PALAZZO                                   via Palazzo della Fortezza

 

TARGHE:- via - Palazzo della Fortezza – già via Ruffini.

                                                            

   

tratto a mare, angolo via G.Buranello

   

tratto a mare, angolo via L.Dottesio-Daste

 

  

 

tratto a monte, angolo con v.N.Daste

 

 

tratto a monte, angolo con via M.D’Azeglio

 

QUARTIERE ANTICO: Coscia

 da MVinzoni, 1757.

 

N° IMMATRICOLAZIONE:   2818      CATEGORIA:   2

 Da Pagano/1961

 

 

 

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA - n°:   44780

UNITÀ URBANISTICA:  26 – SAMPIERDARENA

                                           28 – s.BARTOLOMEO

 da Google Earth, 2007.

In giallo, via NDaste;

 celeste, via LDottesio;

fucsia, via Md’Azeglio.

 

CAP:   16149

PARROCCHIA:  (civ. 2 e 4)=s.Maria della Cella—(resto)=s.Maria delle Grazie

STRUTTURA:   Da via G.Buranello, a via M.D’Azeglio.

Senso unico veicolare, da mare a monte, escluso i giorni di mercato***

Strada comunale carrabile, lunga 133,3 m e larga 4,80 con 2 marciapiedi larghi m 1,30; viene intersecata da via L.Dottesio.

È servita dall’acquedotto DeFerrari Galliera.

 

STORIA:   la strada nacque nel 1560 circa, praticamente con l’erezione della villa dei Grimaldi, in conseguenza della loro necessità sia di sfogo al mare dall’esterno delle mura di cinta della loro villa, e sia per separare i terreni dei vari altri Grimaldi posti sia a ponente che a levante della strada stessa (poi divenuti degli Ansaldo). Probabilmente vi scorreva un torrentello che, a quei tempi,  faceva da ‘smaltimento’ e da divisione.

Sulle prime carte scritte del borgo, appare col nome di “crosa Larga“, ed andava dalla strada reale della Marina (via San Pier d’Arena) alla strada Comunale interna (via Daste-via Dottesio).

Nella seconda metà del 1700, il lungo spiazzo fu adattato – probabilmente dagli stessi ‘signori’ – per adattarvi un nuovo gioco importato dalla Francia: il “gioco del pallone” (ovviamente non si trattava del gioco del calcio attuale, ma di un gioco con le mani vicino alla pelota, alla palla a muro ed alla palla-corda, presochè tutti di importazione francese. Frequenti erano gli incidenti, specie vetri infranti ad abitazioni o magazzini, con coseguenti proteste, istanze, petizioni (documenti presenti in archivio) che però pare non trovarono accomodante seguito, se un esposto municipale firmato nel 1798 dal presidente Galliano ingiungeva che “prima dell’ inizio del gioco, si tolgano i vetri, e eventualmente si dovranno  pagare i danni cagionati”.  

La stessa, era il limite di separazione del quartiere Coscia (posto a levante) dal quartiere della Crosa Larga (posto a ponente, e che arrivava sino a via Albini circa, qui confinando con quello denominato Boraghero, che a sua volta arrivava sino alla crosa sant’Antonio). Nell’angolo a levante, si ergeva la casa di Ignazio Morando a due piani, con bottega (vedi riproduzione sotto), retro e cucinino a piano terra, e tre stanze al piano sopra; completava la casa un piccolo giardino a nord: nel decreto del 1857, la casa – quale importante punto di riferimento, serviva da confine  nella lunga strada della Marina -  tra quella chiamata via Galata a levante e la via Cristoforo Colombo a ponente.

 

 

In alcuni fascicoli del 1843 relativi agli espropri da effettuare per aprire la strada ferrata, la crosa porta sempre lo stesso nome ed ha ancora - nella sua metà verso il mare – lo slargo adatto al gioco. Il taglio effettuato, pochi anni dopo, dalla ferrovia farà cessare ogni aspetto ludico e l’area verrà ocupata da edifici popolari.

Il regio decreto del 1857, la chiama “ stradone della crosa Larga”.

 

In epoca attorno al 1900, le fu cambiato il nome, su iniziativa del governo regio mirante alla valutazione del Risorgimento,  titolandola ad Jacopo Ruffini.

Con delibera del podestà del 19 agosto 1935 fu deciso il nome attuale, spodestando il patriota per concomitante presenza in una strada genovese.

Il 14 nov.1946 le fu sottratto il pezzo a mare che fu dedicato ad Andrea Prasio, che si appropriò quindi dei civv. 1 e 2-2a-4.

Da ché furono erette le costruzioni che la affiancano, si conosce un susseguirsi a piano terra di negozi e botteghe di artigiani (marmisti, friggitorie, osterie, fruttivendolo, merceria, alimentari, ‘la Rapida’ riparazioni calzature e –più recente- la trattoria con tonalità spagnole ed un negozio di vernici).

 

CIVICI

2007=UU26= neri = dal 214 (mancano da 6→12)

                       rossi= dal 2r48r (compreso 2Ar; mancano 4r, da 32r→46r

           UU28= neri = da 111              e 18 (mancherebbe 16***)

                       rossi = da 19r75r (manca 53r; aggiungi 43Ar)

                                  da 50r60r

RIASSUMENDO

Neri=                                   da 111=UU28

                 2→14=UU26   +           18=UU28              manca 16

Rossi= da 2→48=UU26   +   5060=UU28

 

Nel Pagano/40 – è delimitata da via N.Barabino e via Md’Azeglio; ha civv. neri da 2 a 12 e da 3 a 11. (con al 14 la “scuola ind. «G.Garibaldi») e civv. rossi: 5 osterie all’  1,3,13,33,54r ; 2 latterie (7r e 41r); 3 commestib (10, 42,49r); 2 parrucch (11 e 61r); carta da macero(24r); impr.edile Gentilini (28r); salum (31r); 2 carbone ((32 e 38r); merceria (35r); ottoniere (37r); droghiere (39r); farinata (45r); fruttiv (47r); riparaz calzat (59r);  marmi (65r)

Nel /1950 per il Pagano, vi si apriva una osteria  al 33r allora di Meirana Ester; non bar né trattorie.

Possiede civici sino all’11 e 4 neri; 61 e 32 rossi

 

Nel muraglione della ferrovia, nella parte a levante rispetto la strada,  si nota dietro ad un cancello un tombino in basso, di non facile comprensione. Nella parte a ponente sovrasta un residuo di ‘archeologia industriale’.

 

          

===civ.1 dopo ristrutturazione dell’edificio, fu assegnato nel 1992

===civv. 2 e 4  corrispondono a costruzione eretta nel 1963 

===civ. 5 ha il portone unico ma dà adito a due possibilità -come una V  appiattita-: il lato a destra propone subito le scale per salire nel palazzo stesso; il lato sinistro posto a monte, dopo un breve e basso corridoio a tunnel, si apre nel retro del palazzo, in una minuscola aia: si ha di fronte un manufatto assai antico, forse sei-settecentesco: case fatte ancora in pietra e con  travi portanti di legno. Completamente fuori contatto del traffico cittadino, qui troviamo un angolo assai interessante della antica città: una aia di pochi mq davanti ad una casa bassa e di aspetto assai semplice.

 

l’atrio del portone           angolo di nord-est         angolo nordest con scele e sovraporta

A piano terra, l’ingresso - chiuso da porte moderne - che dovevano dare adito a cantine o “scagni” di artigiani (oggi magazzini privati, irraggiungibili da mezzi motorizzati). Tutte le finestre dell’edificio sono piccole. Il portone si apre rialzato di un metro, raggiungibile tramite breve scaletta di sette-otto gradini fiancheggiato da un caratteristico scorrimano, fatto tozzo con mattoni e con l’estremo esterno arrotondato. Sulla facciata e subito sopra il portone, si scorge uno stemma  tipico delle abitazione di religiosi: esso, sopra il portone, è stato parzialmente scalpellato nella sua periferia ma conserva ancora il segno di HC sovrapposto a MV sormontati da una croce esternamente. Internamente al portone si scorgono le scale strette e ripide travate al soffitto.

Sul lato a mare della piazzetta è murata una importante immagine in lavagna, di presumibile datazione medievale, rappresentante il “sacro Agnello”: è un tondo, con libro sovrapposto da agnello portante una bandiera crociata. L’ “Agnus Dei” è un motivo simbolico paleocristiano che in origine si trova nel libro di Enoch; in terra ligure affonda le sue radici nel XII secolo quale segno sacro relazionato a san Giovanni Battista, patrono della città, quasi sempre raffigurato con un manto di agnello addosso. Simboleggia la purezza, l’innocenza, la mansuetudine ed in non meritato sacrificio; da dopo il 1500 ha pure valore di talismano e protezione, ed è in questa forma che lo vediamo applicato come sovrapporta o nei fregi anche nella casa privata di cui si scrive.

    

portone interno con angolo est-sud                           angolo est sud

  

 il tondo con l’Agnello                                              incombente la fabbrica che si apre in via Cassini 

                                              

Il retro della casupola - a levante confina con un piccolo corridoio esterno di proprietà della ex-Depa (che si apre in via Cassini).

È chiaramente un “avanzo” dimenticato della antica SanPierd’Arena medievale. 

