MIANI                                               via Giovanni Miani

 

 

TARGA San Pier d’Arena – via - Giovanni Miani – esploratore – 1810-1872

 

                                                               

 

angolo con via W.Fillak

 

QUARTIERE ANTICO: San Martino

 da Matteo Vinzoni, 1757. La zona è deserta: il giallo via Curro; celeste chiesa ed oratorio di s.Marino; fucsia via Vicenza; rosso ipotetica posizione di via del Chiusone.

N° IMMATRICOLAZIONE:   2802     CATEGORIA:  3

                  

da Pagano 1961                                                                 da Google Earth 2007

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA - n°:   38340

UNITÀ URBANISTICA: 24 - CAMPASSO

CAP:   16151

PARROCCHIA:   san Giovanni Bosco e san Gaetano.

  

STRUTTURA:   da via W.Fillak, verso ponente; chiusa dopo cento metri di percorso. Ovviamente, consentito il traffico veicolare nei due sensi anche se nella pratica, con veicoli posteggiati ai due lati, resta nel centro una sola corsia.

È lateralizzata due fila di lunghi caseggiati popolari, senza terrazzi, senza ascensori, scale strette, vani piccoli

      È servita dall’acquedotto DeFerrari Galliera.

 

CIVICI  NERI= da 1 a 5     e da 2 a 8 (compreso 4a)

              ROSSI= da 1 a 23 (compreso 3a escluso 21)     e da 2 a 14 (escluso 12).

   Nel Pagano/40 via da via delle Corporazioni, a chiusa.  Nei civv. rossi ospita  2r latteria,  5r commestib.+ carbone e legna, 9r commestib., 10r officina di Soletta Dante.

   Nel 1989, per cambio destinazione  d’uso,  il 12 rosso divenne il portone del civ. 4A.

   Nell’anno 2003 nessun negozio si apre su questa strada

 

STORIA: il 3 dic.1900, un regio Commissario propone alla giunta comunale cittadina, nell’ambito di un censimento delle strade cittadine, di dare il nome di “via Milano” ad una strada laterale di via Umberto I (via W.Fillak) fino ad allora volgarmente  detta “via Bagnasco” (molto probabilmente dal nome dell’impresario costruttore delle case adiacenti).

   Così era ancora nel 1910, con civici sino all’8 ed al 5; e tale ancora nel 1933, di 5.a categoria e con identici civici.

   Il cambio di denominazione con l’attuale pioniere degli esploratori italiani in Africa, avvenne per delibera del Podestà del 19 agosto 1935 (quando l’attuale via W.Fillak era ancora ‘via delle Corporazioni’).

DEDICATA All’esploratore, nato a Rovigo il 19 marzo 1810 (Wikipedia scrive 17) da famiglia di modeste condizioni sociali.

                     

Busto di Giovanni Miani conservato

nell'Accad. dei Concordi, Rovigo.

Fu educato a Venezia in virtù di un sussidio donatogli da un patrizio locale avendo il ragazzo dimostrato vivaci capacità intellettuali anche se di carattere impetuoso ed eclettico, bravo nei terreni del patrizio (come tcnico agrario) e negli studi. Dei quali ultimi, dapprima attirato da quelli artistici (per cui  fu avviato all’Accademia delle Belle Arti in disegno ed intaglio), ed alla musica che studiò con particolare attenzione, sia come baritono e sia arrivando a comporre anche un’opera ed una ‘storia della musica’.

La passione di viaggiare, iniziò andando a Costantinopoli, da dove rientrò per accorrere quale volontario nelle truppe del ‘corpo Franco-Romano’ difensore dell’epico tentativo -1849- di instaurare la repubblica di san Marco contro gli austriaci (leggi Manin). Sconfitti anche dalla fame, dal governo austriaco fu costretto ad emigrare (Francia, Spagna, Grecia, Turchia (Smirne)).

Queste migrazioni fecero prevalere il covato desiderio di viaggiare in terre inesplorate, e scoprire il mondo; cosicché soggiornando in Spagna, fu uno dei primi a concepire il piano per una spedizione dall’ Egitto all’Uganda, mirata a scoprire le sorgenti del fiume Nilo. Nel 1858 lo presentò alla Società Geografica di Parigi, ed ottenne l’assenso dell’imperatore francese Francesco III e del viceré d’Egitto. Così, finanziata l’impresa ed acquisito carattere scientifico ufficiale nel mag.1859, partì l’anno dopo dal Cairo verso Khartum (Sudan, città posta alla confluenza tra Nilo Bianco e Azzurro) e da qui a Gondokoro ove arrivò agli inizi del 1860 malgrado il gruppo fosse decimato da defezioni, da controversie tra i componenti stranieri, da malattie e ostilità di alcune tribù ancora non sottomesse dal governo egiziano.

Da qui, finalmente sorretto da un reparto di truppa nubiana  di per sé più anelante di vendicare un eccidio subito dai Liria che proteggerlo, risalì via terra il fiume superando le cateratte Makedo in territorio mai scoperto da un europeo fino ad un centinaio di chilometri dal lago Alberto. A questo punto, la truppa armata lo abbandonò rientrando; ciò malgrado, riuscì ancora a proseguire sino al territorio dei Galuffi e a risalire il Nilo Bianco. Qui giunto, le errate indicazioni degli indigeni lo portarono, lungo un grosso ramo a ponente del corso principale, le cui acque – seppur hanno flusso continuo e costante in ogni stagione- sono solo tributarie; arrivando quindi a meno di 60 km dalla meta ma a conclusioni scorrette.  Prima di tornare disegnò una mappa del bacino del fiume per la Società Geografica Francese e lasciò un vistoso segno su un albero, riconosciuto da successori esploratori a dimostrazione della veridicità delle sue descrizioni e divenuto punto di riferimento delle carte per le successive missioni.                                                                                                    

   Nel 1861 ritentò, ma riuscì ad arrivare solo sino a Khartum.

   Dopo le due missioni tornò in Italia nel 1863 ricco di onori, di materiale scientifico assai interessante e di pregio, collezionato nel museo veneziano di Scienze Naturali e di notizie geografiche.  Fu anche il primo esploratore che dimostrò l’esistenza dei pigmei, riuscendo a portarsi dietro - fino in Italia - alcuni componenti della misteriosa tribù degli Akka.


   Entrò in vivace polemica con l’inglese Speke che, invece, correttamente aveva indicato nel lago Vittoria il vero punto di inizio del fiume.

   Nel 1867 rientrò in Sudan, stabilendosi a Khartoum, incaricato dal Khedivé quale direttore del museo zoologico locale.                                                    

   Entusiasmato da ritrovamenti fatti dal collega tedesco Schweinfurth nella zona del Mombuttu, nel 1871 organizzò una nuova spedizione per arrivarvi con nuovo itinerario. Partito da Khartoum, risalì il fiume Kazal col fine di giungere nell’alto Zaire (Congo). La sorte gli fu nuovamente avversa nella scelta dei collaboratori, perché fu abbandonato dai portatori assunti da chi gli era stato aggregato dal governo egiziano; e perché gran parte delle scorte e del materiale scientifico andò perduto per un incendio; ciò malgrado,  seppur in miserevoli condizioni fisiche riuscì a superare lo spartiacque Nilo–Congo, Gaba Sciambil e Bakka, arrivando sino a Nangazizi, residenza del re Munsa (o Mbunza) della tribù dei Ndoruma nel maggio 1872 che lo accolse con benevolenza e curiosità. Proseguendo oltre ed inoltrandosi seguendo una strada impossibile nell’impervia, lussureggiante ed intricata foresta equatoriale, per paura venne abbandonato dall’ultima scorta, costringendolo a tornare da solo fino alle terre del su detto sultano Munsa, dove morì di stenti nel novembre 1872.  La notizia della sua morte arriverà in Italia solo nel novembre 1873.    La sua tomba fu ritrovata a Nangazizi, solo nove anni dopo dall’esploratore Casati, guidato dagli indigeni sulle tracce del ‘Leone bianco’, soprannome con cui era conosciuto da loro; e poi confermata definitivamente nel 1929 da Cipriani.

   Su alcuni pezzettini di carta ultimi rimastigli lasciò scritto “sono affranto da dolori al petto…ho fatto scavare una fossa per seppellirmi: e i miei servi mi baciano le mani dicendomi ‘dio voglia che tu non muoia’… addio belle speranze... addio Italia per la cui libertà ho anche combattuto:…vi sono compensi a tanti patimenti?”

   Aveva scritto un libro di memorie “Spedizione verso le sorgenti del Nilo”; ricco di rilievi e di relazioni scientifiche. In memoria e onore, lo scultore Virgilio Milani realizzerà la statua marmorea.

 

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale - Toponomastica , scheda 2764

-AA.VV.-Annuario guida Archidiocesi di Ge.-ed.94-p.418;ed.02-p.456

-Enciclopedia Motta

-Enciclopedia Sonzogno  

-Genova- rivista municipale- 2/39.17foto

-Internet Google

-Lamponi M.- Sampierdarena – LibroPiù. 2002- pag.137

-Novella P.-Strade di Genova-manoscritto bibl.Berio.1930-pag.18

-Pastorino.Vigliero-Dizionario delle strade di Genova-Tolozzi.’85-p.1174

-Poleggi Ennio &C.-Atlante di Genova-Marsilio.1995-tav.9
 

MIGNONE                                                  via Giorgio Mignone

 

 

TARGA:

                                                        

 

SAN PIER D’ARENA                 2872

 

1923 - 1945

 

QUARTIERE ANTICO:

N° IMMATRICOLAZIONE :   non c’é

 da Pagano 1961

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA - n°  :   38500

UNITÀ URBANISTICA:  25 - SAN  GAETANO

 

CAP:   16151

PARROCCHIA:   s.G.Bosco

STRUTTURA:   doppio senso viario, da via dei Landi; arriva sino al civ. 16 e poi è chiusa da un muretto che la separa dalla proprietà che si apre in via Battaglini.

CIVICI 2007:

solo pari=  neri: da 2 a 16 ;    rossi: da 2r a 30r (mancano 20r, 22r, 28r)

STORIA:   La famiglia Mignone, da - presumo contadini-allevatori - era divenuta imprenditrice edile. A capo il  padre, già capomastro e costruttore del civ.20 di via GB.Monti. Con il figlio Geremia, laureato,  ottennero l’autorizzazione di erigere palazzi nella zona, negli anni 1961-62 e delimitarono con essi (dal civ. 2 al 16) una strada che intestarono - essendo privata - al proprio congiunto. Titolazione che poi il Consiglio Comunale deliberò ufficialmente riconosciuta il 22 luglio 1957.

Sino a dopo l’evento bellico, tutta la zona era ancora prati scoscesi, rocciosi e brulli, a chiazze coltivati ad orto, con alcune vasche per irrigare, in cui crescevano anche dei pesci d’acqua dolce; unico e primo palazzo nella zona era in via Landi, al civ. 11, costruito in stile tardo littorio.

 

DEDICATA:   Giorgio era uno dei tre fratelli della famiglia; nato a Serra Riccò il 28 ago.1923, abitava in via GB.Monti al 16 (in una “villa agricola” con stalle, mucche, e produzione di latticini; sulla facciata di lato di via Rayper, c’è una cornice ove sino a pochi anni or sono si vedeva disegnata una mucca, a simbolo dell’attività. In famiglia erano tre fratelli; gli altri due sono diventati imprenditori edili dopo aver acquistato tutto il territorio che da via GB Monti scende sino a via GB Sasso, comprendente il civ 20 di via GBMonti – dove ora vivono - ed i palazzi 7 e 9 di via Ardoino; e sale sino a questa strada).        

  Occupato come operaio nello stabilimento san Giorgio, dopo lo sciopero (Ansaldo, Siac, SanGiorgio) effettuato nei primi di giugno 1944, fu catturato e fatto  salire su un merci durante una retata di rappresaglia delle SS, il 9 ott.1944.

Morì a Mauthausen il 26 apr.1945 quando ormai la fine dell’evento era prossima.

PREMESSE: Molte, ma genericamente infruttuose, erano state le disposizioni dettate dai comandi tedeschi, mirate a rimpinguare a costo zero la carenza di operai in Germania: campagne di reclutamento, coinvolgimento dei rimpatriati dall’Africa, sbandati tra i richiamati alle armi, prigionieri riscattati. Così sfruttarono l’idea di punire gli scioperanti, trasferendo in modo coatto-punitivo  i primi trovati.  fino a carico dei vagoni ferroviari preventivati.

  Nei primi mesi di quell'anno, il prefetto di Genova  Basile, aveva emanato un ordine, affisso in città e rivolto sia ai giovani affinché rispondessero alla leva e sia agli operai (i più, dipendenti delle acciaierie Siac di Campi; Cantieri Navali di Sestri, SanGiorgio, Piaggio di Sestri, AnsaldoFossati) perché non facessero scioperi (come quello del marzo 1943 e giugno 44, organizzati prevalentemente dagli operai politicizzati del PCI). Tre giorni dopo, il tempo di organizzare l’operazine treni, il rastrellamento.

I DEPORTATI    È imprecisato il numero: meno di 1500, anche se qualcuno ha scioccamente enfatizzato, oltre 5mila, scusabile nei primi tempi ma non più a conti fatti. Quel giorno, 16giugno 1944, all'improvviso, i tedeschi - aiutati dalle Brigate Nere - rastrellarono i grandi stabilimenti, caricarono su tram  dell'UITE gli operai e li trasferirono alla stazione ferroviaria di Campi per traslocarli su carri bestiame. Nessuno ebbe il tempo di avvertire casa e nessuno sapeva cosa li aspettava.  I deportati liguri in tutto furono 1163; ne morirono 861 di cui 486 genovesi; ne sopravvissero 302 di cui 210 genovesi.

Il treno - previo passaggio da Fossoli (Carpi), poi Linz - direttamente “trasferì” i catturati a Mauthausen, da dove  la maggior parte non fece più ritorno.

All’arrivo il gruppo si era sommato ai militanti politici (già inoltrati da marzo e dichiarati fortunati per aver avuto ‘solo’ la deportazione anziché la fucilazione): finirete il ‘fapprica di safone’ era l’ironico saluto delle SS, ai rinchiusi nei carri (quindi, sapevano!). I forni fumarono giorno e notte per un anno, producendo un fumo grasso, pesante, fortemente odoroso che dominava su tutto; e le ceneri prodotte erano così ricche di minerali da riuscire a far crescere i pomodori  sulle alte montagne attorno.

Appena giunti venivano numerati: nel giugno 44 veniva dato il n° 76mila –cifra non corretta perché assai spesso il numero di un morto passava ad un neo arrivato- per non contare quelli che morivano nel tragitto;  nell’aprile 1945 veniva distribuito il n° 174mila quando i vivi non superavano i 20mila; per fame nessuno era sopra i 45 chili di peso. Per tre mesi -assieme a ucraini, prigionieri russi, romeni, e italiani volontari - furono sottoposti a lavoro aspecifico per 12 ore/giorno. Dopo iniziarono a fare scelte in base alle capacità: furono così smistati in vari campi per essere portati -10 ore/die- a lavorare negli stabilimenti, fabbriche, fattorie, ecc.

MAUTHAUSEN è borgo sul Danubio nell’alta Austria, già campo di prigionia degli italiani nella prima guerra mondiale ove i reclusi morivano per denutrizione. Divenne tristemente famoso perché durante il secondo conflitto mondiale divenne sede di eliminazione fisica di ebrei e prigionieri politici o renitenti al fascismo, zingari, testimoni di Geova, omosessuali, asociali e criminali.


Altri principali campi di sterminio furono Dachau e Sachsenhausen (dal 1933)- Buchenwald (dal 1937)- Flossemburg (1938)- Mauthausen (1939, Austria)- Theresienstadt (1939, Cecoslovacchia)- Ravensbrück (1939 femminile) e Lodz (per bambini)- castello di Hartheim (1940)- Auschwitz (1940)- Chelmno (1941)- Sobibor, Velzic e Treblinka (1942), oltre a Bergen Belsen, Maidanek, Neuengamme, Birkenau.

 

Vedi anche Casirola Carlo (vedi in via G.B. Monti, deportato a Dachau e non tornato)

 

foto di un internato

 


  

 

 

 

 

 


Il 5 maggio è giorno celebrativo della liberazione dai campi.


 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sono ricordati nello scritto sul cippo posto nelle aiuole di piazza N.Montano; con la titolazione della piazza: a Principe; con un monumento a Campi (in quest’ultimo, scoperto e benedetto il 16 giu.2009, nel retro è stata posta l’immagine della Madonna dell’Ilva).

 


  

 

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale - Toponomastica , scheda 2776

-AA.VV.-Annuario guida Archidiocesi-ed.94-pag.419; ed.02-pag.456

-AA.VV.-Contributo di SPd’A alla Resistenza-PCGG.1997-pag.133

-Genova, rivista del Comune  : 4/55.18

-Gimelli G.-Cronache militari della Resistenza-Carige.1985-v.III-p.393

-Il Cittadino settimanale – 21.06.09 pag.22

-Il Secolo XIX:  15.06.09

-Lamponi M.- Sampierdarena – Libro Più.2002- pag. 188

-Millu L-Dalla Liguria ai campi di sterminio-ATA. –pag.54

-Poleggi E. &C-Atlante di Genova-Marsilio.1995-tav.22
MILANO                                               via Milano

 

 

Attualmente non più a San Pier d’Arena; era il nome di via G.Miani.

Il regio Commissario straordinario, propose alla Giunta comunale, il 31 dic.1900, all’atto di un primo censimento delle strade cittadine, il nome di “via Milano” in sostituzione del nome generico adottato fino ad allora e quindi non ufficiale di “via Bagnasco”, nome derivato molto presumibilmente dal proprietario dei terreni o di qualche casa,  o dal costruttore stesso delle case popolari che delimitano la via.

A conferma, nel 1910  appare così titolata la via  che “da via Umberto I   (via W.Fillak) va verso il Polcevera”, chiusa, con civici sino al 5 ed 8.

Nel Pagano/1911-12 vi compaiono il bottaio Catto Giuseppe, tel.36-11; ed il negozio di cemento di Perroni e Moretti.

Nel 1926, all’atto della unificazione nella Grande Genova, la titolazione era in atto anche in Centro (che quindi prevalse su tutte e rimase), a Pegli, Pontedecimo, Prà e SPd’Arena (ove era catalogata di 5a categoria).

Nel 1933 al civ. 4 c’era un “circolo ricreativo tra Piemontesi”.

Per evitare doppioni nell’ambito del comune, la sostituzione con l’esploratore avvenne ufficialmente per delibera del podestà, solo il 19 agosto 1935.

Nel Pagano/40 è segnata ancora a ‘Sampierdarena’: da via C.Ciano a viaA.Cantore. Nei civv. rossi solo privati; nei rossi un droghiere al 14r, un forniture auto Sturla G.«FIA» al 18r; una agenzia auto O.M. al 20r

 

DEDICATA al capoluogo lombardo,  il cui stemma è come quello genovese, rappresentato dalla croce rossa in campo bianco.

   Già dai tempi romani, Milano era considerata la “seconda Roma”, e gli approvigionamenti erano studiati e curati: il trasporto via terra aveva logiche strade; ma per quello via nave, la città aveva un solo ed unico approdo: il porto di Genova, con l’intermezzo di Libarna quale stazione militare e punto di transito per le mercanzie.

   Solo nel basso medioevo si interruppe questo dialogo, perché se Milano era soggetta al peso delle invasioni, Genova aveva le sue grane sul mare, tra fazioni, saraceni e pisani. Ma già nel 1200, i pellegrini prima ed i mercanti appresso, riaprirono i negoziati, in primis del sale (sono anni che a reggere Genova vengono chiamati dei lombardi,  prima  un bresciano, poi un pavese e due milanesi; ed a rinforzare i camalli si accettano solo i bergamaschi; e sarà la volta dei Visconti (dal 1421), seguiti dagli Sforza (1464/78 e 1487/99) che saranno oppressori ma anche pacieri delle fazioni e produttori di ricchi mercati, con trasferimento di ricchi speculatori genovesi o banchieri al seguiito degli spagnoli (de Marini, Balbi, Durazzo, ecc.).

   Con l’arrivo degli austriaci a Milano, mentre essa ne trasse vantaggio, Genova fu oggetto delle loro mire espansionistiche che, sommate a quelle dei piemontesi (i quali con la ‘politica del carciofo’, una foglia prima una dopo avevano conquistato il Monferrato, Novara, Tortona, Voghera e miravano all’Oltrepo) avevano  bloccato i commerci verso la Lombardia.

 

   San Pier d’Arena stessa, da sempre ebbe rapporti molteplici e reciproci. Sia mèta di fuga e di rifugio (dei religiosi o dei potenti, come: da Milano, all’atto delle varie invasioni barbariche; da Genova, nel periodo risorgimentale); sia dopo l’industrializzazione (una affinità più stretta  si può riscontrare per il reciproco bisogno di complementare le singole e personali capacità operative, industria e mercato, il mare e la terra, sono il binomio di interessi comuni, maturati ancor più nel passaggio del secolo 1800-1900).

   Abbastanza frequente, il cognome di nostri concittadini che si chiamano “Milanese”,  di apparente origine immigrativa: infatti negli archivi il cognome compare già  nell’anno 1192 tra i giurati-firmatari una convenzione stipulata tra Genova ed Alessandria (forse è lo stesso cittadino che in  altri documenti ma negli stessi anni appare residente a Struppa-San Martino).

   A parte  via Vicenza, ed alcune località specificatamente teatro operativo di guerre garibaldine o risorgimentali, nessun’altra città italiana è stata ricordata in una targa della delegazione; neanche Torino, seppur fummo per oltre un secolo sotto la gestione della monarchia sabauda, accentratrice del potere  burocratico di quel tempo ma per antica avversione genericamente città non gradita, quando invece è benvisto il cosidetto ‘basso Piemonte’.

 

La strada genovese segue l’antico tracciato che da Di Negro costeggiava la parte più occidentale del porto, e prima di arrivare alla Lanterna (e tramite la  Porta della Lanterna scendere alla Coscia) aveva alla destra l’accesso verso il colle di san Benigno – ovvio solo da quella parte, dentro le mura -; e prima di esso il tunnel del tram (nella foto, lo sbocco è a sinistra sotto quel palazzo con torre) che, per noi, iniziava in Largo Lanterna

a sinistra, si saliva al forte di s.Benigno. Tra i due palazzi, il tram

usciva dal tunnel e voltava verso Di Negro.

Adesso il nuovo tracciato anticipa la Lanterna, procedendo verso ovest pressoché parallela a mare a via Albertazzi. Contrario a quest’ultima che è tutta aperta, quando via Milano arriva dove era il colle di san Benigno, scorre in un tunnel lungo 150-200 metri circa, il quale ha sopra di esso la Nuova Darsena e che noi possiamo considerare come ‘una moderna galleria sotto san Benigno’. Sempre tutto territorio di Genova.

La attuale (2010) parte terminale della via Milano genovese, sconfina in SPdA per solo alcune centinaia di metri: all’uscita del tunnel, corrispondendo esso alla scogliera di ponente del colle, teoricamente la strada entra nel territorio amministrato sino al 1926 dalla città di SPdArena.

Dopo pochi metri dall’uscita, ed in antico territorio sampierdarenese, le due corsie vengono separate, per 2-300 metri, da una aiuola incolta. La corsia con senso verso est, proviene direttamente dal Lungomare; quella verso ovest, dal tunnel arriva sino allo sbocco di via Balleydier e successivo sottopasso dell’elicoidale, dove cambia nome assumendo quello di via Pietro Chiesa. Solo superata villa Gardino, questa corsia si riunirà all’altra per formare il Lungomare.

Prima di ricevere via Balleydier, a fianco ed a monte di essa, esiste un cantiere che prevede un grattacielo. Lì c’erano delle case popolari che - a isolato - arrivava a tutta via Ballaydier, ed a via De Marini (svuotate negli anni 70, ospitarono a lungo extracomunitari irregolari i quali costrinsero le autorità ad azzerare tutti gli edifici e tale rimasero per una ventina di anni. Dal 2009 sanno scavando per le fondamenta di un grosso edificio: hanno sottratto sabbia e ghiaino facente parte della spiaggia della Coscia (e, a camionate, mandato per il rimpascimento di altre spiagge); nel giugno 2010 si stanno ponendo le intelaiature ferrose a graticcio di quelli che saranno i box sotterranei. L’impresa esecutrice appare essere la ‘Grandi lavori Fincosit’; il progetto dello studio Gambacciani Piero e Porta Emilio, e tra i finanziatori, su tutti la società traghetti e navi della MSC.

 

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale

-Archivio S. Comunale Toponomastica - scheda 2781

-DeLandolinaGC.-Sampierdarena-Rinascenza.1922-pag.48

-Gazzettino Sampierdarenese  :  9/84.7

-Grillo F.-Origine storica delle località...Calasanzio.1964-pag.60.235

-Novella P.-Strade di Ge.-Manoscritto bibl.Berio-1900-pag.18

-Pagano annuario 1933-pag.247.873

-Pescio A.-I nomi delle strade di Genova-Forni.1986-pag.229


MILITE                                                  via Milite Ignoto

 

   Corrisponde all’attuale via P.Reti; fu così chiamata dopo la prima guerra mondiale, in doveroso omaggio alle migliaia di soldati rimasti non solo vittime ma anche devastati dalla brutalità della guerra da rimanere irriconoscibili.

   Così, alla fine dell’anno 1921, fu deciso sostituire la  precedente titolazione al re UmbertoI per il tratto di strada che iniziava dal sottopasso ferroviario di  piazza Vittorio Veneto,  passava davanti alla salita alla stazione (a ponente dell’attuale piazza N.Montano  che allora non esisteva perché nel centro ancora occupata dai giardini della villa Centurione/Carpaneto) e sempre affiancata dal lungo muraglione della ferrovia arrivava inglobando l’attuale piazza G.Masnata fino a Certosa-Bolzaneto (mentre a Cornigliano c’era una omonima piazza).

   Dal Pagano 1925-6 traiamo questi dati, nei quali compaiono ambedue i nomi (UI per UmbertoI):  civ. 10 i succ. Morando, che ancora nel 1933 si interessano di macine per molini; -civ. 19 levatrice Migliara Carolina ed i successori (UI) della vedova G.B.Repetto,tel 849, in una officina meccanica;- civ. 20 la Società Commercio Metalli e Ferramenta, tel.41-373;- civ. 31r Piccardo Bartolomeo di Filippo ha negozio di ardesie e materiali da costruzione (poi andrà a finire in via Pastrengo-v.Stennio);- civ.40 il Linificio & Canapificio Nazionale (stabilimento di Sampierdarena), fabbrica di cordami, spaghi e corde per imballo, tel, 41139;--- civ. 44r “la antica farmacia Sibelli,  di DeBernardis Giuseppe (civ.18 tel. 45-25) nel 1919§; e di Mauro Giuseppe nel 1925, tel 41169);- civ.54-1 levatrice Pedrini Carolina;- civ. 89-91r la farmacia “Lanfranchi Filippo (Laboratorio chimico farmaceutico, tel 41242);- civ.168r  impianti elettrici di Tronca Umberto-; civ. 181r negozio di tesuti di Caratti Caterina;--- civ. 265r Pellegrini Michele ripara copertoni-; civ. 267-271r: alla voce ‘velocipedi’, una “Agenzia Sportiva”;-

Non specificato dove: levatrice Pambianchi Emilia---; impresa edilizia degli eredi Merlo Bartolomeo---; Gotti Lisandro ha negozio di macchine per cucire (‘vicino al deposito tramway’=forse il negozietto all’angolo con via Stennio)---; Lucotti Paolo negozio di tessuti---

   Il Pagano 1925 evidenzia vari esercizi, molti riportati in via M.I., altri ancora come ubicati in via U.I) al civ. 15° (M.I.),  l’UITE (tel 41455 e 42023); al civ. 10 (M.I.) lo stabilimento del piombo dei f.lli Sasso (Fabbrica di pallini, tubi e lastre di piombo; al civ. 1-3 gli uffici); civ.19 (U.I) successori della vedova G.B.Repetto di una officina meccanica; civ.20 (U.I), la Soc.Commercio Metalli e Ferramenta tel 41373;  al civ. 31r (U.I) il negozio di ardesie e materiale da costruzione di Piccardo Bartolomeo di Filippo, e qui era ancora nekl 1933 ( probabilmente è quello che,  più recentemente è stato in via Stennio ed ora in via SanPier d’Arena); civ.40 (U.I)  il Linificio e Canapificio Nazionale tel.41139; al 163r  il negozio commestibili della Cooperativa Ligure Lombarda; al civ. 168  il calzaturificio di Tronca Angelo;civ.215-17r(U.I) negozio di calzature di Porta Primo. Non specificato il civico, la fonderia, stabilimento  e costruttore meccanico-navale Torriani ing D. e C. (ditta tel.42021)(M.I.);   la fabbrica di cinghie  per trasmissioni ed articoli tecnici di Bertorello Remo (U.I);   soc.Italiana del Colloid (U.I);  

   Quando nel 1926 tutte le città vicine a Genova furono assorbite nell’unico comune della Grande Genova, si programmò sostituirne il nome perché numerose erano le delegazioni che possedevano ancora questa titolazione: Apparizione, Bolzaneto, Centro, Bavari, Borzoli, Cornigliano, Nervi, Pegli, Pontedecimo, Prà, Quarto, Quinto, Rivarolo, SPd’Arena (di 2a categoria), S.Quirico.

  Però la strada aveva lo stesso nome ancora nel 1933 quando fu appaltata la pavimentazione preventivando una spesa di 1milione100mila lire; in effetti con una spesa di 600mila lire venne completata fino al confine con Rivarolo (e continuata oltre con altrettanta spesa) la lastricatura con masselli di granito, posti su apposito sottofondo di calcestruzzo (nella delibera, la via viene ancora genericamente chiamata ‘via dei Giovi’ oppure ‘per l’entroterra’).   Già vi esistevano le tre farmacie ( la Sibelli di G.Mauro al civ.40; la Failla già Lanfranchi oggi Croce d’Oro al 107 ; la san Martino di A.Perrone al 96. Però in un elenco non datato, al civ.18 viene segnalata una quarta farmacia di proprietà del dott. Bernardis Giuseppe).

Il Pagano/26 di quell’anno, segnala:  l’albergo ‘Viaggiatori’ al civ. 3r;  dal 9r al 15r il chincagliere-articoli casalinghi Robba Andrea; al 10 il bottaio Gatto Giuseppe ed la succursale di macine per molini di Morando¨;  l’albergo Martini al civ. 39r;  il cinema Verdi; al 20 la soc. Commercio Metalli e Ferramenta (fabbrica e negozi); al 54 era il Linificio e canapificio Nazionale, sede/Milano (fabbrica cordami e spaghi-funi metalliche); 55-57r il mobilificio di Panada Elios; civ. 87-89r il pasticciere-fabbrica di caramelle  Tosca Giovanni (era nei fondi del palazzo che fa angolo con l’attuale via S.Bertelli); al 215r calzaturificio di Porta Primo; al civ. 235r  l’Azienda Autonoma Annonaria cittadina (per la vendita di generi alimentari di prima necessità, a prezzi minimi); 265r negozio di cereali di Rabbino Amilcare e di riparazione copertoni di Pellegrini Michele; al 267.9.271r l’agenzia sportiva di Velocipedi. Non precisati civici di:  la fabbrica di cinghie per trasmissione di Bertorello Remo; calzaturificio Torinese (nel ¨ ha anche una sede in piazza Ferrer); il negozio di idraulica-elettricità-casalinghi dei f.lli Curti; il negozio di articoli tecnici di Bertorello Remo; i costruttori edili ‘Eredi Merlo Bartolomeo’; negozio di Robba Andrea di articoli casalinghi.

 foto di cartolina viaggiata nel 1933

Sono differenti i giardini a dx e la sommità del muraglione a sinistra

   La giunta,  decise il 19 agosto 1935 di ancora cambiare: i nuovi eroi scalzarono  i vecchi,  relegandoli nel dimenticatoio generale e ribadendo il principio che morire per la Patria è ... un lodevole ma transitorio … riconoscimento, molto aleatorio ed alla fine anche scomodo se utilizzato a scopi politici (a Genova, solo una scalinata alla Foce, sconosciuta a tutti, ricorda ancora il sacrificio estremo di questi uomini mandati in guerra a vivere nel terrore ed infine ad essere uccisi, a brandelli, proprio come ‘carne da macello’).

   La strada, per poter dare due nomi, fu divisa in due tratti: quella a mare –dalla stazione a san Martino, divenne ‘via Martiri Fascisti‘;  quella a monte da san martino a Rivarolo, ‘via delle Corporazioni’ (e poi,  l’8 luglio 1945, per la legge del ‘chi vince ha diritto all’ultima’  divennero rispettivamente ‘via P.Reti’  e ‘via W.Fillak’).  

   Era volgarmente conosciuta come “la strada del tram”, non solo per il transito del mezzo pubblico ma forse anche perché nel 1924 nel progetto Cattaneo (approvato dal Ministrero dei LLPP, ma non realizzato) era punto di partenza di una Metropolitana (o Tranvia elettrica interurbana il cui primo tronco doveva arrivare a DeFerrari; a San Pier d’Arena tutta a cielo aperto compreso la stazione di villa Scassi, poi in galleria. Il tutto si arenò definitivamente quando le metropolitane vennero dichiarate equiparate alle tramvie e quindi di interesse e spesa comunale). Presumo che questo progetto avrebbe previsto trovare capolinea in piazza Montano (vedi) e non nella strada; a meno che non prevedesse finire sotto la stazione ed essere una continuazione urbana di essa.

   Lungo essa si aprivano -come ora- sia la strada verso il ponente (ma il sottopasso ferroviario era assai più stretto); sia  il deposito dei mezzi pubblici (allora affiancati da una fonderia; gli anelli per trattenere i cavalli necessari alle varie operazioni di trasporto, sono ancora infissi nel muraglione della ferrovia antistante la fabbrica); sia i giardini pubblici -allora chiamati “della Rimembranza”-.

   STORIA : A simbolo di tutti, una salma di soldato, inizialmente sepolto al fronte senza il nome,  ed indicata a caso dalla madre di uno scomparso. Fu  Maria Bergamas, una popolana di Trieste, il 21 ott.1921 che venne scelta per essere onorata –anche lei come simbolo di tutte le madri che avevano subito il sacrificio di un figlio-:  fu portata nella basilica di Aquileia (Gorizia), a decidere fra dodici bare là adunate. Dopo la benedizione, in una vettura apposita di un treno, tra il commosso ossequio di tutta Italia ufficialmente presente stazione per stazione e lungo tutto il  tragitto, fu portata a Roma (dapprima nel tempio di santa Maria degli Angeli ove fu applicata una epigrafe che dice “Ignoto il nome - folgora il suo spirito - dovunque è l’Italia - con voce di pianto e d’orgoglio - dicono innumerevoli madri : - è mio figlio“. 

           

Fu tumulata infine al Vittoriano, nell’Altare della Patria il 4 nov.1921. Viene perennemente vigilata da soldati in armi; le fu concessa la medaglia d’oro al V.M..:”soldato senza nome e senza storia, Egli è la storia. La storia del nostro lungo travaglio, la storia della nostra grande vittoria”.

   Tutte le nazioni belligeranti della prima guerra mondiale, vincitrici e vinte,  hanno compiuto questo rito di onoranza.

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale - Toponomastica scheda 2787

-Autore imprecis.-Storia del trasporto pubblico a Ge.-Sagep.1980-p.235

-Enciclopedia Motta 

-Enciclopedia Sonzogno   

-Merello-Polastri-La metropolitana di Genova-Sagep.1990-pag. 32

-Novella P.-Strade di Genova-Manoscritto bib.Berio.1930-pag.14.18.20

-Pagano 1933-pag.247


MILLE                                         piazza dei Mille

 

Attualmente si chiama piazza A.Ghiglione, tra via Currò e via C.Bazzi.

