed organizzativi; tanti errori e troppi, di tanti e troppi.

 

                                                   anno 1979

 

 

1979                                                                   2005

 

A partire dal progetto dell’arch. Guido Veneziani. L’edificio fu  battezzato il 22 febb.1981 ed inaugurato la mattina di sabato 14 marzo, con un programma  comprendente tornei e  dimostrazione di tutte le attività possibili, diluite per tutti gli 8 giorni a seguire. Si presentò in tre volumi distinti, circondati da una strada alla quale fu proposto il nome di “Via dei Nove Olimpionici” (quelli sampierdarenesi delle Olimpiadi di Anversa del 1920: Pietro Bianchi, Giglio Bisagno, Fernando Bonatti, Luigi Cambiaso, Agostino Frassinetti, Romualdo Ghiglione, Umberto Lungavia, Filippo Savio, GB Tubino);  ma evidentemente non se ne fece nulla.

=una palestra di m. 30x18, alta 7,5 (che fu dedicata a Pietro Bianchi, dirigente della P.A.Croce d’Oro e atleta olimpionico della pesistica, nato a Genova nel 1895 iniziò nella Sampierdarenese a 16 anni sia l’atletica leggera che sollevamento pesi: in questa ultima attività nello stesso 1920 divenne campione nazionale dei medi e medaglia d’argento alle Olimpiadi di Anversa. Fu poi arbitro nazionale ed allenatore della squadra della Sampierdarenese divenuta sotto la sua guida più volte campione d’Italia a squadre) usufruibile anche come campo da pallavolo-pallacanestro, e tribuna per oltre 300 spettatori.

                     

=una piscina coperta, di 35x25m. (ufficialmente 33,33x25, da poter compiere i 100m ed oltre, ed eventualmente contenere un regolare campo da pallanuoto. Fu dedicata ai fratelli Frassinetti (Agostino, Silvio ed Antonio Settimio) nati in zona Coscia, nuotatori importanti negli anni ’30 della San Pier d’Arena sportiva, divenuti di spessore internazionale ed olimpionici anche di pallanuoto; primi –in particolare Silvio-, nell’applicare in Italia il crowl nello stile libero. Ma di essi come ‘intestatari’, nelle citazioni giornalistiche non se ne parla più). È unica della delegazione; era gestita dalla Unione Sportiva “la Crociera” (fondata nel 1984 con la fusione di altre società: la Cornigliano 79, la Ciclistica, l’Uges Esperia, il Centro Formazione fisica sportiva ‘ conquistando primati e titoli regionali). Consentiva anche gare internazionali di nuoto essendo a dodici corsie e di pallanuoto.

   Il Comune però dovette chiuderla pochi mesi dopo l’inaugurazione, riscontrando inaccessibili gli impianti di manutenzione: nel contenzioso l’impresa costruttrice ‘Mosa’ e due funzionari comunali, finirono in tribunale.

   Riaperta al pubblico, dopo attente verifiche fu richiusa nel 1993 dalla USL 11 per ordine del commissario straordinario prefettizio V.Stelo (a seguito di tale provvedimento, tutti gli atleti dovettero trasferirsi in altre sedi e la società non poté onorare un debito pregresso  divenendo morosa di svariati milioni col Comune) per il riscontro di gravi problemi strutturali (delle infiltrazioni provenienti da un ramo del Polcevera il cui corso d’acqua sottostante,  -sia per pressione che per depressione- avrebbe potuto causare improvvisi gravi pericoli a chi in quel momento fosse immerso; i vicini palazzi di via Eridania avevano dovuto porre fondamenta assai più profonde, prima di trovare terreno solido su cui poggiarsi. Considerata l’inagibilità e dopo un breve intervallo di occupazione degli Zapata, tra le voci circolò anche quella della conversione e destinazione dello spazio ad altre strutture meno rischiose).