===civv. 6-8-10-12 furono demoliti nel 1962

===civ. 18 rimane nella parte a monte di via Daste ed è simmetrico al portone di via D.Chiesa ove è descritto il palazzo.

===19r la sede della palestra “Gymneastic Club”.

===24r nel Pagano/1950 si segnala Cervetto Stefano in attività nella carta da macero.

===37r nel 1946 ci lavorava l’ottoniere Righi Epimeteo (tubazioni/ ferro e piombo/ per acqua e gas//impianti idraulici-igienici/ per caseggiati/ tel.43.789. (non so per quale perversa mentalità classicheggiante -peraltro imperante a quei tempi- i genitori abbiano dato questo nome al loro figliolo: Epimeteo fu quello -maldestro e non avveduto- che con Pandora aprì il vaso dal quale si liberarono tutti i mali e sciagure  che da allora desolano il genere umano (vecchiaia, malattie, morte, fatica); nato da Giapeto (ritenuto capostipite del genere umano; era figlio di Urano (il cielo) e di Gea (la terra) e fratello di Satrurno e Oceano) e da Climene; era fratello di Prometeo,  Atlante e Menezio. Avendo gli uomini rubato il fuoco a Prometeo, per punirli Giove aveva mandato tra loro Pandora (secondo Esiodo, la prima donna forgiata col fango a somiglianza delle dee) carica di doni – e con un orcio, con l’incarico di non aprirlo (mirando a provocarli sapendo che non avrebbero resistito), lui la sposò e con lei ebbe una figlia Pirra che poi sposò Deucalione).  

===civ.45r  nel 1999 la friggitoria “torte e farinata” si è guadagnata la segnalazione nel libro della Sagep di Nico Monatti con: ”ci si può sedere a tavola o prendere al volo una porzione. L’importante è gustare la farinata, qui davvero eccellente. Morbida e sottile, come richiede la clientela, preparata anche con carciofi e funghi. Ingredienti genuini e forno a legna completano il quadro, idilliaco per i golosi”.

===civ. 47r ora è chiuso. Vi vendeva e riparava biciclette Grazi Bonfilio

 

 

===civ 14    la villa Grimaldi, detta  ‘la Fortezza

 

La famiglia Grimaldi

ha origini molto lontane, sembra da Vezzano: un ramo stabilitosi a Genova a metà del 1000 ha per capostipite conosciuto Grimaldo, vissuto nel 1160, arricchitosi nel traffico marittimo, divenuto console (quindi nobile di origine consolare) ed inviato a Pavia nel 1162 quale ambasciatore a Federico Barbarossa. Schierandosi con i Fieschi a formare i Guelfi, furono nei secoli tra il 1200 e 1300 tra i promotori di tutte le lotte interne tra le due fazioni. Un ramo emigrò in Sicilia nel 1396, mentre il ramo genovese si estinse nel 1824.

Divennero Duchi nel 1605. Ebbero moltissimi feudi in Liguria e Piemonte ed a Salerno, nonché  in Francia. Dal 1581 la famiglia fornì alla Repubblica sei dogi, 32 senatori e 3 cardinali, molti ambasciatori, ammiragli, scrittori.

 

         

Il loro scudo era a scacchiera, con 15 rombi bianchi (argento) e rossi,  con   sovrastante la corona  o un’aquila ad ali spiegate (vedi Labò, pag. 161). I rombi sono detti anche ‘fusi’ e potrebbero rappresentare sia la punta della lancia che il fuso per tessere (in omaggio alle dame, a simbolo di perseveranza e pazienza).

La famiglia ebbe aggregate  altre 24 famiglie: Bracelli, Carlo, Castello, Cavazza, Ceba, Ceva, Cogorno, Crovari, Durazzo, Fereta, Jofia, Morasana, Oliva, Pateri, Ricci, Robia, Rosso, Salinera, Taschifeloni, Vitali, Zino.

1300= Un Antonio fu ammiraglio vincitore dei Catalani nel 1332 ma sconfitto dai veneziani nel 1353 con gravi perdite. Un altro omonimo fu a capo della Commenda di Prè e cadde in battaglia a Famagosta nel 1403. Visconte  fu ammiraglio con PaganoDoria, combattè a Morea e Parenzo, 1354.   Nel 1395 i fratelli Giovanni e Lodovico (Scorza scrive che fu Francesco nel 1296) occuparono Monaco e, da quel tempo in poi la famiglia rimase assoluta padrona del paese. Condottieri di armate e di flotte, nei  secoli tra il 1300 e  1500  furono a capo di continue lotte contro i veneziani ma anche  contro i ghibellini liguri.

1400=Un Ansaldo (1471-1539) fu senatore, ambasciatore a PaoloIII, soprannominato “il grande benefattore”; di lui esiste una statua in villa Rosazza scolpita da Nicolò Traverso. Fu Gaspare Grimaldi Bracelli  (1477-1552) ad essere doge 1549-51 e nipote dello storico Giacomo Bracelli. Istituì il Magistrato delle Monache e scongiurò il tradimento di Giulio Cibo e Domenico Imperiale.

Dal 26 marzo1476   al 9 nov.1492, uno dei Sauli fu scrittore dell’acquisto di beni immobili in San Pier d’Arena.

Un Grimaldi Rosso Cristoforo (1480-1563) fu medico, filosofo, matematico, ammiraglio (con CarloV in Tunisia, partecipò con 25 galee, e doge nel 1535-7 ristrutturò le mura).

1500=Nel 1528 entrarono a far parte di una delle 28 famiglie più potenti in città - chiamate “alberghi”, e formandone il 10°- ed a cui dovevano aggregarsi le altre famiglie. Un Giorgio, fu con proprie galee alla battaglia di Lepanto nel 1572.

Dagli archivi Sauli emerge che in questo secolo più d’uno di questa famiglia fu amministratore, in particolare (oltre che della famiglia Doria), di Ambrogio Grimaldi Cebà q. Antonio.

Ed altrettanto, dal 1565, un Sauli è scrittore del saldo di un debito da parte del rev. Alessandro Cicala q. Nicolò che paga Alessandro I Grimaldi Cebà q. Antonio cedendo una villa sita in San Pier d’Arena.

Un Grimaldi DeCastro Luca (1530-1611) fu doge 1605-7. 

Battista istituì nel 1580 una ‘Fondazione Grimaldi’ a scopo di beneficenza.

1600= Alessandro di Pierfrancesco (1621-1683) fu doge (1671-3); signore di molti feudi e castelli, perspicace ed acuto d’ingegno, rese grandi servizi alla Repubblica in terra-mare, diplomazia e guerre: da doge scongiurò la ribellione dei DellaTorre e sconfisse i piemontesi guidati dal duca di Savoia (1672; vi parteciparono anche tre dei suoi figli). Luca di Nicola (1675-1750) fu doge 1728-30, combatté contro rivolte di Sanremo, Finale e Corsica. Giovanni Battista, di PietroFrancesco (nato mag.1678-1757), amato dal popolo, fu guerriero a Savona e Corsica; fu deputato a trattare con Botta Adorno nel 1745 dimostrando serenità eroica al punto che lo stesso Botta lo definì “novello Muzio Scevola”. Eletto doge il 7 giu 1752-4. Iscritto alla ‘colonia ligustica degli Arcadi’ col nome di Uranio.

Antonio Grimaldi Cebà di Nicolò (1641-1717)fu doge dal 1703-5. 1700=PietroFrancesco di GB (1715-1781) fu doge 1773-5.   GianGiacomo di Alessandro (1705-1777) fu soldato (1746 comandante contro gli austriaci); politico commissario in Corsica (ma commise l’errore -1753- di sopprimere il ribelle corso Giovanni Gaffori facendone un eroe; gli si ritorse dovendo fuggire dall’isola nel 1759), eminente pensatore il migliore filosofo genovese dell’epoca. Doge dal gen1757.

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   Ad ordinare la villa, fu Giovanni Battista Grimaldi q.Gerolamo chiamato anche Battista I (banchiere, mercante, magistrato del Banco, massimo esponente della politica ed economia genovese della metà del 500, ritenuto  uno dei più ricchi dell’epoca. Nel 1593 risulta che il figlio Nicolò avesse ereditato un patrimonio netto – in lire genovesi -  = 148.055.6.8; poco però, rispetto Agostino Doria (696.666,6.8), Imperiale GioGiacomo (597.221,13.4), Ambrogio Spinola (309.999,6.8) e Filippo Spinola che nello stesso anno aveva 1.553.666,6.8. Prestatore di soldi a imperatori e re, committente di artisti e musici. Nacque nel palazzo sito in piazza della Meridiana a Genova fatto erigere da suo padre Geronimo (o Gerolamo Grimaldi Oliva di Giorgio, erede delle enormi fortune di Ansaldo Grimaldi, anche lui prestatore di soldi a re ed imperatori come CarloV  e morto senza figli): acquisì le fortune familiari col fratello Nicolò (Nicolò era il figlio; 95 dice che il fratello era Luca; E.Parma dice che GB era figlio unico maschio)

Consentì nel 1565 l’istituzione di una scuola di canto e di musica- ponendo nei cartolari del Banco di san Giorgio un apposito multiplico; nonché   lasciò al Banco una enorme fortuna col fine della conservazione del porto, palazzo Ducale e dell’acquedotto, beneficiando monasteri, ospedali e lazzaretti.  Una sua statua, scolpita da Battista Perolli detto il Cremaschino (Pastorino-Vigliero scrive a pag.914 che è di Giambattista da Crema, ma forse sono la stessa persona), scolpita nel 1567 (Poleggi scrive nel 1565)),  troneggia tra i benefattori della Casa di san Giorgio, a Genova, nel palazzo omonimo. Sposò Maddalena Pallavicini da cui ebbe: primogenito GioFrancesco (che sposò Lelia Pallavicini dai quali nacque Maria poi sposa di Goffredo Spinola).; secondogenito Pasquale (descritto sotto quale erede della villa di SPdA); e  Nicolò (che sposo di Maria Lomellini, divenne padre di Caterina, poi prima moglie di GioVincenzo Imperiale). Morì nel 1581).   