Già nell’anno 1900 vi era un asilo con una palestra, primitiva sede della Società Ginnastica Sampierdarenese. Nel 1901 - appena costruita una nuova palestra - per altri5 anni ospitò le leve della società  con un affitto annuo di 5000 lire ( non erano poche !).

Nel 1901 fu proposta la titolazione ai volontari garibaldini, e confermata nel 1906, andò a sostituire il precedente nome di “piazza Remorino” (probabile nome di un commerciante o persona nota abitante nel luogo,  che popolarmente dava poi l’indicazione alla zona).

Nel 1910, aveva civici sino al numero 6, e univa via Currò con via Marsala (via Bazzi);  uguale era nel 1933, di 5.a categoria.

Il Pagano 1911 e 12 descrivono -unico esercizio- l’officina meccanica di Pastorino Romolo.

È del  1914 il progetto di massima, per un mercato pubblico coperto, da inaugurare nella parte centrale della piazza, e vagamente abbellito con ottocentesche decorazioni in ferro in  stile liberty; non sappiamo se fu eseguito, ma nel 1926 gli uffici della polizia urbana, ne deliberarono la ristrutturazione, in seguito alla soppressione di quello vicino sito in piazza Vittorio Emanuele III (piazza G.Masnata).

Nell’elenco delle strade del nuovo Grande Comune, pubblicato nel 1927, esiste la nostra piazza catalogata 5a categoria, ma candidata alla eliminazione della titolazione, per la concomitante omonimia con una via del Centro ed a Quarto.

Infatti, con delibera del podestà, il 19 agosto 1935 fu cambiato il nome.

 

DEDICATA   ai circa mille volontari che partirono da Quarto per sbarcare in Sicilia.

Il numero, è la memorizzazione ed enfatizzazione sia di questo manipolo di eroi, e sia di quella specifica spedizione garibaldina. Fu il risultato -in parte della necessità politica del regno per mantenere vivo ed insegnare il concetto di unità di Patria; e –in parte, per meglio far sopportare  tutto quello di positivo e negativo che avrebbe comportato.

Occorre anche un piccolo ma fondamentale distinguo: «i Mille», furono quelli dello sbarco a marsala in Sicilia, compresi quelli che a più riprese furono condotti anche in tempi successivi sino a Napoli; «i garibaldini», sono un molto più alto numero di volontari che al seguito del generale,  ingrossarono -in appoggio all’esercito che, allora, non era ancora statale-  le fila delle truppe regolari, piemontesi e alleati, nelle più svariate guerre condotte da Garibaldi.

Esempio di questi ultimi, sono i quattro citati sul monumento a Garibaldi di piazza del Monastero, e Della Casa Emanuele, nato nel nostro borgo il 31 maggio 1842 da Francesco e da Lanzetta Giulia, garibaldino dal 1859: appena raggiunto il gruppo, ci fu la pace di Villafranca e lo scioglimento dei volontari. Così si arruolò nell’esercito sardo come volontario minorenne (meno di 18 anni). Quando seppe della partenza da Quarto, disertò con parecchi altri ed a piedi raggiunse Genova pronto ad imbarcarsi ma scoperto fu arrestato il 22 maggio e portato nel carcere di Alessandria per essere processato. Assolto il 10 luglio, fu obbligato a firmare una ferma per tre anni: con i sardi partecipò all’assedio di Capua (1861) e poi inviato alla represione del brigantaggio. Finita la ferma, trnò a Genova e si mise a fare lo spedizioniere in porto finché nel 1866 scoppiata la guerra torenò di corsa ad aggregarsi con Garibaldi combattendo a Bezzecca. Risciolto il gruppo, tornò a Genova e –con l’amico Antonio Mosto- fondò la ditta “A Mosto & C.”, mentre nella nuova città fondò e diresse la “Società dei tiratori” primordio della poi più conosciuta (perché nata con l’approvazione governativa) Società di tiro a segno. Divenne anche consigliere comunale locale, carica che resse fino alla morte nel 1889.

I MILLE: preceduto dai tentativi insurrezionali dei fratelli Bandiera e di Carlo Pisacane, dall’opera ideologica instancabile del Mazzini, dalla collaborazione di volontari locali (D.Uziel per es.), dalla sottile, furba e tollerante  preparazione politica del Cavour (potersi agevolmente riunire in Genova in così tanti, visti ma ufficialmente non visti,  armarsi, simulare un atto piratesco per prelevare le navi Lombardo e Piemonte, partire indisturbati, rifornirsi a Talamone , essere “osservati” dai vascelli inglesi. Non sarebbe stato di certo possibile senza la  occulta volontà che ciò potesse succedere).

 

Le due navi  erano di Rubattino che non volle comparire e che - a mezzo dell’amministratore delegato Fauché - furono concesse gratuitamente per il trasporto; sostarono un giorno a Talamone per rifornirsi di quattro cannoni, fucili e munizioni; arrivarono a Marsala l’11 maggio. Le navi borboniche avrebbero potuto affondarle prima dello sbarco ma essendo esse molto ’vicine’ ad imbarcazioni inglesi, non osarono aprire il fuoco per non creare un incidente diplomatico. Delle due, appena allontanati gli inglesi, il Piemonte fu devastato dalle navi borboniche e fu portato in secca. Il Lombardo, che era stato varato nel 1841, e che nel 1849 aveva trasportato i garibaldini dalla Repubblica Romana a Genova, fu invece colpito nel porto di Marsala ove rimase per due mesi finché liberata Palermo vi fu rimorchiato per ristrutturazione: dopo un anno riprese il mare iscritto nella marina da guerra sarda, facendo spola nei porti italiani con le più varie funzioni (truppe, detenuti per le colonie penali, traino di draghe; nella notte del 12.3.1864 da Ancona verso Manfredonia, si arenò in una secca vicino all’isola san Domino delle Tremiti dove la forza del mare lo spezzò facendolo affondare; nel 2004 il relitto è stato  ritrovato nel fondale.

Dagli scogli di Quarto, salparono il 5 mag.1860; tanti, indossando una uniforme basata su una  camicia rossa.

I volontari di San Pier d’Arena, alla sera di quel giorno, erano partiti separatamente, per non destare sospetti alla polizia che li conosceva in quanto affiliati a quella associazione ‘l’Umanitaria’, nata il 5 ott 1851 –oggi sappiamo retta da persone che dimostrarono essere di alta dirittura morale- ma che allora erano ’uomini precosi’ (in quanto poco più o meno sedicenni: c’erano tra gli organizzatori del ricupero e messa a punto delle armi Lorenzo Castello, Michele Danovaro, Pietro Aloise, Antonio Grosso; e tra i volontari a partire Carlo Meronio, Stefano Lagorara, Giacomo Canepa, ed i primi due del gruppo precedente): l’impegno concordato con N.Bixio era ricongiungersi a Porta Pila, per essere portati in carrozza e seguiti da due carri di armi a Sori, imbarcarsi in quattro gozzi (di proprietà di un certo ‘Pellican’ corniglianese) e, guidati dai fratelli Zellino raggiungere al largo il Piemonte ed il Lombardo: qualcosa non funzionò perché le barche portatesi al largo, esposero, e cercarono al buio,  il segnale convenuto (una lanterna rossa); dovettero riraggiungere la riva di Boccadasse  all’alba,  riuscendo a salvare il materiale bellico (fucili, pistole, munizioni e sciabole) avuto in carico. Sospettando un boicottaggio che non fu dimostrato fu istituita una commissione tra loro.  

Il grosso gruppo di volontari  sbarcò a Marsala l’ 11maggio; seguì la battaglia di Calatafimi, prima della totale liberazione di Palermo e dell’ultima vittoria sicula di Milazzo (20 luglio). Iniziarono l’assalto alle truppe borboniche sperando nell’insurrezione del popolo e nell’arrivo successivo di altri rinforzi promessi.  

Le aspre battaglie, moltiplicarono gli esempi di valore da ambedue le parti, sia nelle campagne che nelle vie cittadine e sulle barricate: ma l’ entusiasmo e la fede in una idea - presenti solo da una parte-,  furono capaci di far vincere i mille contro diecimila, e lentamente a far nascere la partecipazione popolare.

Ad Alcamo furono raggiunti dalla seconda ondata di garibaldini provenienti da Genova, quattromila volontari in tutto compresi i sampiedarenesi, capitanati dal generale Medici e dal Bertani; erano partiti da Cornigliano da una località chiamata ‘ala Ponzoni, poi detta giardino di palazzo principe Oddone’.  

Isolato, come altri volontari che cercavano con un imbarco di raggiungere la Sicilia raggirando i severi controlli della polizia ed dei carabinieri (che arrivarono a chiudere la sede dell’Universale),  trovò posto su una nave come fuochista  Carlo Rota.

Dalla Sicilia in Calabria, da Reggio –attraverso Caiazzo e Maddaloni- al Volturno (ove Garibaldi fu raggiunto da una terza spedizione di volontari che erano partiti dalla Chiappella –cava di Bonin- dovevano arrivare a Napoli via terra con l’idea poi di invadere gli Stati Pontifici) all’ingresso trionfale a Napoli il 7 settembre,  fu un susseguirsi di trionfi, che determinarono l’allontanamento dei Borboni e la consegna del territorio occupato, al re Vittorio Emanuele II (le cui truppe regolari intanto, avevano occupato l’Umbria e le Marche) .

All’atto dell’armistizio sul vascello inglese Hannibal, i Mille erano divenuti 21mila.

Vinte tutte le battaglie, l’esercito regio dei Savoia sopraggiunse a raccogliere il risultato; il re acconsentì di sciogliere immediatamente il Corpo dei Volontari garibaldini che da programma avrebbe dovuto passare in rassegna; ma non mantenne neanche questo onore –probabilmente perché tutti mazziniani e repubblicani- e lasciò che essi si disperdessero, allontanandosi umiliati, ‘col magone’ nel cuore e la rabbia in corpo.

Accordata la “questione” dello Stato pontificio, fu compiuto il gesto dell’unificazione.   E non fu cosa da poco, se si considera che per la normale borghesia dell’epoca, Garibaldi e i suoi, erano volgari rivoluzionari ,  anticristo e banditi. 

uniforme ed arma dei

Carabinieri Genovesi

 

   Dei Mille sbarcati a Marsala l’11 maggio 1860, secondo quanto pubblicato nella Regia Gazzetta Ufficiale del 12 nov.1878, 167 erano liguri (154 genovesi); ma uno solo, Delucchi Giulio Giuseppe di Gaetano e Tini Camilla,  era nato a San Pier d’Arena il 7 nov.1841, censito scrittore e residente a Genova alla data della partenza. Appartenne alla 6ª compagnia, n. d’ordine 34, decorato, ottenuto brevetto; divenne amico di G. C. Abba che lo nomina due volte nelle Noterelle; morto a Pegli il 27 settembre 1907.

Lo vediamo ancor vivo (terzo da sin., seduto), con folta barba bianca,  in una foto del 1915, in occasione di un incontro di superstiti.

(NB non quadra se morto 1907 e presente nella foto del 1915)

  L’ultimo dei Mille, a scomparire per vecchiaia fu il genovese Egisto Sivelli, che si spense il 1 novembre 1934 (quartultimo da sin. seduti).

 

  La storia dopo centocinquant’anni squarcia qualche velo sulle mosse internazionali che interferirono su quelle locali: Inghilterra, Francia, Austria non si mossero in aiuto ai Borboni come poi neanche al Papa (tranne un poco i francesi): perché spiandosi fra loro, per motivi diversi faceva comodo un nuovo stato (per l’Austria e Francia, eserciti terrestri, avere uno stato cuscinetto; per l’Inghilterra uno debole in mare; per tutti che fosse sufficientemente dipendente da loro). Ai Savoia, deboli economicamente e con le casse vuotate dalle lunghe guerre, interessavano i ricchi forzieri dei Borboni (che da secoli non intrapprendevano guerre e quindi erano in ottime condizioni di salute: a Teano, Vitt.Emanuele si recò per prendere  le chiavi dell’erario napoletano) e le possibili conquiste.


 

 

Nel 1864 un Comitato d’inchiesta fu deputato stilare l’elenco ai fine di un riconoscimento anche pensionistico: ne futrono contati 1089. Nel 1877 fu concluso l’elenco e concessa medaglia e pensione. Altra fonte ne contava 1162. Garibaldi fornì un elenco di nominativi di non partecipanti, ma organizzatori meritevoli di stare accanto ai Mille.


Badinelli scrive che di essi 189 erano bergamaschi e 154 liguri (ma nell’elenco dei ligiuri donato al Comune di Palermo nel 1865, ne sono contati 167). Sono rappresentate tutte le categorie 100 medici, 250 avvocati, 20 farmacisti, 50 ingegneri, 50 capitani di mare, 100 commercianti, 10 artisti, qualche prete e 100 dei territori borbonici. Ma anche veterani di altre guerre, patrioti in fuga da forche o prigioni, idealisti, letterati, volontari suicidi, miseri che miravano ad essere occupati ed alimentati. Il più vecchio settantenne (genovese Tommaso Parodi), il più giovane undicenne (assieme al padre) da Chioggia; una donna non considerata combattente (Rosalia Montmasson, francese, moglie di Francesco Crispi). In 150 avevano ricevuto una camicia rossa, tutti gli altri variovestiti (Bixio in divisa da colonnello piemontese, Turr da ungherese).

   Tra i tanti alcuni sono ricordati per particolarità: Francesco Moro, perché soprannominato Baxaicò (popolano di via M di Dio, fu poi eroe anche in una alluvione del 1842). Dei garibaldini superstiti, vedi a Cristofoli pag.300.

  Poco prima dell’inizio della prima guerra mondiale, Genova dedicò ai Mille il Ponte e Molo centrali nel porto, dove erano stati “rubati” i due piroscafi di Rubattino (Piemonte e Lombardo)  che portarono la spedizione in Sicilia.

 

 

GARIBALDINI   Riportiamo, da uno studio condotto sul tema da F.Majocco e Adriano Mazza, i quali sono riusciti a catalogare i garibaldini – di tutte le campagne – che erano nativi di SPdA, o solo domiciliati a San Pier d’Arena – e che  riposano nei nostri cimiteri (vedi tombe a Porta degli Angeli: Castagna/Angeli):

=Albertini Augusto – domiciliato -

=Armirotti Valentino – nativo - (Castagna) - vedi strada a lui intestata –

=Boffi Vito –domiciliato - 

=Bonfanti Carlo – domiciliato -

=Botto Pietro Pasquale – domicialiato a SPdA -  (Castagna) - di Giacomo, nato San martino d’Albaro, età 24 , classe 1836, professione lavorante calderaio, nulla osta per conseguire passaporto per

l’estero, n. d’ord. 54379, data rilascio 5 agosto 1860 destinazione Sicilia e Napoli ( statura 1,72, capelli neri,

sopracciglia nere,occhi castani, fronte rotonda, naso schiacciato,bocca media, barba scura, viso ovale )

=Campitelli Luigi – domiciliato -

=Capisani Riccardo – (Castagna) Iscrizione sulla tomba: «Garibaldino – reduce delle patrie battaglie 1866-1867 / Marito e padre affettuosissimo / la moglie e i figli dolenti / perennemente ricordando posero / 27 aprile 1848 – 21 giugno 1914»

=Casigliani Egisto – domicialiato –

=Danovaro Lorenzo – domiciliato - nato a Genova nel 1840 domiciliato a San Pier d’Arena. Grado soldato della 15ª Divisione Turr, 4ª Brigata Sacchi, 1° Reggimento Winkler, 1ª Compagnia, n. d’ordine 550,

=Dellacasa Emanuele – nativo di SPdA – (Castagna) Iscrizione sulla tomba

«Nato a Sampierdarena il 30 maggio 1842 / Morto ai Molini di Fiaccone l’8 dicembre 1899 / La sposa e i figli / Visse intemerato, giusto, laborioso / fedele sempre ai suoi principi democratici / Seguì la fatidica bandiera di Garibaldi . Prese parte alle campagne per l’indipendenza italiana del 1860-61-66 - Istituì e presiedette la società del tiro a segno precorrendo così l’istituzione del tiro a segno nazionale; rappresentò per anni al consiglio comunale l’interesse dei suoi concittadini cooperando efficacemente alla grandezza e prosperità del proprio paese la famiglia piange tanto tesoro di operosità e d’affetto  posero la Patria, il figlio valoroso e fedele sia pace all’anima sua »

Non risulta negli elenchi ma faceva parte della Società di tiro a segno dalla quale provenivano i Carabinieri genovesi di Mosto e Burlando e per giunta risulta compreso nell’ elenco dei sottoscrittori alla criticata opera postuma di Garibaldi “I MILLE”  edita dieci anni dopo (1870-1872) proprio grazie ai sottoscrittori e ad essi riservata. Infine nel monumento funebre è ritratto in divisa (che dal taglio potrebbe essere quella dei Carabinieri genovesi) e con le medaglie delle guerre d’indipendenza.

=Didone Pietro – domiciliato –

=Galiani Silvio – nato a SPdA,1833  ed ivi domiciliato -  fu Michele, di Caterina Errico – meccanico, soldato volontario ventisettenne,  n.36 - 16ª  div. Cosenz, 2ª brigata DeMilbitz, battagl.Reduci LombardoVeneti – assentato/congedato dopo Volturno 6/10/60.  ,

=Galleano GBatta – (Castagna) o Galleani;  di Filippo e Ferrari Caterina, nato a

Genova il 1 febbraio 1843 ed ivi domiciliato, di professione commerciante, morto il 15 aprile 1896. Carabinieri genovesi, n.d’ordine 11, decorato, ottenuto brevetto.

Fratello minore di Luigi Francesco

Iscrizione sulla tomba «G.B. GALLEANO 1843 -1896  della gloriosa schiera dei Mille  1843 – 96»

( Nota= sulla lapide cimiteriale, è senza capelli al vertice mentre nelle foto giovanili aveva capelli, baffi e forse anche labbro leporino)  

=Galleano Luigi Francesco ( Castagna) o Galleani , nato a Genova il 15 agosto 1840, luogotenente di stato maggiore (divisione Sirtori), morto all’ospedale di Napoli il 3 ottobre 1860; Carabinieri genovesi, n. 10; decorato, ottenuto brevetto. Compare nell’elenco dei Mille sbarcati a Marsala l’11 maggio 1860.

=Gavelli Salvatore – domiciliato –

=Gritti Giovanni – domiciliato -

=Lagorara Stefano – (Castagna) – 1840 – 1909. Iscrizione sulla tomba : «Discepolo di Mazzini soldato di Garibaldi / Per la patria soffrì il carcere, sfidò la morte / Al lavoro consacrò la vita».

Era socio della Società mazziniana “Umanitaria” sorta a Sampierdarena il 5 novembre 1851.

Non risulta negli elenchi perché per fatalità non riuscì ad imbarcarsi né su il “Piemonte” né sul “Lombardo” che avrebbero dovuto caricarli al largo di Portofino, e il suo gruppo di volontari dovette rassegnarsi a raggiungere il Generale con la spedizione organizzata dal Bertani o con quella di Carmelo Agnetta ( giugno), dei cui 70 partecipanti non è stato possibile reperire documentazione, o con altre successive. Ma questo contrattempo nulla tolse la valoroso comportamento di questi coraggiosi sampierdarenesi che ebbero modo di dimostrare la loro bravura sia in Sicilia, sia nel continente.

È altresì citato due volte nel libro “Storia di Sampierdarena” di T.Tuvo e M.Campagnol, pag.242 ricordando che dopo l’insurrezione del 29 giugno 1859, soffocaa con molti arresti, venne assolto per insufficienza di prove, dopo parecchi mesi di detenzione”.

=Laszlo Alezand – domiciliato -

=Manduca Vincenzo – domicilato -

=Manzoni Giovanni – domiciliato -

=Marcellino Marcello – (Angeli) – iscrizione sulla tomba: «Garibaldino / 1840 – 1916»

=Mazzetti Giovanni – domiciliato - (Angeli)- Iscrizione sulla tomba: «nato a Gallarate nel 1839 , morto in Sampierdarena il 24 novembre 1914  / uomo di ammirabili virtù caritatevoli / dedicò tutta la sua vita al lavoro commerciale

e per la liberazione d’Italia fece le campagne con Garibaldi / lasciando larga eredità di stima e di affetto / e fu carabiniere genovese»

=Mendia Edoardo (Castagna) Cav.Uff. Iscrizione  sulla tomba:«Colonnello Fanteria  / Reduce Patrie battaglie  / 1839 -1914 ». Nato nel 1839 nel 1861 aveva appena l’età della leva e quindi si può ipotizzare che abbia partecipato alle “patrie battaglie” del 1861 – 1866 (27 ammi) -1870 (31)

=Negri Gaetano – domiciliato -

=Padelletti Orazio (Angeli)- domiciliato -  Iscrizione sulla tomba: «Stirpe di agricoltori e di legisti lontana dal mare / Capitano marittimo corse alla vela gli oceani / Fu a Lissa

Lavorò alla rinascita, alle fortune del porto di Genova / Libero pensatore e socialista / nato a Pistoia 1845 / morto a Sampierdarena 1915»

Partecipò alla battaglia di Lissa ( 20 luglio 1866 -III Guerra d’Indipendenza) – isola della costa dalmata in Adriatico, presso la quale fu combattuta una battaglia navle fra la flotta italiana, comandata dall’ammiraglio Persano, e quella

austriaca, comandata dall’ammiraglio Thegetoff, che si chiuse

con la sconfitta italiana. Ancora oggi i marinai della Marina Militare portano al collo un fazzoletto nero (raccolto sul davanti da un cordoncino bianco) detto il “lutto di Lissa” a ricordo di quel tragico evento.

=Paolucci Curzio – (Castagna) 1830 – 1917. Iscrizione sulla tomba :«Garibaldino / Combattè per l’indipendenza italiana / 1848-49-59-60-61 / Morì all’età di 87 anni »

Nella foto sulla tomba ha spalline intrecciate e la sciabola, da sottufficiale o comunque graduato.

Non risulta negli elenchi; dai tratti somatici (orecchie) appare essere la stessa persona ritratta in bombetta tra i superstiti garibaldini all’inaugurazione del monumento dei Mille a Quarto il 5 maggio 1915 alla presenza di

D’Annunzio, perciò se era presente conferma che ne faceva parte.

=Parodi Giacomo – nato a SPdA 1842 – di Pasquale e Vittorina_, soldato n.83, 15ª div.Turr, 4ª brig.Sacchi, 1° reggim Winkler, 1ª compagnia  

=Peretti Giuseppe

=Rota Carlo – domiciliato – vedi trada a lui intestata – (Castagna)

=Sacchi Paolo - domiciliato

=Serra Alberto – domiciliato

=Traverso Benedetto (Angeli) Iscrizione sulla tomba:«cui fu guida nella lunga esistenza il profondo amore alla famiglia, alla patria, al lavoro/ 13 novembre 1844 – 26 ottobre 1931». Nel 1866 aveva 22 anni perciò potrebbe aver partecipato alla III d’Indipendenza come testimonierebbero le due medaglie al petto.

=Viatica Gerolamo

=Zago Giuseppe – domiciliato

 

                            

 

la garbata ironia di Origone offre una visuale diversa delle camicie rosse

 

 

 

BIBLIOGRAFIA

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-Millefiore&Sborgi-Un’idea di città-CentroCivico SPdA.1986-pag.72-3

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-Badinelli D.-Provincia “garibaldina”-DeFerrari 2007-

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-Gazzettino Sampierdarenese  :    7/90.8  +  9/90.5 

-Il Secolo XIX del 10.2.05

-MajoccoF&MazzaA-ricerche personali sui ‘garibaldini’  a SPdArena..

-Morabito&Costa-Universo della solidarietà-Priamar.1995-p.170.171 dipinto

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MILLELIRE                                             salita  G.B. Millelire

 

TARGHE:

salita – G.B.Millelire – contrammiraglio – 1803-1891 – già salita Ugo Foscolo

                                                            

in basso all’angolo con via Vicenza

 

 

apice, di fronte al Santuario

 

 

 

QUARTIERE ANTICO: Belvedere

 da MVinzoni, 1757. in giallo via Vicenza; in verde ipotetico tracciato della crosa sino al santuario di Belvedere, ma che ancora non esisteva eccetto dal Santuario alla casa sottostante.

N°  IMMATRICOLAZIONE :   2803

  

da Pagano 1967-8

 

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA – n° :   38620

UNITÀ URBANISTICA: 24 – CAMPASSO

                                           25 – SAN GAETANO

 da Google Earth 2007. In celeste via Vicenza: fucsia, corso Belvedere

CAP:   16151

PARROCCHIA:  (civ.1)= s.G.Bosco  --- (dal 21 al 57, e dal 16 al 22)= Belvedere

STRUTTURA: da via Vicenza a corso Belvedere, sfocia nella  piazzetta antistante la chiesa.  Era un’erta crosa, solo pedonale o –anticamente- mulattiera, escluso l’ultimo tratto che dalla chiesa porta allo stadio Morgavi, che è stato asfaltato e doppio senso veicolare. 

STORIA della crosa:   

===LA ZONA = quando la strada romana, e poi ancora nel medioevo, passava in quota ove ora è il cimitero, ben poche erano le necessità di collegare in forma più diretta il colle con la sottostante spianata verso il torrente; non si esclude però che per dei muli o viandanti frettolosi, il sentiero già  esistesse a quei tempi in uso prevalente di ‘scorciatoia’ per collegarsi con il Campasso, ed a uso locale.   Il colle di Belvedere ha il nome che evidenzia la caratteristica della località: “Bellovidere” era per la posizione dominante sull’amena spiaggia,  ricca di orti e frutteti, con la vista che spazia dal mare ai monti alpini lontani, e più vicino Coronata e la Guardia. É quindi possibile che da epoche lontane fosse in atto una scorciatoia per arrivare lassù, o anche al Santuario nelle festività, senza fare il lungo giro dal centro paese. Però è mai citato; e nella carta settecentesca –ripresa poi dal Porro- c’è un tratto verticale che potrebbe essere interporetato come sentiero.

C’è comunque, nella carta settecentesca su detta (visibile alla “via al Molino Tuo”), in “area Cicala” la villa che ora è il civico 2 della salita; e che tutto lascia prevedere sia stata villa della famiglia.

    

inizio della salita             ingresso della Società e sbarramento della crosa   la crosa come proseguiva anni 70

 

===LA CROSA = Più  frequentata, ed allora già pavimentata a crosa, mattoni e ciottoli, la troviamo  quando fu costruito il forte di Belvedere. Questi costruito nella ‘zona della Palmetta’ (ovvero tutto il fianco di ponente della collina) diede il primo nome alla salita: “salita  forte Belvedere”; una carta del 1881 ben evidenzia l’erta stradina con questo nome. 

Gli eventi bellici del 1800 svolti nel posto (l’assedio austriaco al generale Massena), un secolo dopo favorirono (poco dopo il 1910) l’annullamento di questo nome ed il passaggio del titolo a “salita Ugo Foscolo” ( quando ancora via del Campasso non era come ora, aperta alla strada principale ed invece si prolungava comprendendola nell’attuale via Vicenza; difatti per il Novella, nei primi anni del 1900, la salita inizia da via Ugo Bassi (via Campasso) in località san Martino. E tale era ancora nel 1933.

Risale alla seconda metà del 1800 l’arco di casa, proprietà della società di MS, sotto cui passa la crosa nel suo inizio a salire.

Nel 1935, il 19 agosto, con decreto  firmato dal podestà, divenne “salita G.B.Millelire”.

   Per i sampierdarenesi della generazione 1900, volgarmente,  è la “möntâ do Römpicollo“. Ricordiamo che prima di quella data, il nome Rompicollo era dato ad una crosa nella valletta di san Bartolomeo (vedi a Rompicollo). Lamponi riporta una curiosa interpretazione tratta dal quotidiano ‘il Caffaro’ del 1 giugno 1924 nel quale l’articolista presuppose la arrancata di qualche archibugiere di Luigi XII o degli Sforza inviato per porre assedio alle mura e che – smaccato dalle difese – scappò a dirotto lungo il sentiero e  ‘si fiaccò il collo’. Ma ai tempi del re francese  - e come detto sopra- la salita Rompicollo (vedi) era a partire dalle attuali via san Bartolomeo del Fossato per arrivare alla Porta degli Angeli.  

Non precisato in quale casa, ma nella via nacque il famoso maestro d’orchestra Riz Ortolani.

Dopo il sottopasso, iniziò negli anni ’80 la ’zona drogati’ , scioccamente usi ad abbandonare a terra siringhe, fiale, cucchiaino e lacci, con complicazioni conseguenti: va e vieni di poco raccomandabili; per taluni ricerca immediata dei soldi per acquistare la dose, con aumento della microcriminalità zonale; ogni tanto overdose da soccorsi immediati in un posto impervio; infine un incendio. Tanto da generare una campagna di ribellione e rifiuto da parte dei cittadini del quartiere e della società di M.S.

Nel febbraio 1987 il ‘comitato per salita Millelire’ dopo proteste, petizioni, prese di posizione da parte dei Verdi nel Parlamentino della Circoscrizione (presidente Pietro Pastorino), decise un’azione di volontariato: un sabato mattina quindici volontari, forniti di attrezzatura dalla Nettezza Urbana, fecero opera di repulisti da sterpi, siringhe (a migliaia), detriti, ecc.

     

foto Gazzettino Sampierdarenese

 

                                                  

Ma dopo ulteriori promesse di bonifica, la decisione ‘in alto’ fu salomonica e devastante: dal 19 settembre 1991, chiusura.

Il non più passaggio, favorisce la crescita di sterpi, rovi, alberelli che diventano alberi le cui radici sconvolgono il selciato, la caduta di massi dai muretti, l’uso a pattumiera degli inevitabili ‘onesti cittadini che pagano le tasse e che insegnano a vivere ai marocchini’. Per la crosa invece: la morte.

Vanto, e gioia di avere una simile antica crosa vengono annullate da rabbia e rancore per i provvedimenti presi a suo tempo, a firma del sindaco Sansa o Merlo:  non è l’unica strada pubblica di Genova chiusa a tutti, da due cancelli; praticamente annullata come se non esistesse più, dopo aver sopravvissuto a tutte le cose belle e brutte del borgo e della città per mille e più anni, ben peggiori delle attuali. Una vera crosa  alla genovese, antica; una delle rarissime non ancora soggette alla correzione con l’asfalto, abbandonata a sé, alla natura invadente, alla cattiveria, ignoranza  e menefreghismo degli uomini ‘civili’. Dapprima l’hanno chiusa perché dicono qualcuno si era lamentato essere ritrovo -(come lo divenne anche  piazza Cavallotti, che per fortuna ! non hanno chiuso) -di drogati che si bucavano; l’ordinanza del Sindaco –pare su proposta del circolo Arci vicino- è stata un provvedimento -a dirlo educatamente- sciocco: uno stupido  “tappullo”, come se chiudere la strada avesse fatto cessare l’orrore di queste scelte: ha solo spostato i ragazzi in altra sede. Così poi l’incuria ha fatto cadere dei muri laterali, la natura vi ha fatto crescere erbacce ed alberi, alcuni abitanti della zona  -infime e primitive persone- l’hanno usata per pattumiera.

Su un Gazzettino S  viene riferito che nell’ anno ‘79 fu programmata dalla civica amministrazione una cifra di 300 milioni per il ripristino della strada; ma il Consiglio di Circoscrizione  ritenne opportuno dare altre priorità a quella cifra, rimandando ‘sine die’  la gara d’appalto, col risultato che i soldi  furono spesi altrove; e nell’anno dopo, per gli stessi lavori fu prevista necessaria una cifra doppia, con ovvio altro rinvio ‘sine die’; nel 1980 lo stesso Gazzettino scriveva che “questa strada, inserita nella toponomastica,si chiama ‘millelire’ ma dovrebbe chiamarsi ‘mille vergogne’; nel 1986 l’appellativo era ‘diseredata’ o ‘derelitta’. Poi più nulla fino al 2002 quando venne presentato il progetto di ricupero e di rivalutazione dei forti, nel quale è stato previsto il riutilizzo della crosa (come al solito, i soliti dissacranti e ‘venditori di novità pur di farsi notare’, pare abbiano progettato anche una cremagliera al posto dei mattoni e ciottoli: così il rispetto dei valori è servito).

   Su secolo XIX del 2002 fu data –due volte- piccola risonanza a similare ‘effetto cancelli’, adottato per vico s.Raffaele, vico Usodimare, salita della Rondinella, vico Neve, con tutta una massa di persone a favore ed altrettanti contro. = nel 2009 a Genova esistono 18 caruggi sbarrati da cancello. Un apposito comitato (Coo.Comi.Ge), riunito in san Siro,  ha esordito con la frase “non si risolvono i problemi sbarrando una via con un cancello”.  

 

Forse, perché è a Sampierdarena, dove malgrado se ne parli ogni tanto, nulla s’è fatto: ho il sospetto che se fosse stata a sant’Ilario ...ma il 23 marzo 05 si legge sul SecoloXIX che anche là si sentono ‘dimenticati’: creuse in  degrado, strade che non son più tali, stradine o torrenti sono sinonimi. Ma allora...

È una vergogna infatti, per tutti coloro che gestiscono le cose pubbliche: dalla delegazione alla più alta carica del governo locale.

CIVICI   

UU24=NERI da 1 e 3     e da 2 a 4                      ROSSI     da 1 a 5

UU25=NERI     7  e  9

 

===civ. 2:  Nella carta su citata, la villa appare in “area Cicala”; e lo stesso, più dettagliata ma all’estremo del disegno, nella carta del Vinzoni del 1757, attribuita ai mag.ci Cicala. Per i succesivi proprietari, Rovereto e Bertelli, vedi subito sotto alla Società di MS.

Oggi vi è ospitata la società di M.S. Fratellanza ed Amicizia; come la Spataro, è federata ARCI. Nacque in un modesto locale di via Milano nel lontano 1 ago.1893, come “S.M.S. Fratellanza, Amicizia, Speranza e Concordia” (nell’opuscolo della Società edito nel 93, gli ultimi due aggettivi non sono segnalati; sono aggettivi di origine giacobina, propagandati da Mazzini per le esigenze degli operai nel loro costante vivere in situazioni di intenso e grave disagio,  quando lo spirito animalesco ed aggressivo dell’uomo avrebbe potuto prevalere sulla logica democratica); era rivolta a tutta la gente locale che lavorando sapeva quant’era duro sopravvivere senza questi principi basilari dettati da Mazzini e rivendicati poi dal socialismo:  aiutare i soci malati o in disagiate condizioni economiche - a quei tempi in cui non esistevano le mutue né cassa integrazione - nonché promovendo, diffondendo  ed organizzando attività culturali, ludiche, e ricreative (il quotidiano Caffaro del gennaio 1898 descrive la partecipazione dei coristi della società, al Ristori: cantarono in una operetta, con tema i costumi ed indole dei sampierdarenesi, ambientata nei bagni sulla spiaggia).

    Solo il 17 ott.1909 la costituzione della Società fu legalizzata presso un notaio, ottenendo così il riconoscimento giuridico (e fors’anche il suo statuto, ma di questo non rimane traccia documentabile). Il 9 mar. seguente acquistarono per 30mila lire (sul Gazz.S è scritto 27.000; comunque 15 mila di mutuo, con autorizzazione del re Vittorio Emanuele III) dalla fam.Bertelli la nuova sede in salita al forte di Belvedere, località Palmetta, frazione san Martino: un pianoterra e 2 piani superiori, cisterna, piazzale e terreni, cintati,  e confinanti con le proprietà del marchese Negrotto. Nel Gazzettino S. si cita esistere nella salita  “l’ex palazzo marchese Rovereto”: non so dove è stata tratta l’informazione e forse fu questa la loro primitiva proprietà, ma la credo errata in quanto nella carta del Vinzoni del 1757 i “mag.ci Rovereti” occuparono un vasto terreno, ma posto a mare rispetto l’abbazia di san Martino (oggi compreso tra via C.Bazzi e via Armirotti) a meno che la casa non sia stata una di quelle molto vicine al Santuario nella parte alta.