Lavori di ripristino furono messi in atto nel 1996, ma sostanzialmente rimase però inutilizzata per le inadeguatezze normative e per gli alti costi che comportava da sola, non compensati da sufficienti entrate; si dice anche per eventuale pericolo di smottamento del terreno sottostante di natura detriti torrenziali sabbiosi  

Nel marzo 1999 si parlò sul Secolo di interventi di manutenzione straordinaria e di adeguamento impiantistico per un importo di 7miliardi e 940milioni di vecchie lire

Negli anni 2000 fu soggetta a completo ripristino  su progetto dell’ing. del Comune Roberto Innocentini (3milioni e mezzo di e. per rifare completamente piscina, palestra e palazzina): terminata due anni dopo (2002) la ristrutturazione e collaudati gli impianti, ne seguì un tormentone per oltre un anno posticipando continuamente la data di inaugurazione causa difficoltà di gestione;

=ed una palazzina detta dei servizi, di 5 piani, preesistente. Adattata per spogliatoi per i due sessi, per arbitri, per handicappati e per il personale; sala medica; una sala lettura;uffici e sale riunioni; appartamento per il custode (anch’essa ristrutturata nel 2000).

  In seguito al summenzionato provvedimento del commissario, tutta la realizzazione fu contemporaneamente chiusa, riscontrando che  anche l’impianto elettrico,  le uscite di sicurezza, i servizi igienici  non erano a norma CEE di sicurezza.

 Dopo anni di polemiche, false partenze, rinvii, ricorsi in tribunale ed ovvi ritardi e spese inutili, fu dell’apr.1999, la notizia che al Comune era arrivata la disponibilità (convenzione tra delegato regionale del Coni, sindaco, assessore allo sport) – tramite un ‘credito sportivo’ col tasso del 3% -  di sette-otto miliardi di lire (nel 1994 parlavano di quattro miliardi, nel 2002 si scrive siano stati sei=3 milioni di euro; altrove si scrive siano stati 4milioni di euro) previsti dal progetto (arch. Enrico Rocchi; imprese soc. Tecnoedile e soc.flli Iotti) e destinati alla ristrutturazione (forse meglio un rifacimento totale, visto che del vecchio sono rimasti solo i muri esterni) del complesso, con realizzazioni multiple migliorative funzionali e razionali: non solo quindi consolidamento della base, ma anche rifacimento della piscina (13 corsie, tetto rialzato di 2m rispetto il precedente, e formato da pannelli di plexiglass trasparenti), della palestra (con 130 posti nelle gradinate, ufficializzata per incontri regionali) e degli impianti di riscaldamento, possibilità di afflusso delle persone handicappate, doppie uscite e galleria per visitatori chiusa da vetrata.

Mancava la non facile scelta del gestore (con tutte le implicazioni che comporta: proprietà di Tursi, data in concessione, ma senza supporto di contributi pubblici; assunzione di responsabilità, di modalità di utilizzo e contabilità: ovvero, qualche società polisportiva che oltre assumersi gli oneri di manutenzione pagasse un canone al Comune, promesso simbolico): a fine aprile promettevano scegliere l’affidatario in breve, non appena terminati i lavori; ma invece si dovettero aspettare ancora cinque anni.

Nel frattempo, il 12.4.2002 dopo una spesa complessiva di 3,5milioni di euro, avvenne da parte del Comune la presentazione in anteprima del restyling ai giornalisti ed autorità. Nell’ottobre di quest’anno si parlò di riaprire, ma ciò slittò ancora, nella ricerca di ultimare i lavori ed intanto cercare una catena di gruppi sportivi iscritti al FIN (federazione nazionale nuoto) ed iscriverli alla Consulta dello sport.

   All’esterno furono attrezzati alcuni ampi da bocce e con giochi per l’infanzia.

Ma dopo una decina di anni di inattività ed un restyling da 3,5 milioni di e., si apprende che solo a fine ottobre 2003 l’impianto (vasca di 25x33, quindici corsie per corsi di nuoto, acquagym, terza età, scuole e società agonistiche) fu riaperto; inaugurato il 18 dicembre alla presenza del cardinale Tarcisio Bertone, del sindaco Giuseppe Pericu, dalle ragazze del ‘sincrono’ della ProRecco; e questo dopo che l’appalto gestionale (piscina e palestra) fu vinto (unica busta di proposta) dalla società ‘Crocera Stadium’ (direttore generale Luca Verardo), con scadenza 2013 e con la formula – per il Comune - “a costo spesa zero e introito di un canone d’affitto annuale di 4298,42 euro più l’1% dei guadagni annuali” (presieduta da Andrea Biondi, manager di impresa di elettronica, nipote del politico deputato; vicepresidente Luca Verardo già responsabile del Paladonbosco; primo sponsor il gruppo Amga (partner tecnologico) e poi anche Arena e Carige; composta dalle maggiori società locali (donBosco; Igo Volley; Basket Granarolo che avrà campo base nella palestra; Dopolavoro Ferroviario; Sportiva Crocera la cui squadra di pallanuoto è in serie C, gestirà l’impianto;  Progetto 80) che dovranno farsi carico della manutenzione e dare al Comune una percentuale degli incassi (difficile quindi l’inserimento delle scuole, handicappati, liberi nuotatori, e – purtroppo - anche l’agonistica)). La tariffa prevede 40 e/mese (25 i ragazzi), per tre volte la settimana+due volte al centro Palagym del DonBosco.