 

L’artefice materiale del progetto ed erezione della villa fu l’architetto ticinese Bernardo Spazio (Pastorino&Vigliero e Tuvo&Campagnol dicono Bernardino (qualche altro Michele, inesistente per: AA.VV.-scultura a Ge....vol.I e per SopraniRatti), seguace e collaboratore  dell’Alessi - al quale per lungo tempo, ed ancora nel 1929 fu erroneamente attribuita la paternità del disegno e della costruzione-; gli studi di Mario Labò (1970) hanno definitivamente chiarito con documenti, che chi ha curato la “fabbrica”, fu l’architetto ticinese, già attivo nella vicina villa Sauli ed in Genova alla fabbrica di Carignano ed altre ville locali. Morì nel 1564).

  Si può accettare l’idea che l’Alessi abbia dato consigli al suo allievo, considerato le grosse difficoltà da superare  e gli stretti rapporti di lavoro tra i due.

Anno di inizio lavori è controverso: chi dice nel 1551. Chi (Parma e Ciliento) dal 1559 al 1567;  Poleggi  tra 1559 e 1570;  Stringa, SecoloXIX e Labò nel 1561; AAVV de “L’amministrazione…”:1562;  Tuvo.Campagnol: 1565;  Pastorino&Vigliero: 1651 (presumibile errore di stampa, avendo lavorato a Genova a metà del XVI secolo).

Ma anche l’anno  di completamento è differente: Stringa nel 1565; altri 1567 e  1570; Labò 1568; AAVV de  “L’amministrazione” nel 1580; Pastorino & Vigliero: 1665 (idem sopra).

 

Concepita con caratteristiche di imponente severa e  massiccia struttura ad impostazione cubica, occupante quasi 1000 mq di superficie, con pochissime sovrastrutture esterne, priva di dettagli ornamentali che aggiungano eleganza o delicatezza, col tetto a piramide, venne subito chiamata “la Fortezza” in contrapposizione quasi stridente alla “Bellezza” della villa Imperiale, e alla “Semplicità” di villa Sauli: tutte e tre identificate dalle altre ville con aggettivi qualitativi; costeggiano l’asse principale stradale –allora senza nome, oggi via N.Daste-, su cui si apre solo la seconda: la prima e la terza hanno il portone uno a levante e l’altra a ponente in forma speculare simmetrica, con abile e snellente proposta urbanistica e scenografica: tale – apparentemente banale - scelta dell’entrata “lateralizzata” fu progettata per preciso calcolo architettonico  e voluto distacco ciascuna dalle altre con appartata austerità, legati forse anche al caratteristico riserbo genovese, e favorita dal fatto che al di là della strada Larga, i terreni coltivati ad orto erano di proprietà di famiglia  (nel 1840 circa erano di Ansaldo Grimaldi, poi acquistati dagli Ansaldo). Infatti, considerato l’ampio terreno a disposizione, il fatto che le ville siano  state erette  nei limiti vicinali alla strada non può che essere voluto, quasi a formare un borgo nel borgo.

Queste “bizzarrie” sono considerate tipiche della mentalità dei Grimaldi.

Anche il piazzale antistante, fu volutamente studiato rialzato, sia per dare maggiore imponenza all’edificio qualora già non ne avesse, ma soprattutto per superare - con sforzo tecnico eccellente - il naturale dislivello del terreno, e giustificare la scarsa estensione del prato a disposizione. 

 

foto giugno 2009  facciata a nord                          facciata – ingresso ad est

 

La parte decorativa, porte, balaustre,  finimenti interni, e decorazioni varie, fu affidata a Gio Battista Castello detto il Bergamasco (pittore -progettista di architettura e di decorazioni a stucco-. Dopo soggiorno a Roma, associato al Perolli contrattò con GB Grimaldi per varie opere tra cui la villa. Eccellenti sue pitture sono in molti palazzi e chiese cittadine; sculture definite “di non basso carattere” compreso una in marmo, stucchi e ornamenti come nei palazzi degli Imperiali, e opere meravigliose lasciate nell’ Escoriale di Spagna; sono documentate alcune forniture decorative, tipo porte e balaustre, fornite nel 1565 su disegno dell’artista) che si fece aiutare da altri maestri antelami, e dal marzo 1566 da Battista Perolli (dapprima con lavori marginali tipo la decorazione della facciata, un poggiolo ed un busto marmoreo del committente; poi definitivamente nel 1567 con la partenza del Bergamasco per la Spagna).

Nel 1565 (oppure 1567, o 1580), morto lo Spazio, fu portata a termine da G.B.Castello, ancora attivo nella casa in altri lavori (qualche altro: Poleggi, Parma e Sagep76 -dicono Giovanni Ponzello, in quegli anni presente nella vicina Bellezza,  e che nella nostra villa sicuramente intervenne nel 1567 per lavori di sistemazione del terreno).

Il suddetto GB Grimaldi, committente della villa sampierdarenese,  con testamento del 4 giugno 1580 la lasciò al secondogenito figlio Pasquale (al primogenito GioFrancesco, lasciò quella in piazza della Meridiana).


Simonetta Valenziano scrive sul Secolo che Vincenzo fu ospite di Battino Grimaldi.   Boccardo, in L’età di Rubens pag. 27, scrive che chi ospitò il duca nella villa di SPdA furono Carlo Grimaldi con la moglie Battina Centurione Grimaldi (forse perché la prima edizione del libro del Rubens è dedicata a lui che era il nipote di Giulia).


 

Il 12 lug.1607  Pasquale, e sua moglie Giulia Grimaldi (non corrispondono su Battilana), ospitarono Vincenzo Gonzaga, duca di Mantova e del Monferrato, detto pure Vincenzo I (Pastorino&Vigliero dicono 1706.   Baldacci riporta un annale su cui è scritto “6 luglio 1607.... è venuto qua per farsi alla marina alcuni bagni per un ginocchio che ha offeso di catarri...., starà a Sampiedarena ove per la sua persona è stato apparecchiato il Palazzo del s.r Pasquale Grimaldo, et certi altri per la sua corte...”.  

V.Gonzaga opera di Franz Pourbus Jr

Galleria Rizzi


Vincenzo Gonzaga nel 1606 aveva progettato un viaggio nelle Fiandre, ma rinunciò e decise trascorrere l’estate a San Pier d’Arena. Presumibile che –nel frattempo- o aveva ricevuto un invito specifico- oppure –più probabile- era pressato dall’incombente bisogno di denaro da richiedere ai banchieri  (già intenso era il carteggio con Nicolò Pallavicino e suo cugino Domenico, con i quali aveva scambi di regali e con i quali già c’era una cordialissima corrispondenza preferenziale da tanto tempo, con reciproco scambio di oggetti vari, nonché aggiornamenti politici e di informazione: gioielli  (in uso gli argenti portati da un giardiniere genovese mandato a lavorare a Mantova, e le perle di cui non sempre c’era la disponibilità (per cui il duca fu invitato ad accontentarsi ‘quali sono possuti riuscire’: una dama mantovana aveva  visto il ritratto di Veronica Spinola Doria e voleva per sé un eguale ‘giro di perle’), giardinaggio (“alberi citronetti, gelsomini di Napoli, lemoncelli e aranci; siepi di mortella”), abbigliamento (vestiari, con grande arrovellamento di Nicolò, perché ignorava le misure opportune) come guanti, “camixie”, polsi a latuche, collari lavorati in oro ed argento, ‘rocchetti’ di tela di Cambrai (destinati a Ferdinando Gonzaga, figlio di Vincenzo e prossimo cardinale (1607); perfino un ben definito busto da donna che, non trovandolo sul mercato, fu inviato a Mantova ‘prelevandolo’ ad una parente ed inviandolo ‘di buona fattura ma usato’); animali da allevamento (cavalli di razza tipo ‘i Barbari’, cani mastini inglesi, una volta anche un ‘cammello novello per il bestiario del duca’, tutto accompagnato da descrizioni tecniche di un esperto d’animali), oggetti di tenore di vita (in genere, aggiornamento delle corti europee; per rimanere al passo con la moda); cibi (come formaggi locali e dolciumi))-

Un mulo, era arrivato a Genova da Mantova (‘dal collo pienotto ma con un bel portamento’), inviato al marchese Antonio da Passano; delle perle se ne era interessato anche Giulio Spinola (che fu rimproverato perché la collana era ‘troppa rada’).  