Nel 1911-12 l’ing. APetrozzani progettò di sopraelevare e ristrutturare la sede, decorando anche la facciata con due lesene laterali ad incorniciatura ed una estesa fascia floreale sottotetto***

Con l’avvento del fascismo, la società per sopravvivere dovette aderire all’ “Opera nazionale dopolavoro”, con l’obbligo di averne la tessera di iscrizione, la possibilità di munirsi di una propria bandiera, ma modificando lo statuto in cui furono sostituti i termini mazziniani di reciproco soccorso, moralità, miglioramento ed emancipazione sociale, con i proponimenti  socialisti di cameratismo, mutualità (malattia-pensione-morte) e finalità differenti educative, morali non amicizia, ma ‘tanti nemici, tanto onore’ .

Ma la dittatura, divenendo sempre più pressante, il 14 apr.1934 , obbligò a  fondersi con la consorella “A.M.S.Muzio Scevola” (nata nel 1904, anche loro all’insegna della fratellanza ed amicizia, con sede in via della Cella), e ad assumere il nuovo nome di “Soc. MS Pietro Ballerini” (un sindacalista, probabile vittima-martire dell’ideologia fascista), uniformando statuto, attività e metodologie alla nuova realtà politica. Ciò non fuorviò lo scopo ed i principi basilari della società, tanto è vero che dei soci, i più poi,  furono  attivisti partigiani ed antinazifascisti. Nel 1937 si legge che la squadra di canto popolare di val Varenna, fu ospitata nella sede del dopolavoro Ballerini per una esibizione; su “il Giornale di Genova” del giorno 20.4.40 si leggono le disposizioni per celebrare il ‘Natale di Roma‘: la “squadra di canto del dopolavoro P.Ballerini  parteciperà al ‘raduno organizzato dal Dop.G.F.”A.Mussolini” di Genova-Sampierdarena in località Belvedere”. In quell’anno, al civ. 2 era ospitata anche la Assoc. Naz. Alpini – Belvedere.

Nel 1946 fu ripreso l’antico nome e nel 1950 fu scelta la nuova bandiera sociale; nel 1977 fu redatto il nuovo ed ultimo statuto. Nel 1990 (97° anniversario sociale) fu inaugurato il nuovo vessillo.

In una sede decorosa di 14 locali, seppur cambiate alcune attività perché cambiati i tempi, si organizzano serate danzanti (sia all’interno che all’esterno),  giochi a carte o al biliardo,  riunioni culturali, incontri sociali; si può usufruire di un bar e di un ‘cantinone’ per incontri, giovanili o conviviali. All’esterno, su tre (sul Gazz.S è scritto cinque) campi appositi, tornei di bocce o bell’aria nell’ampio giardino. Sulla facciata della palazzina si leggono tre targhe commemorative applicate dopo l’ultima grande guerra.

Soprattutto - per i più o meno duecento iscritti- si conserva e si nutre lo stesso spirito iniziale.

===civ.3 fu assegnato nel 1953 ad una nuova costruzione.

=== il Forte Belvedere. È accessibile dal cancello a sinistra che scende alla base esterna, ora area cinofili e, una volta era il fossato che circondava le mura; e da quello a destra che oggi fa raggiungere il campo sportivo.

Come ‘forte’ vero e proprio, quello attuale, nacque nei primi decenni del 1800 e fu mai utilizzato.

Inizialmente, a 114 m/slm. (Badino, pag.46 scrive 129; Tuvo-Camoagnol pag.182 scrivono 120; altri lo collocano a 215 ove invece è il Tenaglia), sul crinale degradante dal colle omonimo sporgeva verso occidente uno sperone -fatto a contrafforte naturale- che fu usato anche nel 1747 come fortilizio, compreso nella linea trincerata la quale, dal Crocetta scendeva a fondo valle.

   Come ‘postazione militare’ era già efficiente nel XIII-XIV secolo, anche se non strutturato come oggi.  Durante le aspre lotte tra guelfi e ghibellini,  era un punto di riferimento militare  a guardia del ponente e dell’entroterra polceverasco (le suore agostiniane che avevano scelto l’altura di Belvedere per ritirarsi in preghiera, causa gli scontri tra civili e le bande di bravacci minacciosi, dovettero abbandonare la loro chiesuola lasciando che subentrassero i frati della loro stessa congregazione).  Acquisì importanza nel 1507 quando Leonardo Monteacuto tentò inutilmente di arginare l’esercito di Luigi XII (il re fu ospitato al Boschetto di Cornigliano prima di entrare in città). Il re francese, assai irritato, aveva posto tutta la val Polcevera a ferro e fuoco; ed  entrato in Genova, fece giustiziare il doge Paolo da Novi e costruire la Briglia (la logica militare di quei tempi, specie se l’invasore era organizzato attraverso l’uso di leve mercenarie -quindi scarsamente  combattive  ed alla prevalente caccia di bottino- richiedeva un sistema difensivo tendenzialmente elastico, basato sul cercare di  frenare il primo impatto del nemico ed impedirgli di arrivare in forze sotto le mura a porre un assedio; ma questa ovvia tattica fu inutile di fronte alla globale superiorità francese. Dopo la guerra il fortilizio divenne ben presto obsoleto sia per la solita carenza economica a mantenere le strutture, sia per il timore di creare un valido baluardo esterno alle mura che -se catturato- diveniva un grave punto di forza per il nemico, specie dopo con le mura portate dalla Lanterna agli Angeli e quindi più vicine e vulnerabili; sia anche e soprattutto per il continuo evolvere delle tecniche e delle armi impiegate).

Fu anche Luigi XIV a coinvolgere le truppe del fortilizio, quando nel 1684  (dopo aver bombardato Genova dal mare per cinque giorni, sparando migliaia di bombe in città, dove molte case ancora di legno, bruciarono aumentando il caos),  tentò uno sbarco con tremila uomini, sulla spiaggia di San Pier d’Arena-nonché al Bisagno ed Albaro-: ma le armate genovesi, scese dal fortilizio ed aiutate dalla popolazione stessa esasperata, costrinsero gli attaccanti a ritirarsi e reimbarcarsi. Ciononostante Genova dovette capitolare e l’umiliazione più grave fu il viaggio a Parigi del doge (il famoso “mi , chì” al quesito del sovrano di cosa di più lo avesse meravigliato a Versailles).

   In conseguenza di questa bruciante sconfitta, il Magistrato di guerra arruolò alcuni ingegneri con provate esperienze militari, per predisporre le difese (non solo di Genova, ma anche di Gavi, Alessandria, Serravalle ecc. considerata sempre prioritaria la necessità di predisporre delle fortificazioni a corona allo scopo di  creare ostacoli -i più validi possibili- prima che il nemico potesse porre un assedio): in particolare, più validi si dimostrarono il capitano Pierre DeCotte (al lavoro dal lug.1745) e l’ingegnere - in grado più elevato nell’esercito spagnolo  - don Jayme Sicre (o alla francese Jacques de Sicre o Sicher, al lavoro dal nov.1745).

Dall’apr.1747, la zona fu ristrutturata dal DeSicre, aiutato da un gruppo di ingegneri francesi (Morel de Conflans, Vialis, Verrie, Dibusti; Rocher gravemente malato, morirà ai primi di maggio):  San Pier d’Arena fu tutta circondata da multipli trinceramenti lineari, dal Crocetta sino al Polcevera,  e Belvedere divenne un caposaldo avanzato difensivo, volutamente molto elastico ma nel contempo punto fermo difficilmente superabile da eventuale nemico attaccante, munito di 12 pezzi di grossa artiglieria in parte piazzati vicino alla chiesa ed in parte negli orti sottostanti, protetti da parapetti: un presidio controllato da alcuni picchetti di “truppa regolata” costituita soprattutto da paesani, e da arricchire -all’occorrenza- con un migliaio di uomini e con la protezione dal Tenaglia, il tutto sotto la suprema direzione del Commissario generale Gaspare Basadonne che, nel convento attiguo aveva il suo quartiere generale: chi avesse posseduto questo crinale, avrebbe avuto la capacità di decidere e coordinare la difesa o l’attacco della città, dal ponente: attaccanti furono in quell’anno, dal 12 giugno,  gli inglesi dal mare e 60mila imperiali austriaci da terra, guidati dallo stesso Botta Adorno di ritorno dall’umiliante ritirata legata alla ribellione (5 dic.1746) alimentata dal Balilla: appostati a Cornigliano, e sulle colline di Sestri e  Coronata, da là potevano controllare la strada a ponente e bombardare il borgo di San Pier d’Arena favorendo l’appoggio alle fanterie -lanciate tramite il ponte e lungo la Polcevera- contro le difese (25mila uomini per tutta la città). Come previsto l’attacco austriaco si infranse progressivamente lungo i trinceramenti periferici, senza mai intaccare la città. Dalla postazione di Belvedere, trincerata in gabbioni di terra collegati con camminamenti ed utilizzando case e muri esistenti, contrapposta a Coronata,  vi fu solo un fitto scambio di tiri di artiglieria  che causarono però gravissime perdite in entrambi i campi (già assottigliati pure dal vaiolo), facendo perdere però all’attaccante il vantaggio del primo impeto e creando una situazione di stallo -per fortuna lontano dalle mura. Ciò malgrado, la situazione genovese lentamente volgeva al peggio  quando per fortuna all’improvviso, nella notte del 5 luglio, l’esercito austriaco dovette togliere spontaneamente l’assedio per andare a fronteggiare i francesi in arrivo dal Monginevro, spostando là la zona di guerra.

   Così, alla luce delle nuove tecniche di guerra,  dodici anni dopo si preferì  armare in miglior misura il forte Tenaglia (più lontano da Cornigliano, con maggior raggio d’azione essendo più in alto in quota (a 217 m/slm) e con muri più protetti), ritenendolo quindi più idoneo ai nuovi sistemi di difesa contro le nuove potenti armi di offesa.  Il fortilizio di Belvedere rimase disarmato, ma primo punto di riferimento per tutti i trinceramenti e ridotte -tra loro comunicanti- fatti, poi distrutti, poi ristrutturati, che dal Tenaglia arrivavano sino al Polcevera. 

   Fu il maggiore Michele Codeviola, nel 1780, ad auspicare al Magistrato delle Fortificazioni la costruzione di un vero forte sul crinale di Belvedere quale necessario ampliamento della catena difensiva esterna: ma come sempre, appena passata la bufera, le buone intenzioni si infransero contro l’economia, la burocrazia, le mille opinioni diverse che facevano accantonare i progetti.

   Nel 1797, quando Genova decisamente fu coinvolta nell’orbita francese, contro essi si sollevarono dei popolani della Polcevera: i rivoltosi furono guidati verso le mura, ma prima che vi si avvicinassero  furono affrontati e decimati dal generale Duphot, in un breve scontro proprio nelle terre del Belvedere; sottolineando l’importanza della posizione, se non altro come osservatorio avanzato sulle posizioni nemiche.

 

il colle ed il forte, visti da Coronata (ove erano insediati gli austriaci nell’assedio)

in alto a sinistra, il forte visto dalla torre di palazzo Serra-Monticelli

   A dar ragione al Codeviola provvidero anche i fatti successivi: fu da questo caposaldo fortificato che il 22 apr.1800 agli inizi del famoso assedio di Massena, due battaglioni francesi attaccarono il reggimento austriaco comandato dal colonnello Nadasky, che da Cornigliano si era avvicinato  lungo la marina fino quasi al ponte levatoio della Lanterna, superando di slancio le difese franco genovesi di San Pier d’Arena nel tentativo -progettato dall’Hohenzollern- di un colpo di mano a sorpresa. Furono ricacciati verso il Polcevera,  lontano dalle mura, prendendo prigioniero il colonnello. E come cento anni prima, fu da qui -contro le postazioni nemiche attestate sul colle di Coronata- che si scambiavano colpi di artiglieria pesante. Così -sino alla fine dell’assedio- la posizione fortificata fu provvidenziale aiuto nel tenere lontano dalla città le truppe nemiche (ma a significato della esasperazione dei nostri concittadini, terreno di battaglia tra i due contendenti, i francesi denunciarono che alcuni abitanti avevano sparato dalle finestre sui propri soldati, e che un ferito -caduto sulla strada- era stato finito a colpi di calcio di fucile dai contadini). Ma altrettanto divenne chiaro che se la postazione andava in mano al nemico, diventava – con le armi ora in possesso - punto di attacco alle mura, rendendole insufficienti alla difesa (una breccia indifendibile).

 

   

 

  Iniziarono così dei lavori in epoca napoleonica (fu il Corpo imperiale del Genio francese, lord William Bentinck, che fece iniziare la lunetta del forte alta due piani rivolta verso nord, circondata da un corridoio interrato e da un fossato con ponte levatoio; il forte, aveva pianta trapezoidale, un terrazzo al colmo sostenuto da spesse volte capaci di non cedere allo scoppio di bombe e protetto di robusti parapetti a riparo dell’artiglieria; con una torre trapezoidale ).

Ma dal 16 dic.1814 (data ufficiale della comunicazione a Genova della sua annessione al regno di Sardena, divenendo “ducato”), e in particolare dal 1817 al 1827, ad opera del maggiore D’Andreis del Corpo reale del Genio piemontese, avvennero  le definitive ed attuali modifiche, ottenendo allo scopo importanti disponibilità finanziarie, con l’erezione di un vero e proprio forte.

 

                   

Un progetto iniziale, prevedeva usufruire del terreno ove sorge la chiesa, che sarebbe stata demolita; per logica fortunata, fu deciso costruire più sotto dove già erano le basi del fortilizio ed i suoi sotterranei.

 

Fu disegnato a pianta pentagonale asimmetrica per una superficie di 36.079 mq., con una appendice centrale -a forma di punta di freccia- rivolta verso sud-ovest sfruttante una piattaforma avanzata (così capace di controllare i due fianchi); circondato da largo fossato (usabile anche come trincea avanzata; oggi area cinofila);  a tre piani rinforzati, con muri e volte a prova di bombe, una torre trapezoidale – a sostituire una casa preesistente - capace sia di svolgere il ruolo di sentinella ed avvistamento, sia di base delle più potenti armi da fuoco; i vari spiazzi interni separati da ponti levatoi).

Nel lento progredire, il governo sabaudo  continuò le modifiche, finendo anche i  due baluardi (quello grosso, pentagonale, detto lunetta  con punta triangolare verso Certosa ed uno a punta verso il mare e la foce del Polcevera, quindi detto freccia,  per poter controllare da lassù tutta la valle, e  ponendo sulla torre nuove bocche da fuoco, raggiungibili attraverso camminamenti interrati, e con migliorie alla struttura generale mantenendo la pianta pentagonale, il tutto in funzione di adattamento al terreno. Poteva essere presieduto da una ventina di soldati, raddoppiabili in caso di necessità.

   Nella rivolta del 1849 contro i piemontesi, una compagnia di bersaglieri salì fino alla chiesa; un ufficiale di Stato Maggiore con tre soldati si avviò alle mura intimando la resa, e senza neppure sparare un colpo fece arrendere il presidio e rimase in custodia del forte.

   Ma il progresso precipitoso delle armi pesanti, richiese ancora negli anni dopo ulteriori trasformazioni come l’abbattimento della torre perché ostacolava l’angolo di tiro dei pezzi; ed il ricupero –colmando il fossato- di una lunga piattaforma -protetta lato mare da alto margine- per ospitare ed adattarvi sei grossi calibri di lunga portata a difesa prevalente del porto. Dallo studio delle planimetrie, si potranno rilevare le continue trasformazioni ed il riconoscimento di tratti  di muro variamente sfruttati nei secoli.  

Nel 1889 il Forte fu di nuovo pesantemente modificato, demolendo la torre, e realizzando un piazzale e dieci casematte interrate; ed abbattendo le strutture esterne; anche il nome cambiò in "Forte e Batteria Inferiore di Belvedere" e l'unico resto originario rimase la Lunetta. Così mutato fu adibito alla difesa del porto, e armato con due cannoni da 16 pollici GR.Ret / ghisa rigata, a retrocarica), quattro obici da 15 GR (Ret), e due mitragliatrici; e nel nuovo piazzale sei obici da 28 GRC.Ret /ghisa ricata cerchiata a retrocarica). Inoltre, davanti al santuario fu realizzata una piccola fortificazione con 4 obici da 24 GRC (Ret); e sulla freccia poste delle mitragliere. La batteria Superiore fu piazzata davanti al Santuario armandola con quattro obici da 24; questa struttura è ora da base al circolo sociale., nel cui piazzale è la lapide che intimo «Prima dei tiri smontare /  la cancellata antistante / al ciglio di fuoco / A.Gualtieri ».  Tutte armi che nel primo evento mondiale furono trasferite al fronte orientale.

 

    

 

.-      

  l’area cinofila

 

  Ma negli anni, cambiati i rapporti internazionali, il forte perdette valore strategico, come anche le Mura del 1630: l'ipotetico pericolo ora erano possibili attacchi dal mare e con moderne artiglierie  che rendevano obsoleti i sistemi difensivi murari. Lo sforzo organizzativo nazionale  previde così migliorare le difese verso il mare e lungo tutta la costa, ed abbandonò il forte  - che divenne un'opera inutile e privato di ogni elemento bellico.  A maggior ragione allo scoppio del primo evento mondiale del 1915-18, quando tutte le armi furono trasferite e quando la città fu dichiarata ‘aperta’.                                                                                                                        Si scrive che alcuni vani interrati della batteria superiore furono utilizzati durante il ventennio fascista quali ‘camere di punizione’: lo testimonierebbero delle scritte sui muri.                                                                                                                      Durante l’ultimo conflitto mondiale, il forte fu parzialmente riattrezzato munendolo di  batteria antiaerea da 76/45, composta da quattro cannoni da 76/45 e dai servizi necessari.                                                                                                                Dopo l’8 settembre  1943 la struttura fu occupata dai tedeschi che tennero fino alla conclusione del conflitto.                                                                                              Una delle casette di uso logistico, nel dopoguerra ospitò centinaia di immigrati. Negli anni '70, ad opera di Rino Baselica, vi fu realizzato il campo sportivo titolato "M. Morgavi”.

   Delle opere ottocentesche rimangono dei vaghi resti, visibili lungo il pendio; nel forte, certi locali sotterranei (detti delle riservette) parzialmente utilizzati come depositi dagli addetti al campo sportivo; si intuiscono alcuni camminamenti, i segni dei binari per il trasporto dei proietti, alcune feritoie e i due terrapieni; tutt’intorno, un ampio fossato, a tratti pianeggiante per riempimento e soffocato dai rovi.

La zona, già programmata come parco urbano, ha un’area liberalizzata per i cinofili.

      

===civ. 4  lo stadio di calcio dedicato a Mauro Morgavi (dal nome del ventisettenne sampierdarenese morto il 2 ago.1973 per un improvviso infarto mentre stava giocando una partita nel campo sportivo di Vobbia; poi sepolto nel cimitero di Voltaggio. Ricordato e compianto per le sue doti morali, per la signorilità sportiva e per la simpatia che aveva conquistato nel mondo dello sport dilettantistico locale e del lavoro nella ditta Comer di via C.Rota).

      

Rino Baselica (a sin)          il giovane Maruro Morgavi    viste da nord, le mura del forte sulle quali è il campo

sullo spiazzo del campo 

  Negli anni 1970 il consiglio direttivo della “US Sampierdarenese ‘1946’”, comunemente chiamati “i Lupi” dallo scudetto scelto,  prese atto che era praticamente senza un campo ove allenarsi e giocare. (La società, nacque appunto nel 1946 durante una riunione nel bar Castello di via Giovanetti -sulle ceneri della neonata e di maggiori speranze Sampdoria-, con volute caratteristiche locali dilettantistiche, magari in sintonia di collaborazione con la squadra maggiore. Iniziò a giocare nel campo “Bertorello” alla marina, ma che ben presto andò distrutto. Da allora la squadra fu costretta ad emigrare nei vari campi delle delegazioni vicine –specie al Bacigalupo di Cornigliano-. Nel 1947 completando le 47 partite previste senza sconfitte, scalò alla categoria superiore, nel Campionato di Promozione. Questa Dirigenza, sino al 1970 era stata ospitata nei fondi della villa Scassi (e faceva parte di una polisportiva, perché nel tempo non aveva compreso solo calcio giovanile maschile ma anche quello femminile, nonché gestendo un NAGC; un settore giovanile composto da giovanissimi, giovani, allievi A e B ed Under-20; pugilato; pallavolo; karate e sci).

   Individuata l’area idonea per un campo sportivo, l’idea fu fortemente voluta dalla società dando iniziale incarico di progetto all’ing. Giampaolo Campodonico; primi responsabili pratici furono Rino Baselica ed Enrico Fagnola. Oltre rilevare dal pastore Pinto Tomaso la concessione dei 10mila mq di terreno di proprietà del Demanio e quindi dell’Intendenza di Finanza, si dovettero comperare altri 3300 mq  contigui da una proprietà privata. Questi lavori andavano a completamento di una progettata ‘collina dello sport’, in quanto il Comune già allora si proponeva per costruire in corso  L.Martinetti, vicino alle scuole, anche una piscina, campi da tennis e palestra.

    Dopo i primi passi burocratici, nel 1972-3 si diede avvio all’idea con la pratica costruzione del campo: sulla inutilizzata spianata del forte di Belvedere, con il volenteroso contributo del comm. Salvaneschi dapprima, e poi di Rino Baselica presidente subentrante (nato ad Arquata, contitolare col fratello di un grosso mobilificio collocato nel palazzo Serra di via Daste, giornalisticamente chiamato col soprannome Ribas, fu vulcanico promotore di innumerevoli iniziative, tra cui oltre la presidenza della Sampierdarenese calcio fino al  1976, lo stadio,  la Radio Sampierdarena1 e poi Radio Lanterna, e la UOES (unione operatori economici Sampierdarena); risiedeva in via Buranello; morì in ambulanza mentre veniva trasportato al PS d’urgenza,  a 72 anni il 21ott.1994); coadiuvati da uno stuolo di volontari (tra cui Fagnola, ed anche Marco Morgavi, fratello del giocatore scomparso e per un periodo presidente della società) e sovvenzionatori (tra cui Comune, CONI, Federcalcio, Regione, compresa l’iniziativa porta a porta denominata ‘Mille-lire per ogni famiglia’ ) si procedette a sbancare, trivellare, riempire con gabbioni di pietre e muri di contenimento per –infine- spianare il campo.

   Nel 1974, con il presidente Rino Baselica si decise di dedicarlo al giovane Morgavi.

   Spesso al limite sopportabile, con la frequente ed incombente minaccia da parte delle autorità di interrompere i lavori e di far fallire tutto perché ne intravedevano abuso edilizio ed invasione di terreno del Demanio, la spuntarono il Baselica ed i suoi più vicini collaboratori perché nel pomeriggio di sabato 8 mar.1975 il campo fu inaugurato (la squadra della Sampierdarenese 1946 risultò vincente nel derby di delegazione col DonBosco per 3-1, padrini gli ex-nazionali Bernardini e DePrà che diedero il calcio d’inizio).

   La cerimonia protocollare dell’inaugurazione avvenne la mattina dopo, sotto una pioggia continua, con taglio del nastro effettuato dalla madre di Mauro Morgavi,  con benedizione e discorso di don Ferrari, presenti le autorità degli Enti Locali, sportive con atleti giovani e vecchi e delle Associazioni (anche se per inerzia burocratico-politica, in quel momento il campo non era stato ancora dichiarato ufficialmente agibile, né confortato di sicura manutenzione, privo di illuminazione, in pieno caos organizzativo in ‘alto loco’ comunale che tra breve -1981, per la somma di 200 milioni con IVA- ne diverrà proprietario).

                                      

 foto Gazz.Sampierdarenese - ingresso            i primi spogliatoi                                            il confine a levante

    Anche la conservazione di questa operazione richiese lotte, ansie e lacrime  essendo collegata-dipendente da  problemi complessi, ingarbugliati, di difficile appianamento e non risolti ancora nel 1994: per i debiti aperti sia per la cifra d’acquisto che per i lavori di sbancamento (comprese tre bombe trovate inesplose dalla guerra) e di manutenzione ordinaria e straordinaria; per natura avversa (nell’inverso ‘78-79 un intenso temporale con galaverna distrusse la recinzione, l’illuminazione ed altoparlanti: il Comune si rifiutò di partecipare alla riparazione non essendo il campo riconosciuto né approvato nella sua esistenza: la squadra dovette disputare gli incontri in campi avversari);  per denunce da inadempienze (sovvertimento dell’assetto idrogeologico, concessioni demaniali non regolarizzate);  per costruzione abusiva (Il Comune, soggetto ad avvicendamento elettorale degli assessori, si espresse con alcuni di essi che premiarono i costruttori con medaglia d’oro e benemerenze e che offrirono la segnaletica o degli alberi,  altri che denunciarono alla Pretura l’abusività; alcuni che non concedevano l’agibilità, altri che la promettevano in sanatoria ma dietro approvazione della Sovraintendenza la quale con proprio iter disse di si, con alcuni ma..; intanto i dirigenti furono ridenunciati dal Reparto edilizia pubblica  nel 1987, e  quattro anni dopo ci fu una condanna in pretura per costruzione abusiva illecita in zona demaniale storica ed a destinazione a verde pubblico, quindi soggetta a vincolo ambientale e paesaggistico); per ottenere i requisiti dalla USL (specie l’impianto elettrico); per la necessità di favorirsi -prima e dopo l’inaugurazione- la fattiva collaborazione  della regione, degli assessorati comunali (urbanistica, patrimonio e sport), del sindaco (all’inizio Pedullà; poi Cerofolini e via via gli altri), di banche, di privati, della gente, fino alla presidenza del consiglio.

     Nel 1984 vinse il Campionato di Prima categoria (allenatore Bussolino); nel 1995 e nel 1999 quello Promozione (ambedue allenatore Mango Pino).

       Dal marzo1993 sappiamo della presenza –in una area vicino al campo di calcio- di una pista per automodelli, gestita dall’Associazione sportiva sampierdarenese Speedy Cars Automodelli (nel 2004 un contenzioso tra questa società (vincitrice in tribunale) e la dirigenza dell’US Sampierdarenese Calcio 1946 ha rivelato un attrito tra esse, nato per una legislazione federale calcio che impone sia impedito l’accesso di estranei nei pressi degli spogliatoi durante le partite, per cui i secondi avevano posto catena e lucchetto impedendo il passaggio alla SCA)

    Dal 1999 la dirigenza della “U.C.Sampierdarenese ‘46 ”  ha avuto in concessione il campo dal Comune; e vi  ospita i suoi giocatori soprannominati “Lupi”. In quel tempo, promossa la squadra al livello superiore dell’eccellenza, si dovette studiare di ingrandire ulteriormente l’area per renderla idonea alla categoria raggiunta.

    Così il 4 ottobre 2003, merito una collaborazione d’intento tra l’Amministrazione civica (pubblica) e la Società sportiva (privata; presidente Gino Grasso) furono inaugurati sia il ‘campo a sette’ in erba sintetica che i nuovi spogliatoi (l’erba sintetica –omologata e sovrapposta alla terra battuta- permette essere utilizzata ininterrottamente 24hx24x365gg. garantita per 10 anni, giocare più moderno con scivolate e rovesciate e -posta sul terreno a schiena d’asino- far defluire l’acqua piovana; ovviamente ha i suoi inconvenienti iniziali: il costo= 200-400 mila euro; la manutenzione=2mila/anno; l’assestamento per i giocatori a livello di articolazioni (pubalgie, distrazioni), contratture, fatica).

   Nel 2005, appena rifatto il fondo, i Tecnici federali bocciarono lo stadio per incontri di Promozione ed Eccellenza causa misure ridotte (problema di difficile soluzione). È scritto che nel 2006 la soc. Sampierdarenese paga al Comune come canone d’affitto, la somma di 974,08 euro annuale. Nel campionato 2006-7, alla guida del ‘mister’ Siri,  milita in Eccellenza dopo aver vinto i play off.

   Da oltre trent’anni esiste anche la “Sampierdarenese-SerraRiccò” femminile, chiamate “Lupette” anche se sembra abbia poche radici nella nostra delegazione visto che debbono giocare ed allenarsi in ValPocevera. Dopo 5 anni di direzione da parte del sig. Mignone, dal 1978 il Consiglio Direttivo divenne composto da Manlio Valente=presidente; Bruno Olivieri &Lucio D’Oria=vicePres; Franco Urbano=segret; Filippo Poggi=dirett.sportivo; Mimmo Ottonello&Teresa Gallione=allenatore; e vari consiglieri, medici, ecc..   Vinto il campionato di serie C nel 2001, dopo aver sostato in B alcuni anni, sono approdate dalla serie A nel 2005. Forti di una sessantina di socie, hanno anche alcuni elementi in nazionale.

 

  

===civ. 5   forse era il numero di qualche porta. Oggi un cancello da adito ad un vasto spiazzo posto a sud delle mura, sottostante ad esse. Fu ripulito dai volontari di detriti, sterpi e rovi, ed adibito a zona chiusa per addestramento dei cani. L’oasi fu scelta e poi concessa nel 1997, per evitare che i possessori di animali si concentrassero nei giardini posti tra Belvedere e corso Martinetti.

===civ. 7  bassa, antica costruzione. Ha una pietra a terra, con inciso un    “ TD “ di significato non conosciuto. Di proprietà comunale, come forse anche il civ. 9; dal 2003 ambedue protetti e tutelati dalla Soprintendenza per i beni architettonici della Liguria, e catalogato come ‘immobile’ unico.

 

 

civ. 7                                                                                  immagine votiva sopraporta del civ. 7

===civ. 11 un cancello di ingresso alla villa Lomellini, descritta in salita Belvedere

 

nella terza foto in alto, l’antico sbocco della crosa di fronte al Santuario

 

 

DEDICATA  all’ufficiale di marina, nato l’11 nov.1803 nell’isola della Maddalena, da GiòAgostino e da Santa Zicavo. Morì a Genova, sepolto a Staglieno, il 29 dic.1891 (nel boschetto irregolare del Pontatto, tomba n. 319).

Figlio d’arte, perché suo padre Giovanni Agostino (1758-1816) era stato maggiore nelle regie armate sarde, e comandante dell’arcipelago della Maddalena dal 1798 al 1816; e perché lo zio Antonio (1765-1830) divenne direttore del regio arsenale ed ispettore di sanità a Genova; mentre lo zio Domenico (1761-1827) era stato un eroico nocchiero della regia  marina sarda, ammirato dallo stesso Nelson,  primo ad ottenere una medaglia d’oro al V.M., istituita da Vittorio Amedeo III- avendo vittoriosamente difeso, nel 1793,  l’isola della Maddalena contro gli attacchi della squadra navale francese del Direttorio, e ripetendosi poco dopo a Caprera; promosso  ufficiale,  divenne comandante di porto di Genova. Nel 2006 l’attuale erede  (marchesa Guendalina Millelire-Albini di Campo Fregoso) vive a Bergeggi (SV), nobile un pò decaduta avendo perduto castello e proprietà.

Avviato alla carriera militare in marina, entrò fra i primi  nella scuola istituita nel 1815 da Giorgio Andrea De Geneys divenendo guardiamarina (subito dopo la restaurazione, G.A. DeGeneys  -per ordine del governo sabaudo- riorganizzò la marina militare in un’epoca di enormi e fondamentali trasformazioni: dalla vela alla propulsione meccanica, dal fasciame in legno agli scafi corazzati, con armi da fuoco più perfezionate precise e potenti. Divenendo così il creatore della attuale Accademia Navale e della  Marina Militare Italiana )

     I Millelire, diplomatosi  tra i primi nel 1820, col grado di sottotenente di vascello  subito ebbe modo di distinguersi nella battaglia di Tripoli contro il Bey combattendo valorosamente il 25 sett.1825 come comandante responsabile della lancia-grande mandata dalla nave Maria Cristina (comandata da Luigi Serra e facente parte della squadra di Sivori) contro una goletta (la scusa ufficiale della dichiarazione di guerra fu la soddisfazione contro un affronto economico fatto dal Bey al re Carlo Felice e non riparato, anzi rincarato: con il Bey era stato stipulato un accordo antipirateria – che aveva base nel porto di tripoli - pagando salata somma perché compensasse il naviglio in porto dei ‘mancati introiti’; incassata la cifra, iniziò il gioco al rialzo pena l’annullamento dell’accordo. Se a quei tempi, in rapporto ad un esasperato senso dell’onore - tra ufficiali - era usuale per ogni minima inezia un duello, tra i peggiori affronti era la mancanza di parola. Il lato pratico fu distruggere l’arsenale che ospitava impuniti ed armava gli ultimi terribili corsari del mare): gli furono conferite le insegne di Cavaliere (dell’ordine militare dei ss.Maurizio e Lazzaro) a cui seguì la promozione a tenente di vascello.

   Si distinse nel 1826 nella guerra greco-turca, quando la flotta sarda fu unita alla austro-franco-russa, soprattutto per stabilire l’atto di presenza nel consesso internazionale (cosa meglio ribadita poi dal Cavour nella guerra di Crimea); contro dei pirati greci ai quali ricuperò un bastimento commerciale sardo depredato; nel 1830 e 1833 ad Algeri per gli stessi motivi di Tripoli, tanto da meritarsi alti riconoscimenti anche internazionali (nel 1843 per atti di eroismo ad Algeri ove era scoppiato un grave incendio nei magazzini francesi, il governo di Luigi Filippo lo nominò ufficiale della Legion d’Onore).

   Nel 1833 era comandante dello Zeffiro quale capitano di corvetta;  nel 1835 della corvetta Aquila quale capitano di fregata; nel 1843 della fregata Bertoldo quale capitano di vascello. Sempre impegnato sul mare, in missioni di pace, di guerra, di protezione dei consoli e della marineria commerciale.

  Fu inviato a Trieste nel 1845; nel 1848 nella prima guerra di indipendenza fu al comando della fregata ammiraglia san Michele, anche se fu inoperoso per mancanza di duelli navali).

   Concluse la carriera con la carica di contrammiraglio e comandante del Porto di Genova nel 1849 (in quegli anni venne prolungato il molo nuovo di 60m, vennero aperti i primi bacini di carenaggio, iniziarono i primissimi collegamenti ferroviari, compreso l’apertura della galleria del Passo Nuovo (1854-8) sotto il promontorio di san Benigno per iniziativa del municipio di San Pier d’Arena ).

   Dopo aver servito con onore e fedeltà quattro re (da V.Emanuele I a Carlo Felice, Carlo Alberto, V.Emanuele II), fu collocato a riposo e ricette dal quinto re Umberto I una medaglia commemorativa per i servizi resi  alla corona.

 

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MINOLLI                                      piazzetta dei Minolli

 

TARGA: piazzetta – dei - Minolli -  Già Piazza Savoia

                                                         

   

 

QUARTIERE MEDIEVALE:   Canto - Castello

 da MVinzoni, 1757. In fucsia la chiesa della Cella; in celeste villa Cambiasio. La piazzetta era tutta spiaggia anonima.

 

N° IMMATRICOLAZIONE:   2804,    CATEGORIA: 3

 da Pagano 1967-8

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA - n°:    38720

UNITÀ URBANISTICA: 26 - SAMPIERDARENA

 da Google Earth 2007. In fucsia la chiesa della Cella; celeste villa Cambiaso.

 

CAP :   16149

PARROCCHIA : s.M. della Cella

STRUTTURA:   tratto che unisce via San Pier d’Arena a Lungomare G.Canepa,  di fronte alla villa  Cambiaso (ex-pretura).

Bisenso veicolare.

È servita dall’acquedotto DeFerrari Galliera.

 

CIVICI

2007= Neri:  1

           Rossi: dispari da 1r a 7r; e da 2r a 4r.

 

STORIA:  La piazzetta era già formata all’epoca -1757- della carta del Vinzoni, posta di fronte alla villa Cambiaso; è pensabile, vista l’importanza del proprietario della villa, che fu lasciato spazio vuoto davanti perché lasciava adito alla vista del  mare  per le numerose stanze di essa che prospettano a sud.