All’apertura di novembre 2003, ci fu un boom di presenze

Nello stesso anno, col fine di incrementare le entrate affiancando alle attività sportive anche alcune a carattere commerciale, iniziarono i lavori per una seconda piscina, all’aperto lunga 18m, larga 8med una terza  più piccola per bambini (m 8x2,5 e 09h: per idromassaggio o nuoto controcorrente). Le opere di sbancamento, comportando il taglio di tre alberi del giardino, ebbe la successiva reazione dei residenti le proteste portarono ad un esposto a difesa del verde tramite ricorso al TAR che inizialmente nell’agosto diede ragione ai Verdi con arresto delle ruspe. Una successiva delibera del novembre 2004 diede invece via libera alla prosecuzione dei lavori di ampliamento.

Nel febbraio 2004 poté svolgersi la prima “settimana di educazione con lo sport”, promossa con le scuole, e sponsorizzata da Carige, DonBosco e CroceraStadium.  Nel gennaio 2005 si parlò del tetto che “fa acqua” e richiede ulteriori 100mila euro per l’impermeabilizzazione, con ovvia grave ripercussione sulle iniziative del gestore. Nel 2006, la società conta 103 giovani iscritti (11 nella categoria assoluti, 11 junior, 25 ragazzi, 56 esordienti di classe B), classificandosi al 19° posto tra le 31 società liguri di nuoto. Nel 2008 presidente è sempre Andrea Biondi, con due settori: pallanuoto (waterpolo) e nuoto . In collaborazione con il CS Paladonbosco

===civ.21- 23r  (altrove si scrive  civ. 33, tutti non ben reperibili oggi) nel 1928-33 era presente una società di M.Soccorso “Fratellanza Operaia” ad attività generali.

 

DEDICATA al notaio, scrittore e poeta comasco, nato a Bellano il 23 gennaio 1790, secondogenito di Francesco e Tarelli Elisabetta. Si laureò in giurisprudenza.

   Rimane famoso per il poema “ I lombardi alla prima crociata”, 1826,  da cui fu tratto il libretto dell’immortale opera musicale di G.Verdi.

   Ed anche per il romanzo storico “Marco Visconti” del 1834 (poderosa narrazione mista tra fantasia, e verità storica del trecento, ‘cavata dalle cronache di quel tempo’).  


   Aveva esordito con alcune novelle, alcune in versi, altre anche in dialetto milanese (“la fuggitiva”, 1816; “Ildegonda”, 1820: questa scritta in ottave e poi da lui stesso riportata in italiano; “Ulrico e Ida”, 1837,  ed altre); poesie (“Prineide” del 1814: fantasia in dialetto milanese, attorno all’uccisione del ministro napoleonico G.Prina).

  Tutte le sue opere furono ristampate postume nel 1862, a cura di un amico scrittore Antonio Curti.


Ritratto di C Gerosa – scuola d’Arte - Treviglio  

Massimo D’Azeglio, lo descrisse in una sua opera, nella parte appunto di un notaio che stipula un contratto di nozze tra due personaggi.

   Rappresentò una delle figure letterarie più significative del romanticismo italiano, del quale fu fervente fautore, con una personalità sobria e fine; grande amico del Manzoni, fu di lui il segretario dal 1822 al 1836 ricevendone incoraggiamento e da lui definito “tenero e poderoso”.

   Impegnato anche politicamente, nel 1848 fu inviato a stipulare l’atto di fusione tra Piemonte e Lombardia; ma nel 1838 decise rinunciare alla via sociale per tornare alla primitiva sua attività di notaio.    

   Morì a Milano il 10 dicembre 1852 (Zanichelli scrive 1853); le sue spoglie vennero nel 1904 traslate in forma solenne nel famedio del cimitero monumentale di Milano.