Arrivò a Genova (scendendo dai monti lungo la via Postumia, a Pontedecimo fu incontrato dalla maggior parte della nobiltà genovese, in un giorno piovoso “che bagnò tutti ben bene” per cui fu d’uopo accorciare le cerimonie e la consegna di doni od omaggi ufficiali), ufficialmente sia per prescrizione medica di sabbiature ed aria marina, essendo sofferente di podagra ad un ginocchio (dapprima, per questa malattia dai medici era stato indirizzato alle terme di Spa), sia per diletto, ovvero come riportato dai cerimoniali “attendendo a giuocare et a darsi buon tempo” specificando che “fu da molti ill.mi ss.ri privatamente invitato”. Preferì venire in Liguria in realtà perché oberato dalle spese (necessarie per rendere sempre più splendida la sua reggia  e per la costruzione della cittadella di Casale) per le quali non trovò altro sistema che ricorrere al prestito di un banchiere genovese (come già facevano i sovrani spagnoli ed il papa stesso): in fondo era già in relazione economica con i Serra, gli Spinola, i DaPassano, e tra tutti,  maggiore fu il rapporto con Nicolò Pallavicino.

Comunque, per questa visita “non vuole cerimonie, ne complimenti, professando solo di voler conversatione di Giovani per rispetto del Gioco, e di Dame per recreatione dell’animo, essendo in età d’anni 42 ha seco una bellissima corte di molti Gentilhuomini a se affetionati”. Quindi, con questo spirito, partecipò ‘solo’ a parecchie feste (perché gli davano l’occasione di conoscere genovesi ricchi ai quali tutti chiedere soldi (il nobile Ansaldo Cebà, preferì regalargli un poema intitolato a suo nome “il Gonzaga”)), ad una battuta di caccia al cervo (nel bosco di Madonna del Monte, gliene portarono al tiro ben tre capi, le cui carni –fatti prosciutti- furono inviati a Mantova),  a vari incontri al gioco del ‘rapé’ (d’azzardo e proibito dalle leggi locali; molti nobili – sapendo questa sua debolezza - lo ‘spennavano’ di ingenti somme, costringendolo a chiedere ‘rifornimenti’ a Mantova, finché non gi giunse una lettera dalla moglie che gli indicava “se il signor duca si volesse sbrigare sarebbe cosa molto utile alla sua borsa ma molto più alla sua reputazione”).

Vi rimase sino al 24 luglio (Baldacci riporta un brano dai cerimoniali sui quali è scritto “et avendo passato quasi tutto il mese di Agosto, se ne tornò al suo Stato, senza essersi mai più trattato di visita pubblica”).

Col duca -(già venuto a Genova nel 1592, ed allora alloggiato in piazza Fontane Marose dopo sorteggio dal “bussolo”, da Francesco Pallavicino; ora però giudicato un po' lontano dal mare e quindi scomodo; ed anche il 25 ottobre 1600 di ritorno da Firenze dove aveva fatto visita alla cognata, regina di Francia. In quest’ultima occasione fu ospitato da Barnaba Centurione preferendolo all’invito di andare ospite in palazzo Doria “onde schiffar” l’incontro col conte Diara figlio del Contestabile di Castiglia e Grande di Spagna)- si accompagnarono sessanta persone suddivisi in tre diversi palazzi: uno per i duca ed i suoi pochi intimi; uno per  “i signori che accompagneranno Sua Altezza e che non saranno compresi nella lista della sua compagnia e del suo seguito”; un terzo per la servitù, mulattieri e guardie. Tra i primi, ospitati nel nostro borgo ci fu anche un figlio (anche lui già ospite dall’ott.1606 di Nicolò Pallavicino, accolto all’arrivo con una grandiosa festa -con dame riccamente abbigliate -protrattasi fino alle tarde ore della notte); il segretario del duca, chiamato Chieppio; il famoso compositore-cantante-poeta Francesco Rasi (1574-1621) giunto alla corte dei Gonzaga dopo lungo soggiorno fiorentino, e che alcuni mesi prima della partenza aveva impersonato il protagonista nell’ Orfeo di C.Monteverdi; l’artista PietroPaolo Rubens (di ritorno da una missione in Spagna per incarico di VincenzoI Gonzaga (cantato da Verdi nel Rigoletto). Dall’anno 1600 era al seguito del duca: si erano incontrati occasionalmente  presso un orefice di Venezia ove il duca era andato per comperare una scimmietta d’oro in equilibrio su una altalena, da regalare a sua figlia Eleonora (scimmietta, che il Rubens incluse nel ritratto della bimba che aveva due anni, e che lei indosserà anche quando diverrà imperatrice d’Austria).

Era già stato a Genova nel 1604; in quell’occasione aveva dipinto -appena trentenne- la tela della ‘Circoncisione’, da affiggere sull’altare maggiore nella chiesa del Gesù nel 1607-per i fratelli Pallavicino: Giulio (1559-1635. Primogenito di Agostino q.Francesco. Il suo ritratto vedi L’Età di Rubens pag. 63),  Marcello (sacerdote, prefetto della casa Professa dei gesuiti) e Nicolò (finanziere del Gonzaga da cui nel 1602 aveva acquistato il titolo marchionale per il feudo di Mornese, e che allora doveva rimborsare le spese sostenute nella missione in Spagna; diverrà padrino del terzogenito del Rubens)-.

Evidentemente però il trentenne pittore, seppur protetto dal duca, doveva essere una figura ancora poco considerata, di accompagnamento minore e non di fama neanche tra i suoi colleghi: infatti dai numerosi carteggi di questa visita ducale mai emerge il nome del Rubens (sia i ‘cerimoniali’ genovesi, sia quelli mantovani, sia le lettere del Chiabrera ad un altro pittore Bernardo Castello, e quindi interessato).  

Nel 1606 Rubens era a Roma, ed assai malvolentieri doveva tornare a Mantova dal Gonzaga suo datore di lavoro; questi non solo con cronica mancanza di puntualità nel pagare lo stipendio ma anche maldestro  nell’affidargli incarichi poco graditi come acquistare tele di altri e rifiutare le sue adducendo essere in bolletta. Molta è la corrispondenza ritrovata nell’archivio mantovano, con Gerolamo Serra, Ambrogio Spinola, Giulio Spinola

Da Roma che venne qui da noi –non si sa se direttamente da Roma o da Mantova; e pare che da qui tornò direttamente a Roma  Quando si trovò a SanPierd’Arena, comunque -approfittando del tempo libero non impegnato dagli uffici di corte- usò questo secondo soggiorno per aggiornarsi in architettura,  e riproporre in disegni  ed incisioni (non è chiarito se da solo o più probabile con l’aiuto di uno o più ‘geometra’ diligente e scrupoloso) -con la pianta e le strutture- tante tra le migliori ville genovesi:  la Fortezza è stata riconosciuta in un disegno della prima edizione, denominato “Palazzo D”,  documentata con nove tavole, più di qualsiasi altra villa genovese, e con una sezione staccata e specifica alla tav. 71 per il bagno; è su essi che si evidenzia pure l’esistenza di un affresco decorativo della facciata d’ingresso -attribuito a Perolli - e che in seguito scomparve. La prima edizione del libro con disegni ed incisioni, intitolato “palazzi di Genova” uscì a spese del pittore, nella prima metà di giugno del 1622, con lettera dedicatoria a Carlo Grimaldo, uno dei nipoti della padrona Giulia). Il “Palazzo C”  corrisponde alla vicina villa Spinola, in quel tempo di PaoloAgostino. Non appare descritto il terzo palazzo ospitante, di Nicolò Pallavicino** (dal Rubens chiamato ‘Pravecino’). Oggi gli originali –non completi- sono ospitati nella biblioteca del Royal Institute of British Architects. Sappiamo che il Rubens a metà settembre era a Roma, quindi non seguì il duca nel ritorno, ma da qui andò verso sud (Roma), da solo, a cavallo.

L’arrivo del duca di Mantova non fu quindi solo per sua salute e  svago  (da buon donnaiolo, aveva lasciato a casa la duchessa; nei ‘cerimoniali’, ricorrono frequente frasi tipo ‘festini di dame’, ‘moltitudine di dame’, ‘gentil donne all’intorno della puppa (poppa) della galera’), e come già detto per rafforzare bilateralmente la già efficiente rete di relazioni finanziarie, -il tutto sottolineato da frequenti scambi di doni specialmente con il carissimo amico Nicolò Pallavicino.