In questa carta, la villa Cambiaso a levante confina con la proprietà del mg.co Giorgio Spinola, che davanti ha la spiaggia; dalle due proprietà due rivoli d’acqua convergono in unico torrente centrale che sfocia in mare e che è chiamato “sc.di St Antonio”. A ponente, la villa è affiancata da una serie di case: di un Mongiardino; da quella dei figli (?) di Pittaluga; da quella dei RR.PP. della Cella e - ultima ad essere aperta sulla piazza - del sig. David Giordano; invece la spiaggia – sempre a ponente - è limitata da una costruzione di piccole dimensioni (affiancata da una lunga descrizione, praticamente illeggibile, su due righe sovrapposte:  “.....Giu..zaio..piazza? com...”) seguita da una grossa casa (attribuita a non precisati  “mag.ci C.O.”).

 

   Agli inizi del 1900 si chiamava piazza Savoja (altrove ‘Savoia’),  in onore della casa regnante, e facilmente memorizzabile per la presenza dei bagni omonimi.

   

   Il 17 ago.1903 vide inaugurare il caratteristico chalet del “Club Nautico Sampierdarenese”: una struttura a palafitta in legno pitch-pine progettato dall’arch. Giuseppe Ratto, comprendente un ampio salone, animato ed ameno posto di ritrovo associativo, alcuni uffici, e la possibilità di proteggere una quindicina di barche di ogni dimensione. Rimarrà eretto fino al 1927 quando -per consentire la costruzione del porto, venne smontato per essere ricostruito sul lido di Pegli anche se un poco modificato. La sede fu trasferita nella palazzina ex-Croce d’Oro in via Sampierdarena, ove esiste tutt’ora*** (nel 1951 fu  organizzatore di una gara velica notturna, resa magica dalle luci delle numerose imbarcazioni e dalle fotoelettriche del Genio Militare. Lo sbocco al mare attuale del club, dopo varie peregrinazioni, è a Punta Vagno. Era sede anche della “scuola di vela C.N.S” e della sezione “Canottieri”; i velisti sampierdarenesi erano tra i migliori del Mediterraneo, sia come conduttori sia come costruttori: nomi come Luigi Oneto, Gilberto Pestalozza, Nicolò Russo, oggi sono sfumati nel nulla, ma in quegli anni di primo secolo, erano fonte di gloria e di  orgoglio cittadino, vissuto con la stessa intensità di una vittoria oggi della squadra di calcio del cuore, specie nell’edizione annuale della “coppa Città di Sampierdarena”.

   Tale era ancora nel 1933, di 5.a categoria, con un solo civico; solo il 19 agosto 1935 su delibera del Podestà, avvenne il cambio del nome con quello attuale.

Nel Pagano 1940 è descritta ‘da via N.Barabino’ con solo un civ. 1n di Bianchi St&Figli, ard.

   Sino al 1988, quasi metà dello spazio a ponente era occupato da un rivenditore di laterizi; quando chiuso l’esercizio, lo spazio della piazzetta da lui occupato è rimasto recintato a sottolineare che quel terreno della piazzetta, è ‘privato’; mentre a levante, al 7rosso dal 1991 è un distributore di benzina.

 da Lungomare Canepa – 2009

 

DEDICATA  L’ideale per ogni armatore, sia di piccola imbarcazione che di grossa nave, avere un carico pieno, sia all’andata che al ritorno. Ma prima dell’avvento dei brokers organizzatori - dopo il 1800 - questo era raro succedesse: una nave portava un carico e poi spesso tornava vuota. Ma vuota, non appesantita se non dal carico delle vele in alto, sul mare un po’ mosso o col vento forte, non era raro addirittura il rovesciamento. La necessità di provvedere ad un peso stabilizzante, fece nascere questa caratteristica e tipica figura marinara del zavorratore (la zavorra era “a saura”, e il potarla era “saurâ”), cioè a quei trasportatori di sabbia, e non ‘zetto’, da caricare dentro le stive delle navi quale carico fittizio necessario per far mantenere alle navi -vuotate del loro carico reale- il pescaggio in mare e di conseguenza la stabilità e l’equilibrio, pena lo scarrocciamento nel mare mosso, fino al ribaltamento. In ‘cuffe’ o sacchi pesanti, il materiale veniva raccolto sulle spiagge, trasportato con barche a carico quasi a pelo d’acqua sino alle navi, dalla barca alla stiva in un interminabile numero di viaggi su assi mobili a seconda delle condizioni del mare, depositato lungo la chiglia, ed infine livellato per assicurare la massima stabilità.

   Ovvia l’operazione inversa quando la nave arrivava vuota e doveva essere szavorrata per essere caricata. Necessario era non perderla, sia per non alzare il fondo del porto, sia per la fatica che comportava possederla.

   Etimologia, il termine non ne ha, non risultando dedotto da alcuna parola precedente. Rimane quindi un nome a se stante, nato senza una evoluzione linguistica, anche se il mestiere è antichissimo. Da alcuni è fatto derivare dal latino ‘minarii’ ovvero minatori in quanto operavano scavando, anche se solo in superficie; e qualcuno più erudito, li chiamava ‘Minali’. Come tale venne accettato, rilevandosi il termine Minollo anche in un discorso del Cavour alla Camera dei Deputati a Torino, quando si espresse in favore dell’abolizione dei privilegi ai monopoli portuali (camalli, calafatatori, minolli, ecc.) 

   Il loro insediamento preferenziale alla Coscia di San Pier d’Arena (le altre corporazione più significative, furono a Sturla dove però venivano chiamati “sturlotti”,  a Cornigliano che si chiamavano ‘curnigiotti’ ed a Sestri i ‘sestrin-i’) fu senz’altro indotto dalla spiaggia, la più ricca del prezioso materiale e in contemporanea il posto più vicino al porto. La loro agglomerata presenza, assieme a quella dei primi pescatori e la loro cadenza dialettale, determinarono  la caratteristica fondamentale del  quartiere  e dei primi abitanti del borgo. Tradizionale era il berrettino di lana -usato poi da tutti i pescatori-, di un bel blu con il pompon rosso (che ancor ora è tradizionale e generico sinonimo della figura del pescatore di nome Baciccia).

   La storia:    Senz’altro il loro mestiere è notevolmente antico, essendo problema già dei fenici e dei romani. Ma per una primitiva organizzazione del mestiere occorre risalire ai primi anni del mille, agli albori della Repubblica, con il nascere dei primi cantieri di navi (con tonnellaggio sempre maggiore e quindi con maggiore necessità di ‘pescaggio’ per la stabilità e l’ondeggiamento) e di una certa organizzazione dei trasporti (come le crociate (la prima del 1096, ma più organizzati nelle successive) o la costruzione di flotte, mirate alle varie battaglie navali, a memoria prima fra tutte la Meloria contro Pisa (nel 1284)). All’inizio il servizio era sprovvisto di specifico regolamento  portuale, ed era soggetto al solo controllo di un ‘guardiano del porto’ che si limitava -dalla sua casetta posta vicino al molo Vecchio- a verificare strettamente che non avvenissero spargimenti di materiale nello specchio del porto per non contribuire all’annoso problema del fondale basso.

Nel Regesti di val Polcevera (II.298), 1 ott.1587 si legge “è concessa facoltà di Deputati sopra la fabbrica delle mura di Genova verso il mare, di valersi di una trireme per condurre le chiatte cariche fuori della torre di Capo faro e per ricondurle cariche di sabbia di Sampierdarena, al solito luogo. Inoltre alla custodia di detta trireme sono delegati cinquanta soldati, venticinque italiani e venticinque tedeschi”.

   La corporazione nacque nel 1585, su domanda di alcuni capitani di navi ai Padri del Comune, e contemporanea  loro sollecitazione del nome di Antonio Garibaldi quale unico e serio fornitore di sabbia pulita, e non terrosa o mista a pietre inidonea allo scopo. Si iniziò così in quell’anno a sancire e prefissare le regole, di quella che diventò una vera e propria Confraternita, fornendo una licenza specifica -dietro versamento di una cauzione di 150 lire- e con autorizzazione di prelevare sabbia sul litorale di San Pier d’Arena solo per un terzo del fabbisogno giornaliero.

      In breve seguito nacquero regolamenti o precetti, emanati al fine di regolamentare il loro lavoro, il comando dei capo famiglia e l’ingresso nella corporazione dei giovani; ciò malgrado -anche dopo l’istituzione della Corporazione e il tutto sancito con minaccia di punizioni pesanti (come multe, carcere, ‘tratti di corda’, abrogazione del diritto al mestiere), infinite apparvero le  irregolarità, le disattese, furti e frodi incontrollabili .

   Solo l’8 giugno 1611 uscì il primo statuto (composto di solo sette punti; con migliorie e correzioni in rapporto alle esperienze raccolte ed aggiungendo via via nuove e più dettagliate regole (sempre disattese e fonti di continue lagnanze) un secondo statuto fu pubblicato nel 1620; ed un terzo dal Magistrato del padri del Comune il 21 maggio1688) .

Ai primi 24 ‘marinai’ iscritti  (che risultano tutti provenienti dal nostro borgo) e riuniti così in associazione o confraternita, si stabilì che tra loro si chiamassero “fratelli” e fu loro data la nomina di maestri dell’arte, con a capo un Console (o priore); ed un vice console (eletti tra i capobarca); veniva fissato il pieno monopolio dell’ arte o mestiere  (divenuti specificatamente ‘minolli’, e che usavano prevalentemente dei leudi);  l’iscrizione si ereditava di padre in figlio (nel 1815 su 45 iscritti, ben 14 si chiamavano Fossati e 10 Bertorello) oppure si comprava o vendeva (questa familiarità andrà poi modificandosi nel tempo a favore della fratellanza o presenza contemporanea del ‘messiavo’ e dei figli del figlio); una tariffa omologata da applicare uguale per tutti per evitare dannose concorrenze tra loro e le sanzioni da subire in casi di inadempienze o irregolarità (era interesse dei capitani essere serviti subito e non dover perdere tempo in attese inutili; ma era anche necessario proteggere il servizio di fronte a capitani che fossero troppo veloci nell’andarsene senza pagare o servendosi da più minolli o addirittura zavorrandosi da soli: è del 23 dic.1761 una lettera denuncia alle autorità, previo giuramento e”toccate le sacre scritture”, di  ‘marinai di un bastimento di Loano che- dopo aver sbarcato l’olio- si autoprelevarono due lancie (sic) di zavorra sulla spiaggia davanti alla chiesa di N.S.della Cella’ , dove era proibito); le responsabilità tecniche del mestiere (col fine di tutelare le spiagge dei luoghi di raccolta ed il fondo marino dalla dispersione del materiale trasbordato con coffe: uso di ‘velloni’ o teli protettivi di almeno 12 palmi, durante il trasbordo; nonché si stabilì il non trasportare né conservare la sabbia durante la notte, ma obbligo di scaricarla presso la ‘casa del Comune’ in San Pier d’Arena; poi divenne deposito anche ponte Cattaneo); l’età minima d’inizio (16 anni), il periodo di apprendistato (4 anni); l’obbligo dell’obbedienza al Console; il santo protettore (s.Francesco da Paola); l’obbligo del lavoro distribuito per equità;  l’obbligo di offerta prioritaria ai mulattieri (dal 1688, durato poco tempo: anch’essi riuniti in Arte, e che svolgevano servizio di trasporti dentro la città e sobborghi); l’assemblea, valida solo se rappresentata dai 2/3 degli iscritti, eleggeva ogni anno un console (col minimo del 50% dei voti disponibili, e quello decaduto, entrava a far parte del consiglio, il quale legiferava e condannava i trasgressori).

   In contraccambio dei privilegi, ogni minollo doveva ogni anno trasportare gratuitamente quattro barcate di materiale del fondale portuale e scaricarlo fuori del bacino, in luoghi prefissati ‘dal sig. Deputato’ oltre Lanterna. Dal ‘Libro dei Minolli’ manoscritto rilegato, conservato tra i registri dell’oratorio di Coronata del P.mo Genaro 1754, si fa obbligo agli iscritti all’arte –per un atto sancito davanti al notaio Angelo Grana- di pagare per ogni ‘barcata (carico)’ un soldo all’Oratorio (o di san Martino o di Coronata); doveva essere il patrone o marinaio, e le loro mogli, a versare il dovuto al console il quale custodiva le monete in una bussola chiusa a chiave le quali erano custodite dai cancellieri.

   Le barche erano per lo più dei ‘leudi’ o “liuti o pendo”, di cui assai spesso divenivano proprietari- utili allo scopo, ma pericolosi nel diporto specie col mare grosso e privi di covertata, riconoscibili per un numero progressivo e per il nome di battesimo legato per lo più al nome di una donna di casa (moglie o madre o figlia, tipo ‘bella Giovanna’, ’a maæ Cattaenn-a’, ‘la Giuna da Coxia’, ‘la Ruxun’, ‘mué Main’, ‘a Paxiauna’, ‘mué Bedin’) o stranezze (tipo ‘aguabba’, ‘barudda’, ‘u stortu’(O storto), ‘cuirin’, ‘mâa taggiou’ (Mätaggiou), ‘gritta piouxa’, ‘mandilà’).  Era loro detto: ‘vale più essere padrone di un gozzo che marinaio di un grande vapore’.

   Il 6 ago 1670 Pasqualino Bruzzo e soci “si obbligano in solidum a provvedere arena di S.Pier d’arena granita uguale che non sia quella che par zetto...per un anno con li loro tre liuti ogni volta che la marina sia buona”: questa fornitura fu impegnata davanti a notaio, per la fabbrica dell’Albergo dei Poveri nella valletta di Carbonara.

   Loro funzione suppletiva era anche di tenere pulite e sgombre le spiagge; causa l’incessante bisogno di sabbia  -materiale pressoché mai di ritorno- si dovette legiferare perché il prelevamento avvenisse razionalmente, a volte anche lontano: un decreto del 1761 obbligò recarsi a fare prelievi ‘alla bocca della Fiumara di Polcevera’ (ed in casi estremi anche  in riviera alla Vesima o anche Arenzano), allungando così però il tragitto ed i tempi di fornitura e riducendo le possibilità di guadagno; per certi bastimenti potevano occorrere 500-700 tonnellate di sabbia da depositare  dove il comandante ordinava per l’assetto della nave pena il possibile rovesciamento e naufragio del veliero; se si moltiplica per l’alto traffico portuale giornaliero, ci si può rendere conto della fatica e della quantità di materiale che comportava.

   Il lavoro iniziava con la raccolta della sabbia, trasportandola con carri trainati da buoi fino in centri di raccolta (probabilmente al piccolo molo della Coscia ed al Molo Vecchio vicino al Lanternino, ove ovviamente dovevano provvedere a delle scorte per eventuali richieste contemporanee, oppure da mantenersi nelle barche stesse, ma mai sulle calate); su richiesta portarla sulle navi mediante sacchi (sabulum, dal latino) 

   Vita faticosa, ma anche pericolosa: dovevano lavorare con qualsiasi tempo (sole o vento, neve e freddo) e con qualsiasi mare, ed anche per navi non ancorate nel porto: era necessario divenire provetti marinai, spesso famosi anche per interventi extra-professionali di salvataggio (allo scopo i Magistrati del mare avevano organizzato dei servizi specifici; ma chiunque poteva venire coinvolto nelle urgenze); e non era raro che nel lavoro perdessero la barca e la vita.

Ed altrettanto ovvie le varianti nel sistema: vengono ricordati  ponti tra barca e barca fatti con i remi (e quindi assai instabili), ed i  ‘camalli do säto’ cioè caricatori e scaricatori che in assenza di gru sollevavano la merce dalla stiva (e viceversa: sabbia, ma anche carbone o altre derrate) facendo da contrappeso gettandosi dal ponte alla stiva appesi alla corda passata ad un verricello. Come altre corporazioni, e con maggiore sensibilità considerato gli alti rischi e l’imponderabilità che comportava il mestiere, i Minolli erano molto religiosi  ed il loro culto è dimostrato dalle attenzioni poste all’antica chiesetta dei Cibo detta del Quartieretto; dalla scelta -proposta all’approvazione dei Padri del Comune- di san Francesco da Paola quale protettore (fissando la celebrazione della messa solenne nella ricorrenza annuale ed una multa, di lire cinque, per chi non avesse osservato riposo il giorno della festa: la somma era da dividere tra la corporazione e la cappella ove era ospitato il santo il cui culto era stato introdotto dai revv.Padri Minimi dal 1644 al 1653); dalla partecipazione in massa alle funzioni religiose e manifestazioni varie (come tutte le confraternite avranno posseduto oltre allo statuto ed una sede, anche le divise e forse i cristi d’argento pesantissimi; però nei vari testi delle Casacce non sono mai descritti, evidentemente erano solo o prevalentemente una confraternita professionale).

   In quegli anni, evidentemente al limite dell’assottigliamento del litorale, legato alla diuturna usuale asportazione di tonnellate di sabbia con conseguente pericolo alle case durante i fortunali e mareggiate, le autorità decisero ridurre il numero degli iscritti, da 35 agli originali 24: allo scopo fu addirittura proibito ai maestri d’ascia sampierdarenesi di costruire nuovi leudi; ed offerto ai minolli in necessità di comprarne uno, di prenderlo da chi cessando era obbligato a vendere finché non si fosse pareggiato il numero alla cifra prestabilita.

   La Municipalità, nel 1804 si esprime in merito additando che “l’arena o zavorra è il prodotto del Paese, la cui sortita a comodo altrui, scema il litorale, apporta della spesa, pregiudica le strade e fondi territoriali, niente di più equo che chi l’estrae contribuisca alle spese della Commune, tanto più che con un divieto cotanto teme”.

   I Padri del Comune emanarono  nuovi regolamenti il 30 settembre 1814 ed il 10 aprile 1817, confermando le regole precedenti, aggiornando i prezzi (concedendo di chiedere una lira e sessanta alla tonnellata, che permetteva un guadagno giornaliero di due lire e mezzo al dì) e le quantità delle prestazioni (Due fonti lette, relative all’anno 1814  (ed ancora nel 1851), forniscono alcuni valori della corporazione in quantità diverse: riportiamo -uno normale ed uno in parentesi- i dati differenti: allora gli iscritti o Maestri erano 35 (45); avevano alle dipendenze 180 marinai e 45 garzoni;  possedevano 45 (22) liuti); dipendevano da un  ‘viceconsole di marina’ di San Pier d’Arena che era l’amministratore; erano tutti di San Pier d’Arena; lavoravano a turni e si distribuivano tra loro il guadagno in parti eguali: in totale 270 persone che si mantenevano con questo lavoro. Il posto si comprava, si vendeva e si ereditava. Il Comandante del Porto poteva interessarsi solo della disciplina.

  Nel 1823 il sindaco Vincenzo Canale propone al Consiglio comunale di passare £ 768,10 –moneta di Genova- alla cassa di beneficenza. Tale cifra proveniva dai diritti pagati dai Minolli per l’estrazione della sabbia e ghiaia da questa spiaggia (oltre che da un lascito del fu principe Francavilla).

   L’anno dopo  la direzione delle Dogane e del Porto Franco segnalano al sindaco che verrà appliacata una multa al battello n. 33 dei Minolli perché la matttina del 15 gennaio “in contravvenzione con i regolamenti, ha voluto caricare e partire dalla spiaggia molto tempo prima del suono dell’Ave Maria”.

   A suon di prelevare sabbia, iniziano tempi duri per i minolli: Già nel 1825 vengono diffidati dal sindaco di raccoglierne alla Coscia; due anni dopo dall’Intendente Generale –oggi prefetto-  che li obbliga ad allontanarsi verso ponente dalle patrti del Palazzo del Vento.

   Una legge del 14 ago.1844, sancita da Carlo Alberto, abolì tutti i privilegi di tutte le corporazioni. Questa legge fu disattesa a Genova dai Minolli, come se non riguardasse loro e fecero durare ben più a lungo la tradizionale metodologia, con non lievi disagi per i mercantili  (La legge era nata per cercare di limitare queste situazioni abnormi; ad esempio, la maggior parte della marina mercantile sarda, era occupata nel trasporto di cereali dal mar Nero e dal Levante e tali navi in genere ripartivano da Genova vuote; perciò necessitavano di zavorra di cui i minolli avevano l’esclusiva -con prezzi più elevati (per un bastimento di 350 t., a Genova occorrevano £.400 a Livorno £.168 ed in Inghilterra £.250); con situazioni di sfacciato ‘approfittamento’ e frodi -se il mare era agitato -se il prelievo era imposto lontano dal porto; o accumulando lavoro ed obbligando i vascelli a lunghe inutili soste nel porto- ecc.; e lo stesso valeva per le altre categorie, tipo i facchini, i cadrai, maestri d’ascia, ecc.).

   Nel 1855, in una relazione scritta dall’Intendente generale della divisione amministrativa di Genova Domenico Buffa indirizzata al Ministro dell’Interno Cavour, sulle 11 arti privilegiate del porto, egli esprime il parere: «...dei minoli o zavorrai i quali appartengono al borgo di S.Pier d’Arena e vi hanno stanza. Fors’anche l’origine di questo borgo…dee la origine ai minoli, come induce a sospettare lo stesso suo nome: gli zavorrai ivi stabilitisi, come in luogo nelle vicinanze del porto il più adatto a farvi zavorra e versarvi quella di cui volevano scaricarsi le navi, furono per l’avventura in antico il primo nocciolo di questa città di cui ora talvolta, benché a torto, sente gelosia il commercio di Genova...». Quindi i loro regolamenti avendo radici lontanissime  non erano facili da scalzare anche se questi privilegi comportavano non pochi danni alle arti marittime.

GB Ferrari racconta che nel gennaio 1871 naufragò sui nostri scogli il brick Rachelina guidato dal capitano camogliese Olivari Fortunato in una ‘notte   di nevara’: gli zavorrai (se ne ricordano: Gerolamo Pittaluga, Pietro Tixi detto ‘o Peu’, GB Bertorello (che seppur ferito ritornò a salvare per ultimo il morente capitano) ed il rapallino Canessa Giamba)  accorsero e salvarono l’equipaggio.

      Ma, con la fine della vela, anche questa attività ebbe gradatamente a diminuire spontaneamente: nel 1880 gli iscritti erano solo 45; e gradatamente cambiarono mestiere, ridotti a chiattaioli (o bunckeristi; ovvio il cambio di  corporazione, divenendo scaricatori, pesatori, ricevitori,  per lo più avendo adattato il barco al trasporto del carbone, per una portata di 100t.) o tristemente abbandonando il mare per l’Ansaldo (allora chiamato ‘il Meccanico’), tentando di fondersi con altre imprese portuali (come la Tortarolo) fino ad estinguersi  per il sopraggiunto sistema di zavorramento ad acqua con le camere stagno nelle navi costruite di ferro.

Ancora nel 1922, nel regolamento portuale era prevista la fornitura di zavorra, previa autorizzazione del Consorzio  (ufficio marittimo di ponte Morosini): autorizzate dapprima due ditte, Carlo Lagorara &C, e Bertorello, le quali dovevano depositare al Consorzio 8 cent. per ogni tonnellata di zavorra (4 cent per il demanio e 4 per eventuali spese e riparazioni delle calate); poi aumentate con la Lagorara e Casassa, la Danovaro, la NGI, la Viale-Scott, i Bruzzo, i Sanguineti ecc; ogni flottiglia si distingueva per colori e disegni); i capitani o gli armatori, potevano contrattare il zavorramento del loro bastimento pagando £.1,70 / tonn. o in base alla linea di immersione,  per una quantità limitata da avere sufficiente stabilità nel  movimento dentro il porto; gli zavorrai dovevano espletare il lavoro di scarico delle loro barche entro 5 giorni, dovevano provvedere a tendere dei teloni per evitare l’interramento del porto stesso e non  potevano  lavorare di notte).

   Così, SanPier d’Arena è l’unica località che ricordi questo nome ligure e questo mestiere scomparso.

 

BIBLIOGRAFIA

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-non citati su EM + ES +


MODENA                                       piazza Gustavo Modena

 

 

 

TARGA:   S.Pier d’Arena – piazza – Gustavo Modena

 

 

QUARTIERE MEDIEVALE: Mercato - Comune

 da MVinzoni, 1757. In celeste la villa del Monastero con chiostro; giallo l’odierna via del Monastero-via Carzino; fucsia via BGhiglione antistante il terreno del teatro ed a mare della piazza nel terreno dei Centurione.

 

N° IMMATRICOLAZIONE:   2805

             

da Pagano 1961                                                       da Google Earth 2007. Colori come sopra.

 

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA - n°:    38900

UNITÀ URBANISTICA:  26 - SAMPIERDARENA

 

 

CAP:   16149

PARROCCHIA: s.Maria della Cella

STRUTTURA:  

===piazza comunale carrabile, dapprima doppio senso veicolare e posteggio auto; poi senso unico, e solo pedonale; infine dal 2004 solo pedonale. Posta alla fine di via G.Buranello e l’inizio di piazza Vittorio Veneto. Copre una superficie di 684 mq., avendo marciapidi lunghi - in totale: 154m..

    Fa parte di una zona centrale, nei tempi antichi a sua volta facente parte del quartiere del Comune (comprendente lo spazio a monte delimitato da via G.Buranello fino a piazza del Monastero; a ponente da quest’ultima; a levante da via Giacomo Giovanetti, a su dal mare).

    I negozianti costituitosi in un gruppo consortile promotore cercano di ridare tono a quel quartiere che dalla chiusura del mercato ha perso vitalità, e transito, vedendo chiudere troppe saracinesche, malgrado la riapertura del teatro.

 

 

STORIA della piazza:        

Negli anni 1891 e 1896 compare già come “giardino pubblico presso il Teatro Modena”, di proprietà comunale. Dal Pagano si trae esistere nella piazza, nei primi del 1900, una  trattoria, detta  della ‘Giullina de Belvedere’, famosa per i piatti tipici locali e casalinghi.

     

piazza ancora senza il Brillé

 

                     

    Nel 1901, un’impresa genovese fu incaricata dal Municipio di apporre una targa in marmo per indicare “piazza Teatro Modena”, indicando quel tratto tra via Vittorio Emanuele (via GBuranello) e via G.Mazzini (via Ghiglione), o in altro documento del 1910 “da via Vittorio Emanuele a Sud” quando aveva i civv. 1 e 2 .

Una foto dell’epoca, mostra la facciata del teatro col semplice nome “Teatro Modena”; i manifestri reclamizzano “i manezzi pé majâ ‘na figgia”. Il commentatore scrive che il chiostro – diverso da quello degli anni successivi, e con orologio in basso - era tenuto dal giornalaio Tortarolo.

   Nel Pagano 1902 compaiono: (per errore presumo, in ‘via Teatro Modena’) il ‘lampista’ Gallo Domen., presente ancora nel 1912;---  la ‘trattoria del Teatro’ di Marchese Fortunata, anche nel Pagano/12 vedova Rossi ( nel 1925, è degli “eredi”). 

    Il Pagano/1908 segnala esserci il calzaturificio di Varese (ancora nel 1925);

    Nello stesso anno il terreno è arricchito da “fabbricato adibito ad uso mercato”. Il Comune già possedeva un palco nel teatro.

 

                                                                                      corteo Croce d’Oro – in sosta autobus per Coronata

   Il Pagano 1911-12  aggiunge oltre quelli del 1908  il commestibili di Corbani Teresa al civ. 1;  il negozio di frutta secca ed agrumi di Comotto Luigi; il merciaio Parodi GB.

   Solo il 10 lug.1917, l’Amministrazione comunale decise per chiamarla come oggi; e nel 1926 essendo l’unica nella Grande Genova, rimase immodificata di fronte ad una grande trasformazione della toponomastica mirata a non lasciare doppioni in città. Già allora era di 1° categoria.

   Nel 1920 servì come punto di partenza nel ponente, della prima società privata di trasporto pubblico con i primi autobus: fisso giornaliero, per 80 centesimi fino a Coronata (sulla rivista Genova, si fa cenno ad un sussidio comunale concesso poi, il 21 gennaio 1928 alla ditta Federico Pittaluga, esercente il servizio pubblico di autobus da Sampierdarena a Coronata), e per 60 cent. fino a Belvedere-Castagna; utilizzando un Fiat 15 Ter tipo Libia, uno dei primi con le gomme a camera d’aria; le strade erano ancora in terra battuta. Il servizio arrivò anche fino alla salita della Guardia.

   Nel 1921 sia al civ.1r Canepa e Rasore  (tel 41102; nel 1919 erano in pza Ferrer tel 5755) hanno fabbrica e negozio di olii (sic) minerali e lubrificanti; che al civ.9r Costa A. & C., ambedue  si interessano di non precisati “articoli tecnici, e cinghie per trasmissione (fabbr. e negoz.)”; civv. non precisati il calzaturificio di Varese;  Parodi GB ha una merceria. Tutti ancora presenti nel ’33

Una cartolina spedita quest’anno, mostra, sopra il frontale del teatro la strana scritta: “ Kinoplastikon”; e sotto esso, nella facciata centrale, “Teatro Gustavo Modena”; e su quelle laterali, a sinista “Cine”, a destra “Varietà”; sullla piazza facevano anche réclame, sopra due vetrine nell’angolo a mare, lo  “Stab.to Tipografico Ligure”; e sopra questo cartello, un altro cartello  “Istituto? Medico” con due sottoscritte illeggibili.

    Il Pagano 1925 e 1933 segnalano al civ. 1-4, tel.30-17 presumo la direzione del ‘deposito di ferro denominato Ferriera del Riccò’; al civ.1-7 la levatrice Corbani Morando Teresa; civico non precisato la trattoria ‘del Teatro’ gestita dagli eredi di Marchese Fortunata vedova Rossi;

   Nel Pagano/40  la piazza è compresa tra le vie II Fascio d’Italia – Triari e Monastero.   Senza civici c’era il Teatro; al 2 la sartoria Rigoni; rossi 4 Burdese M. cordami; 5r calzaturif. Varese; 6r caffè di campodonico Tito; e all’11 Costa A&C articoli tecn. 

Negli anni 1950 era ancora sede capolinea degli autobus che portavano o a Coronata, o a Belvedere-Castagna.

    Nel 2000 iniziarono i lavori di ristrutturazione per una spesa di 400milioni, progettati dall’arch. E.Zanelli (altrove è chiamato Giulio Zanella, vincitore di un concorso nazionale bandito dal Comune); la mira fu far tornare la piazza a splendori antichi e prestigiosi; la cerimonia di inaugurazione avvenne sotto la pioggia il 23.4.0. La piazza è stata lastricata in arenaria e mattoni accoltellati; quasi completamente pedonalizzata ed arricchita da panchine circolari (simili a quelle ottocentesche dell’Acquasola); illuminazione a globi; giardinetti con piante sempreverdi di cuscus hypoglossum con  sei alte palme; è stato riproposto anche un  novecentesco chiosco miniatura di antica rivendita di giornali. Il traffico di autoveicoli, dapprima limitato al massimo, passando davanti all’ingresso del Teatro,  fattibile solo da via del Monastero direttamente a via Ghiglione, fu radicalmente eliminato nal 2004.

   Nel 2001 i commercianti della zona diedero vita ad un CIV (centro integrato di via) di circa 30 negozianti chiamato ‘Antiche Botteghe’ (comprendente via Giovanetti e piazza del Monastero ed affiancato all’omonimo di via GBuranello, di via ACantore, del Rolandone), mirato a riqualificare il quartiere; ma sia la spinta del polo commerciale della Fiumara sia il ritardo degli aiuti promessi dalle autorità, fecero disciogliere il gruppo agli inizi del 2004 (per eccesso di spese tra registrazione- contabilità ed iniziative, ma anche per inerzia e disinteresse degli stesso esercenti).

     

 

CIVICI

2007: NERI:  da 1 a 3 (nessuno pari)

          ROSSI: da 1r a 15r    e da 2r a 10r

===civ.  , è sormontato da una ringhiera a protezione del terrazzo soprastante, in ferro battuto, con chiaro stile liberty. Il sottostante ritrovo-bar, una volta ristorante Brillé (descritto in via Buranello), rimane centro di attrazione ma aperto in via G.Buranello.

===civ. 1 rosso: Il Pagano/33 vi segnala il negozio di articoli tecnici, cinghie per trasmissione ed olii (sic) minerali lubrificanti di Canepa & Rasore (vedi ¨), rappresentanti. Il Pagano/61 vi pone l’orefice Cazzulino A.

Sino al 2005 c’è stato il vecchio negozio di ferramenta ancor oggi conosciuto come ‘Parodi & Parodi’, qui aperto negli anni del 1950 da Maria Luisa Parodi, figlia di uno dei due soci fondatori della società (un negozio di casalinghi fu aperto dai ‘F.lli Chiesa fu Franco’ in via V.Emanuele (via Buranello) a fine 1800; nel 1904 l’attività commerciale fu rilevata dai due Parodi , omonimi non parenti tra loro (tra i primi a installare in negozio un telefono: avevano il numero 294…senza prefisso).  Uno di essi, Giovanni, divenuto proprietario unico, nel dopoguerra della prima mondiale passò le redini ai suoi tre figli (Mario, Giuseppe, MariaLuisa); di questi, la più giovane divenne imprenditrice del nuovo negozio di piazza Modena finché nel 1987 lo passò in eredità al figlio Gianni Vismara).

===civ. 1n: nel 1961 erano famosi il dentista Bersini P, ed il sarto F.Rigoni Roberto.

===civ 2r dove nel 1961 c’era  la merceria Vassallo A.,  nel 1994 vi fu aperto un centro commerciale chiamato ‘solo seta’.

===civ.2n se la antica numerazione non è cambiata (perché da il Teatro al civ.1) , alla fine del 1800 il civico apparteneva all’Ospedale di Pammatone (così come altre case vicino tutte proprietà assieme alla villa detta del Monastero di GB Centurione: in vico Mentana e via Arnaldo da Brescia). Nel 1961, al 2n c’era una sede dell’UDI (Unione Donne Italiane), associazione che aiuta le donne in ogni situazione di difficoltà, sociale  affettiva (mariti violenti), ecc.

===civ. 3,  il caratteristico    TEATRO  Gustavo Modena.

Storia del teatro =  La lenta trasformazione socio-politico-culturale internazionale nata con la rivoluzione francese, vide -alla fine dell’ottocento- aristocratici e borghesi agli antipodi come scala sociale (governando la casa reale a Torino, permaneva una divisione tra nobili, borghesi e popolo; alto lignaggio i primi; mentre i secondi potevano aspirare solo a titoli di riconoscimento come divenire cavaliere; gli ultimi potevano solo fregiarsi con qualche medaglia da appuntare sul petto). Per altri problemi (come il potere economico) addirittura li troviamo  completamente invertiti (squattrinati i nobili, molto ricchi i borghesi). Ma tutte e tre le classi sociali, le vediamo accomunate  nell’orgoglioso desiderio di realizzare nella neo-città un teatro proprio (Soddisfaceva gli uni ancora consci di una propria antica entità di prestigio, anche se non più di ricchi se non di titoli nobiliari legati alla corte torinese; ed anche gli altri, i nuovi arricchiti, desiderosi di farsi riconoscere,di esprimere il raggiungimento di benessere, di contrapporsi quasi per ripicca o emulazione alla Genova-matrigna, di farsi promotori verso la neonata città con opere di rispetto. La dice lunga anche il nome prescelto a titolarlo, che rappresentò un atto di sfida repubblicano contro lo stato monarchico, e di ripicca contro il nome regio del Carlo Felice genovese, contrapponendogli il nome e la baffuta immagine del tenore  dipinta in un tondo sul soffitto).