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale Toponomastica - scheda 2252 

-DeLandolina GC.-Sampierdarena-Rinascenza.1922-pag.44

-AA.VV.-Annuario.guida archidiocesi—ed./94-pag.411—ed./02-pag.449

-AA.VV.-Dizionario Biografico degli italiani-

-Enciclopedia Motta

-Enciclopedia Sonzogno 

-Enciclopedia Zanichelli

-Gazzettino Sampierdarenese  :  3/80.1  +  5/80.13  +  1/81.3  +  2/81.8  +  4/94.13  +  2/95.4  +  6/95.6  +   8/95.5   +   9/97.4  +  08/02.5 + 10/03.3

-Il Secolo XIX : 3.10.97  +  27.11.98  +  17.3.99 + 15.4.99  +  28.03.02  +  13.04.02  +  27.04.02.pag.24  +  23/4/03 +  30.09.03 + 05.11.03 + 11.11.03 + 16.12.03 +13.2.04p.42  + 1.5.04 + 6.6.04 + 14.8.04 + 2.10.04 + 12.11.04 + 11.1.05 + 15.1.06 + 30.7.06 +

-Lamponi M.-Sampierdarena- LibroPiù. 2002- pag.106

-Morabito.Costa-Universo della solidarietà.Priamar.1995-pag.492

-Novella P.-Guida di Genova-manoscritto B.Berio 1930-pag.19

-Pagano ed.1940-pag.309

-va aggiunta la bibliografia esistente in via Eridania e relativa alle piscine
GROSSO                                          via Grosso

 

 

 

dopo un censimento delle strade fatte a fine del 1800, ordinato dalla Giunta municipale,  una trasversale posta a ponente di via Aurelio Saffi (via Carlo Rolando)  chiamata allora comunemente via Grosso - probabilmente in riferimento allo stabilimento posto nel  luogo. dentro la villa Spinola - fu proposto alla Giunta comunale san pier d’arenese nell’anno 1900,  la titolazione al “generale Marabotto”.

  Tale proposta fu evidentemente accettata; e così rimase poi,  fino all’ennesimo cambio nell’attuale via D.Storace, ed il “trasferimento” del generale  alla via di prosecuzione di via A.Caveri.

  Prima dell’anno 1900, i civici dei palazzi esistenti nelle stradine laterali, dalla A alla F, erano accreditati a via A.Saffi (via C.Rolando) perché giudicati come  appendice di questa unica .

   Nel Pagano 1911 e 12 , un  certo Malatesta e C. lavorano nella biacca in ‘via Nuova Grosso’, senza ulteriori spiegazioni

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale

-Pagano/1911- pag.988  ;   1912-pag.1034
GUALBERTI                             via Giovanni Gualberti

 

 

   Nell’anno 1900-1, fu proposto alla Giunta comunale di San Pier d’Arena  il nome del fondatore dell’Ordine di Vallombrosa per il tratto di strada sino all’abbazia.

   Giovanni Gualberto (non Gualberti), vissuto nel periodo 999-1073, divenne santo (vedere in via san Bartolomeo del Fossato).

   A questo nominativo venne preferito chiamare la strada ‘via Fossato san Bartolomeo’.

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale

-Enciclopedia Sonzogno 


GUERRAZZI                             scalinata Francesco Domenico Guerrazzi

 

   Corrisponde all’attuale scalinata dei Landi; attualmente – da dopo il 1940 - è  in zona san Francesco d’Albaro.

   Prima di tutte le altre localizzazioni, titolava il vicolo che oggi è dedicato a Nicolò Bruno.  

  Poi, volendo onorare il Balilla, si pensò sostituirne la titolazione: all’inizio secolo, il 16 sett.1914, fu proposta spostare la titolazione  alla scalinata che si distaccava da via Alessandro Manzoni (cioè dall’attuale via G.B.Sasso) e saliva in via G.B.Monti; corrispondeva quindi al primo tratto dell’attuale scalinata dei Landi; però nel 1910 ancora non appare ufficializzata, anche se il nome venne scritto a penna, a margine (quindi in assegnato con delibera comunale negli anni 1914-20), con l’indicazione limitativa ‘da via Manzoni a via G.B.Monti – vicino fonderia Fava’, i cui capannoni corrispondono a quelli ancora esistenti in via Sasso.