Mentre le giornate trascorrevano in conversazioni (tra cavalieri e membri del numeroso seguito, dame, sacerdoti), oppure in giochi (carte: a Pegli, dopo un banchetto, giocò contro il cardinale, vincendo in coppia 1700 scudi d’oro), banchetti, musica (il Rasi, accompagnandosi col suono i arpe e col canto; è assai probabile abbia proposto l’ascolto dell’opera di Monteverdi accompagnandosi con l’arpa, cercando di stupire i genovesi con le sue “miracolose” capacità di produrre effetti sonori sfruttando la tecnica dell’eco, naturale nella sala della cappella. I musici, secondo l’affresco dell’Ansaldo, erano sistemati sui ballatoi nei pressi del cornicione del salone);  gite (in città,  la neo eretta -dai Pallavicino- chiesa di s.Ambrogio o del Gesù visitata con Nicolò ed accompagnato da un solo paggio; nei nostri dintorni invece la villa Pavese -ora Franzoniane, o la villa Doria a Pegli); ed il 25 luglio, festa di san Giacomo, grande euforia  per il “barcheggio” (partenza per una gita in barca di tutto il giorno, con mangiare sulle spiagge, tra suoni e canti; otto galee trasportarono il doge, senatori, gentiluomini e dame, da Carignano a Sturla; da lì a Sestri P e ritorno); il Duca pare non partecipò, ma assistette alla sosta fatta nel pomeriggio presso l’approdo alla marina della villa, dove fu fatta festa e spettacolo con ‘lanci’ di salami e di frutta dalle galee -raccolta dai marinai che la ripescavano per rioffrirla alle dame- e grande accorrere di leudi e di paesani “divertiti ed interessati alle copiose ed abbondanti ‘confettioni’ che piovessero dalle navi”; ed alla sera, in cappella o nella chiesa vicina,  messe cantate, preghiere o cori (una “compieta” eseguita a tre voci accompagnate con tromboni, flauti, “corneti ed altri istrumenti”; una volta un giovane putto cantò il “nunc dimittis” ed un “magnificat”, accompagnato dall’organo e da un basso, “con tanta armonia che pareva una melodia celeste”) .

Di tutte questi avvenimenti clamorosi, ne scrisse pure Gabriello Chiabrera il 4 sett.1607, in una lettera indirizzata al pittore Bernardo Castello.

     Nel 1745 (6 giugno) alloggiò nella villa Francesco III, duca di Modena. Il regnante già era venuto a Genova come turista; e 25 anni prima la moglie, Carlotta d’Orleans, fu alloggiata a S.P.d’Arena con 600 persone al seguito, in villa Lomellini. Stavolta lui era in armi, generalissimo delle armate spagnole di S.M.Cattolica. Proveniente dal levante, accompagnato da 10 cavalieri e 40 fucilieri a cavallo, raggirò la città passando per la strada di Pino, e da Campomorone scese a S.P.d’Arena dove fu alloggiato nel palazzo del mag.co Agostino Grimaldi q. Silvestri. Qui giunto andò a cena e solo il giorno dopo ricevette una delegazione del Senato (sei patrizi, tra cui lo stesso padrone di casa a capo) che arrivati in carrozza gli portava ‘i complimenti’ della serenissima Repubblica. Per altri quattro anni il Duca personalmente fu alleato dei genovesi contro le Armate Austro-tedesche; ma l’anno dopo il Governo genovese abbandonato dagli alleati francesi e spagnoli, dovette cedere agli austriaci senza opporre resistenza, maturando però l’episodio del Balilla.

Nel 1757, sulla carta del Vinzoni, è ancora documentata l’appartenenza alla famiglia Grimaldi, non specificato il nome, compresi i terreni al di là a levante della crosa Larga.

Nel 1800, i francesi assediati dagli austriaci, ancora comandavano la piazza di San Pier d’Arena usata come fascia protettiva per evitare eventuale assedio sotto le mura; nei continui scontri a fuoco, moltissimi erano i feriti: la municipalità locale dovette provvedere in stato di totale sudditanza a reperire due “ospedali per le truppe”:  la Fortezza divenne in quegli anni l’”ospedale dei francesi” creandosi epidemie locali (un dottor Capponi descrive “febbri biliose, putride o nervose” anche tra i civili, causa le nulle capacità igieniche, talché quasi tutti i soldati ed un ottavo dei cittadini colpiti, soccombeva. Ovviamente inutili le rimostranze degli abitanti: le autorità avevano ben altro da pensare, visto che le cose volgevano in negativo: il 20 apr. di quell’anno, mentre le navi inglesi bombardavano indisturbate il borgo, le truppe austriache comandate dal gen. Melas -attestato a Sestri-,  erano giunte tra i vigneti del Polcevera, costringendo i francesi a “barricare tutte le strade  ... conservando solo una piccola apertura allo sbocco del ponte con ostacoli pronti ad essere messi in opera immediatamente”).

Dopo questi fatti, negli anni attorno alla metà del 1800, fu acquistata dal conte Agostino Scassi figlio di Onofrio.

Un chirografo del 27 ott. 1849, dimostra che la villa fu poi affittata dal conte Agostino Scassi proprietario, al cav. Giuseppe Antonio Castelli con un contratto di 5 anni. Prossimi alla scadenza, il 9 ago. 1854, fu affittata all’Azienda delle Strade Ferrate con un contratto di sei anni  (in un precontratto di locazione si legge: “l’anno del Signore mille ottocento cinquanta tre ed alli quattordici del mese di maggio nella città di Genova:- Si premette che per la costruzione della stazione a servizio della strada ferrata in questa città essendo stati designati i locali denominati quartieri dell’Annona e di San Paolo ora servienti (sic) di Caserma alle Truppe di presidio in Genova si rese necessario di procurare altri locali per l’aquartieramento (sic) delle Truppe ed a la fine essendo stati prescelti alcuni palazzi nell’abitato di San Pier d’Arena fra essi si comprese quello di spettanza degli eredi del fu Conte Onofrio Scassi : Che....”), per alloggiarvi temporaneamente parte delle truppe del presidio di Genova, comandate dal gen. Alfonso La Marmora  (l’arch. Matteo Leoncini andò per conto loro a controllare lo stato di conservazione dell’edificio, giudicandolo positivamente;   risulta anche che il conte, approfittando della scarsezza di alternative di locazione in San Pier d’Arena, abbia giocato al rialzo del prezzo con l’amministrazione militare imponendo un affitto di 9 lire al mese; questa dovette accettare giocoforza,  dopo aver sentito il parere dell’ Intendente Generale di Genova ritenendo la cifra esorbitante, avendo pensato anche ad una espropriazione per utilità pubblica, ma rinunciando a rivalse pur di ‘non dividere e sub dividere’ le truppe in molte più piccole residenze. Pare anche che fu in questa occasione che avvenne la distruzione del bagno ottagonale, anche se la villa in generale non ebbe a subire altri gravi danni strutturali (parte del giardino, verso il mare, appare in quell’epoca   di proprietà di un Dellepiane, ed un magazzino già affittato a Tommaso Traverso).  Nella relazione  si rileva  che la attuale via N.Daste ancora non aveva nome, e viene chiamata genericamente “strada interna”, mentre viene regolarmente citata la “strada Larga”. Comunque la villa viene considerata posta a termine della via DeMarini; anche la sovrastruttura della ferrovia, previde un sottopasso di m.6 per la ‘st.com.Larga’.

In seguito, lo Scassi la utilizzò consentendo la trasformazione in fabbrica di conserve; e così la vide nel 1875 l’Alizeri nella sua visita “A chieder l’ingresso, vedremmo nel pian terreno e officine e caldaie a bollire conserve alimentari, e nelle ampie sale un ingombro di casse e di scatole a chiuderle e suggellarle. Così volle l’avvicendarsi dei secoli....”.

Divenne poi proprietà di Nasturzio (in via J.Ruffini - si presume sia Silvestro, fabbricante di conserve alimentari  negli anni attorno al 1900, dapprima come affittuario, poi proprietario).

Ancora nel 1922 circa, DeLandolina scrive “ora v’à una fabbrica di salse. Quello che fu un ricetto agli svaghi ed a’ riposi estivi patrizi risuona ora di tutto il fervore del lavoro”.

Dal 1923 è posta sotto tutela e vincolo della Soprintendenza alle Belle Arti; (e dal 1934 anche la cappella, chiamata impropriamente dalla Soprintendenza ‘Abbazia dei Grimaldi prospiciente al giardino di Villa Scassi’; a meno che una abbazia già esistesse, e sul suo sedime fu costruito il palazzo).

Nel 1924, il Comune di San Pier d’Arena, propone un mutuo di   1.400mila lire, per l’acquisto del palazzo con case e terreni annessi;  con l’impegno di porre restauri per dedicare decorosi locali per gli uffici pubblici allora albergati in ambienti inadeguati (si prevedevano  la regia Pretura, l’ufficio di conciliazione, il commissariato di P.S., ecc.; progettando anche di utilizzare il terreno annesso per costruire un grandioso mercato all’ingrosso di frutta e verdura : mercato che dovrà essere circondato da doppia fila di case ad uso abitazione civile, di cui tanto difettava la città), nonché liberandolo dalle casupole che -in lungo volgere di tempo- si erano “abbarbicate ai fianchi della villa”.          

Questa convenientemente restaurata nei serramenti, rifatti alcuni pavimenti, ritoccati e ripararti i portali di ardesia, riprenderà l’antico splendore e la sua mole quadrata, in degno riscontro alla leggiadria delle vicine.

Da allora, è di proprietà del Comune, oggi di Genova. Per sfruttare le aree, e sistemare adeguatamente la viabilità,  si previde dall’amministrazione fascista del 1926, comperare anche la proprietà Sauli (5370 mq, per altre 1milione250mila lire), così da allargare via Larga a 10 m. ed aprirne un’altra altrettanto larga parallela a ponente di fronte a villa Scassi e, nel centro, aprirvi il mercato. Non tutto fu realizzato come previsto, perché si era all’atto di entrare nella Grande Genova.

Il 4 giu. 1944, un’incursione aerea, determinò rotture parziali del tetto, con crollo di alcuni soffitti, e guasti alla facciata.