   Il 5 aprile 1856,  con atto redatto dal notaio Gian Severino Grasso, una società  per nome del commerciante Giovanni Bruno, inizia acquistando un terreno per 26mila lire -fino ad allora tenuto ad orto e con casa  e pozzo (corrispondente ad ove adesso è la barcaccia di dx) del manente, a fianco della villa Monastero, tutto di proprietà di s.e. il principe Giulio Centurione-. A fianco del Bruno erano altri benestanti cittadini (e non l’amministrazione comunale sampierdarenese come dice Lamponi), che con il loro finanziamento corrisposto ed equivalente all’ acquisto di un  palco, permisero la posa della prima pietra . Con grandi festeggiamenti, e alla presenza del “signor Bellotti” quale rappresentante di G.Modena impossibilitato ad intervenire, questa avvenne domenica 30 giugno 1856.  Si iniziò subito ad erigere i muri come da progetto dell’ing. arch. Nicolò Bruno (allora appena 23enne, nato a San Pier d’Arena e neolaureato,  ma dotato di una “precocità significante”, e figlio del Bruno firmatario l’acquisto del terreno. Vedi a strada intestata a suo nome).

    L’edificio fu costruito in un anno,  con –ovviamente- quasi tutte le strutture in legno (vi lavorò come falegname, anche il futuro sacerdote Nicolò Daste con i suoi familiari) cosicché il 5 lug.1857, nella sala del ridotto, alla presenza dello stesso notaio, fu redatto lo statuto indicando i nomi di coloro che furono i  finanziatori della costruzione (sono considerati “soci fondatori, che hanno costituito la società erettrice” il Giovanni Bruno (commerciante e padre dell’architetto progettista); f.lli Nicolò e Francesco Casanova (uno proprietario e commerciante, l’altro proprietario e negoziante (omonimo, o sempre lui, anche armatore e capitano di vascelli? Vedi C45); Giuseppe Daste (artigiano falegname ebanista, padre del famoso sacerdote Nicolò); e  “soci palchettistiO.Traverso, L.Galleano,  R.Lombardo, L. ed S.Casanova, G.Carpaneto, C.Copello (imprenditore edile e proprietario di doks), Luigi Balleydier (della fonderia in ghisa aperta nel 1832, che diverrà sindaco nel 1875),  Nicolò Garibaldi (proprietario di doks. Negli anni dell’ultimo dopoguerra, di fronte al Comune  proprietario di tutto l’edificio, esistevano la nipote Angela Garibaldi, nata nel 1909 e deceduta  nel maggio2000 che era rimasta proprietaria dei palchetti 23 e 24,  assieme alla USL3 proprietaria ereditiera dell’ospedale di 1/6 del palchetto n° 1. Per statuto, gli ultimi due malgrado la minoranza potevano porre veto a qualsiasi iniziativa. La ‘Lina’ aveva tenacemente lottato per ricuperare il teatro, rifiutando di vendere la sua parte finché non si fosse realizzato il restauro, accettando ovviamente di partecipare alle spese . Questa tenacia fu premiata il 31 ott.1997 alla conclusione del ripristino e dal riconoscimento di ‘sampierdarenese dell’anno’ da parte del Lions Club. Oggi, erede ultimo è un altro nipote dell’antico imprenditore), S.Queirolo e  G.Calvi (fabbrica di olii alimentari e saponi), G.Canale,  F.Buzzo, G.Regona, Rebora (produttore di pasta),  N.Montano (allora assessore comunale), G.Fava, N.Barabino (pittore), L.Salvarezza, P.Verdan, B.Porcile,  A.Capanna, M.Macciò, A.Pittaluga, T.Bixio, Gerolamo Bonanni (sindaco), GB.Tubino (assessore comunale), Bernardo Conte (assessore comunale), GB.Conte, B.Canale,  S.Queirolo,  P.Bafico,  e G.Delucchi (commercianti di ardesia), S.Dallorso (imprenditore costruttore, es.: una casa in via Buranello),  GB.Carpaneto (proprietario di grandi depositi e doks), D.Boccardo. Pressoché tutti rappresentanti della borghesia industriale e mercantile: spedizionieri, commercianti, proprietari, negozianti, industriali, artigiani; qualcuno sindaco, amministratore, impiegato, marittimo, pittore.  Per statuto, tutte le logge furono vendute assegnandole a sorte;  per i palchettisti proprietari si previde la parità decisionale e di veto, indipendentemente dai millesimi posseduti).

    Battezzato col nome dell’attore Gustavo Modena (una scelta coraggiosa, di apertura verso una persona riconosciuta altrettanto coraggiosa e politicamente non asservita), fu inaugurato il 19 sett.1857 con clamorosità di presenze e di sceneggiatura  ed alla presenza di tutta la città festante,  rappresentando l’opera semiseria “Tutti in maschera”,  di Carlo Pedrotti (la migliore certo della produzione del compositore veronese; fu soprano l’attrice Nina Barbieri Thiollier e direttore d’orchestra Angelo Mariani, maestro del Carlo Felice di Genova ).

   Nel 1859 il teatro venne temporaneamente usato come caserma per le truppe francesi, alleate del regno sardo durante la seconda guerra di Indipendenza.

   Risultando dotato di ottima acustica (era piatto, sia il pavimento alla base dove ballavano anche, e sia il soffitto –con illusione della volta e cupola attraverso i chiaroscuri. sopra la volta, ampio spazio sino al tetto -coperto di ardesie- a V rovesciata), ottenne il giubilo di critici e pubblico, ospitando via via per molti decenni le migliori compagnie nazionali, e vantando grande affluenza e sempre maggiore interesse  (donando a Sampierdarena il nomignolo di “Broadway della Polcevera”).  Commedie, opere ed operette, prosa, balli (per le veglie danzanti tutte le poltrone venivano tolte  e posate ai bordi della sala; si abbassava il palco a livello della platea in modo da avere una unica grande piazza, con l’orchestra nell’angolo: caratteristici quelli di gennaio e chiamati “veglione delle lucciole” perché era concesso ballare fino alle ore 5 del mattino (fu programmato fino al 1939): era una festa a cui occorreva prenotarsi di anno in anno essendo frequentata da maschere anche ‘foreste’ venute a contrastare la più frequente vincitrice locale, la Giulina detta ‘la più bella fioraia di San Pier d’Arena’; la follia di una notte si accompagnava a battute, racconti, malignità e scandalo (questo era dovuto alla alta frequenza di omosessuali, che potevano travestirsi in pubblico senza incorrere nelle rigide leggi di allora: così mescolati tra tutti e nel ludibrio generale c’erano anche i ‘bulicci’ locali più famosi, come ‘u Main’ di Sestri e ‘Stanko’, il sarto delle case di tolleranza cittadine). Frequenti anche quelli organizzati ogni anno a metà Quaresima da un comitato cittadino, per beneficenza a favore dell’ospedale: con le 1360,65 lire ottenute nel 1906, fu comperato -tra l’altro- un apparecchio per massaggi di lire 695); sedute di scherma e ginnastica, pentolacce: tutto veniva programmato -in assenza di un impresario professionista (ancora non esisteva questa figura)-, secondo precise norme dettate in assemblea dai proprietari palchettisti (con il Comune che partecipava con una quota sussidiaria solo per le feste popolari).

   La serietà dell’operato,  garantiva per gli attori che recitare al Modena era di vantaggio, di prestigio e di fama: così possiamo sottolineare la presenza di tutti gli attori allora a livello nazionale come  Ermete Zacconi, Ruggero Ruggeri, Emma Grammatica, Gino Cervi, Vittorio DeSica, Salvo Randone, Gilberto Govi o altri di livello locale e  dialettali; o ginnasti nazionali come i sampierdarenesi Pavanello (vedi) o Dante G.Storace (vedi), o riviste con Josephine Backer.  Sappiamo che  il teatro fu in uso anche per riunioni e dibattiti politici specie gestiti dal movimento operaio. 

   Custodi del teatro, per tre generazioni dall’apertura alla chiusura del 1960, i componenti della famiglia D’Oria.

   Nel 1887, anche in conseguenza dell’apertura del nuovo teatro Politeama Sampierdarenese, ebbe un periodo di lento declino, mentre l’insulsa ed ossessiva concessione edilizia ne permetteva il soffocamento ambientale, conclusa nel 1905 quando fu aperto di fianco il mercato ortofrutticolo, chiuso poi nel 1998.

    Vissuto dalla popolazione, non solo per scopi musicali, ma anche per una  grande tombola, organizzata la sera del 9 ottobre 1892 dalla soc. Ginnastica C.Colombo in occasione del 4°centenario della scoperta dell’America (ed una tombola fu conclusa da un cameriere del vicino bar caffé Elvetico tale Hendrick Flechstein, 5 anni dopo anche l’Universale intrattenne con veglione di metà quaresima, col fine di aiutare l’Asilo, l’Ospedale (viene ricordata l’esibizione del soprano piacentino Bazzani Ortensia, gratuita ed eseguita solo perché a scopo di beneficenza) e le congregazioni di carità.

   Nel progressivo declino degli anni post bellici della prima guerra mondiale (coinvolto nei gravi motivi di crisi generale, nel cambiamento dei gusti e dei consumi culturali della gente (maggiore attenzione verso il cinematografo ed alle rappresentazioni leggere, di varietà), nelle sempre più rigide norme di sicurezza che iniziarono a regolare i locali pubblici, venne deciso una prima ristrutturazione che –progettato da Raffaele Bruno, figlio del primo architetto progettista, e rispettando l’antico aspetto estetico- andava a rafforzare col cemento armato alcune strutture portanti, ampliando la platea ed i posti a sedere (portati a 900): nel 1922 ebbe la seconda inaugurazione dopo 10 anni di chiusura,  con la Carmen di Bizet.

                                               

1921                                                                      1924                                               anni 1979  circa

  Nel 1926 l’assorbimento della città nella Grande Genova, smorzò di nuovo le velleità tradizionali locali, permettendo di mettere in programma varie opere ma in un procedere irregolare fino al periodo bellico e con l’attività teatrale a complemento di un film (durante la guerra viene ricordata la partecipazione della conturbante tedesca Trudi Bora, che portò sulla scena un primo scandaloso nudo, espresso ballando dietro ad un paravento trasparente, e lasciando così all’immaginazione dello spettatore la realtà della sua figura).

   Nel 1934, l’edificio venne posto sotto tutela della Soprintendenza alle Belle Arti.

   Via via erano cambiati i vari palchettisti, lasciando subentrare nuove leve (come Frugone,  Gadolla,  Terrile, Perani) che però dovettero assecondarsi alla moda del cinematografo (di prima visione, ovviamente, e con iniziale grande successo) ma la guerra  creò un alt dando l’avvio ad un decadere progressivo.

Il miracoloso risparmio dai bombardamenti (unico tra i vecchi teatri a Genova) e dall’incuria dei comportamenti militari e politici del periodo bellico, non sollevarono le sorti né la dignità del teatro che  però iniziò il nuovo corso ospitando negli anni 1950 le grandi riviste di: Macario, Rascel con Tina DiMola, Dapporto,  Osiris,  e la sempre grande Baistrocchi (con Tortora, Villaggio, Borghi).

   Negli anni 1950-60 la TV fece il suo clamoroso ingresso, occupando con fare prorompente lo spazio serale del divertimento. Le varie sale dovettero accettare il binomio cinema e tv assieme (la trasmissione “lascia o raddoppia” faceva interrompere il film, che poi  veniva ripreso dopo lo spettacolo televisivo).

E malgrado la adozione delle tecniche nuove sopraggiunte (schermo panoramico, suono stereofonico, ecc.), iniziò il periodo delle fatidiche “luci rosse” (negli anni vicino al 1975 furono sperimentati e  proiettati in tutti i locali questi squallidi films per sopravvivere. Almeno per apparente salvataggio della dignità, il teatro fu in quei tempi  ribattezzato “Metropolitan”).

    Ma di fronte a questa incuria, esplose la rabbia di tutta la delegazione: consiglio di circoscrizione, parroci, cittadini, operatori economici finalmente ricongiunti fecero affiggere il 27 dic.1979 un manifesto dal titolo “giù le mani dal Teatro Gustavo Modena”).

 

   Al colpo di coda dell’orgoglio,  una seconda sommaria ristrutturazione che permise, tra alti e bassi …gli ultimi sussulti:  con la “Petite Messe Solemnelle” di Rossini nel 1979 presentata dall’orchestra e dal coro del Teatro Comunale dell’Opera di Genova , diretti dal maestro Tullio Boni … sparuti altri  guizzi (sempre affidati al gruppo che aveva rilevato Gadolla (si ricordano nel mag.1982 un pienone per il primo ed unico Concorso Naz. Cori di montagna; ed altrettanto nella serata di musica classica -diretta dal prof. Ragazzi- ed organizzata assieme al Teatro Comunale dell’ Opera di Genova),… sino al  12 nov.1983 quando fu data notizia della chiusura  per inagibilità, non essendo in regola con i requisiti di legge; a questa data seguì negli immediati anni a seguire l’incuria ed il totale abbandono al degrado naturale: un male deleterio, sotto alcuni aspetti peggiore delle bombe inglesi.

   Seppur impotenti, non tutti subivano in silenzio tanto sfacelo:   la Circoscrizione restava in lotta col ‘Palazzo’ che -a sua volta impotente sia per la questione proprietà, sia per carenze economiche, proponeva ‘tempi lunghi’ e sentiva come noiose le insistenze della delegazione-; nel mentre l’OUES faceva i suoi passi riuscendo a  sensibilizzare la cittadinanza e la parte pubblica locale (riuscì ad evitare che alcuni palchettisti cedessero la loro quota ad impresari milanesi indirizzati allo sfruttamento generale come le luci rosse fatidiche; di conseguenza il Comune iniziò ad acquisire le quote dei vari eredi (nel 1979 il Comune deliberò riscattare la ‘quota Gadolla’ : per 600milioni acquisì il pacchetto azionario della famiglia corrispondente al 68 % dell’intero valore; una seconda trance fu acquisita nel magg.1981, con una spesa di circa 700milioni e con atto del notaio Moro; quasi tutte le altre furono acquisite nel periodo 1984-6, come  quella che era stata venduta ad un Bagnara il 2 genn.1910 per 2600 lire. Rimasero infine quella della USL3 -intestataria di un sesto del palco n°1 di seconda fila, cedutole dall’A.Ospedale Villa Scassi che lo aveva a sua volta ricevuto per testamento dalla Scaniglia Tubino, e quella della signora Angela Garibaldi, pronipote di Nicolò,  uno dei fondatori.

 

        Finalmente completato l’ acquisto del teatro - dopo il lunghissimo iter burocratico causa la complessa frammentarietà dei successori dei proprietari  dal Comune di Genova fu  avviato un ambizioso progetto di terzo ripristino. Si scrive che approvato lo stanziamento di 188,8milioni dal piano finanziario comunale il 28 dicembre 1989 l’assessore al bilancio Denaro potè annunciare l’avvio dei lavori (che erano stati fermati perché seppur già approvati dalla giunta l’anno precedente, erano senza la necessaria copertura finanziaria). Essi però furono richiesti con tale ricchezza di particolari (non solo degli impianti di sicurezza secondo le norme entrate in vigore, ma anche di rinnovo delle strutture interne, servizi, rinforzi, utilizzazione delle strutture vicine) che non poterono poi essere realizzati per eccedenza di costo essendo stata prevista la spesa addirittura di 4 miliardi (gli arch. G.Giudice, V.Marconi e G.Pellegrino confortati dalla consulenza per le strutture dell’ing. Montaldo e per gli impianti della CSREngineering, avevano presentato completo il progetto, rispondendo a tutte le disiderata, il  19 marzo1988). La cosa si fermò di nuovo lì.

   Le iniziative collaterali furono innumerevoli; ricordiamo nel 1981 la conclusione festosissima del carrossezzo cittadino e l’organizzazione di assemblee pubbliche ed incontri, favoriti dal sindaco Cerofolini e dal Consiglio di Circoscrizione; nel 1987 quest’ultimo promosse una ‘serata in piazza’, presente lo stesso sindaco; nel 1988 la presentazione di un progetto ma col gelo dei ‘tempi di esecuzione pluriennali e del bilancio comunale che non prevedeva alcuna spesa in merito’. 

      Un altro controllo effettuato nel febbraio 1991 approdò a nulla di fatto constatando solo il buco sul soffitto da cui l’acqua piovana irrompeva a marcire il soffitto incannicciato; l’enorme lampadario ancora in buon stato pronto ad essere calato -tramite una botola ed un sistema di carrucole e binari, considerato che doveva funzionare a candele da accendersi una per una e da rinnovarsi (operazione eseguita, dapprima con bocce di vetro ma, cadutane una durante una prova, si provvise a sostituirle negli anni 1990 con altre di plastica leggera); la finale resa, di fronte al sipario irrecuperabile; l’orologio fermo alle 5,35 (tutt’ora fermo nel 2009 perché troppo ‘impetuoso’ il tic tac nelle rappresentazioni teatrali); i cancelli arrugginiti che chiudevano l’accesso ai palchi ma che ai ‘conosciuti’ permetteva raggiungere anche la bouvette e -da essa- la terrazza sopra l’ingresso principale; alcune carte che testimoniavano gli ultimi sporadici passaggi della ‘compagnia Guglielmino Inglese, Maria Carpaci e Romolo Schiavazzi’, nonché del quartetto di concertisti georgiani esibiti in musica russa.

   Per la nuova terza riapertura, fu prescelta una strada più economica, che pur non soddisfacendo tutto il desiderato, però prometteva di alzare il sipario: così nel corso del 1991, approfittando della grossa cifra approvata allo scopo nel  bilancio  Comunale (e del fattivo interessamento degli altri Enti locali compreso il CdiCircoscrizione;  dell’ UOES tramite la costituzione di un consorzio che però non avendo raggiunto la cifra opportuna si trasformò nel gruppo “Amici del Modena”  (tra cui l’arch. A.Montini, E.Olani di radio Lanterna city, U.Paita immobiliare, G.Vismara commerciante ferramenta, don B.Ferrari parroco, e molti altri, uniti in gruppo spontaneo e disinteressato che si costituì nel 1991 per sensibilizzare i cittadini e le istituzioni, e per invitare l’arch.Filippi ad un nuovo progetto più economico: ad essi ed alla loro pervicace tenacia, va riconosciuta la paternità della rinascita del teatro dopo un iter bellicoso, mortificante e pieno di trappole politico-burocratiche);


appoggiati da singoli cittadini con iniziative ovviamente inefficaci sul piano decisionale ma determinanti per la sensibilizzazione popolare (il campassino sig. Manghi Ettore, morto nel 2002, a sue spese fece stampare migliaia di manifestini che personalmente distribuiva per la città – purtroppo senza un minimo di riconoscimento né di gratitudine da parte dei ‘posteri’; e da parte dei “comitati di strada”; sino poi all’ultima, dal 1991, la  

  protesta Manghi              


 “Associazione Amici del Teatro Modena(nata con gli stessi soci degli Amici del Modena: mons.B.Ferrari,  G.Mango, A.Mazzocca, L.Mazzucchelli, A.Montini,  E.Olani, U.Paita, I.Parodi, G.Vismara; allargando però la partecipazione, ma sempre col fine di far funzionare ed incentivare il teatro quale strumento di comunicazione, aggregazione sociale, diffusione culturale ed occupazione del tempo libero); di aziende private ed artigiani), fu presentato un progetto più economico, creato dall’arch. Alberto Filippi, coadiuvato dal direttore ing.Giorgio Stella.

 

    Infinite alternanze per superare le mille procedure burocratiche: tutta una serie di speranze e delusioni, approvazioni e rinvii, docce scozzesi fredde e calde, preventivi saliti a 9 miliardi. Finché  non sopravvenne nell’estate 1994  una convenzione del Comune con l’iniziativa privata dei dirigenti del “Teatro dell’Archivolto”, la cui compagnia -con contratto novennale col Comune dal 1995- permise una profonda quarta ristrutturazione (dopo il 1857, 1922, 1979).

Il 13 gennaio 1996 avvenne un sopralluogo celebrativo l’inizio dei lavori. Presente la mitica signora Garibaldi Angela, pronipote del nonno Nicola palchettista (due addirittura, il 23 e 24), caratteristica perché non avendo mai voluto vendere la sua quota, ha impedito che il teatro entrasse nelle speculazioni edilizie di immobiliari che prevedevano la demolizione per farne palazzi.

Durata oltre un anno: il pavimento sopraelevato all’ingresso e reso -da piatto- a parquet inclinato; il soffitto, avendo i quattro riquadri -con l’effige delle muse- gravemente stinti ed impossibilitati ad essere ricuperati- sono stati coperti con teli (di resina fenolica che è leggera ma duroelastica; danno l’impressione di essere affrescati;  dipinti da tre pittori tra i quali Luca Taccia e le muse hanno il volto delle due pittrici collaboratrici); gli stucchi della facciata dei palchi, rifatti ed applicati; il palcoscenico sventrato e rifatto (anche nel soffitto con controsoffitto metallico e corde delle scene manovrate a macchina).

Il 30 sett.1997 (sul Secolo si scrive che l’inaugurazione avvenne il 31 ottobre) questo teatro (ultimo in stile dell’800 esistente in città)  ebbe la terza riapertura delle porte al pubblico, con uno spettacolo intitolato “Snaporaz Fellini”, testo e regia di Giorgio Gallione, meritevole da vedersi ma un po' complesso a capire per chi non conosce le opere di Fellini: per chi non è più abituato a frequentare un teatro ed invece è condizionato dal cinema e dalla TV, forse   preferiva qualcosa di più classico e più vicino alla cultura di base, anche se autorevoli fonti di critica si esprimono a favore di nuove frontiere e contro il ‘deja vu’ classico. 


La compagnia goliardica M.Baistrocchi, che ogni anno propone una allegra, satirica e disinvolta rappresentazione teatrale, ed i cui guadagni vanno sempre destinati ad opere di beneficenza, fu rifiutata dalla direzione perché mancante di ‘spessore culturale’.

 


 

    La Compagnia del Teatro dell’Archivolto, nata negli anni 80, è stata gestita da Pina Rando, Valter Adani, Giorgio Gallione, ed è stata una delle animatrici della rinascita del teatro;  dopo aver avuto chiusa la sede nel 1982 di salita Famagosta, la Compagnia si pone col Modena di divenire una compagnia stabile genovese promotrice di programmi artistici teatrali di  primaria importanza  culturale per la città.   

A mio modestissimo parere, come in tutte le cose, ci sono dei pro e dei contro.Tra i pro rilevo: --fare cultura in “periferia” e tentare di decentrarla, è opera altissimamente positiva; --questo tipo di cultura del teatro è aperta nel mondo, e quindi aiuta ad uscire dagli schemi piccolo borghesi della circoscrizione; --senza loro, forse il teatro sarebbe trasformato in silos per auto. Contro, c’è solo una troppo rada tenuta di contatto con la circoscrizione: troppo poche le iniziative che coinvolgono il popolo locale.

L’11 marzo  2002 han dato vita all’associazione “Fufa onlus” (dal nomignolo di Fulvia Bardelli, loro amica e figura poliedrica nel campo teatrale, scomparsa l’anno prima); assieme all’Università si propone  la assegnazione di più borse di studio a studenti nel campo teatrale.

 

    La ristrutturazione dell’ambiente dell’ex-mercato, concluso nell’ottobre 2001, ha offerto al teatro il supporto di sale idonee a seminari di danza o teatro, servizi quali un laboratorio sartoria-falegnameria, un deposito di scenografie e costumi, i camerini per gli attori,  una sala prove ed una per la stampa.

    Mi sembra, dai discorsi fatti a me sprovveduto, dal popolino che conosco in delegazione, che se ne sia impossessato più l’Archivolto per i suoi programmi , che la popolazione confermato da una intervista al Secolo XIX durante la quale la responsabile confessava che “anche se gli abitanti sono orgogliosi del ‘loro’ teatro non lo frequentano molto…d’altra parte la nostra non è una programmazione di quartiere…la scommessa era semmai portare qui il grande pubblico”; e prosegue l’articolista scrivendo “L’Archivolto ha programmato Pennac e Dario Fo dove un tempo c’era l’operetta. E forse per questo alcuni preferiscono il teatro in dialetto”.

 Il teatro è stato riaperto:  questo è l’essenziale. Che sopravviva, dipenderà  dal dialogo che il teatro saprà fare oltre che con gli esperti (e questo probabilmente lo stanno facendo già e bene, con rappresentazioni, incontri e concerti ), anche con la gente. Nel maggio 2001 un corso di sette incontri di aggiornamento per la conservazione del dialetto genovese: una commedia ‘a ciammavan Cenerentola’ messa in scena dalla compagnia ‘Caroggè’ sia per 2000 ragazzi delle scuole che per gli adulti. Il programma 2001 vide andare in scena opere di un certo spessore coinvolgenti compagnie teatrali prevalentemente nazionali, con teatro, danza, appuntamenti letterari e musicali, rappresentazioni per bambini: nell’ottobre 2001 ospitò il calciatore Seedorf Clarence per parlare ai ragazzi di razzismo;  e -gratuitamente per il pubblico- il vincitore del 48° premio Paganini, il ventitreenne polacco Marius Patyra che con il celebre ‘Guarneri del  Gesù, soprannominato il Cannone’ eseguì sinfonie di Haydin, Mozart ed i Capricci 7 e 24 di Paganini.

   Un programma, titolato ‘festival lungo un anno’, ha visto dedicare la prima stagione a Daniel Pennac, e l’anno dopo a Stefano Benni con in scena i vari attori che in qualche modo nel corso della propria carriera hanno interpretato i testi scritti dai due autori e che per gli appassionati sono veri e propri ‘best sellers’.

   Nel 2007 l’Archivolto inizia a mandare SOS: mancano 2 milioni di euro; perché gravato da un debito ancora legato agli investimenti iniziali, e poi non saturati cosicché sui quali gravano gli interessi passivi; e perché lo Stato  ha tagliato i contributi. Nel 2009, tra tanti silenzi, pare si muova un certo interesse dei media e  tra i terminalisti dello scalo portuale.

 

   La facciata  appare neoclassica, con in basso cinque porte (tre centrali e due lateralizzate unite come da un finto porticato).


Sotto il timpano d’apice, portava una scritta iniziale, presumo greca “kinoplastikom” andata ben presto perduta e, da chiarire come significato.

 


   Nel 1920 fu ristrutturato abbassando il pavimento ed eliminando i tre scalini originari, nonché costruendo un avancorpo alle tre porte centrali  tale da formare un terrazzo per il piano superiore: questi fu  arricchito da un colonnato ionico e da un timpano.

   Nel 1998 le fu assegnato il civico 3 nero.

   L’interno   ha un grosso atrio, ed un ridotto (che rimane sotto il palco reale, oggi del sindaco); essi si aprono verso la grande sala, fatta a ferro di cavallo per un loggione ed una vasta platea,  circondate da 4 ordini di palchi (10 al 1° livello e 25 al 2°, 3° e 4°) , il tutto per circa 800 posti (nella ultima ristrutturazione, il dover porre attenzione a tutte le normative di sicurezza, ha costretto gli architetti a ridurre i posti ).

   Alle pareti, stucchi e dorature realizzate da DeLucchi e dallo stesso Bruno;  il soffitto  ha una botola centrale per far scendere il grande lampadario in bronzo (a quei tempi munito solo di candele di cera); nonché pitture a fresco del Barabino raffiguranti le figure de “le 4 stagioni” racchiuse dentro grosse losanghe convergenti verso il centro, e in un rosone, il ritratto di Gustavo Modena. In un restauro del primo 1900, Carlo Orgiero e Salvatore Zunino ridipinsero alcuni affreschi precedenti andati perduti: ora anch’essi si sono deteriorati per cui attualmente appaiono riprodotti su tela che è stata sovrapposta all’intonaco del soffitto in modo tale che questa copertura non resta evidente e quindi rimane il disegno con gioioso appagamento della vista.

 

atrio

    

   Aveva due sipari: uno dipinto da Nicolò Barabino (richiestogli per l’inaugurazione, egli aveva dipinto -per questo suo primo esperimento scenografico- una “apoteosi e incoronazione di Ludovico Ariosto, nel tempio della gloria” (coordinando sulla grossa tela di circa 120 mq  molte decine di figure (41.160 dice 100; sul Secolo sono 140 mq e 50 figure) in formato un poco più grande del naturale, riprodusse -come se fossero all’interno di un tempio e circondati da dovizia di elementi architettonici (colonne, capitelli e statua della Poesia)- in prima evidenza il dio Apollo che porge l’alloro all’Ariosto chinato ai suoi piedi, con vicino l’Italia che l’addita ai poeti greci e latini (in primissimo piano a destra  Petrarca e Dante) tutti distribuiti intorno, assieme a muse ed allegorie, e tutti inneggianti alla gloria del poeta).  L’armonia era tale che destò l’ammirazione di tutti i critici. Sappiamo che dal tempo della inattività, giaceva nel teatro abbandonato incautamente non custodito ed arrotolato sullo sfondo del palcoscenico alla mercé di polvere, umido, topi e piccioni;  fu deciso nel 1987 una ispezione e, da essa un preventivo di restauro; l’anno dopo il Comune stanziò la cifra necessaria, prevista di 166milioni ed affidò la tela al laboratorio di san Donato, diretto dall’arch.GFranco Carboni. Ma nella lunga attesa burocratica, qualcuno si era accorto del valore e della facile vulnerabilità dell’oggetto. Solo nel maggio 1989 (in seguito ad un furto nella tabaccheria d’angolo nella quale erano penetrati accedendo agevolmente attraverso il teatro) ci si accorse che chissà quando dei ladri, ovviamente rimasti ignoti, avevano deturpato la tela. Le indagini riscontrarono che il furto consisteva nell’asportazione di una porzione di tela di m.18x2 (altrove è scritto 3x5, sulla parte destra riproducente le immagini di Dante e Virgilio): proprio la parte centrale  di quello che si era meglio conservata, e in modo tale da rendere il tutto praticamente inutilizzabile (almeno così si legge; e il rimanente non si sa dove sia; si presume  alle Belle Arti per eventuale ipotetico restauro).

   L’altro sipario era di Carlo Orgero, e rappresentava il “Falconiere” : era usato per spettacoli secondari o per i cambi di scena, e usualmente detto ‘il comodino’ . Attualmente  non si conosce dove sia .

   All’atto del restauro furono trovati anche alcuni macchinari, i più in legno, che furono prelevati per eventuale restauro  (vedi foto in 65.91).

   L’edificio, dal 1934 è vincolato e tutelato dalla Soprintendenza per i beni architettonici della Liguria.

===civ. 4-8 rosso; ancora nel 1960 al 4 vi aveva negozio di cordami Burdese Maurizio; ed all’8, c’era stato il vecchio ‘bar Lava’ e, dal 1950 il bar di Riva Pierina. Dal 1974 è aperto il ristorante ‘la Botte’, arredato con  personale stile rustico da allora (inizialmente erano tre soci) è  gestito dal baffuto chef Roberto Benzi -detto ‘baffo a manubrio’-, dove giocando sulla qualità, vengono proposti manicaretti appetitosi, al chiaro di candela  (nel 1983 ricevette la ‘coppa d’oro’ qualificandosi primo ad un concorso su ‘Sampierdarena a tavola’. Alle pareti, vi sono quadri  di Luciano Fumagalli, che fu vigile del mercato).

===civ. 5r-9r nel 1961 c’era il calzaturificio Varese

===civ. 10r: nel 1961 c’era la trattoria ‘eredi Narizzano E.’

===civ. 11r-13r sempre nel 61 c’era Costa i articoli tecnici, tel.41.954

 

DEDICATA  all’attore, nato a Venezia nel 1803 da Giacomo (probabilmente sarto teatrale originario del paese trentino Mori-Riva del Garda) e da Maria Luisa Lancetti attrice.

La madre ovviamente lo sensibilizzò fin da piccolo all’arte teatrale


Diciottenne, si iscrisse a Bologna alla facoltà di legge nella Università Pontificia. I tumulti patriottici del 1821  lasciarono il segno nell’animo e nel corpo di Gustavo che vi  partecipò a Bologna e  rimase ferito in uno scontro con i gendarmi pontifici; ma l’ardore di pochi on bastò e l’impreparazione determinò facile stroncatura da parte dei governi assolutisti.

Comunque, si laureò il  6 febbr. 1824.

 

 


Dopo la laurea esercitò la libera professione, prima a Roma poi a Bologna dove fu avvocato alla corte d’appello. Ma l’arte teatrale e una ben accertata capacità di recitazionde lo attrassero più forte di quella forense; così decise debuttare quello stesso anno 1824,  nel ruolo di David nella tragedia “Saul” di Vittorio Alfieri con la  compagnia filodrammatica di Luigi Fabbrichesi. Dopo sei mesi entrò in quella del padre Giacomo che proponeva  repertorio classico col quale il giovane iniziò a lanciare messaggi politici indiretti contro le dominazioni straniere, in particolare quella austriaca. Così che la sua fama di attore crebbe e la libera stampa lo citava come di un “un mago del teatro”. Le opere teatrali interpretate furono: dal classico Euripide, ai moderni Sciller, Botti, Dall'Ongaro, Pellico, Alfieri e Manzoni.

La sua fede patriottica si rafforzò nel marzo 1831 quando partecipò ai moti risorgimentali di Bologna promossi dai mazziniani nella vicina Modena (dove il duca Francesco IV, che già aveva condannato alla  pena capitale  Don Andreoli,  reo solo di essere carbonaro, aveva fatto  arrestare e condannare a morte Ciro Menotti) - tenendo un discorso che infiammò gli animi, commosse gli ascoltatori ma lo costrinse a  fuggire dalla città dove fu condannato in contumacia.

In esilio fu dapprima in Francia, poi in Svizzera dove sposò la ginevrina Giulia Calame, la quale abbandonò gli agi familiari per seguirlo a Bruges ed a Bruxelles, (dove per sbarcare il lunario  fece il venditore ambulante di maccheroni e vino marsala) ed infine a Londra (dove conobbe Mazzini; aderì alla Giovine Italia della quale rappresentò poi l’ala più democratica; e dove esercitò diversi mestieri ma riuscì  grazie all’aiuto di Mazzini,  a tenere uno spettacolo “Lectura Dantis”  che suscitò interesse ed ammirazione nel pubblico per la sua abilità nel declamare i versi della Divina Commedia, poeta anche a Londra conosciuto quale simbolo dell’identità culturale e linguistica italiana.  

Nel 1839 dopo otto anni di esilio poté lasciare l’Inghilterra e tornare in Italia.

Quattro anni dopo a Milano riscosse grande successo al teatro Reale e costituì una propria compagnia con cui iniziò una tournée di sette anni in quegli stati italiani preunitari che gli concedevano il visto d’ingresso.

    TEATRO = Viene riconosciuto il più grande attore dell’ottocento, considerato insuperabile per calore e profondità della voce; ma soprattutto perché  riformatore e innovatore dello stile di recitazione  in quanto a) liberò la sua interpretazione dai vecchi schemi stereotipati caratterizzati da esasperata declamazione e da atteggiamenti “plateali” od eccessivamente mimici ed enfatici con i quali gli attori precedenti cercavano di rafforzare l’espressione delle passioni e dei sentimenti; b) comprese che l’attore poteva costituire un forte mezzo di elevazione culturale e morale del popolo (a quei tempi erano d’uso rappresentazioni dell’Alfieri, di Dumas padre, di Delavigne, e degli altri autori che oltre al dramma esprimessero l’irredentismo, la propaganda insurrezionale, l’incitamento alla lotta); c) le sue scelte sono alla base del moderno metodo di recitazione,  basato sull’approfondimento psicologico del personaggio da interpretare e sul concetto di immedesimazione da parte dell’attore.

Divenenne così indiscusso protagonista dell’arte del teatro, apprezzato come rigido e coerente personaggio, divenuto pubblico per l’arte; e non solo: attore, scrittore, giornalista ed oratore (eccezionale dicitore dei canti della Divina Commedia);  come uomo di spettacolo, si ricorda quando – come maestro - diresse lui la compagnia comprendente nomi che diverranno famosi nell’ambiente, come Tommaso Salvini (che si distinse come patriota e fu suo compagno d’armi nella difesa della Repubblica Romana), Luigi Bellotti-Bon ed Ernesto Rossi (anch’egli patriota delle Cinque giornate di Milano).