    Anche alla Toponomastica comunale non c’è la scheda relativa a questa titolazione; però sulla targa in marmo dell’attuale, in basso sta scritto ‘già scalinata FD Guerrazzi’.

 

DEDICATA al poliedrico eclettico livornese, nato 12 agosto 1804 mentre a Livorno era una epidemia di febbre gialla, da FrancescoDonato (umile intagliatore del legno) e da Ramponi Teresa. Studiò presso il collegio dei barnabiti della propria città avendo come insegnante il genovese padre Giambattista Spotorno, classicista, che ebbe il merito d’avviarlo all’uso della buona lingua italiana


 Definito di carattere scontroso, turbolento, apparentemente sempre sdegnato, effervescente ma, di contrapposto anche assai arguto, puntiglioso ed iperattivo. Acquisì la laurea in legge a vent’anni (1824), e dapprima tentò esercitare la professione mentre


poliedricamente si dedicava su vari fronti: 

-uomo:  nel 1835 adottò i due figli del fratello defunto. 

-traduttore di Goethe, Schiller e Byron pubblicati su “Indicatore livornese” da lui fondato nel 1828 e vissuto sino al 1830.   

-scrittore  Sul suo giornale esprimeva anche  le idee democratiche e repubblicane

Come artista-poeta-romanziere fu assai fecondo, producendo i famosi romanzi “l’Assedio di Firenze” del 1836; “Beatrice Cenci” del 1853; “il Pasquale Paoli” del 1860 dedicato a Garibaldi; “Il secolo che muore” del 1885 con temi naturalisti; le “Memorie” del 1877 comprendenti gli scritti fatti in carcere; ‘Veronica Cybo’ e ‘Isabella Orsini’.  Non ultimo, “la battaglia di Benevento”, una storia ambientata nel medioevo e che gli dette la fama. A Genova scrisse “l’Asino”;  molte novelle e la satira “Serpicina”. Sono opere sue la  Storia del sec.XVI; il Sogno, La torre di MonzaStoria d’un moscone. Egli, come tanti altri letterati e patrioti  del tempo, scrisse una grandissima quantità di lettere, molte pubblicate e conservate.

Con lui si fa nascere il romanzo storico romantico risorgimentale.

 A Livorno divenne accademico della Labronica.

-come politico-militare, Fra idee di rivolta e scritture repubblicane, era venuto a contatto con le idee di Giuseppe Mazzini; si iscrisse nella Giovine Italia, divenendo entusiasta attivista (questo, quando solo parteggiare col repubblicano significava escludersi possibilità di carriera nel regno, ed essere “tenuto d’occhio” da tutte le polizie dei vari Stati). Così, oggi classificabile fervido patriota, da presto fu visto come un eroe incitatore del popolo; ma altrettanto subito incontrò e subì diverse avventure:  prese parte ai moti del 1821; subì l’esilio dalla Toscana, fu 2 volte arrestato per cospirazione (1831-34 e finì nel forte della Stella di PortoFerraio (dove scrisse L’Assedio di Firenze e tracciò le Note Autobiografiche). Liberato, mentre continuava a scrivere, si allontanò dalla società segreta  proseguendo l’attività professionale (fu l’avvocato di Francesco de Larderel, proprietario dei soffioni boraciferi; questa difesa gli procurò altrettanta fama ed una certa ricchezza economica).

Il 27 ottobre 1848 fu nominato dal Granduca si Toscana ministro degli Interni. Nel 1848, in seguito ai moti carbonari e secondaria  fuga del granduca di Toscana, Leopoldo II a Gaeta, fece parte del Governo Provvisorio ma opponendosi strenuamente alla fusione della Toscana con la Repubblica Romana

Dopo la sconfitta di Novara (23.3.49), fedele alla sua ideologia  seppe assumersi gravi responsabilità come dapprima ministro degli interni e poi anche divenire, per soli 15 giorni - uno dei triunviri (con G.Montanelli e G.Mazzoni), con l’incarico di capo del potere esecutivo (una specie di dittatore). Tanto che con la restaurazione ed il reintervento austriaco, fu costretto a fuggire perché – con processo in contumacia - fu condannato all’ergastolo (altri scrivono 15 anni); pena comunque commutata poi in esilio in Corsica).