Nel 1950 ospitava l’istituto scolastico comunale  “scuola tecnica e di avviamento professionale a tipo industriale maschile di San Pier d’Arena”

Nel 1961 era sede della scuola tecnica e di avviamento professionale a tipo industriale  maschile, dedicata a G.Garibaldi; e dell’istituto serale per macchinisti navale C.Colombo.

Divenne sede della scuola media statale Nicolò Barabino. L’istituzione della nuova scuola media, fu istituita con legge 31 dicembre 1962 n. 1859

Un poco caotica la collocazione della sede della scuola, causa continui trasferimenti di altre scuole e conseguenti spostamenti nonché soppressioni.

 diploma rilasciato dalla scuola statale 2aria di avviamento professionale a tipo industriale femminile N.Barabino, ubicata in via Demarini negli anni 1954-5.

 

La scuola N.Barabino era sorta in via Demarini civ. 12 nell’anno scolastico 1931-2 col nome “corso di avviamento professionale a tipo industriale femminile” con 29 alunne iscritte alla prima classe. Nel successivo anno, con 85 iscrizioni, le classi divennero tre (2 prime e 1 seconda). Nel terzo anno, stanti 113 iscritte, divennero 4 (2 prime, 1 seconda, 1 terza). Nel 1963-4, ottenendo una succursale in via Cantore,  la scuola fu trasferita nel nuovo edificio di via CRolando accorpandola con la Casaregis proveniente da villa ImperialeScassi e distinguendo il corso di Avviam.Industr.Femminile (con 54 alunne) da quello della scuola media vera e propria (con 153 iscriz., 78 femm+75 masch.). Nel 1965-6 iniziò ad utilizzare due aule del Palazzo della Fortezza, che negli anni successivi divennero 4, poi 6, infine 9 arrivando ad avere tutto il palazzo a disposizione, sempre con succursale di via Cantore ed abbandonando definitivamente la sede di via Demarini (che venne abbattuta). Negli anni 2000, anche questa sede fu abbandonata perché giudicato pericolosa sia per certe strutture instabili sia per la presenza eccessiva di topi.

I lavori di ristrutturazione, altalenanti per problemi di economia,  iniziati nel 1989 circa portarono all’utilizzo per le scuole “G. Casaregis” -con sede centrale in via Daste- utilizzando un solo piano (le classi 4.a e 5.a , più responsabili), pur sempre costretti a dividersi in succursali più o meno comode.

Nel 2002 il salone ha ospitato un ritrovo per il carnevale mascherato;  dopo i carri allegorici sfilati in via Cantore,  nel pomeriggio riunione dei bambini con pentolaccia ed in serata gran ballo in maschera.

Nel 2003, vista la scadenza dell’obbligo della messa in opera dei servizi di sicurezza per una scuola, giudicata eccessivamente alta di costo, si inizia a prevedere un uso diverso dello stabile: da scuola a museo

Nel febbraio 2004 nel gran salone fu organizzato il ‘martedi grasso’ con un ballo in maschera. A fine anno si scrive del previsto –per fine 2006- abbandono della ‘scuola Casaregis’; per divenire –concesso in comodato gratuito- centro della ‘Direzione Didattica Regionale’ (già chiamato Provveditorato agli studi). Il trasloco dei 300 ragazzi negli edifici di pza Sopranis, ha creato rimostranze e cortei.

Dal 2006 l’edificio è stato abbandonato come scuola. Si propose ospitare tutti i grandi servizi scolatici (Direzione didattica) ma se ne fece nulla. Pertanto, da allora rimase vuoto ed inutilizzato.

Nel 2013, seppur mantenuto ancora decorosamente (a parte certe scrostature dell’intonaco esterno e – causa umidità – di quello interno specie nelle scale per salire al piano nobile). Nell’interno delle sale a piano terra, molto materiale didattico superato (computer, libri, cartacce, lavagne, banchi) e, in due stanze, un pavimento sovraposto all’originale sorretto da intelaiatura metallica (probabilmente col fine che  nell’interspazio potessero scorrere i tubi per fili elettrici necessari ai computer).

    

 

L’ esterno:  di aspetto esterno severo e povero, ha proporzioni rigorose; ma la utilizzazione degli spazi interni e la loro altimetria, dimostrano una geniale capacità e risoluzione  che erano tipiche nell’Alessi (riscontrabile per esempio,  con le dovute varianti, ma pur sempre ‘autoritarie’, nel rapporto loggia -ricca di stucchi- e salone come nella villa Cambiaso a Genova) che ha fatto mantenere così a lungo l’equivoco dell’architetto disegnatore).

 

Sulla facciata è andata definitivamente perduta la decorazione del GB Perolli. Sulle altre facciate le rare decorazioni mettono in risalto le due logge: una è posta sulla facciata nord, con balconcino, a tre fornici ampissimi, relativa ad una sala del piano nobile; l’altra è aperta sul lato a levante, a piano terra, a costituire l’ingresso. Questo, -che appare sopraelevato rispetto il piano stradale- e raggiungibile con una scala, che ancora a metà del 1800 era a due rampe di una diecina di scalini cadauna, di pietra di Finale, con ovvi “muriccioli di sponda”; oggi, anche per favorire l’uso scolastico, tali rampe non esistono più e lo sbalzo di altezza è superato da una scala a raggiera con scalini bassi, lunghi e leggermente pendenti-. Portano ad un loggiato centrale a tre fornici, a cui corrispondono  sopra le finestre e mezzanini dei piani elevati; ai due lati lievemente aggettanti rispetto la parte centrale della facciata, ai tempi del Rubens, c’era una decorazione con colonne corinzie  sino alle due estremità mentre al piano nobile corrispondevano a delle lesene decorate; furono eliminate in un restauro successivo, lasciando a nudo la parete e munendo il finestrone posto ai due lati della loggia con solida inferriata con sopra le finestre e mezzanini dei piani superiori.  Il tutto venne  distribuito in modo da non togliere il serioso senso di saldezza delle strutture,  anzi evidenziando in modo migliore la sua struttura “maschia”, e risultando “più fortezza”.(come già detto, sopra l’ingresso, la facciata fu fatta decorare da Battista Grimaldi  con un affresco -disegnato, e prodotto con la tecnica del chiaro e scuro, da Battista Perolli; doveva conferire un aspetto più leggiadro e meno arcigno, alla visuale d’ingresso; però il tempo ha distrutto  tutto).

     

Rubens  pianta piano terra         sezione verticale 1                   verticale2                         

  

sezione verticale 3          sezione verticale 4           sezione verticale5

 

La struttura interna:

nei fondi troviamo vari ambienti, già usati come cucina e refettori, con acqua attingibile dalla cisterna con pompa a mano, ed un cesso e cantina.  Da essi si può direttamente uscire fuori dall’edificio, tramite la porta che si apre in via Pirlone.

 

fondi : una delle ampie sale                               

   

fondi: la palestra

 

Il piano terra  è tutto orientato est-ovest: dopo il loggiato dell’ingresso, c’è un ampio ballatoio col pavimento di ottagoni d’ardesia alternati a quadrelle di marmo; è separato dal vestibolo, da tre arcate chiuse da tramezze in mattoni (erette dal Castelli; come pure egli aprì due nicchioni ai lati nord-sud, ove prima erano due sedili in stucco). Nessuna stanza è affrescata però praticamente tutte le stanze hanno alle finestre i sedili in pietra

 

 Rubens - il bagno ottagonale

 

       

atrio di ingresso – sotto lo scalone centrale, raggiungibile

 dalle due porte laterali, c’era il bagno

 

 

Nel centro davanti l’ingresso, sotto lo scalone che porta al piano nobile, vi era un bagno ottagonale ↑ (allora chiamato ‘stufe’ a dimostrazione della maggiore attenzione ad esse -per l’acqua calda- che alla funzione),  ripreso da quello dell’Alessi per la villa di famiglia al Bisagno, e documentato dal Rubens; rappresentava la più nota caratteristica della villa per  il tocco particolare della raffinatezza e dello sfarzo che si voleva raggiungere (era composto da un vano ottagonale centrale e con la vasca, circondato da più ambienti tra loro collegati e comprendenti spogliatoio, tiepidario con la stufa,  altrove spesso decorati con affreschi o mattonelle); purtroppo è stato manomesso in modo irreparabile, ed è quindi giocoforza prendere solo atto che esisteva. Infatti, attualmente, per ragioni di difficile comprensione, è stato smembrato al punto che sono difficili da leggere anche i muri portanti: hanno preferito ricavarci gabinetti ad uso scolastico, sconvolgendo l’intero disegno di quello che poteva essere.

 

Lo scalone disegnato dallo Spazio, è centrale ed ha tre rampe, con una rotazione a 90° fino all’apice: dà così accesso alla loggia del piano nobile.