   PATRIOTA= Non fu da meno per i suoi precedenti di fervente patriota: fu puro e fervente repubblicano (fedele mazziniano, iscritto alla Giovine Italia ed alla carboneria,  fu esiliato dai Savoia ai quali rimase dignitosamente avverso: tutto questo piaceva molto ai sampierdarenesi);  nel 1831, abbandonò il teatro per accorrere a Bologna in rivolta contro l’Austria; le feroci repressioni lo costrinsero di nuovo all’esilio (Francia, Svizzera, Inghilterra), da cui tornò solo dopo l’amnistia concessa da Ferdinando I);  nell’insurrezione del 1848 a Milano fu tra i primi a partecipare; e poi nel Veneto con Manin  si fece portavoce dell’idea di armare la popolazione  per combattere;  dopo, alla difesa della Repubblica Romana del 1849 allora 46enne- alla quale  partecipò come caporale dei volontari con la moglie Giulia Calame infermiera (insieme a Enrichetta De Lorenzo, compagna di Carlo Pisacane, e Cristina Trivulzio); durante l’assedio scendeva dalle barricate per salire ben due volte sul palcoscenico e darvi ben due recite a raccogliere somme, al fine di recare ai feriti il necessario sollievo. I due coniugi furono descritti da Giulio Piccini biografo di Tommaso Salvini: ”Erano giunti il 31 aprile: questi due indomiti non posavano mai. Giungevano da Firenze dove lui aveva corso pericolo di morte, mentre era chiuso nella sala dell’assemblea costituente, dinnanzi alla quale aveva pronunziato il suo focoso discorso per l’unione della Toscana a Roma”  dovette trovare suo malgrado  rifugio negli stati sardi.

Nel 1859 uno scrittore Giuseppe Prati (definito “poeta di Corte”), sui vari giornali nazionali si mise a denigrare in versi, vari personaggi del Risorgimento; tra essi anche il Modena con un epigramma : «Repubblica tu sudi – dal capo fino ai pie’, - ma in grazia degli scudi (soldi) – ti adatti a far da re». La risposta non tardò a venire (essendo stata recitata non è il vero testo: «come attore io sono solito riprodurre sulla scena eroi e popolani, ingenui e malfattori, e tutte le volte che io devo incarnare un tipo, rappresentare un personaggio, studio e prendo a modello un tipo e un personaggio vivente. Così fece pure il divino Michelangelo. Il giorno che dovrò rappresentare sulla scena Giuda, prenderò a modello il cav. Giovanni Prati»).

   POLITICO= Fu eletto deputato all’Assemblea Costituente a Firenze; repubblicano mazziniano anticlericale ed avverso a qualsiasi conciliazione con la monarchia sabauda, dovette suo malgrado trovare rifugio negli stati sardi

   Più volte, sia per ragioni professionali che politiche, aveva soggiornato  a GENOVA: nel 1856  a genn. e febb., nonché il 26 maggio quando aveva rappresentato il Polinice, di Vittorio Alfieri, nel teatro Apollo (era di fianco alla chiesa di s.Maria della Pietà, vicino alla casa di Colombo), a beneficio delle scuole serali ricevendo la sua paga e in più in regalo un canto in terzine di  Luigi Mercantini -anche lui esule a Genova ed insegnante al Monastero, istituto tecnico di SPdA-, ed una bandiera. Qui abitava in una casa in via dei Servi al 67 nella zona dell’ex Via Madre di Dio (Giardini Baltimora), poi demolita; nel 1889 vi posero una lapide  affermante  “abitò questa casa - nel MDCCCLVI - Gustavo Modena - qui il popolo acclamò fremente - il maestro sommo dell’arte drammatica - il cospiratore della Giovane Italia - il difensore di Roma - Il Circolo Libero Pensiero, questo ricordo pose il 20 settembre 1889”.  Nel 1857 fermandosi dal novembre sino al febbraio dopo, recitò al teatro Doria (poi Margherita, ove anche qui fu posta una lapide a ricordo “ a Gustavo Modena - nella sera della sua beneficiata -nel teatro Doria- la Consociazione degli Operai in Genova”) il 18 dicembre; nel 1958, la stessa  Consociazione, gli donò una medaglia commemorativa ed un’ode, opera di Emanuele Rossi,  per aver recitato sempre a beneficio delle scuole, nel teatro Apollo il 17 dicembre; in occasione scrisse  essere “afflitto da malanni fisici, da impresari che pur non pagandolo volevano imporgli parti da sbadiglio, da autori maschi e femmina con drammi da leggere, e rompicugie di visitatori, e lettere da rispondere...”). Nel nov.1859 scrive essere alloggiato “in piazza san Stefano alla Porta d’Arco n°2 vicino al barbiere, 4° piano” ...

Quando i sampierdarenesi decisero di dedicargli il teatro, raro caso di dedica ad un personaggio vivente, per l’inaugurazione il 18 settembre 1857, delegò a rappresentarlo l’attore Amilcare Bellotti Bon. Tuttavia forse, durante i soggiorni genovsi, non mancò di far visita a San Pier d’Arena  e farsi ritrarre davanti al teatro a lui intitolato come testimoniato da una cartolina  in cui sembra lo si possa ravvisare nell’elegante cinquantenne signore con il sigaro che sta appoggiato all’edicola della piazza e dal quale i presenti si tengono a rispettosa distanza. 

 

   Probabilmente afflitto da qualche malattia non conosciuta, si ritirò a Torre Pellice,  dopo aver rifiutato la direzione di un teatro, amareggiato dall’assetto monarchico che  l’Italia unita  aveva assunto, antitesi della sua visione repubblicana e mazziniana. Dopo vita intensa e produttiva, morì precocemente, trentottenne, a Torino il 20 gennaio 1861 tra le braccia della moglie Giulia Calame, la coraggiosa ginevrina che aveva condiviso con lui le gioie, le speranze ed i dolori della sua vita di artista e di patriota, alla quale lasciò articoli ed un epistolario.

 

   Molte città hanno titolato una strada a suo nome, tra le quali Milano e  Roma (in quest’ultima sul Gianicolo c’è anche un busto, opera di Carlo Lorenzetti) mentre   una statua, sempre di Lorenzetti, si trova a Venezia, sua città natale. Genova lo ricorda, attore drammatico e patriota, amico di Mazzini, con una lapide posta in via dei Servi. Nel Politeama Genovase c’era ancora nel 1895 un medaglione di marmo con il suo ritratto eseguito dal comm. Santo Saccomanno (altri erano di Adelaide Ristori, Tomaso Salvini ed Ernesto Rossi).

Palmanova, Vaiano (Prato) e  San Pier d’Arena gli hanno intitolato un teatro (in quest’ultimo, un medaglione col suo ritratto è visibile sulla volta sopra il sipario).

 

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-?                    -G.Modena-SocLiStPatr..vol.XIX ns.I.pag.404***da vedere
MOLINO                                       via al molino Tuo

 

Molti erano i molini – sia in epoca medievale che ancora ottocentesca - disseminati lungo l’argine del Polcevera, pronti a sfruttarne il deflusso delle acque e parimenti esposti alle sue bizzarrie invernali. Ma anche nell’interno del territorio, a sfruttare l’acqua dei torrenti meno ricchi si sa che ce ne erano. Uno in particolare - nella zona del Campasso - segnalato  nelle mappe del 1700,  nella località confinante a sud con la proprietà dei Cicala, raggiungibile a monte dello stradone principale allora senza un nome particolare essendo poco percorso (poi verrà  chiamato via Vittorio Emanuele, via UmbertoI, ecc. fino all’attuale via W.Fillak).


 

 

carta del Vinzoni – 1757 – a destra, tratto della via del Campasso con nucleo di case; in nero percorso di un torrente con casa adiacente-  probabilmente il mulino.

In rettilineo il progetto di una via diritta, oggi WFillak.

 


 

Così,  stradina che - dallo stradone - portava al molino di proprietà Tuo, volgarmente e praticamente assunse il nome in questione, prima che la giunta comunale locale  sancisse per esso, nell’anno 1900, il nome ancora attuale di  vico Govèrnolo.

L’opificio traeva fonte di energia funzionale  dall’acqua dei torrenti provenienti dal Belvedere (oggi, i due più grossi rimasti in superficie, sono uniti in unico fossato in corrispondenza dell’inizio  di via Pellegrini; attualmente sono ancora in luce e visibili nella piazzetta di fianco-nord  alla chiesa). Da lì il torrente percorreva libero (invece ora scorre sotto la strada) lo stesso itinerario dell’attuale via Campasso (i suoi frequenti ed irregolari straripamenti sono probabilmente all’origine del nome della località, acquitrioso, stagnante in laghetti che imputridivano l’aria ed ostacolavano il percorso),  alla fine della quale (prima di proseguire verso via  Chiusone per arrivare al Polcevera), aveva un canale che correva dietro la casa e che - in discesa -  faceva funzionare le pale.


 

carta fine 1700   – Leggibile  la  

indicazione‘molino’.

 A destra in verde la chiesa parrocchiale

di  s.Martino. In rosso da sinistra

l’attuale v. Rolando che si continua

in v.Vicenza - Campasso. 


La casa abitativa, aperta in via Fillak e ristrutturata nel 1999 essendo divenuta proprietà di una comunità religiosa, è ancor ora conosciuta come ‘casa Tuo’.

Il mulino fu poi venduto ai Monticelli, gli stessi che avevano comperato anche il palazzo di via Daste-angolo via della Cella, per produrre farina per il loro pastificio. Infine fu demolito a vantaggio delle case popolari o della ferrovia.

La cartina, particolare di  un progetto settecentesco, mostra proveniente dall’alto, il torrente che si sovrapporrebbe a salita Millelire, con subito a nord e lungo la strada, il molino.

 

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale

-StringaP.-La valpolcevera-Agis 1980- pag. 93


MOLTENI                                 via Tullio Molteni

 

TARGHE: via – Tutllio Molteni – caduto per la Libertà – 1926-3.12.1944

                                                      

            

agosto 2007- estremità est, a mare -                                                        nel 2011 è comparsa questa nuona

                                                                                                                 sul lato opposto della precedente

 

 

 

QUARTIERE  ANTICO: Canto

 da MVinzoni, 1757. In verde, ipotetico tracciato della via. In rosso via Antica Fiumara; in celeste via Bombrini, in giallo via SanPierd’Arena

 N° IMMATRICOLAZIONE:   2806     CATEGORIA:  1

Pagano 1967-8

 

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA - n°:   39520

UNITÀ URBANISTICA: 26 - SAMPIERDARENA

 da Google Earth, 2007

CAP:  16151

PARROCCHIA:  s.Maria della Cella

 

STRUTTURA:  


 larga strada con portici ai due lati, indirizzata da monte a mare; ed a metà percorso, tagliata perpendicolarmente in due da via F.Avio.

La numerazione  è progressiva da monte a mare. Invece per la viabilità si determinano: nel tratto che inizia da via S.Dondero esiste senso unico verso il mare;  nella parte a mare, senso unico inverso da via San Pier d’Arena (che fino al 1950 circa si chiamava via N.Barabino) verso via Avio.

 


Nel dic.04 si segnala il transito di 15mila veicoli/die. Cosicché la strada appare una delle più inquinate della nostra piccola città, causa il traffico intenso, lento, di molti mezzi anche pesanti (camion, tir, bus). Lo smog più volte ha raggiunto il limite massimo consentito (di biossido di zolfo=SO2) e sfondato i limiti concessi di concentrazione quadruplicandone (di biossido d’azoto=NO2) e triplicandone (di monossido di carbonio=CO) la concentrazione

 

STORIA:   il terreno, in piena zona del ‘Canto’ era inizialmente coltivato ad orti.  Fu in essi che nel 1868 si accampò un battaglioni di zuavi francesi (giubba blu, pantaloni rossi alla zuava, ghette), diretti a Roma -loro dissero per aiutare gli italiani-. Si seppe poi che però furono impiegati per difendere le truppe pontificie contro quelle italiane;  per cui, al loro ritorno  furono accolti da una fitta sassaiola che li costrinse a spostarsi lungo il Polcevera, dalle parti della cosiddetta piazza d’Armi. Senonché, per un fortunale il torrente ingrossatosi nella notte, fece strage delle loro masserizie ed anche causò delle vittime (monete francesi furono trovate nella sabbia dai minolli e dai trasportatori col tombarello) .

Il terreno fu occupato ai primi del 1900 dagli stabilimenti di GB Carpaneto (vedi).

La strada nacque con il piano regolatore della zona, studiato e realizzato durante il ventennio fascista: esso previde la distruzione degli stabilimenti,  a vantaggio di edilizia popolare signorile.

Fu dapprima chiamata via XVIII Novembre  (del 1935; vedi).

Dopo l’ultima guerra, con delibera della Giunta comunale del 14 marzo 1946, fu dedicata al partigiano.

Nel 2004-5 il Consiglio di circoscrizione attuò una riunione sotto i portici vicino all’ingresso della USL, proprio al fine di mettere in risalto il problema gravoso del traffico (continuità viaria verso il ponente, stazione ferroviaria, mercato, inail, fiumara, ma soprattutto in specie quello pesante dei tir che ammorbano l’aria con lo smog il rumore e l’ingombro (il transito è obbligato, dall’impossibilità per vincolo di aprire la strada a mare nel terreno dell’Ilva); a ciò, si aggiungono mancanza di parcheggi, chiusura di alcuni negozi, sporcizia e delinquenza per degradare questo lato del ‘quadrilatero’ (assorbito nella dizione “zona Fiumara”). Il 2 giugno 05, per sei ore la strada fu trasformata in isola pedonale con divieto di transito, a titolo di protesta contro il supertraffico. Uno striscione chiede “ridateci l’aria”.

         

da mare a monte – 2009                                                  manifestino di protesta

 

CIVICI

2007= NERI: da 1 a 9 (compreso 1A e 5A e B);   e da 2 a 4

            ROSSI:  da 1r a 55r (compreso 53Er;   manca 31r);

                          dal 2r al 56r (    “          54Ar;    “      48r)

metà a monte

===civ. 1  eretto nuovo nel 1954

===civ. 3  presumo fratello e contemporaneo al precedene avendone la stessa struttura

metà a mare

===civ.5-5a-5b  assegnati a nuova costruzione nel 1964, di proprietà dell’INAIL; il 5a, è affittato, alla mutua INAM (poi USL)  locale.

===civ. 6 al piano strada, dal 1940 circa ha ospitato per quasi cinquant’anni gli uffici postali locali, prima che alla fine del 1988 si trasferissero in via U.Rela e poi  in piazza del Monastero.

civ.5 - ingresso mutua INAM, poi USL

===civ 7  soppresso per demolizione nel 1959, fu riassegnato a nuova costruzione, nel 1961. È sede dell’INAIL (ist.naz.assicur infortuni sul lavoro).

Tra questo civico ed il seguente, una anziana persona (sig.ra Lagorio, ultraottantenne nell’anno 1990) ricorda esserci stato un vicolo che congiungeva la strada a via Pacinotti (forse si collegava o era il vico dei Lavatoi).

 ===civ. 9  fu eretto nuovo nel 1952.

Per lunghi anni ndel 1970 ospitò – con finestre sotto i portici – i Servizi di Salute Mentale della Provincia. Sulla facciata a mare, troneggia la scritta, ripetuta più volte in altorilievo, RTS  la sigla di Rolla Traverso & Storace, la vecchia società che in zona lavorava ferro, lamiere, metalli e tubi, ed i cui uffici nel 1961 erano in via Avio al 4.2bis.

 

DEDICATA al sampierdarenese, nato il  23 mar.1926. 

   Dopo il fatidico 8 settembre ‘43, ancora diciassettenne, preferì fuggire anziché essere sottoposto alla leva forzata nelle forze fasciste; raggiunti  i monti, si aggregò alla divisione Langhe (che arriverà a 400 unità, comandata dal famoso “Mauri”, nome di battaglia del maggiore Martini Enrico, un badogliano autonomo), dislocata nella II zona operativa (zona di Ceva). Partecipò così alla assai incerta vita partigiana, sui monti, fin dalle prime azioni non ancora ben organizzate, di propaganda e sabotaggio.

   Tornato in città per una missione, in seguito a delazione, venne catturato e portato a Marassi (nella cosiddetta IV sezione: questa faceva parte del reparto che  si interessava del controspionaggio, dei ribelli, dei comunisti e degli ebrei, compilava gli elenchi dei cittadini condannati a morte da fucilare per motivi di rappresaglia, o da inviare nei campi di concentramento). Erano giorni assai cupi: la confusione militare e politica coinvolgevano quella morale ed etica. L’insicurezza e la paura erano sovrane: i bombardamenti da un lato; la violenza dall’altra (sbandierata come legale dai fascisti, veniva ovviamente avversata quando a loro volta venivano  aggrediti  per  la strada ed uccisi, con conseguenti cieche rappresaglie ed a spirale altrettanto controrappresaglie).  Le panetterie chiudevano per mancanza di farina; la gente era confusa tra i radicati valori tradizionali e la nuova situazione  diversa da quella propagandata e sempre più esasperante e sfiduciabile. 

   Il Comando delle Brigate Garibaldine SAP di Genova, aveva fissato per il 30 novembre la “giornata delle spie”: quel giorno finì col risultato di  “21 nemici eliminati,  8 feriti, molte armi recuperate, 7 prigionieri; contro due partigiani  feriti  non gravemente. Il capo prefetto di Genova, presi accordi con la Platskommandantur, dispose una rappresaglia che -ufficialmente- riguardava solo un coprifuoco.    Invece, nella notte del 2 dicembre 1944, mentre sui monti si preparava un rastrellamento, preludio della grande offensiva invernale, il Molteni fu prelevato e, assieme a 21 altri compagni, fu trasportato a Portofino, per essere fucilato senza processo, nella strage ricordata col nome della spiaggia luogo dell’esecuzione, dell’Olivetta. I corpi, di alcuni forse ancora vivi, furono legati in reti, serrati da filo spinato, appesantiti da sassi e poi gettati in mare. Così, tutti avvolti assieme, scomparvero nel silenzio di quell’angolo di giardino terrestre. La tecnica di far scomparire così i corpi di giustiziati, risparmiandosi il seppellimento, era già stato adottato nel 1943 sul lago Maggiore dalle SS nella eliminazione dei primi ebrei, quando stava nascendo l’accanimento specifico nei loro confronti.

    La scelta dei caduti e del luogo, è legata all’indiscutibile volontà e permissività in merito a rappresaglie, del ten.col. Sigfried Engel, comandante nel periodo dall’8 sett.‘43  agli inizi del  ‘45 ,  delle SS in Liguria: gli uni per rappresaglia; l’altra per lasciare un segno a monito della potenza nazista in ogni angolo della nostra terra; il processo per queste stragi, iniziò a Torino nell’ott.1999 e si concluse in Germania nel 2002, con condanna tendenzialmente mite visto la eccessiva distanza di anni nell’intraprendere giustizia.

 

BIBLIOGRAFIA

-Archivio Storico Comunale - Toponomastica  , scheda  2843

-AA.VV.-Annuario guida Archidiocesi-ed./94-pag.420; ed./02-pag.457

-AA.VV.-Contributo di SPd’Arena alla Resistenza-PCGG.1997-pag.133

-AA.VV.-SPd’A 35° (dice Olivella)     

-Gazzettino Sampierdarenese  :  2/82.5  +  2/89.10

-Gimelli G.-Cronache militari della Resistenza-Carige 1985-II-pag.127

  (nel vol. III-elenco caduti,  non appare citato

-Il SecoloXIX del 19.10.1999 (dice 22 nov.44)  + 05.02.04 + 02.12.04

-Lamponi M:-Sampierdarena- LibroPiù.2002- pag. 107

-PastorinoVigliero-Dizionario delle strade di Ge.-Tolozzi ’85-pag.1202 (dice Manzi

   anziché Mauri, e Olivella)

-Poleggi E. &C-Atlante di Genova-Marsilio 1995-tav. 33

 


MONASTERO                                 piazza del Monastero

 

TARGA: piazza del Monastero.         

 

QUARTIERE  ANTICO: Comune

da MVinzoni, 1757-In celeste la crosa dei Buoi; giallo  vico della Catena; fucsia la villa del Monastero con a monte il chiostro; rosso la via del Monastero.

 

N° IMMATRICOLAZIONE:   2807    CATEGORIA:  2

 dal Pagano 1967-8

 

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA - n:   39580

UNITÀ URBANISTICA: 26 - SAMPIERDARENA

 da Google Earth 2007- in giallo il teatro Modena; celestre il ‘Baraccone’ del Sale

CAP:   16149

PARROCCHIA:  s.Maria della Cella

STRUTTURA:   piazza comunale con traffico viario che collega in senso unico via Sampierdarena verso via del Monastero e piazza Vittorio Veneto da via della Catena.  Risulta di 1106 mq., essendo profonda circa 31m.

È praticamente adibita a posteggio auto. I numeri pari posti sul lato a ponente hanno solo il 2 nero e 12 rossi tutti occupati dalla ditta Pittraluga tendaggi e stoffe.

Al civ 8-10r, nel 1950 c’era un bar, allora di Ivaldi D.

È servita dall’acquedotto DeFerrari Galliera

foto anni 1970 – Gazzettino Sampierdarenese

 

STORIA:   della piazza: 

    Nelle prime carte settecentesche viene chiamata piazza del Monastero, come era d’uso quando non esistendo targhe ufficiali la zona veniva riconosciuta in rapporto a quanto c’era di maggiore evidenza, fosse una persona, un monumento, una chiesa.

    Dal 1890 sull’onda degli entusiasmi dell’Italia unita, fu ribattezzata piazza XX Settembre (vedi), e tale rimase finché il podestà di Genova, il 19 ago 1935 deliberò il ritorno all’antico nome. In quegli anni le case erano abitate da: civ.1 e 5, Rivaro Francesco (Pretura); civ.2 Scuole Maschili Proprietà Municipale; civ.3 Grasso e C ; civ.4 Bertorella Colletta.

   Nel Pagano/40 è sotto questa titolazione, da via N.Barabino a vico della Catena evia del Monastero. Come nn. Civici neri ha al 4n la red. del Giornale “Il Lavoro”; al 6n  il r.Ginnasio G.Mazzini + biblioteca Civica +

il prof. Zononi G.. Nei civici rossi: 3r Pittaluga tessuti; 6r calzolaio; 8r bottiglieria; 11r latteria; 12 cartoleria.     

    Al centro, contornato da ringhiera, troneggia il monumento  dedicato a Garibaldi, opera dello scultore Augusto Rivalta (AL.1838-1925; allievo della Accademia Ligustica di cui divenne accademico nel 1866; volontario garibaldino nei Cacciatori delle Alpi; si trasferì nel 1859 e visse a Firenze mantenendo rapporti con gli ambienti artistici locali e genovesi; è lo stesso artista che produsse il monumento a N.Barabino, gli unici due della nostra città di grosse dimensioni (ma anche a Chiavari –1890-; ed in piazza DeFerrari - largo Pertini –1893-, ambedue a Garibaldi. Anche a Raffaele Rubattino a Caricamento). Era epoca di tradizionale espressione artistica e quindi facile alla ripetitività delle immagini ed alla loro banalizzazione: alcuni –pittori come i macchiaioli e scultori come il Rivalta- cercarono una personalizzazione nell’aderenza alla realtà (come NBarabino) purché essa fosse capace di stimolare vivacemente anche la fantasia (come poi Rayper, GBDerchi, ecc., soprattutto D Conte che a Firenze fu allievo del Rivalta in virtù di una borsa di studio rilasciatagli dal Comune di SPd’Arena). Essi e molti vincitori del premio dell’AccademiaL  concretizzarono un ponte ideale tra SPd’Arena e Firenze, centro d’arte basale subito dopo Roma. Avere i bozzetti o disegni delle opere del Rivalta, era motivo di orgoglio per il possessore: lui fece comporre un album ufficiale, da esporre nel salone delle città all’Esposiz. Internaz. di Roma, del 1911, in occasione del 50enario dell’Unità d’Italia. 

               

 manifestino per onioranze inaugurazione           prima collocazione          nella data manca la M  (anno 2011)

 proprietà Majocco Giuseppe/Cercamemoria      foto Biblioteca Gallino    

                                                

Il bozzetto, datato 1893, è conservato al Museo del Risorgimento; i calcoli di statica e peso furono eseguito da Riccardo Haupt (architetto genovese di origini tedesche, collaboratore del Rivalta; propose alcune modifiche al basamento, che furono accettate ed in effetti è diverso da quello adottato); l’opera fu approvata in Consiglio comunale (per l’opera in totale fu preventivata una spesa di £. 20mila lire: £. 9500 furono tratte dalle sottoscrizioni popolari; il Municipio accettò la spesa di  £. 5500); ovviamente non senza ostruzionismi ed ostilità anche tra gli stessi socialisti (il quotidiano “il Lavoro” pubblicò vari articoli contro giudicando inutile pazzesca la monumentomania che investiva 20mila lire per erigere il monumento), e fu pagato previa partecipazione alla spesa dei cittadini con autotassazioni e organizzazioni di feste (tra i tanti, soc.Universale, Croce d’Oro, Sampierdarenese, N.Barabino ecc, il club velocipedisti di  San Pier d’Arena organizzò il 31 maggio 1885 una giornata sportiva nei giardini oggi Pavanello: vi era stata approntata una pista in legno di 350m e dalla Lanterna alla pista, un’ala di folla festeggiò i partecipanti assieme al sindaco, la giunta, i parroci e dirigenti di tutte le industrie; Davidson vinse la gara “San Pier d’Arena” correndo a 30 all’ora e doppiando tutti gli altri, essendo anche l’unico a possedere un ciclo da corsa; la gara “Garibaldi”, fu vinta da Cesare Buttolo. Il considerevole ricavato della giornata, fu donato per il desiderato monumento. Tale manifestazione, con identico scopo si ripropose il 25 giu.1905 con grande raduno sportivo in piazza d’Armi, e con la partecipazione di tutti i migliori atleti regionali, di ginnastica, atletica, scherma, ciclismo e motocicli). Tra le spese va annotata anche quella della coniazione di una medaglia commissionata all’incisore Pietro Ferrea: con le effigi in tondo di Mazzini e Garibaldi - affrontate, separate da un fascio repubblicano - con scritta Sampierdarena - P.Ferrea Genova.


Il monumento fu inaugurato il 22 giugno 1905, in occasione del primo centenario della morte di Mazzini, con un discorso del sindaco Nino Ronco (e dedica a Giuseppe stesso ed a sua madre Maria, delle scuole ai lati della villa Scassi). Sul basamento porta l’ iscrizione “a / Giuseppe Garibaldi / Sampierdarena / MCMV“ (la prima M è caduta e dal 2005 non sostituita); al lato mare, un bassorilievo sormontando da un’ aquila illustra l’ episodio saliente di tutta l’epopea garibaldina, la partenza dei Mille.

 


Sul lato a monte di fronte alle scuole, vengono ricordati  dei garibaldini sampierdarenesi con la scritta di poche parole: “ all’ideale dei Mille (all’ufficio toponomastica del museo di s.Agostino, appaiono riportate queste prime parole “all’ideale del Duce – diedero il sangue...) – diedero il sangue   -  QUIRICO TRAVERSOPAOLO GALLEANOPRIAMO MACCIO’CARLO MERONIO -   Sampierdarenesi “    (vedi a ‘piazza dei Mille’).   

Garibaldini quindi, ma – escluso Traverso - non dei Mille; ed - escluso Galleano, non conoscendo di Macciò- non sampierdarenesi se non come abitanti.

Remedi propone l’idea della loro iscrizione sul retro del basamento, perché allievi dell’istituto – e quindi a simbolo della partecipazione e collegamento tra la scuola e Garibaldi.

Di uno di  essi, di nome  Galleano Paolo si è saputo che fu figlio di un sarto Filippo, e di Ferrari Caterina, cucitrice; nato alle ore 4 del 13 marzo 1839 e battezzato alla Cella dal curato  don Benedetto Chiappe; padrini tal GB.Ferrari, tintore e Galleano Anna nata Tubino casalinga. Morì combattendo, durante l’assedio a Gaeta il 13 febb. 1866.

Risulta esserci un omonimo garibaldino, che sopravvisse fino alla battaglia di San Martino.

 

Carlo Malinverni, nella sua poesia “i Carabinê” (vedi bollettino ACompagna n.2/2010), lo cita:


...

Garibaldi o-i ciammava: – i mæ bravi

boin zeneixi: – tra lö gh’ëa ûn pittin

di fighæti a ûzo Canzio, a ûzo Savi,

e Bûrlando e Belleno e Dapin

e Sartoio e Gallian, – e via via,

tûtti zoeni de sò obbligasion:

pöso e chêu: ma a campagna finia,

se i contemmo, oimemi! quante son?

Dixe: – veddei ciù e là, derré a ûn costo

a ogni colpo ûn borbon peccettâ!

Vedde quella gran barba de Mosto


 

Degli altri tre non è stata ritrovata traccia alla Cella tra i nati 1815-45, probabilmente cittadini locali ma nati altrove; infatti sappiamo che Meronio Carlo, nacque alla Foce nel 1844; ma in tenera età si trasferì a San Pier d’Arena dove iniziò a lavorare con segatore di legname. Quando  partecipò alla spedizione dei Mille, aveva poco più di sedici anni; il suo nome compare tra i soci dirigenti dell’Universale ove- autodidatta-  insegnava nelle scuole serali quello che aveva appreso senza titoli ufficiali e quando pubblicò un opuscolo intitolato ‘Parole di un Operaio’. Combatté in tutte le campagne garibaldine dopo il 1860 escluso quella di Mentana perché ormai ben conosciuto dalla polizia, fu arrestato mentre stava per partire ed assieme ad altri volontari si ritrovò vigilato speciale a San Pier d’Arena, senza poter raggiungere i compagni che combattevano a Monterodondo;  e poi con Menotti Garibaldi in Tirolo (1866) e l’anno dopo a Mentana ove furono amaramente sconfitti. Mazzini gli scrisse una lettara da Lugano, ma Maurizio Quadrio annotò che non era stata recapitata perché il Meronio era partito, corso in difesa della repubblica francese  sempre nelle file garibaldine andate  contro i prussiani che nel 1870 avevano invaso la Francia (in questa occasione gli otto sampiedarenesi accorsi, furono bloccati alla frontiera e ricondotti a Genova su un carrozzone per essere imprigionati in sant’Andrea; ma ritentando appena usciti, riuscirono ad unirsi al Generale); il 26 novembre,all’assedio di Digione assieme a Giorgio Imbriani, correndo all’assalto alla baionetta sotto una tempesta di fuoco nemico, a pochi metri dalle mitragliatrici nemiche cadde gridando ‘viva la Repubblica, viva Garibaldi’. All’Universale  sono conservati alcuni cimeli (la sciabola, l’orologio forato da un proiettile –sospetto della sua morte-, un ritratto fatto postumo a memoria da Carlo Orgiero. Il giorno della sua morte, Valentino Armirotti commemorò l’amico esaltando la sua abituale semplicità e costante disponibilità all’altruismo; sottolineando la sua coerenza di repubblicano dimostrandolo col modo di dare la vita;  e stigmatizzando infine quel militarismo che impone l’usanza di esaltare gli ufficiali e dimenticare gli umili soldati); così il 22 novembre 1874 all’Universale fu posta una lapide in sua memoria mentre il pittore Orgerodipinse a memoria un suo ritratto a olio che poi fu distrutto dal vandalismo fascista.

Traverso Quirico di cui si sa che nacque a san Quirico di Polcevera l’ 11.3.1831 da Tommaso; sbarcato a Marsala l’11 maggio 1860 con i Mille, combattendo nella 1ª Compagnia, morì nella battaglia di Maddaloni il giorno 1.10.1860 (sui Traverso presenti tra i Mille, l’Abba fa alquanta confusione l’uno con l’altro, citando anche un Antonio  che non risulta esserci stato; vengono citati un Francesco nato a Genova il 19.4.1841, che morì il 10.3.1928 godendo della pensione dei Mille; e Pietro, nato a Prà il 6.5.1833, avvocato, combattente nella 2ª Compagnia e pure lui morto a Maddaloni).

Poco si sa di Macciò Priamo, eccetto che morì nelle battaglie dell’Agro Romano nel 1867 (-dopo la campagna in Trentino, 1866- concluse con la sconfitta di Mentana; non è presente nell’elenco del Bevilacqua). 

   Non è facile capire perché manca il nome di Giulio Delucchi, sampierdarenese, partito da Quarto, giornalista in amicizia con l’Abba (il quale poi lo cita due volte ne “Le Novelle”).

   La scarsezza locale di vistosi  monumenti di commemorazione, sia a persone o a simboli (post unitari o post bellici) in città - rispetto ad altre, quali Milano, Torino, Roma - si potrebbe spiegare legandola  all’assenza di  spiazzi adeguati; ma anche alla mentalità tipica ligure consistente in un minore sentimento di ostentazione e molto misurata esteriorizzazione dei propri sentimenti (specie poi quelli di dolore); oppure alla carenza cronica economica che ci ha resi famosi nel mondo  come avari.

    Negli anni 1920, la piazza era il punto di arrivo del ‘carrossezzo’ cittadino, dove ‘una giuria di allegre personalità locali premiava le migliori maschere ed i carri meglio bardati’. Il desiderio di evadere dalla routine di sempre, il famoso ‘semel in anno licet insanire’,  avveniva anche in San Pier d’Arena con il carrossezzo. Divenne parte delle tradizioni che, nel piccolo ma molto sentito dalla popolazione tutta ricalcava quelli più famosi di Nizza e Viareggio: in quella data non era una manifestazione limitata ai bambini, come ora, ma vi partecipavano ed era vissuta soprattutto dagli adulti, seppur con semplici maschere, carri fatti col niente ma nati dal cuore, coriandoli a fiumi gettati anche dalle finestre e la voglia generale di divertirsi, divertire, partecipare e fare chiasso con la banda in testa: ali di folla applaudente e carri mascherati trainati da asinelli (vedi 4/33.401). Figure tipiche locali da maschera vengono citate quelle di ‘Genio e Brisca’, del ‘marcheize’, del ‘paisan’ e del ‘mëgo’. Nel 1981, come scritto sopra,  fu ripreso per i bambini su iniziativa del sindaco Cerofolini. In tempi più recenti un carrossezzo percorre via A.Cantore, cercando di dare gioia ai bambini ma con scarsa partecipazione degli adulti.

   Nel 2003, la circoscrizione ed i Comitati ‘Rolandone’ e ‘via Cantore e dintorni’ promossero per le strade pedonalizzate, nuclei sparsi di attori  in gioiosa differente allegria 

   Nel 1951 fu costruito un caseggiato nella piazza, ma non è specificato quale.

 

CIVICI

2007= Neri, dal 2 al 6 (nessuno dispari)

           Rossi, dall’ 1r all’ 11r; e dal 2r al 12r

===civ 2    Nel gennaio 1881 il rev.do marchese GB Centurione sottopose al sindaco per approvazione “il progetto di sistemazione ed ampliamento di una casa sita sull’angolo sud-ovest della piazza detta del Monastero, la quale costituisce una dipendenza di detta sua casa e di altre proprietà sue contigue alla denominata piazza”. Lì 11 febbraio la giunta municipale con firma del Bonanni approvò il progetto firmato dall’ing. Bruno Salvatore, nel quale si evidenzia una facciata di stile neoclassico in un palazzo a due piani con due sole entrate a piano terra (una facciata laterale prospiciente via C.Colombo) ed avente nella parte centrale alta lo stemma dei Centurione     (un drappo con in alto la corona principesca ed al centro di esso uno scudo (con una trasversale a quadretti bianche e neri tipo scacchiera) sormontato da due teste d’aquila riunite da una seconda corona ed aventi negli artigli due bastoni); nel centro invece del primo piano, alto quanto le finestre, in una nicchia, una statua della Madonna (che dal disegno molto assomiglia a quella attualmente nell’angolo tra via S.Canzio e via Cantore, nel palazzo che fu venduto a don Daste dallo stesso principe GB Centurione).

===civ. 4:   risulta che affacciata sulla piazza, in questa posizione, esisteva una chiesa del Santo Sepolcro.