Fuggito dall’esilio in Corsica nel 1856, dopo aver soggiornato brevemente nell’isola di Capraia, giunse nel 1857 a Genova ove rimase fino al 1862; dopo alcuni tentativi di trovare casa a Cornigliano presso una famiglia Dagnino in una villa oggi demolita, fissò la propria residenza a San Francesco da Paola, ospite in sanTeodoro nella villa Giuseppina ove era insediato anche il Consolato austriaco. Acquisì una attività lavorativa divenendo insegnante nel Collegio Italiano delle Fanciulle, più noto come Collegio delle Peschiere allo Zerbino, che gli lasciava liberi molti pomeriggi, che trascorreva alla Villetta Di Negro ove dai proprietari era tento un privato circolo culturale, non schivo di politica pro risorgimentale

   Gli eventi seppero dargli ragione: nel 1860 fu  promosso  deputato al parlamento subalpino, esercitando una decisa opposizione contro la destra storica e quindi proponendo una politica contraria al Cavour.

   Come avvocato divenne anche  legale dei Rubattino, per i quali vinse un’aspra e difficile disputa giudiziaria relativa allo speronamento di un loro  piroscafo, il Polluce, nelle acque di Piombino.

   Scontata la pena, tornò in Toscana, nel suo podere in località Fitto Cecina, dedicandosi alla attività di romanziere storico legato a Mazzini.

Morì a Cecina,(località ‘la Cinquantina’) il 23 sett.1873.

    A suo nome, a Genova nel quartiere di san Teodoro, è titolata la S.M.S. nata nel 1894 (28 gennaio) con primo presidente il mazziniano iscritto alla Giovine Italia, Salvatore Voaggi.

 

BIBLIOGRAFIA

-AA.VV.-Dizionario biografico degli Italiani-

-DeLandolina GC.-Sampierdarena-Rinascenza.1922-pag.44

-Enciclopedia Zanichelli

-Novella P.-Strade di Ge.-Manoscritto b.Berio.1900-pag.17

-Pastorino.Vigliero-Dizionario delle strade di Ge.-Tolozzi.1985-pag.921

-Remedi A.-ricerche storiche personali-2010
GUERRAZZI                                                vico F.D.Guerrazzi

 

   Corrisponde all’attuale vico Nicolò Bruno.

   Il vicolo nacque con le costruzioni, di poco posteriori  al 1910, ma nell’ elenco delle vie e piazze di quell’anno, la strada non compare ancora titolata (nello stesso elenco appare annullata la scritta “Francesco Dom. Guerrazzi (vico), senza civici, dalla via Jacopo Ruffini alla via C.Colombo” come se il nome del letterato fu  proposto, ma in quella data non accettato).

   Infatti  fu  intestato a ‘G.B.Perasso-Balilla (vico)’;  il Novella lo chiama ‘Giovanni Perasso Balilla  da via Colombo’.

   Evidentemente la titolazione fu riproposta, e stavolta accettata; ma non sappiamo quando fu cambiato, dal Perasso al Guerrazzi: leggiamo il nome dell’avvocato dato al vicolo nell’elenco pubblicato nel 1927, alla unificazione nella Grande Genova.

   Nel 1932 viene segnalato l’erezione nel vicolo, di un palazzo  progettato dall’ing. Bonistalli R. da parte della soc.an. coop. Edile-Italica.

   Nel 1933 era ancora dedicato al Guerrazzi, e viene  descritto come vico  di 5.a categoria,  collegante via J.Ruffini (poi via Palazzo della Fortezza, poi via Prasio)  con via C.Colombo (poi via N.Barabino e poi via San Pier d’Arena), senza numeri civici.

   Sarà infine cambiato, con delibera del podestà del giorno 19 ago.1935 dedicandolo ‘vico Nicolò Bruno’, come è ora.

  Nel febbraio1914 fu proposto alla Giunta comunale locale la sostituzione della titolazione “vico, già Guerrazzi” a favore di “Balilla” (o, in alternativa non accettata, “Pittamulo”), ed eventuale trasferimento del nome per una “strada (ancora innominata) parallela ed a nord di via G.Carducci” (non fu accettato).

DEDICATA  vedi precedente.

 

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale +  

-Archivio Storico Comunale della Toponomastica,  scheda 2262

-Enciclopedia Sonzogno

-Genova, rivista municipale del dic.1932

-Pagano/61 pag.246+  

-Vigliero-Dizionario delle strade di Genova-Tolozzi.1985-pag.922