 

                

la seconda rampa; nella nicchia del              lo sbocco dello scalone nella loggia: a sinistra la vetrata

pianerottolo, il busto di Garibaldi                 su via Daste ed a destra, verso il mare, il salone 

     

 

       

immagini della loggia con arcate che si aprono verso il salone (a finestra, le due laterali)

 

Per primo, all’apice dello scalone, la bellissima loggia dalla quale si spaziava verso i monti e le altre ville. Appena finito il palazzo, nel 1565 la volta a botte del loggiato doveva essere decorata da due maestri della stuccatura, Antonio Lugano e GioPietro del Lago di Lugano (non nominati in AA.VV.- Scultura a Genova.vol.I); ma qualcosa successe perché il lavoro dopo due anni fu  invece degnissimamente eseguito da Battista da  Carona (il fratello Andrea non appare citato) di cui esiste la bolla di commissione del lavoro datata 1567, per  un lavoro di suddivisione in cassettoni di stucco bianco snelliti da due riquadri a lunetta -compiuto entro il 1570-1, quando il Carona partì per la Spagna- (Carona è un paese nei dintorni del lago di Como; si sa che è proprio dalla regione del comasco -e Canton Ticino- che provengono in questi tempi   i  migliori artisti del marmo e della pietra : scultori, architetti, lapicidi, “pichapetra”  rivestono in Genova un ruolo primario quali progettisti, costruttori, ristrutturatori, decoratori). Sulla lunetta era stata fabbricata sempre a stucco una “historieta di relevo da maestro Luchetto Cambiaso” (di cui rappresentano uno dei rari studi non ad uso pittorico ed eseguita per contratto personalmente dal “maestro Lucheto Camblaxio”). Le immagini in altorilievo rappresentano delle “divinità marine in convito ”  (qualcuno vi legge  le “Nozze di Peleo e Teti”: Peleo era un re, condannato ad esilio perché divenuto assassino; dopo molte peripezie, morta la prima moglie, si risposò con  Teti, così bella che Giove l’aveva eletta a dea: fu quindi l’unico mortale a sposarsi con una divinità; e dal matrimonio nacque il famoso Achille che morì nell’assedio di Troia),  ed “il carro di Nettuno(qualche critico -come anche M.Labò- dice che il bassorilievo rappresenta il “Quos ego” corrispondenti alle parole scritte sull’Eneide di Virgilio e profferite da Nettuno contro i venti, scatenati dall’ira di Giunone contro Enea; tema riproposto dal Cambiaso in palazzo Giustiniano in Posta Vecchia).

M.Labò dice che collaborò anche il fratello Andrea da Carona (pure lui però non citato nel libro di scultura su detto vol.I: un omonimo compare nell’elenco fornito dai Consoli dell’arte, all’ufficio dei Padri del comune -dei 104 maestri -”magistri antelami” - presenti a Genova nel 1486 (impossibile sia lui quindi);  TuvoCampagnol dice Antonio, ma poco probabile visto che era già attivo nel 1510-).

Due panchette di ardesia -ai lati della finestra- permettevano intrattenimenti e conversazioni in luogo con vista amena.

 

La loggia comunica, salendo, a sinistra con tre vetrate corrispondenti ad un terrazzo sopra via N.Daste; e con due entrate a vani: una di rimpetto la scala, a levante del palazzo, con una stanza rettangolare le cui finestre si aprono sul giardino e che ha una sopraporta interna↓ decorata - oggi murata - con affresco  rettangolare a soggetto rupestre.

        

paesaggio  sovraporta nella stanza che comunica con la loggia   

                                             

Da metà della loggia, principale, l’entrata - con stipiti di marmo bianco contornato da altrettanti nero - del vasto salone, rivolto verso il mare; è lungo 18 m. con soffitto a padiglione, alto circa 9 m.: era il più grande fatto a Genova di quell’epoca; si chiude con tre finestroni dal quale si godeva il panorama verso il mare (oggi il mercato), i cui tre fornici (con terrazzo, a cui oggi manca una colonnina ed il buco  è coperto con un cartone), Labò dice che sono da considerare anch’essi come una loggia rivolta a sud con la vista del mare.

Si impone per la solenne serietà dell’insieme, non arricchito da decorazioni né dipinti, in perfetto accordo tra il committente che desiderava qualcosa di imponente e l’artista che crea una solenne ma semplice struttura: spiccano così solo i portali, perché ornati da pietra nera d’ardesia. Battista Grimaldi, aveva previsto anche l’arrivo di mobili, conosciamo prodotte da un Passano due credenze, (chiamato “Passiano”, fu progenitore di una vasta famiglia di ebanisti, divenuti  famosi  per i lavori di intaglio del legno e perfezione degli oggetti fabbricati).

     

 

 

Nel salone,  a sinistra entrando, tre sale laterali (più una quarta porticina senza decorazione che dà adito ad una scala che sale al piano superiore); ed altre tre laterali sulla parete di destra. A ciascuna delle quali si accede tramite una porta a timpano, egualmente incorniciate di legno dipinto di nero (vedi foto ↑).

 

              

la volta del salone                           panorama dalle finestre della loggia

 

Nel feb.1996 e per unica ed ultima volta, il salone ha rivissuto i costumi e le usanze degli antichi proprietari, rievocati in una festa carnevalesca in costume.

 

I pochi soffitti affrescati (da G.B.Castello (1509-1569); o da Lazzaro e/o Pantaleo Calvi, secondo E.Parma)  riguardano alcune stanze poste attorno al salone ed a cui si aprivano - sino al 2006 - aule scolastiche ed uffici di segreteria/direzione; hanno immagini a carattere mitologico e guerresco con presumibili riferimenti riguardanti le imprese  della famiglia committente.

 

La e (prima e seconda a sinistra entrando), nel 2013 appaiono col soffitto coperto da sovrapalcatura o tela piatta, per cui non si vedono gli affreschi.

Forse sono qui sia il riquadro centrale che raffigura un re in trono attorniata da descrizioni minori di scene di battaglia: sono tutti i pessime condizioni e di difficile lettura ed interpretazione. Ed i dipinti ispirati alla storia troiana, di levatura tecnica giudicata mediocre, attribuibili a B.Perolli e collaboratori sotto la guida - e qualche ritocco - di G.B.Castello; invece a Lazzaro e/o Pantaleo Calvi ed aiuti, secondo E.Parma:  sul riquadro centrale racchiuso da una cornice a finto stucco come sorretta da otto grandi putti di finto marmo, posti su una mensola col capo coperto da un vaso della volta a padiglione c’è il “giudizio di Paride”, mentre dei riquadri poligonali  si leggono “il ratto di Elena”, “una scena di sacrificio (Ifigenia?)”, “la presa di Troia”, “la fuga di Enea da Troia in fiamme con Ascanio ed il padre Anchise sulle spalle”. Agli angoli delle semplici grottesche e sulle pareti un paesaggio con ruderi.

-nella sala (terza entrando, a sinistra), le  “imprese di Scipione” ↓ sono poco conservate, specie nel riquadro centrale.

riquadro centrale=continenza di Scipione, ovvero il rifiuto dei doni offertigli in cambio della liberazione della fanciulla (inginocchiata a destra)

 

 

ovale superiore al centrale=Scipione nominato console –

ovale a sinistra del centrale= scena di assedio (di Cartagena?)

 

ovale sotto quello centrale=scena della battaglia di Zama                                 

ovale a destra del centrale= Scipione incontra Annibale prima della battaglia di Zama

 

La sala a destra entrando, a fianco della loggia – ha come caratteristica sia di essere più piccola delle altre e sia di essere sopraelevata rispetto la sala: appena superata la porta dal salone, si ha un piccolo corridoio che - a destra - scende in altri piccolissimi vani variamente usati; mentre di fronte alla porta, cinque scalini a salire, accedono alla stanza in questione, che ha la finestra su via Daste. Vi avevano sede le assistenti sociali). Sul soffitto si vede un solo riquadro rettangolare rappresentante “la vittoria (o la fama) che incorona due personaggi” (un guerriero con la punta della lancia rivolta a terra ed un vecchio): il dipinto fu realizzato forse da Lazzaro  Calvi  che negli anni 1570 avevano bottega con la numerosa famiglia di artisti; attorno, circondati da grottesche, tondi con delle divinità mitologiche di Giove, Nettuno, Plutone, Saturno; ed agli angoli finte nicchie con figure allegoriche nude su sfondo dorato.

 

 

 

 

Nella sala a destra entrando, centrale, al centro dell’affresco della volta c’è il riquadro principale relativo a “Marzio Curzio che si getta nella voragine” (la leggenda vuole che il patrizio romano vissuto nel III sec. aC, si precipitò armato nella voragine apertasi nel Foro, dopo la sentenza degli àuguri che essa non si sarebbe richiusa finché Roma non vi avesse gettato dentro quello che più era a lei caro). Altri riquadri minori rappresentano Orazio Coclite (da solo resistette ai soldati etruschi di Porsenna fino a che i suoi tagliarono il ponte); un altro rappresenta Muzio Scevola (che si bruciò la mano simbolo dello sbaglio commesso nel tentativo di uccidere Porsenna); Attilio Regolo (console romano vincitore della prima guerra punica; fatto prigioniero in Africa nel 254 aC, fu inviato dai cartaginesi a Roma per trattare la pace, invece incitò alla guerra; tornato, come promesso, a Cartagine fu ucciso rotolando in una botte irta di aculei) un ultimo di difficile interpretazione: due militari messi di fronte, dei quali quello di destra con un bastone traccia in cerchio per terra (giudicare siano Romolo e Remo  contrasta solo con gli abiti da soldati romani e con il cerchio – quando Roma è sempre stata descritta come quadrata perché tracciata con un aratro. A meno che non lo si interpreti come ‘travisatura’ artistica dell’artista, sia del costume che del simbolo della città da erigere).