Era da poco passato il fatidico anno mille: la profezia aveva caricato gli animi col “mille e non più mille”, creando un fervore religioso mirato -sia alla visita prima- e alla liberazione poi di Gerusalemme. Il movimento di sempre più tanta gente, sia per terra che per mare (ma con le piccole barche, solo di bolina o a remi), certamente creò in tutta la zona un grosso sovvertimento: in bene, una ripopolazione mista e l’inizio di un servizio ‘ospitaliero’ inteso come ristoro ed ospizio per i pellegrini.

L’essere coeva con la Commenda di Pré, porta a pensare possibile siano state erette in parallelo  e ambedue battezzate del ‘S. Sepolcro (solo quando arrivarono nel 1098 le reliquie di s.Giovanni Battista  quella di Pré si chiamò col nome dell’evangelista). Furono affidate ai monaci, presumibilmente Canonici del s.Sepolcro (quelli di Prè, dal documento più antico risalente al 1151 divennero Gerosolimitani, anche detti ospitalieri o dell’’ospitale di san Giovanni’).

 incisione del Giolfi  del 1750  –  chiesa e palazzo.                 

  Potrebbe essere che, prima che le navi partissero tutte assieme per la prima crociata (nel 1095 con Goffredo di Buglione e tanti pellegrini francesi, e poi nel 1098 quando 12 galee più un sandalo trasportarono un altro grosso contingente, l’avrebbero fatta innalzare alcuni Canonici regolari francesi (congregatisi per accompagnare i crociati e pertanto detti del ‘Santo Sepolcro’) col fine di aiutare, assistere e far pregare i pellegrini ed i soldati giunti dal nord Europa ed in attesa dell’imbarco. Questi, sostarono a migliaia sulla spiaggia in attesa di imbarcarsi per liberare il santo Sepolcro in Gerusalemme; si organizzarono -assieme agli abitanti di S.P.d’Arena- per fabbricare un luogo di culto forse ad imitazione di quello da liberare. Oppure nel 1099 quando le stesse navi tornarono trasportando i reduci e parte degli stessi monaci (per l’occasione anche detti  dell’ordine dei Gerosolimitani, ovvero nativi da Hierusalem),  con gli scopi sia di assistere i crociati quando di ritorno dalla missione furono in attesa di tornare a casa e sia per serbare memoria dei luoghi santi da quando nell’anno 636 erano caduti in mano turca. Il vasto fermento religioso delle crociate, aveva fortemente ingrandito sia l’interesse della popolazione, sia questo ordine monastico che fu chiamato a Genova da Goffredo di Buglione perché prestassero la loro opera a Gerusalemme. (come espresso a ‘la Cella’, è significativa un’altra considerazione: l’erezione di una chiesa con l’identico scopo -seppur più misera nelle proporzioni ed apparentemente  inutile doppione di san Giovanni di Pré- è  giustificabile solo con l’alto numero di soldati ed animali giunti per imbarcarsi laddove però doveva già esistere un porticciolo ben attrezzato per essere adibito a questa non facile operazione).

Nel nov.1143 la “ecclesia sancti sepulchri” è inclusa (assieme a san Martino) nei capitoli dell’arcivescovo Siro al caput VIIII (sic. al posto di IX) per stabilire “habet crateram unam potionis in pascha et candelas. III. (abbia un vaso di pozione (presumo io sia vino per la messa) nel giorno di pasqua e 3 candele). Nel Foliatium Notariorum, datato 4 gennaio 1156 c’è la volontà testamentaria di Raimondo, di essere sepolto nella chiesa.

   Cattaneo Mallone non cita questi due documenti, e non conoscendo affatto la nostra chiesa, fa tutto riferimento a Prè, quando inizia affermando che è del 1182 un documento, segnalato da Tacchella, che fa riferimento ad un ‘ospitale di Capo di Faro’. In più pone dubbi pesanti che a Pré, prima potesse chiamarsi s.Sepocro e poi passare a san Giovanni. M aammette che nel 1143 esistesse in Genovva una chiesa dedicata al s.sepolcro con annesso ospitale ed i cui sacerdoti pagavano censo alla Curia genovese (mentre quelli Canonici –fondatori- ne erano esenti).

Negli anni del 1200,  i canonici furono supportati da monache Cistercensi. Esse,  per se stesse,  a lato in faccia al mare edificarono un ampio monastero.  Sempre il Foliatium  del 2 marzo 1221 nomina Rubia quale priora di 11 monache (invece Puncuh  fa nascere il monastero nel 1236).  Negli  atti relativi al 1237, risulta che Gerardo, patriarca di Gerusalemme, accompagnato da altri vescovi, consacrò nella chiesa ‘un altare ai  ss. Evangelisti ed altro, particolare, a Giovanni Battista’ (a Venezia, l’evangelista venerato in particolare fu san Marco)  Poco in seguito a questi fatti, smorzata la fiammata dell’ interesse, e forse anche in conseguenza dell’estinzione della congregazione stessa -uccisi in Terrasanta o dispersi-, le suore benedettine dopo la riforma di san Bernardo poterono occupare tutti i fabbricati della struttura lasciata abbandonata ma popolarmente ancora chiamata ‘del s.Sepolcro’.

Dal Regsti di vPolcevera, II.268, si legge : 1275, 6 aprile, in Genova, casa degli eredi del q. Ribaldini e Guglielmo Lercari, “...prete Opizzono capellano della chiesa del S. Sepolcro di Sampierdarena, e sindaco di detto Monastero..”(vende a Nicola q.Pietro di Serra (Riccò?) il diritto di rivendicare dei crediti del monastero)

 Nel 1396,. il 28 gennaio, 5 suore guidate da Terracina Gentile si trasferirono spaventate dalle guerre tra guelfi e ghibellini che insanguinavano Genova, recandosi in contrada dei Salvaghi a Genova; così, anche la chiesa rimase in abbandono.

Un atto notarile del 1415, 15 agosto, scrive che tal Castello di Fegino, per pagare un mutuo,  riceve in prestito la cifra di lire sei ed alcuni soldi, dalla abbadessa suor Tommasina Gentile  e dalla tesoriera del Monastero e Convento del S.Sepolcro suor Limbania Cattaneo.  Promette restituire la somma entro due mesi in denaro o in legna da cantaro e per il forno; se inadempiente potrà “essere arrestato o detenuto per autorità propria di dette monache”.

Un atto notarile del 27 giu.1422 (FilzaII-2aNumeraz.-n.74) cita che le suore debbono dei soldi per vino acquistato. Sono Limbania Cattanea priora; Orietta Pinella badessa; Maria Massa tesoriera; Bianchina d’Accorso; Cattarina Ceba; Teodorina Spinola. Altre risultano “assenti e mancanti a causa dell’epidemia”.

Nel 1423 badessa è diventata suor Argentina Salvaga; permangono Litania Cattanea priora; Maria Massa tesoriera; Bianchina d’Accorso; Teodora Spinola; Cattarina Ceba. Compaiono nuove Eliana Spinola; Spinetta Spinola; Pietra de’ Grisulfi. ”Convocate al suono della campanella” decidono  locazione - di casa con terra stalla e pozzo in contrada la braia - facente parte del Monastero - già affittata a Vertono Garrone q.Lorenzo, deceduto - ad Antonio del Faisollo q.Bertone, fornaio il quale pagherà un affitto, donerà corbe o  cavagne di fichi ogni settimana e legna. (FilzaII-2aNumer.-n.182)

L’edificio fu restaurato nel 1472 quando vi tornarono guidate dalla badessa Costantina Spinola: «IESUS MARIA HANC SACROSANTAM AEDEM – FABRICARI SVO AERE IVSSIT – R. DOMINA CONSTANTINA SPINVLA ABBATISSA – SUOQUE TEMPORE SALICATA FVIT ECCLESIA ET CONVENTVS – AD HONOREM DEI ONNIPOTENTIS EIUS GLORIOSISSIMAE VIRGIMIS MATRIS – OMNESS EIVS GLORIOSISSIMAE VIRGINIS MATRIS – OMNES ROGENT DEVM PRO EIVS ANIMA. AMEN – ANNO DOMINI MCCCCLXXII DE MENSE IVLII». L’epigrafe viene conservata presso l’Accademia Ligustica.

Nel 1514 papa Leone X soppresse il monastero, cosicché nel 1530 la chiesa entrò in possesso dei padri Agostiniani della Cella che vi officiarono (e continuarono anche se nel 1549 –come scritto meglio in seguito- il monastero sicuramente ma la chiesa non altrettanto sicuri,  fu venduta al nobile Nicolò Grimaldi; e nel 1587 a Barnaba Centurione). Nella primavera del 1582, quale visitatore apostolico, a Genova arrivò mons.Bossio vescovo di Novara mandato dal Pontefice affinché controllasse, riferisse e provvedesse sulle condizioni morali intellettuali del clero e sui beni  posseduti; questi, a pag. 209 della sua relazione scrive della chiesa “ecclesia simplex…altare maius solidum sit, aliud altare parvulum et minime congruum diruatur”.

Il 6 luglio 1759 (Remondini scrive 1749) l’arcivescovo Giuseppe Saporiti vi fece una visita: nel verbale appare scritto che la chiesa conteneva più altari e che su un lato dell’altare maggiore dove si pone il Vangelo e vicino ad una porta per andare in sacrestia c’era il marmo poi spostato nelle stalle della villa e da lì all’Accademia delle Belle Arti (infatti scrisse: «a tergo eiusdem altaris maioris Ecclesiae S.Sepulchri – in districtu Ecclesiae parrochialis S.Martini – loco San Pier d’Arena – a cornu Evangelii extat ianua per quam habetur ingressus ad Sacristiam – et prope dicta ianuam visus fuit quidam lapis cum inscriptione valde antiqua litteris goticis sculpta - ex qua eruitur quod saeculo XV dicta capella sive Ecclesia esset propria monialium».

Nello stesso anno, l’arciprete Borelli scrisse all’arcivescovo specificando che in base agli accordi precedentemente presi, sui due altari si celebrava messa da parte degli Agostiniani della Cella.

Nel 1796 i francesi invasero la Liguria apportando le idee rivoluzionarie ed anticlericali: una legge del 1798 autorizzò il Direttorio Esecutivo a raccogliere i religiosi il più possibile assieme in unica comunità ed incorporare i beni delle chiese: così il 13 marzo 1799 gli Agostiniani furono mandati via dalla Cella e dovettero cessare di dire messa anche  nella chiesa del S.Sepolcro; quindi vi cessarono il culto e gli uffizi religiosi; Caraceni scrive ‘soppressione dell’Ordine” già dal 1796. Il manufatto nel 1861 fu sconsacrato e trasformato in magazzini ed abitazioni, e tali rimasero fino ancora nel 1912, finché tutta la struttura fu demolita .

 

Attualmente corrisponde all’ingresso al palazzo delle Poste. Un vecchio civ. 4 fu demolito nel 1994, e ricostruito l’anno dopo.


 

 

 

 

 

 

Occupa una area di 6.849 mq in un’area complessiva di circa 20mila mq, al posto del ‘Palazzo o dock del riso’ (a cui si accedeva da via San Pier d’Arena attraverso un tunnel sotto la corrispondente casa di abitazioni posta a mare ed ancora esistente). Dopo tanti traslochi e fiumi di carta, essendosi rivelato insufficiente quello di recente costruito in via U.Rela, forse è la definitiva sede centrale locale delle PPTT (da san Martino a piazza Modena, piazza Cavallotti (vedere), palazzo del Monastero, piazza detta Galoppini, via Molteni, via U.Rela(vedi)). Progettato dall’arch. Giuseppe Di Blasi con i servizi a piano terra, un garage nei fondi, la facciata curvilinea ed a vetrata di forma definita ‘curtain-wall’;  fu presentato al placet  comunale a fine 1989; completato nel 1994  con una spesa complessiva di 60miliardi, ed aperto al pubblico nell’aprile ‘95.


Si dice che alcune fondamenta, avendo ostruito un naturale –ora sotterraneo- rivo di scarico dell’acqua piovana, abbia creato dissesto idrologico ed allagamenti nelle fondamenta, da richiedere interventi di aggiustamento.

 

 

===civ. 6: la villa CENTURIONE, detta  Del Monastero, attualmente proprietà del Comune di Genova.  

   Vicino alla chiesa eretta vicino alla spiaggia a ponente della Cella, nei primi anni del 1200 (il Ratti precisa nel 1237; Roncagliolo scrive 1183) fu aperto un monastero femminile affidato alle suore Benedettine Riformate, ovvero monache Cistercensi: esse intitolarono la nuova sede alla Vergine, complementando così il nome in “s.Maria del s.Sepolcro”) (san Benedetto –nato a Norcia da nobile famiglia, nel 480 e morto nel 543-,  quando riparò a Montecassino nell’anno 529 diramò -probabilmente a voce- le sue prime regole monastiche. Nell’evolvere del tempo esse subirono variazioni e deviazioni tali che nel 1098 l’abate Roberto (poi santificato) decise riunirsi  tra abati e ristabilirle per scritto: così,  proprio con quello scopo,  fondò un nuovo monastero a Cistercio (Cisteaux),  presso Dijon in Francia. Da questa località, il nome “cistercensi” dei seguaci (altre riforme diedero origine ai camaldolesi, olivetani, silvestrini, ecc.) che intanto decisero (1103) possedere una tunica bianca –suggerita da un successore dell’ordine, s.Aberigo (o Alberico), in seguito ad una sua visione di Maria SS-. Gli studi della nuova regolamentazione, proseguirono finché nel 1113 Bernardo (poi pure lui divenuto santo e dottore della Chiesa), dall’abbazia di Cisteaux dettò la definitiva regola di riforma basata su quella primitiva di s.Benedetto. L’ordine cistercense da allora ebbe enorme sviluppo numerico acquisendo importanza religiosa, politica ed organizzativa: fu dal loro patrocinio che partì la seconda crociata;  che dal 1120 si espandessero in tutta l’Europa, scendendo anche in Liguria ove aprirono la prima loro abbazia a Tiglieto e poi nel 1131 a SestriPonente (l’abbazia di s.Andrea);  e che si potesse estendere anche alle suore la possibilità di seguirne i dettami. Questo nuovo ordine femminile ebbe in Genova una improvvisa e numerosa riconoscenza, con apertura di innumerevoli conventi, più forse di altre città italiane. Semeria  scrive”si fondarono tanti conventi che in veruna altra città io non saprei trovare uguale moltitudine”).

Per alcuni autori le suore furono dell’ordine dei ’Canonici regolari Gerosolimitani’; ma è un errore, essendo ad essi estinti  che esse si sovrapposero nell’occupare la chiesa e convento. 

    Su carta, sono testimoni (molti dal Foliatium Notariorum) scritti i segg. documenti:

-nell’anno 1221, 2 marzo è nominata una priora in suor Rubia,  con una comunità di 11 monache che presero il nome di suore di “sanctae Mariae  de sancti Sepulchri de Sancto Petro Arenae” e presero cura della chiesa stessa. Pochi mesi dopo, il 13 luglio, era badessa una suor Agnese Malaspina, contessa, con 12 monache.

-Nel corso del 1236 (e probabilmente è a questo documento che risale Puncuh  se fa nascere il monastero in quest’anno, ad opera della suore cistercensi), si legge negli “Statuta” del Canivez: “mandatum domini Papae de abbatia monialium monasterii Dominici Sepulcri, in loco Sancti Petri de arena Januensis diocesis nostro Ordini socianda et sit filia domus Cistercii exauditor ....omissis...et ispectio loci illius committitur de Tillieto et Ripalta abbatibus, qui ad domum illam personaliter accedant...”; testimoniando una dipendenza  dai monasteri di Tiglieto e di Rivalta Scrivia, essendo loro soggetta, sia a visite di controllo che a tributi economici .

-Un altro documento scritto,  inerente la presenza nel borgo della chiesa, sarebbe del 25 feb.1237 in cui viene menzionato dal notaio Pietro Musso, il prete Enrico cappellano del “Sanctum Sepulchrum de Sancto Petro de Arena”, converso dell’ospedale di s.Antonio in Genova. Il Gazzettino scrive che questo atto notarile arcivescovile è del 1183. 

-Nel 1243, badessa era ancora suor Agnese; da Remondini, fu trascritta un’epigrafe presente – ma non dice dove sia - nel monastero fino al 1929, relativa alla sua sepoltura, datata 1275:  “MCCLXXV De mense Iunii s(ororis) Domine Agnesine Comitisse Malaspine”.

-Il complesso edilizio, posizionato vicino alla riva del mare (presumibilmente già allora fervente di attività cantieristica, di approdo e di pesca),  con lo spiazzo  aperto verso il mare, certamente possedeva le terre attorno coltivate ad orto (tra il 1244 ed il 1250, numerosi sono gli atti che testimoniano vendite o lasciti a favore della comunità monastica, tra cui quello conservato negli archivi di s.Siro del 1250, lasciato dalla signora Giovanna Lercara); ed era collegato: dal retro con la via centrale (oggi via Daste-Scaniglia),  verso est con la chiesa della Cella (allora gestita da frati) e con sant’Andrea  (sia di SestriP che quello oggi demolito per aprire piazza DeFerrari).

-Sul Regesti (II.254) in data 1271, 23 luglio, in casa sua, Lanfranco di Volta q.Giovanni, lega 60 soldi al monastero del S.Sepolcro.

-Sullo stesso Regesti di vP (II.256) si legge che in data 1280, 12 settembre,  nella chiesa di s.Torpete, Andina ved. del q. Iacobo Silvagno, lascia in testamento al monastero soldi 5 petr messe da cantarsi.

-Dell ’anno 1300, appare  un’altra epigrafe  della badessa suor Eliana Pavesina (da Pavia? o Ravesina), monaca del monastero di santa Maria di Latronorio (nome derivato da un fossato, posto tra Cogoleto e Varazze, oggi Piani di Invrea, nella cui solitudine fu eretto nel 1192 un omonimo monastero con chiesa ed ospedale),  perché in quell’anno aveva fatto edificare il chiostroAD LAVDE(m) ET GL(oria)M (sanctæ)TRINITATIS – V(ir)GI(ni)S (mariæ) B(ea)TI SEPVLC(ri) – X(ti) INCEPTV(m) ET CO(m)PLETV(m) E(st) HOC CLAVSTRV(m) EXISTE(n)TE ABATISSA E(gr)EGIA ET VE(nerand)A D(omi)NA D(omin)A ELYA(na) PAVESINA MONIALI S(anctæ) M(ariæ) DE – LATRO(o)NO(r)TO  MCCC – BIV(i)A DE OSTEN…. E FECIT HOC OPV(s) DE ME(n)S(e) NOV(em)BR(is) MAG(is)T(e)R – (a)M(en) ET LAV(s) DE(o) .

Ella dirigeva le suore, molte provenienti dalle più nobili famiglie genovesi: assai poche quelle che sceglievano i voti per credo religioso intimo; le più spesso erano lì ospitate senza particolare vocazione perché obbligate dai genitori a cui tornava difficile o provvedere ad una dote per le nozze o preoccupati di disperdere i beni accumulati decidendo per una donazione totale al primogenito.  Favorirono però di sicuro una buona organizzazione, economicamente sostenuta e protetta per ogni necessità da rendite e lasciti.

-Nei cartolari della vendita del sale esistenti in palazzo san Giorgio, si riscontra citato il monastero nel 1334; idem nel 1342 quando era tesoriera suor Andreola Demarini; e nel 1363 con badessa suor Illiana Pallavicino; nel 1387 il monastero è segnato al n°328 del riparto o lodo arcivescovile per L.1 e soldi 2 di tassa straordinaria dettata dal papa Urbano Vi al fine di ricuperare sulle spese per guerre e scismi

-Dell ’anno 1300, appare  un’altra epigrafe  della badessa suor Eliana Pavesina (da Pavia? o Ravesina), monaca del monastero di santa Maria di Latronorio (nome derivato da un fossato, posto tra Cogoleto e Varazze, oggi Piani di Invrea, nella cui solitudine fu eretto nel 1192 un omonimo monastero con chiesa ed ospedale),  perché in quell’anno aveva fatto edificare il chiostro con gravi scontri armati nelle vicinanze che avevano messo in seria difficoltà le 6 religiose (”ob novitates guerrarum” –notaio Revellino Cristoforo-. In particolare tra i Montaldo contro gli Adorno e poi anche contro il vescovo di Savona Antonio DiVia; si conosce sicura una battaglia avvenuta nel borgo in zona Capo di Faro nel febbraio 1394 con strage di 200 guelfi guidati da Nicolao di Fiesco, uccisi dalle truppe di  Raffaello Montaldo fratello del doge); l’insicurezza le obbligò, guidate dalla badessa suor Terracina (o Tommasina o Teresina) Gentile, ad abbandonare il 28 gennaio tutto l’edificio per rifugiarsi a Genova, nella contrada dei Salvago (via san Bernardo).  Ma il 15 ago 1415 già erano tornate, se in quella data raccolgono una confessione di un certo Antonio Castello da Fegino.

-Un atto notarile datato 11 giugno 1416 testimonia la presenza delle suore ed il nome di alcune: “in Sampierdarena, nel parlatorio del Monastero del Santo Sepolcro. – Giovanni Gorgeggio qm Quilico abitante in Sampierdarena, sapendo che il qm Antonio suo fratello è ancora debitore di lire 40 di Genova verso le monache del Convento del santo Sepolcro di Sampierdarena, come complemento di lire 50, resto di lire cento, da lui avute a mutuo da dette monache, e più precisamente dalla qm. Violante Spinola già monaca nel detto Monastero, e volendo fare ciò che insegna il diritto, perciò confessa alle suore Marietta Arcanta badessa, ed Eliana Cicala priora dello stesso monastero, di dover loro le dette lire 50 per la ragione succitata, somma che esse accettano a nome proprio e a nome di detto Convento”.

-Vari problemi interessano le suore negli anni tra il 1416 e 1447 : da un lato la badessa suor Argentina Salvago, dell’ordine dei Cistercensi, si rivolge al doge Giano di Campofregoso (appoggiata dai congiunti di tutte le monache) perché interceda presso il papa affinché i monaci di santa Maria di Tiglieto -a cui erano soggette- smettessero di infastidire le suore angariandole con richieste di tributi  sapendo essere di famiglie benestanti (“frequentibus visitationibus variis oneribus praesertim tributis… pecunias quot modis possunt ab eis extorquendo”); ed il 24 febb.1440 il notaio Gio DeLuca conferma il ripristino del convento con badessa Selvagina Salvago; dall’altra una lettera dello stesso doge a papa Nicolò V del 16 dic.1447, afferma che le cistercensi del santo Sepolcro in San Pier d’Arena, (e l’affermazione ha il tono di cosa nota e risaputa) “inter illas mulieres variis modis pleraque fieri minus quam honesta -cioè  le giovani fanno tante cose, meno quelle oneste “. Anche altri conventi erano coinvolti in questa eccessiva libertà delle suore, sempre più numerose rinchiuse nei conventi non per vocazione ma per sottrarre la famiglia a fornire una conveniente dote matrimoniale degna del casato, specie se le femmine erano più d’una;  le impudenze lamentate, a volte consistevano in “continuo gironzolare per il borgo offrendo spettacolo di vita assai poco religiosa”, specie per quelle inserite in conventi di clausura. Appare certo che in quell’epoca nel monastero esistessero ragazze schiave, che venivano vendute agli offerenti: così si legge di una schiava Margherita che il 18 luglio 1450 fu venduta dalla stessa badessa Argenta Salvago con tanto di ricevuta a Bartolomeo Doria ; ed il 16 giugno 1464 suor Ginevra Maria, tesoriera, ne vendeva una a Acelino Spinola che per scritto si impegnò a restituirla entro dieci giorni se la tenuta in prova non fosse risultata soddisfacente.  La schiavitù non fu mai praticata come traffico commerciale dai genovesi, ma in quegli anni in città era accettata e vissuta comunemente, non bollata dalla Chiesa, e regolamentata da severe leggi di diritto privato, emanate dalla serenissima Repubblica (di vita con punizioni tipo mozzatura del naso o orecchie; o morte con rogo o impiccagione; limiti assai ristretti alla vita affettiva e sessuale) . Quindi ufficialmente riconosciuta specie a tutela dei padroni , era formata prevalentemente da ‘infedeli’, cioè prigionieri che avevano rifiutato la conversione e mantenuto la propria fede, non solo turchi o marocchini ma anche russi, caucasici, albanesi ; di cui esisteva un vero e proprio mercato riconosciuto e convissuto : liberi di esistere e di professare una fede, ma ghettizzati.  Tale istituzione rimase in vigore sino alla fine del 1600 quando finalmente nel territorio della Repubblica venne abolita e combattuta).

    Ma poiché le lamentele sortirono pochi effetti, allo scopo il Senato arrivò ad inviare al Pontefice un ambasciatore in Ambrogio Spinola. Intanto l’Arcivescovo genovese, in accordo col doge, si adoperò ad allontanare i monaci e nel 1459 pose mano alla riforma dei monasteri liguri.

-Nel lug.1472, un’altra lapide, ora conservata all’Accademia Ligustica di B.Arti e già scritta a pag. 57, parlando della chiesa,  testimonia l’inizio di un restauro, sia della chiesa che del convento, sotto il governo della badessa Costantina Spinola, che -nel 1486-, appare essere ancora in carica di superiora. Infatti Remondini riporta una ‘questione’ avvenuta nel 1480 alla badessa suor Susanna Spinola (presumibile la stessa Costantina di sopra): avendo ‘occupati’ dei beni spettanti il cardinale Battista Cibo (poi Innocenzo III) allora Commendatore di san Siro in Genova,  era incorsa in scomunica; appellatasi alla s.Sede, papa Sisto IV incaricò l’arciprete di Camogli Spirindeo Argiroffo e due canonici della Cattedrale, di valutare l’assoluzoione, cosa che sentenziarono il 18 febbraio 1480 notificando il tutto con il notaio Andrea di Cairo.

-Nel 1508 la comunità contava solo sette monache più la badessa Elianora Salvago: dichiarandosi pronte ad assoggettarsi alla legge del raggruppamento, furono assolte dal pagare le tasse che il governo aveva imposto ai conventi più riluttanti.

 -Dall’anno 1459 era stata avviata l’opera di riforma dei monasteri femminili, sia per le questioni morali sopradette, sia per ovviare alle dispersioni soprattutto economiche; si previde accomunare in città, nel monastero di sant’Andrea della Porta (non ‘il sant’Andrea della Costa ’ a Sestri come si scrive altrove, ma quello a Genova ora distrutto per aprire piazza DeFerrari) più di cento monache  desiderose di vivere in clausura. Così il 7 giu.1514 per breve pontificia di Leone X e conseguente decreto di mons. Domenico Valdetaro (o Valdettaro) delegato apostolico (anche vescovo di Accia (Corsica), e Vicario Generale dell’arcivescovo Giovanni Sforza), sanzionato un mese dopo da una “breve” o bolla di papa Leone X, il monastero del s.Sepolcro, privo di seria clausura ed isolato dalla città,  venne incorporato in sant’Andrea (e si presume sia da questo rientro che il Masini chiama il Palazzo Centurione ‘già delle Monache di S.Andrea’), impegnandosi i Priori a far ufficiare regolarmente la messa nella chiesa vicina, e a conservarne i beni,  decretando così la soppressione dell’ordine religioso cistercense e della dignità abbaziale del monastero.

Però il 7 ottobre successivo, del 1514,  le 5 monache rimaste - dopo aver concesso un inventario dei beni - seppur consegnarono ai Protettori dell’opera di sant’Andrea le chiavi del monastero, vi rimasero. Infatti ricevettero in cambio varie promesse stilate con atto notarile (notaio Vincenzo Molfino), da mantenersi finché non sarebbero rimaste in due: la rendita annua di lire 180 per  ciascuna, vita natural durante;  che avrebbero potuto vivere con libero accesso nel monastero e nelle terre attigue di proprietà o nella casa che il loro ordine aveva in contrada santa Sabina, servendosi dei beni esistenti -vesti ed arnesi vari-; pagando l’affitto di lire tre annue; che sarebbe stato pagato un sacerdote ad officiare la messa quotidianamente presso la chiesa (che fu affidato ai sacerdoti agostiniani della Cella).    

Da atti del notaio Bernardo Granelli stilato nel 1522, risulta che le suore erano rimaste in due più la badessa Aretina Salvago: era il momento di dover abbandonare il convento definitivamente. Il notaio Nicolò Pallavicino da Coronata, stilò il 10 gennaio 1530 il nuovo impegno di cedere il tutto ai frati agostiniani della Cella; così le religiose si trasferirono nel monastero di N.S.della Cella. Essi ricevettero con le suore anche il diritto a tutte le strutture dell’antico cenobio cistercense: abitazioni, chiostro e terre ma non furono nella capacità di gestirli amministrativamente;  lo conservarono per  una diecina d’anni   (si scrive che negli scavi per l’esecuzione di opere fognarie, fu rinvenuto un passaggio sotterraneo che collegava l’edificio con la chiesa della Cella) senza però mai abitarlo né usarlo (il Giustiniani nel 1535 scrisse ‘vi è un altro monastero di s.Maria del Sepolcro, dove già vi abitavano monache ed al presente resta deserto’).

-Nel 1536 i frati proposero l’alienazione del complesso; le suore si opposero e perciò andarono in tribunale: la sentenza firmata il 27 marzo 1542 dal notaio Nicolò De’ Marino da Coronata fu favorevole ai frati, forti della concessione apostolica del 2 marzo 1536, e del parere favorevole del delegato apostolico card. Gerolamo Doria, delegato apostolico. Tutto l’intero complesso venne sconsacrato -esclusa la chiesa nella quale continuarono ad ufficiare i sacerdoti  Agostiniani di N.S. della Cella.

Villa privata :

-Nel 1549, il 15 dicembre, - con atto notarile di GiovanniGiacomo Cibo Peirano, monastero e terre annesse furono vendute col permesso di profanarlo al patrizio Nicolò Grimaldi, principe di Salerno, al prezzo di cento luoghi delle Compere di san Giorgio .

-Nel 1586,  il 7 giugno, l’insieme venne acquistato (notaio GB Procurante) da Agostino Doria che però apparirebbe solo come prestanome o comproprietario momentaneo (‘nomine exclarando’) perché l’anno dopo, il 15 luglio 1587 stila un atto, dichiarante aver comperato per sé solo una parte dei beni (probabilmente delle terre),  il rimanente (cioè tutto il complesso) per conto di  Barnaba Centurione Scotto

della famiglia Centurione che originariamente si fa risalire ad un nobile soldato rimasto a Genova nel 1209 (o da un omonimo nobile parmigiano Cassio, o dai romani Orsini; la leggenda vuole l’origine del nome dal centurione che –citato nel Vangelo- chiese a Gesù non per se stesso ma di guarire un suo servo: da ciò il motto “basta la parola”; e se sotto lo stemma (fatto con banda a riquadri alternati) c’è una capra, forse perché il centuriore era dedito alla pastorizia). Divenne importante nel 1379, con la alleanza delle famiglie Becchignone, Bestagno, Cantelli, ed Oltremarino che costituirono ‘rami’ importanti della famiglia; alle quali nel 1424 si unirono i Trovery, Navarri, e Scotti (o Scotto).

I Centurione avevano organizzato la famiglia quale compagnia finanziaria (tante famiglie ricche: Zaccaria, Cantelli, Oltremarini, Becchignone, Scotto;  tutte dedite ai cambi, ai crediti ed ai commerci –sia in oriente che nel nord europa- con giro di disponibilità di denaro, come in una banca).

Quando avvenne la guerra dei cento anni, ne conseguì un salasso insanabile per i governi in guerra, causa deprezzando delle monete correnti; così i mercanti olandesi iniziarono a voler essere pagati non più con denaro svalutato ma -almeno metà dell’importo- con materiale prezioso, esempio l’oro. Fu nel 1586 che la famiglia dei Centurione propose ai Protettori del Banco di s. Giorgio di adottare come elemento base degli scambi il solo oro, facendolo divenire per tutti il controvalore (cartulario=banco=deposito e giro di monete d’oro valutate ad un corso fisso e quindi non soggette ad inflazione) di ogni trattativa commerciale, anticipando così l’aforisma di Erasmo da Rotterdam “quando l’oro parla, ogni eloquienza è priva di forza”. L’ufficio di san  Giorgio trovò un ragionevole e per tutti proficuo accordo replicando col sistema del ‘terzo’ (un terzo oro, uno argento, uno moneta corrente).

Ecco il movente delle ricerche e scoperte che rivoluzioneranno il mondo: l’oro. E dato che in oriente già funzionava come merce di scambio, fu ovvio non solo andarlo a cercare in oriente o nelle indie, ma soprattutto cercare strade più brevi e veloci per arrivarci (non verrà trovato subito, nelle nuove rotte, ma prevalse l’effetto non cercato: la scoperta del Nuovo Mondo nel 1492).

Nel 1528 tutte le famiglie secondarie, furono riunite in uno –dei Centurione- dei 28 alberghi cittadini, essendosi collocate in primo piano economicamente e politicamente, con alti interessi locali ed in Spagna. 

Alla Repubblica, la famiglia diede ben sei dogi. A Genova abitavano in piazza Fossatello.

Gli Oltremarini costituiscono un folto ramo dell’Albergo.

Il 21.7.1696 nasceva, dei Centurione, GiovanniFrancesco nonché IgnazioAntonioGaetanoInnocenzo (da GioAgostino q.Giulio e da Maria Maddalena Pallavicini q.GioFrancesco, abitanti in Strada Nuova a Genova): battezzato in casa perché gracile ed in pericolo di vita, l’anno dopo, il 23 ottobre, fu ricelebrato il battesimo con solennità nella chiesa della Cella (padrini  lo zio Paolo Geronimo Pallavicini q.GioFrancesco, e la zia Luigia moglie di Domenico Centurione). Quindi erano di quelli che venivano nel nostro borgo e ci restavano ancora ad ottobre.

   Dei Centurione, e di questo periodo storico, vengono ricordati Paolo (nel 1525 divenuto viaggiatore ed esploratore);  Adamo (del 1530 , anche marchese di Stepa e Pedrera in Spagna, e grande ammiraglio di CarloV; a favore dell’imperatore, pagò a sue spese guerre in Africa, in Germania e ad Algeri: per quest’ultima battaglia, diede l’ingente somma di 200mila pezzi, bruciando la ricevuta rilasciatagli dal sovrano. Nella diatriba con gli Spinola, si schierò con Andrea Doria, ospitandolo nel proprio castello di Masone in attesa di riprendere in mano la situazione); Gerolamo (poeta del 1611); Luigi (sacerdote della Compagnia del Gesù); Giorgio (eletto doge nel 1621- alcuni testi scrivono che rifiutò l’onore dell’alto incarico, ma Levati nel suo libro chiarisce sia l’alto livello del suo operato, sia l’equivoco imputando i cronisti di non aver notato che il suo predecessore Ambrogio Doria colpito da ictus cerebrale era durato in carica un solo mese e pertanto il  periodo sembrava coperto da quello); Agostino (doge nel 1650); GioBatta (doge nel 1658); Lorenzo (doge nel 1715).

Non ultimo Agapito (del 1625, dotto in scienze. Da una relazione -stilata il 5 ago 1663, Regesti, II pag.188- da due inviati del mag.co Vicario di Polcevera- sappiamo che tal Gio:Batta Albanera da conduttore della villa del mag.co Agabito Centurione -situata in San Pier d’Arena nella contrada del mercato- ‘ne aveva preso il largo insalutato hospite’. I due si erano recati  nella villa per censire la frutta rimasta (limoni, olive, cetroni, cocomeri, frutti e tutto il resto esistente); Ottavio (degli Oltremarini, grande banchiere e diplomatico in Spagna- vedi il suo possibile coinvolgimento a questa villa alla fine, a “DEDICATA”); PaolaMaria (carmelitana scalza di alto valore morale) e Virginia (dei Centurione Bracelli, beata.=Controllare se si riferisce ad essa, la lapide posta esterna alla cappelletta che esiste in via Porta degli Angeli).