Agli angoli semplici grottesche, putti e candelabri.

-Marzio Curzio si getta nella voragine

 

 

-Muzio Scevola si brucia la mano sul braciere, davanti a Porsenna

-Orazio Coclite sul ponte Sublicio ferma gli Etruschi di Porsenna

 

-due condottieri nei pressi di un accampamento, di cui uno traccia un cerchio per terra

-supplizio di Attilio Regolo

 

 

 

 

 

Nellasala a destra entrando  (più vicina alle grandi finestre del salone - a sua volta con due finestre che si aprono sul mercato e su via Pirlone) il riquadro centrale rappresenta la “Sibilla che mostra ad Augusto la Madonna col Bambino”, riportata dal venerabile Beda (672 -735 d. C.), la leggenda –molto in voga del XIII secolo – relativa a Ottaviano Augusto, il quale essendo stato osannato dal popolo e dal senato con l’appellativo di Divus, chiese alla Sibilla Tiburtina se fosse opportuno farsi venerare quale divinità. La profetessa - dopo avergli imposto un digiuno di tre giorni - gli rivelò chi era il vero Dio ed il prossimo arrivo di suo Figlio.  Augusto accettò il verdetto e su una ara dedicò un sacrificio a questo vero Dio (sarebbe così il primo riconoscimento di Dio da parte dei pagani). L’ara del sacrificio, fu racchiusa poi in una chiesa detta “ara coeli” ovvero altare del cielo; ed i francescani nelle processioni portarono una insegna della sibilla che indicava un cerchio all’interno del quale era rappresentata la Vergine col Bambino.

Circondata da riquadri minori, riproducenti il trionfo di Augusto;  il giuramento dei triumviri sul mondo (MarcoAntonio –leader del partito pro Cesare-, MarcoEmilioLepido –sostenitore di Cesare ma ben presto comprimario-, e Ottaviano –figlio adottivo di Cesare-, alla morte di Cesare giurarono un patto che permise mantenere il governo dell’impero);  una battaglia (presumibile quella di Filippi). ed una battaglia navale (probabile quella di Azio del 31 aC quando Ottaviano vinse su Antonio)

Circondati a loro volta da grottesche  ed agli angoli da figure allegoriche, di cui due avvolte da un drappo, e due seminude.

Riquadro centrale

 

 

scena di battaglia

giuramento dei triunviri sul mondo

 

una battaglia navale

Augusto in trono col piede sul mondo ed attorno i popoli sottomessi e inginocchiati

 

Al sottotetto si accede attraverso una porticina del salone: una stretta scala sfocia in ampie sale, vuote, variamente divise ai lati dell’edificio. Nel centro c’è il salone: da un buco di una parete posto a circa 2metri, al di là si vede in basso la volta superiore del lungo salone e sopra esso il tetto a travature lignee come è nei lati.

Tutto, nel 2013, è abbandonato ai piccioni.

      

  

il foro con la cupola del salone

 

Il   giardino, in  origine arrivava sino al mare; ancora a metà del 1800 era cintato con addossati 128 sedili; a sud della villa c’era la cisterna con “attingitoio”. Attualmente è limitato al piazzale antistante l’ingresso, purtroppo cementificato, asfaltato per utilizzo a posteggio, con delle colonnine delimitanti verso via Daste in condizioni disastrose e vergognosamente indecorose.

 

Il teatro: a partire soprattutto dal 1750 circa, ebbe un notevole incremento non solo con spettacoli di musica e lirica, ma anche con commedie, melodrammi e  comico. Iniziato nelle case patrizie, quando anche i tempi non erano del tutto sereni (assieme al gioco del biribis ed al cicisbeismo che a Genova trovarono il massimo della loro applicazione (ne hanno parlato il Parini, Stendhal, l’Alfieri, affermando che a Genova ‘spettava lo scettro della galanteria italiana’), si allargò in molti oratori, chiese, palazzi, e baracconi,  ove si iniziò a fare spettacoli sempre più di attrattiva, con la richiesta partecipazione di valenti professionisti (di cui  si facevano mecenati i più ricchi cittadini, e con i quali collaborano i rampolli delle famiglie stesse). Così venivano rappresentati testi di Racine, Voltaire, Molière, Goldoni, Paisiello, Cimarosa, e di tanti altri allora in voga (per esempio divenne famoso nel 1750 e seguito, il DeFranchi quale produttore lui stesso di commedie ed anche traduttore dal francese e in genovese (ricordata “la locandiera” di Goldoni, divenuta “la locandiera de Sampé d’Aren-na”)) .

Del teatrino di palazzo Grimaldi, si ha notizie sin dal 1749: venivano  offerti spettacoli spesso richiesti dagli abitanti stessi;   quindi è probabile che più frequenti fossero l’attività lirica ed il teatro comico (questo organizzato da dilettanti o anche da compagnie  girovaghe)

Sono del 1779 (2 gennaio), gli avvisi riguardanti il “Teatro della crosa Larga” (in alcuni testi  viene chiamato semplicemente “ Teatro di San Pier d’Arena” come se fosse l’unico  negli anni dal 1779 al 1827; c’era invece anche quello della “Loggia”): “lunedì scorso in San Pier d’Arena da una società di quelli abitanti si è dato principio a proprio trattenimento ad alcune rappresentazioni teatrali nel Palazzo della ecc. ma ed ill.ma Famiglia Grimalda. Eglino si propongono di procurarsi quella sì onesta e lodevole ricreazione in tutte le feste fino a Quadragesima, e  più in un’altro (sic) giorno della settimana. É desiderabile che la loro istituzione sia incoraggiata dal pubblico gradimento e che serva d’esempio ovunque domina l’oziosità “. E’ scritto chiaro quindi che fosse ospitato in questa villa, considerato che già  vi era un teatrino di intrattenimento, ma  -di contro- c’è la difficoltà di concepire un vasto spazio per il pubblico ovvio gli spettacoli fossero dapprima rivolti solamente alla classe dirigente ed all’aristocrazia con un fasto ed eleganza da non avere eguali in tutta la riviera, e quindi eseguiti dentro la villa (probabile sia qui, quanto riferito da Belgrano circa una rappresentazione in San Pier d’Arena di una commedia  titolata ‘li comici schiavi’ scritta da Gio Gabrielle Anton Lusino – pseudonimo di Anton Giulio Brignole Sale -, stampata a Cuneo nel 1666 da Strabella ed a spese di Giuseppe Bottari di Genova); ma quando lo spettacolo iniziò a coinvolgere la cittadinanza ha più logica  concepire il teatro come “vicino” alla villa, pur sempre nel terreno di proprietà, quindi allestito  in qualche baracca o capannone -destinato anche a feste popolane-   ad imitazione di quello interno  limitato “per i signori”;  qualcuno altro   non si sbilancia accettando ambedue le ipotesi  )

Però ogni tanto doveva prendere la mano agli organizzatori, se nel 1791 si protesta contro “l’indecenza... sfacciataggine...corrutela del costume”; episodi “disdicevoli” accadono nei palchetti: insomma per taluni, il teatro è sede di perdizione: “ in San Pier d’Arena ... mescolano l’indecenza del popolo genovese e la sfacciataggine del farastiere colla prostituzione della Nobiltà dei due sessi. Teatri e casino che hanno saputo portare la corrutela del costume sino nelle capanne già innocenti dei vicini pastori i quali ora ripeton solo le ariette de’ musici lor famigliari e si addomestican tranquillamente a seguitarne i suggerimenti più scandalosi”. E non parliamo della paura di eventuali incendi considerata la necessità di usare candele in abbondanza. E’ ovvia la necessità di continue delibere da parte delle autorità, per regolamentare l’attività di questi teatri, specie quelli pubblici: sono  noti dei documenti datati 3 ago. 1779 di autorizzazione da parte del Comune di San Pier d’Arena al capo di una  compagnia, Lorenzo Ergento “di poter lavorare purché le prime quattro rappresentazioni siano “Giovanni e denari”,  “ Roberto, ossia l’uomo virtuoso” , “ la locandiera” , “l’assassino di Scozia” ).

Ed altro del 01 giu.1800  -in pieno assedio- “si permette al cittadino francese Florentin Montignani di aprire in San Pier d’Arena, mediante la gratificazione convenuta di lire due a sera, a vantaggio dell’Ospedale, con l’obbligo di presentare anticipatamente l’opera che si dovrà recitare”; e del 14 gentile.1803: ”si permette ai cittadini Onorato Tubino e Giuseppe Caffani, a nome della società dei dilettanti dare onesto divertimento di sceniche rappresentazioni per il corso del presente Carnevale, nel Teatro della Crosa Larga”; del 26 giu.1819, il sindaco consente “al sig. Antonio Morassi di poter dare un pubblico divertimento di bussolotti nel Teatro della Crosa Larga, purché osservi le regole del buon costume, tanto nell’agire che nel parlare, e si prenda almeno un gendarme per invigilare il buon ordine e non permettere che si fumino pipe o sigari né nel teatro né nelle scale...”

Rimase in attività fino al 1827 (probabilmente fino a quando si decise di affittare la villa).

 

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