 Il 28 lugl. 1660 il mag.co Cristoforo  Centurione qm Adamo affitta – per tre anni e annua pensione di 500 lire- alla famiglia Notte una villa che teneva in San Martino; e datato 25.7.1665 (Regesti,II,pag.188) sua moglie e procuratrice, magn.ca Barbara riceve da due Pittaluga (Benedetto e Rocco – fratelli o padre e figlio; probabili manenti) ”tutto ciò che può da essi pretendere per pensioni decorose e da decorrere della villa di detto magn.co Cristoforo situata in San Pier d’Arena”.

Ultimi: il 27 dicembre 1997 a 91 è morto a sant’Ilario e novantunenne; Giacomo fu Carlo era l’ultimo erede della famiglia, appassionato di veicoli veloci e sensibile agli eventi metafisici e medianici (essendo morto il fratello Vittorio mentre sperimentava un aereo idrovolante nel lago di Varese durante la coppa Schneider nel 1926). Suoi discendenti, nel 2008, abitano a Nervi

In particolare, del ramo degli Scotto risultano -discendenti da Amico Scotto- un primo Barnaba; poi suo figlio Oberto; e poi ancora i due figli di quest’ultimo, Gerolamo e il nostro Barnaba. I due, dichiarano nel 1590 di essere gli unici ultimi di questo ramo, assieme  al cugino Lorenzo q.Lodisio q.Oberto. Barnaba, tra il 1566 e 1574 figura come banchiere fiduciario –asentista- del re spagnolo Filippo II; nel 1580 commissionario del restauro della chiesa di s.Bartolomeo della Costa; nel 1587 acquirente del Monastero del s.Sepolcro; nel 1590 nominato senatore;  e nel 1594  in  terra spagnola. Nell’anno 1600 –come dimostra una lapide posta nella chiesa di s.Camillo a Genova - Barnaba acquistò  - a nome, e per proprietà dell’oratorio della Crocetta, posto sopra Belvedere - un terreno a orto e giardino in Portoria per la Congregazione di Camillo DeLellis (=assistenza spirituale ed infermiristica dei malati; di questa congregazione sono i sacerdoti dell’Ospedale VillaScassi) la quale vi erigerà la chiesa ancor oggi chiamata “della Croce, o di s.Camillo”.  La famiglia Scotto divenne così ricca e potente, che nel 1654 dall’ imperatore Ferdinando III ebbe il titolo di Principi del Sacro Romano Impero col diritto di battere moneta.    La famiglia era stata tra le prime a valorizzare il nostro borgo, insediandosi in più posti con ville di prestigio. In particolare Barnaba seguendo l’andazzo del suo  tempo e non volendo essere da meno dei suoi concittadini, non badò a spese pur di soddisfare il desiderio di costruirsi una casa in riviera, fuori dallo stress cittadino ma facilmente raggiungibile con i mezzi di allora.

   È famoso Ippolito q.Francesco, ammiraglio ed armatore perché seppur filofrancese, non resitò a schierarsi a difesa di Genova durante il bombardamento navale del maggio 1684: anzi guidò la milizia urbana contro 3500 fanti francesi sbarcati sulla nostra spiaggia, costringendoli al reimbarco.

 

  Questo ricco committente, con grossi interessi collegati alla Spagna, fece trasformare il complesso monastico in un grandioso palazzo, prima affidando le modifiche  all’arch. Andrea  Vannone (non è dato sicuro) realizzatore anche della chiesa di san Pietro in Banchi nel 1580 c.a .), che poco si curò di rispettare in genere l’integrità del monastero e del chiostro trecentesco sottoponendoli alla nuova costruzione. In particolare: dei quattro lati di esso,  il nuovo palazzo ebbe il muro di tramontana eretto sulle colonnine del lato a nord rafforzate con pilastri in pietra da taglio; le bifore e trifore degli altri tre lati del vecchio chiostro furono riempite in modo da formare un muro continuo su cui appoggiare la base del nuovo cortile (relegando così il chiostro nel sottosuolo ed adibendolo a magazzino e scuderie); il piano terreno formatosi sopra il chiostro si trovò sopraelevato di circa 3 metri rispetto al terreno della piazza, e divenne raggiungibile con una breve e decorativa scalinata esterna. Il tutto, progettato secondo lo stile dell’ ultimo periodo classico del rinascimento sulla scia dell’architettura sorta col Brunelleschi, maturata per tutto il 500, e smorzatasi lentamente a cavallo tra la fine di quel secolo ed il 600 . Essendo da poco –1572- morto l’Alessi, , è ovvio che l’architetto si sia ispirato alle nuove formule da esso ispirate per le molte ville genovesi 

   Poi si affidò a Bernardo Castello (Ge.Albaro1557-1629- allievo del Semino e del Cambiaso, grande amico del Tasso) perché lo affrescasse (negli anni a cavallo tra fine XVI e primi del XVII secolo era uso decorare i palazzi con affreschi che parafrasassero le virtù religiose, mercantili, militari, o comunque  gesta, glorie e ideali etici della famiglia del  committente. La scelta dei temi –in genere tratti da opere letterarie o dalla Bibbia- avveniva in concordanza tra proprietario e pittore. In questo caso pare che Gio Vincenzo Imperiale, committente non facile per la sua cultura aggiornata e competente, si affidò al Castello -altrettanto nutrito di ampi sfoggi letterari, derivati dalla frequentazione di letterati come il Tasso, il Chiabrera e padre Angelo Grillo- lasciandogli libera interpretazione;  cosicché in virtù di questa fiducia l’opera fu approntata dal maestro ed allievi con la scelta dei temi più congeniali al pittore ed in contemporanea capaci di offrire quanto voluto dall’ordinante. Così il Castello divenne il pittore ideale per parafrasare –come di moda allora, attraverso i temi più disparati- le richieste del Centurione; il fatto avvenne immediatamente prima di altre scelte poi espresse dal pittore in altri palazzi come l’ Imperiale-Scassi e nello Spinola di San Pietro. Senz’altro questi felici affreschi -i migliori dell’artista, confrontati con quelli già eseguiti e la produzione successiva-,  gli meritarono maggior fama e fiducia, anche se una critica riconosce in questi ultimi non tanto una particolare crescita espressiva quanto una sostanziale conferma del suo manierismo, però sempre garbato e formalmente semplice).

Anche il giardino fu ristrutturato, e contribuì a far scrivere da ignoto “San Pier d’Arena che nel monte e al piano, di bei giardini ha sì famoso nome”.

   Da allora la famiglia, usò questa villa come luogo di villeggiatura, frequentandola d’estate (in genere, da ferragosto sino alla festa di s.Martino a metà

novembre) per ancora tre secoli circa, sino alla vendita.

   Fu ovvia la alta frequentazione di questa villa da parte della nobiltà  genovese, sia in missione politica che per diletto: il mezzo di trasporto preferito era sempre il mare, arrivando tramite l’uso di galee o barche personali. E negli anni, ovvi furono gli abbellimenti, ristrutturazioni e modifiche dell’assetto primario, il tutto sempre in visione di un esprimere potenza e ricchezza rispetto gli altri nobili delle altre ville (gli Imperiale, gli Spinola, i Doria, i Sauli , ecc.). Erano tempi in cui gli invitati a palazzo, ambasciatori in missione o invitati a feste, raggiungevano il palazzo via mare: imbarcati nel porto a Genova, sbarcavano direttamente sulla spiaggia davanti casa. L’arrivo e la partenza venivano solennizzate con sontuose feste e lauti conviti a cui venivano invitati i vicini, i parenti e gli amici (per frenare l’abuso di queste feste, il Senato nel 1506 aveva promulgato un decreto mirante a vietarli se smisuratamente dispendiosi, comminando pene di decine di ducati da devolversi in parte all’ufficio di Sanità)

- Nel 1599, da Giorgio Centurione vi fu ospitato l’arciduca Alberto, con il suo seguito personale tra cui i duchi di Borgogna. Provenienti tutti da Ferrara, egli accompagnava la sorella (divenuta regina di Spagna perché moglie di Filippo III; aveva un proprio seguito spagnolo) e la madre (con proprio seguito tedesco), tutti (circa 1200 persone) erano di passaggio a Genova (per andare in Spagna ??***).

- Non è sicuro appartenga ai possessori di questa villa, la testimonianza legale datata 26 luglio 1665 in cui si attesta che “la  mag.ca Barbara, moglie del m.co Cristoforo Centurione e sua procuratrice, confessa aver ricevuto da Benedetto e Rocco Pittaluga   qm.Bartolomeo, tutto ciò che può da essi  pretendere per pensioni decorse e da decorrere della villa di detto mag.co Cristoforo situata in San Pier d’Arena”.

- Nel 1684, il bombardamento navale francese, procurò seri danni estetici, deducibili da interventi di restauro ancora riconoscibili. Luigi XIV fece bombardare la città ma anche il nostro borgo. Fu un inusuale, innovativo ed avvilente (anche sia per l’impreparazione a rispondere al nemico e sia perché coinvolgeva la popolazione inerme  senza distinzione di dove poteva cadere una bomba) metodo di portare guerra: Genova veniva colpita dal mare, proprio dove si sentiva la più forte del Mediterraneo.

Un tentativo di sbarco fu subito frustrato dall’accorrere sul spiaggia del borgo, delle milizie di Ippolito Centurione –della famiglia proprietaria del palazzo- e dei paesani della Polcevera. Il re, ciò malgrado vittorioso, poi  fece occupare le ville dalle truppe e dal suo stato maggiore comandato dal marchese Seignelai.

muro di confine Poste; con timpano e modellature stile antico,

visto da abitazione di via S.Canzio, sue finestre a levante (nella foto sotto: finestra spalancata).

 

1990 - costruzione edif. Poste –i  muri della foto precedente con arcate (della chiesa o del palazzo riso?)

 

- Solo nel 1750, per mano dell’abate Giolfi, di cui rimane il disegno della facciata in una sua incisione, ebbero inizio le riparazioni dei danni subiti dal bombardamento: ovvia la ristrutturazione di alcune parti che furono trasformate seguendo lo stile barocco dell’epoca. Dice Lamponi che in concomitanza i proprietari di allora erano ‘momentaneamente lontani’ e tornarono a lavori conclusi.

-Anche la carta del Vinzoni del 1757 non precisa il proprietario, definendo l’area come proprietà generica dei Centurione senza precisare chi.

- Dal 1792, malgrado il proclama di neutralità, Genova ridotta alla carestia ma sempre strategicamente fondamentale nella strategia internazionale, non poté rimanere indenne nello scontro tra i titani del tempo: i francesi da una parte, gli austriaci dall’altra, gli inglesi dal mare. Le truppe dei primi entrarono in Liguria nel 1794; l’anno dopo avvenne la feroce battaglia di Loano; nel 1796 erano a Voltri.    Il 14 giugno 1797 morì la Repubblica di Genova, e nacque la ‘Repubblica Ligure’; con essa ebbero inizio profonde e sostanziali riforme che modificarono sia i poteri locali (l’eliminazione della antica aristocrazia e l’apparente valutazione del ‘cittadino e della sovranità del popolo’; ma si introdussero nuovi metodi di gestione degli uffici e delle gerarchie del comando politico, del potere giudiziario e dell’amministrazione in genere.  In pratica, in una situazione di completa sudditanza alla Francia, il borgo veniva retto da un ‘Commissario’, che consigliato da un ‘Direttorio Esecutivo’  costituivano ‘la Municipalità’; a sua volta suddivisa in vari comitati –di sanità (i cimiteri, come nuova istituzione), di polizia, di giustizia (con anche un giudice di pace), di amministrazione (registrazione precisa di nascite, morti, matrimoni, ecc. fino ad allora registrati solo dai sacerdoti e custoditi nelle canoniche), di rappresentatività lavorativa (come gli edili)); che i rapporti con la Chiesa (con chiusura di molti centri di culto, soppressione di congregazioni religiose, confisca dei beni materiali della Chiesa; ovvie numerose sommosse popolari locali fomentate dai parroci periferici); e non ultimo il modo di vivere locale (il borgo diviso in tre quartieri Libertà-Fratellanza-Eguaglianza). 

- Essendo l’antico castello –sede sino ad allora del Municipio, posto poco lontano sulla spiaggia - in condizioni pietose, le riunioni di questa municipalità, dal 17 luglio 1798 vennero effettuate “nei locali del cittadino (titolo rivoluzionario francese: in pratica era cardinale dei Gesuiti) G.B.Centurione al Monastero” (che molto probabilmente non l’abitava; ma che comunque era una proprietà privata, presumibilmente requisita dai militari; ciò desunto dalle mosse giudiziarie sotto descritte – ovvero che in questi anni la villa era occupata da –presumo ufficiali- delle truppe francesi).   

In una di  queste riunione fu eletto a capo della municipalità il cittadino Onorato Tubino e segretario, il cittadino Ambrogio Galliano. Cinque giorni dopo, fu istituita una Commissione con l’incarico di cercare una sede non  privata ma di uso pubblico: venne adocchiata una villa non precisata, definita “Loggia degli ex Nobili”).

- Il 3 sett. 1802, da poco finito l’assedio, il ‘cittadino’ G.B.Centurione scrisse alla Municipalità affinché sgomberasse il palazzo entro cui si era insediata da alcuni anni: vincendo la causa, i pubblici ufficiali e gli uscieri che vi abitavano, furono trasferiti nel Castello ove erano prima. Il provvedimento però non fu messo in atto per i soldati francesi che essendo truppe di governo, non risposero all’invito.   Proseguì nella rivalsa anche il ‘cittadino’ marchese Nicolò, tramite il cittadino-don Giuseppe Tubino: ottenne che anche le truppe fossero traslocate (si pensò dapprima alla Cella, ma poi si dovette soprassedere perché troppo angusto; la caduta di Napoleone era ormai prossima

- Infatti nel 1812, quantomeno alla Restaurazione ed al passaggio sotto il regno torinese, evidentemente liberato il palazzo, si provvide ad un nuovo ristoro, che modificò profondamente la facciata; da questi anni il palazzo non fu più abitato dalla famiglia (se l’abitava: il proprietario era alto prelato dei Gesuiti con sede in via Balbi e chiesa quella del Gesù), perciò fu affidato in gestione (locali annessi alla villa, furono concessi a tal Giuseppe Grosso per crearvi una fabbrica di biacca).

- Così dopo il 1850, dal proprietario monsignor GB Centurione dei gesuiti, fratello di Giulio e figlio di Vittorio, fu affittato all’avv. GB Tubino, quale sindaco del Comune di San Pier d’Arena (e poeta) per uso scolastico elementari, eccetto i fondi, già adibiti a magazzini (si deliberò all’unanimità un affitto, pattuito in lire 1.750 annue da pagarsi in rate trimestrali anticipate; era già dal 1819 che il Comune di SanPier d’Arena studiava di aprire nel borgo una ‘scuola di carità’ idonea a procurare ai figli degli indigenti una educazione e cultura: l’incarico era stato affidato al sacerdote Giuseppe Comandi, ex agostiniano, che alla Cella iniziò l’istituzione).

Tra i primi provvedimenti della Giunta, ci fu la fondazione di una scuola superiore (media, ad indirizzo tecnico-commerciale); lo studio della fattibilità comportò che essa ebbe l’avvio nell’ottobre 1852, assieme alle elementari, col titolo di “Corso Speciale”, con primi insegnanti i prof. Chiappori e Gorrini. Negli anni a seguire, la municipalità continuò a studiare di ampliarla (locali, insegnanti, ecc.).

- nel 1853 (ma non è precisato se era già nel palazzo) la sig.ra Maria Cabella Coralli, da Albaro si propose quale direttrice dell’Istituto di educazione femminile, con corsi dal 1° al 3° anno di elementari.

- nel 1854, il totale degli alunni elementari era 254, ripartiti in quattro classi.

- Nel 1855, su domanda del prof Gorrini concorde al direttore delle elementari prof Chiappori, il Comune (sindaco GB Tubino) accordò un locale nel palazzo, per aprire il collegio “Convitto Commerciale Industriale”, (i due formarono la nuova  direzione, ed addivennero ad offrire mezza pensione gratis ad un alunno meritevole, segnalato dall’amministrazione comunale, ogni 10 iscritti).

 Negli anni immediatamente successivi il prof Chiappori rimase solo nel gestire l’amministrazione del collegio, cambiando denominazione in “Convitto e scuola di Commercio”, solo  maschile.

Dopo lui -1859- subentrò il padre agostiniano Giuseppe Bistolfi (nato a San Marzano/Acqui; allora di anni 50; già stato per tre anni supplente al Collegio Nazionale di Genova e secondo maestro in quarta elementare a San Pier d’Arena. Aveva stipendio annuo di lire 1200) uomo di infinita bontà e grandissima cultura ‘...varia dottrina’, che aveva preso la direzione delle elementari al posto del Chiappori; rimase in carica sino al 1875. Sotto la sua guida, insegnarono: lettere italiane Luigi Mercantini (Ripatransone, 20 sett.1821-Palermo 17 nov.1872- compagno d’esilio di Daniele Manin; persona pia; poeta considerasto minore della letteratura italiana, stimato da G.Pascoli, fu autore della famosa ‘spigolatrice di Sapri’ dedicata a Carlo Pisacane, de ‘La madre al campo di san Martino’,  dell’’inno di Garibaldi’ e delle gesta di Tito Speri, che commossero l’Italia intera; grande patriota avendo aderito alla Repubblica Romana ed avendo partecipato alla difesa di Ancona assediata dalle truppe austriache; compromesso da questi moti del 1848, dovette esiliarsi e dal Piemonte venne a Genova e quindi a SanPierd’Arena. Qui fu incaricato da Garibaldi  di comporre l’inno (“si scopron le tombe, si levano i morti, i martiri nostri son tutti risorti...) che fu musicato dal genovese Alerssio Olivieri – per la prima volta cantato allo Zerbino in casa di Gabriele Camozzi capo della rivoluzione nelle valli bergamasche e dove si raccoglievano i migliori intelletti del Partito d’Azione.; e storia e geografia il Giuseppe Andrea Cannonieri (modenese di Villa Santa Caterina nel 1795-morì a Genova 1864; uno dei primi carbonari, aveva partecipato ai moti del 1821 per i quali dovette esiliarsi in Francia avvicinandosi a Filippo Buonarroti e divnendo convinto mazziniano specie sul tema dell’educazione del popolo; mentre era condannato a morte da FrancescoIV di Modena; rientrato nel 1848 fece parte  della costituenda repubblica Romana inserito nella Assemblea Costituente scrittore della Storia Popolare d’Italia. Lasciò alla biblioteca il manoscritto del racconto pubblicato a Firenze nel 1848 intitolato “L’assedio di Ancona dell’anno 1174 per Cristiano arcivescovo di Magonza, luogotenente di Barbarossa”. Lavorò anche come giornalista, divenne esponente delle associazioni operaie, divenendo anche  uno dei promotori delle scuole serali per i lavoratori). Fu invece alunno famoso Giacomo Bove (vedi)).

- Il 1865 fu l’anno della nomina a città. A.Cuneo segnala che già in quest’anno gli alunni erano 650 ma a mio avviso legge male l’Alizeri da cui trae il numero: questi invece lo riferisce al 1875. Infatti in quell’anno l’Alizeri scrisse la presenza di ‘tal uffizio di civil carità… per le solerti cure del Municipio’ -a suo scrivere già in atto dal 1861 per scuola elementare e tecnica-,  descrivendo la presenza di 650 alunni di tutti i ceti sociali, nonché lezioni ‘notturne’ e domenicali per i lavoratori; più ‘stanze dischiuse agli studj e lavori di 550 fanciulle, e un complemento (che pur s’iniziò) di svariate cognizioni, atte a perfezionar la coltura degli studi inferiori’. In altra parte ancora “poche terre e comunità potranno lodarsi d’aver preparato più nobile albergo al sapere e in quelle stanze che soccorrevano alla mente il pensiero della salubrità e della pubblica benemerenza l’insegnamento veniva diretto e impartito da ottimi direttori e maestri”.

- Nel 1875 al Bistolfi deceduto, successero: sino al 1877 il vice direttore f.f. cav Luigi Giamberini (veterano di guerre risorgimentali); ad esso, seguì 1877-78 il cav. don Michele Tomatis (ex rettore del Collegio Nazionale genovese, autore di una pregiata monografia su Tommasina Spinola); l’incarico passò al cav.don G.B. Belloni, agostiniano, dal 1880 al 84 – quando cessò l’ufficio (ed in contemporanea la scuola, con 111 allievi, ottenne il pareggiamento alle scuole governative, che evidentemente non aveva) ma rimanendo direttore delle elementari fino al 1905 quando le classi furono trasferite negli edifici eretti apposta a fianco di villa Scassi-.

Viene ricordata di quei tempi la figura di uno stalliere  che per la sua burberia veniva chiamato ‘Mangia-figiêu’ , e che venne sfrattato a fine secolo: fu lui a segnalare al prof Ratto, abbandonato nella stalla ed ingombrante per lui, il marmo ricordante il restauro del convento avvenuto nel 1422; così salvato alla distruzione, fu portato nel 1878 all’Accademia Ligustica di Belle Arti.

Il 1 ottobre 1887 l’istituto fu trasferito nel palazzo di proprietà comunale Boccardo, sito in via del Mercato (nel 1922, don Daste) ove rimase sino al 1905 per trasferirsi poi, a villa Scassi (negli edifici affiancati a villa Scassi ed intitolati a Giuseppe e Maria Mazzini), restaurata nel 1889. Nel 1919 aumentando gli alunni, le sezioni femminili furono distaccate in villa Spinola; e la scuola da pareggiata è ‘convertita in regia’.  Infatti, nel 1922 gli alunni erano 540, divisi in 15 sezioni = tra le attività scolastiche vengono ricordate passeggiate ginnastiche (in città, alla Guardia, a Coronata, all’Acquasanta, al Monte, al Turchino, a Villetta DiNegro); rappresentazioni cinematografiche (al teatro Splendor, offerto dal proprietrario Stefano Frugone, fu proiettata ‘la Marcia su Roma’, la Dalmazia, Dante, glorificazione del MiliteIgnoto; al Politeama SPdArenese il Natale di Roma), cerimonie varie tipo tumulazione salme di combattenti,  visite al cotonificio Sciaccaluga, inaugurazione dei gagliardetti scolastici, cortei funebri (disastro dei DoksLiguri); concorsi ginnici.

Nel 1923 la regia Scuola Tecnica, viene intitolata a “Dante Alighieri

-il 20 giugno 1879 per divisione dei beni dell’asse paterno, monsignor GB Centurione divenne proprietario del palazzo.

-il 5 maggio 1882 il neo proprietario lasciò quest’intera proprietà in eredità all’Ospedale Pammatone  di Genova (che accettò l’eredità in data 14 novembre dello stesso anno e che rimase erede-proprietario anche di case in via Arnaldo da Brescia, in vico Mentana, in piazza Teatro Modena, in via Vittorio Emanuele).    Erano gli anni della trasformazione sociale e terriera : i nobili divenuti ‘poveri’ cercarono più lontano i luoghi di svago e villeggiatura, e di vendere i beni terrieri per racimolare nuova moneta; i neoricchi borghesi cercarono spazi terrieri per costruire essendo quello il filone, speculativamente ricco di entrate a poco prezzo.


-nel 1884-5  Giulio Centurione, cercò e forse riuscì a rientrare in occupazione della villa affittata, ma ben presto fu nella necessità di venderla (o meglio lasciarla vendere dall’ospedale) definitivamente al Comune di San Pier d’Arena, il quale pensò di poterci insediare i suoi  uffici . Il passaggio di proprietà avvenne il 6 ago 1885 comprendente il palazzo con il cortile retrostante; la piazza antistante sino alla via a mare C.Colombo; una casetta affacciata sulla piazza e distinta con un numero 69 occupata da un fabbro ferraio (bisnonno di Roncagliolo, storico del Gazzettino e morto nel 2006): il tutto per la cifra di 135.000 lire.

 

In attesa di ulteriori decisioni, fu infine deciso: la piazza è certo che subito dopo l’abbattimento della casupola, venne approntata a luogo pubblico e chiamata XX Settembre; la facciata del palazzo fu affidata al pittore genovese Francesco De Lorenzi (nato a Varese Lombardo nel 1830 e morto a Campomorone nel 1900 cadendo da una impalcatura mentre decorava la cupola. Era esperto diplomato a Brera di decorazione ed ornato; stabilitosi a Genova nel 1860 divenne amico e collaboratore di N.Barabino che lo aveva chiamato per decorare la Madonna dell’Olivo ed anche  vari palazzi genovesi (Celesia di v.Assarotti; Orsini in v.Roma; Pignone in sal.s.Caterina), numerose chiese (Rivarolo, Campomorone, Varazze). Era stato chiamato anche all’estero (Nizza, Wilna). A Genova, divenne Accademico di Merito alla Ligustica.                                                    L’opera fatta nel palazzo Centurione soddisfece le aspettative, risultando assai elegante, a un tempo rispettosa della tradizione genovese ma aperta al linguaggio pittorico rinnovato. Di tale opera nulla rimane poiché nel 1911 la facciata fu reimpostata in stile neo rinascimentale fiorentino. 

Era attivo anche Achille De Lorenzi  (appartenuto alla famiglia di pittori liguri a cavallo tra fine 1800 ed inizi 1900 innovatori della pittura di paesaggio; fu anche affrescatore (accompagnatore a volte del Gainotti) a Busalla, Campoligure, FinaleL.. A Genova le chiese di s.Teodoro, s.Maria delle Vigne, Staglieno, Cornigliano; ed i palazzi Croce di v.XXSettemnbre, Fuselli di v.Casaregis)  e nel 1891 l’istituto venne definito ‘scuola centrale maschile ’ (proprietà immobiliare del comune stimata del valore di 200mila lire di allora); ma anche di uso pubblico, infatti il 1 maggio 1904  Andrea Costa (non citato da 85 né 52. Uno dei primi sindacalisti, che inesperto e da solo partecipò fin da giovanissimo alle prime  battaglie sociali, per le quali subì arresti e ammonizioni: la polizia lo aveva definito “ozioso, vagabondo e sospetto di reato contro le persone e la proprietà”.  Divenne invece il primo deputato socialista e poi vice Presidente della Camera italiana, costante propugnatore dell’istituzione delle “camere del lavoro” ed altre istituzioni necessarie per proteggere ed elevare socialmente il lavoro degli operai. Morì a Imola) vi fece un comizio a carattere politico rivolto ad un corteo di 15mila lavoratori che da via Milano fece capo a San Pier d’Arena (parlò anche l’on. Borciani, sul significato della ricorrenza, dei nuovi diritti e della nuova morale del lavoro).

 

cartolina del 1904 – senza monumento, con scale laterali e facciata con decorazione affrescata.

difficile spiegare l’edificio nell’angolo in alto a sin se non il ‘palazzo del riso’

-          nel 1905, in occasione del centenario della nascita di Mazzini, fu installato ed inaugurato davanti, il monumento a Garibaldi e fu deciso per l’uso a sede municipale: a dicembre di quell’anno fu approvato in tal senso un progetto che vedeva l’ammodernamento dell’edificio con una spesa di 59.000 lire appaltato alla società Cooperativa Muratori.                              Si venne alla valutazione di vari progetti di sistemazione (uno in stile barocco, uno in stile medievale, uno in stile moderno proposti da Gino Coppedè coadiuvato dall’ing. Geri dell’ufficio tecnico; il migliore di essi prevedeva una spesa di 314mila lire: troppe per le modeste  finanze della città, così come fallì anche un quarto progetto più modesto presentato dagli stessi al nuovo sindaco l’avv. Murialdi ma bloccato perché al governo locale era subentrato un commissario prefettizio).

-         Nel 1907/10 ottobre  l’assessore avv.Murialdi Luigi, dopo delibera della giunta dell’8/sett., scrisse sia a Galileo Chini (fu Elio; pittore nato a Firenze ed ivi residente) incaricandolo dei: I°- lavori di pittura occorrenti per la decorazione interna del palazzo detto del Monastero da adibirsi a nuova sede Municipale. Tale decorazione dovrà essere eseguita restaurando gli attuali affreschi dell’atrio, scalone e vestibolo del salone e comprenderà le nuove decorazioni nelle lunette (soggetto di bambini pescatori con festoni e conchiglie) e volte dei tre archi del porticato del cortile; del salone e delle cinque sale del primo piano (nobile); II° il termine dei lavori è stabilito per la fine di aprile dell’anno dopo; III° sarà a carico del Comune preparare le impalcature e la preparazione delle pareti; IV° le altre spese a carico del Chini; V° compenso di £.5000 di cui metà a lavori incominciati ed approvati (prova di alacrità), e metà al termine dei lavori; VI° se ritardo, multa di £.10 al giorno e –se non ultimati- rimborso spesa da sostenere per farli ultimare; VII° spese del contratto al 50%); e sia a Plinio Nomellini l’incarico accettato dalla giunta di due pannelli ad olio per la decorazione del salone del nuovo Palazzo Municipale della Città.

-         Nel 1908/2 marzo l’assessore L.Murialdo scrisse a Nomellini segnalandogli che la giunta, il 29 febbraio precedente aveva accettato quale termine dei lavori la fine luglio 1908

    Appena iniziati i lavori, venne scoperta l’esistenza del chiostro, sottostante il pavimento del piano terra. I lavori vennero fermati ed enorme interesse suscitò la scoperta. 

   Il blocco popolare socialista vincitore delle elezioni chiamò, a reggere il governo sampierdarenese, il cav. Peone Gandolfo il quale coadiuvato dall’assessore ai LLPP Giuseppe Guelfi, dall’assessore anziano Testa Martino, dall’ingegnere capo del Comune cav. Carlo Bisogno, promosse un ampio programma in cui si ritornava al progetto di uso ad edificio scolastico

1910 – a sin in alto, il palazzo del riso

 

-         Nel 1910 (il Gazzettino dice 1908) il Comune retto dallo stesso sindaco affidò i lavori di una ristrutturazione della facciata e dello stabile in genere al progetto dell’ing. Cuneo Adriano ed all’impresa degli ing. Carnovale e Rota. Per procedere a ricuperare questa opera di alto valore, si rese necessario modificare i primitivi progetti, sia eliminando la destinazione ad uffici comunali, sia architettonicamente con il completo rifacimento della facciata (le scarse possibilità economiche frenarono il progetto iniziale: la decorazione fu affidata al pittore prof. Antonino Quinzio), con la complessa ricostruzione della parte posteriore del palazzo: per ottenere ciò fu giocoforza eseguire in un paio d’anni un’opera di costruzione in cemento armato delle ali del palazzo verso via Arnaldo da Brescia (via del Monastero) e vico Mentana (vico Catena) e unire queste basi portanti con una ossatura interna, tale da controllare lo scarico del peso su esse e gravare di meno sulle fondamenta e ancor meno sul chiostro e sul  cortile interno coperto dalla loggia a sbalzo d’ordine ionico; con  aprire una nuova scala in via Arnaldo da Brescia (perché una servitù gravante sulla proprietà comunale nei confronti del proprietario finitimo, impedì di completare la loggia sui quattro lati) e così disimpegnare il salone del piano nobile e permettere due accessi indipendenti (un terzo accesso, da vico Mentana, dona adito ai fondi ed al chiostro) .

-         Molto dovette essere fatto per riportare alla luce quello che per secoli era rimasto sepolto e per come meglio elaborare la valorizzazione dell’artistico chiostro trecentesco, divenuto nel frattempo ‘monumento nazionale’. Rinforzato il pavimento soprastante (nell’impossibilità del chiostro di sorreggere qualsiasi struttura superiore a quindici m.di altezza una volta liberato dalle opere murarie di riempimento) furono liberate le colonnine, alcune delle quali trovate rotte dovettero essere opportunamente sostituite; fu rifatto il pavimento in piastrelle di cemento; la banchina di posa di alcune colonnine venne interamente rifatta con pietra di Promontorio (avendone trovato una scorta inutilizzata); gli archi e le volte furono intonacati (come risultò fossero in origine) e ultimati in tinta unita (perché non trovata notizia che fossero affrescati a strisce bianco-nere). Il Cuneo,  lasciò una ampia precisa documentazione dei lavori , della salvaguardia e della ricostruzione.

  

-         Il 22aprile 1912 l’on. Pietro Chiesa inaugurò il salone, sede dell’Università Popolare con un discorso impostato sul decoro dell’operaio e della sua cultura fonte di educazione e benessere. L’utilizzo socio-culturale del palazzo proseguì con  celebrazioni storiche, manifestazioni civiche ed ospitandovi la biblioteca (già progettata nel 1870, trovò una delle prime sedi nel palazzo, fino a quando fu  trasferita in via C.Rolando nel palazzo Spinola nel 1939), la Camera del  Lavoro,  un museo (nella sede dell’Università furono esposti due grossi pannelli con dipinti del prof. Plinio Novellini; nel salone cinquecentesco, ribattezzato col nome di N.Barabino,  furono ospitate in mostra numerose sue opere, raccolte ed esposte seguendo l’indirizzo del prof. Angelo Vernazza suo allievo, utilizzando anche mobili ed altri quadri che avevano figurato nel padiglione ligure all’esposizione a Roma celebrando il 50enario della Patria),  le scuole elementari  (“scuole maschili ,di proprietà municipale”) e scuola media per le fanciulle.

-          Il tutto contribuì all’appellativo di “Palazzo dell’ Istruzione” o aulicamente “nobile albergo del sapere”; pensando di dedicarlo a G.Mazzini ma a cui si preferì poi Angelo Silvio Novaro (in realtà, Angiolo; nato a Diano Marina il 12 novembre 1866, fu scrittore di narrativa di tono pascoliano, di liriche spesso dedicate ai lettori più piccini. Morì a Imperia il 10 marzo 1938.                                                                                                                                    Anche un fratello, Mario, fu poeta a tema principale la Liguria; fondatore della famosa rivista “Riviera Ligure”).

foto 1920 circa

 

Nal 1915 il palazzo fu requisito dall’Esercito per uso militare (ospedale?): la maggior parte dei mobili furono trasferiti nella sede municipale, e là sono rimasti; mentre le tele di Plinio Nomellini furono trasferite in palazzo Spinola di san Pietro, e poi alla GAM di Nervi. Sono invece rimasti tutti i quadri del Vernazza compresi i semi tondi sopraporta.

Nel 1922, DeLandolina non ha ancora certezze, e scrive “si crede fosse un tempo asilo a monache di sant’Andrea...il palazzo d’istruzione di proprietà del municipio come afferma il suo nome, è adibito a sede di scuole che purtroppo per circa due anni esularono per concederlo alla Camera del lavoro. Proprio in questi giorni però, caduta l’amministrazione socialista, con fine discernimento il Cav. Gioacchino Silvano, venuto per incarico del Prefetto di Genova a reggere l’interregno del nostro Comune, restituiva il luogo sacro alla coltura dei nostri cittadini al suo primiero scopo”.

-   Comunque,  sempre inserito in una zona che ancora aveva il  ruolo di centro cittadino, avvalorava il primario interesse pubblico e sociale del quartiere stesso.


-   Nel 1925-6 l’Amministrazione comunale decise  potenziare l’esistenza del Civico Ginnasio (istituito in via sperimentale dal 1918-9, ma languente di scolari che preferivano essere inviati a Genova): dispose una adeguata cifra e l’inserimento in aule del secondo piano del palazzo, con propria entrata; lo arricchì anche di suppellettili e quant’altro fosse necessario al fine di dare avvio nell’anno 1926-7 alla fondazione del “regio Liceo Ginnasio” intestato a G.Mazzini (Lamponi segnala che alcune sale ospitarono pure la Direzione della sede decentrata del quotidiano cittadino ‘il Lavoro’).

 -  Nel 1929 divenne sede dell’Opera Nazionale Balilla.

      Tutte le trasformazioni del territorio circostante, avvenute negli anni 30, hanno relegato la villa in una posizione secondaria rispetto il nuovo centro cittadino spostato sull’asse di via Cantore- declassando cosi tanta meraviglia, a parcheggio auto, ad un bene troppo scarsamente valutato.

 

-  Nel 1934 il “palazzo e chiostro ex Centurione già delle Monache S.Andrea” fu vincolato e tutelato dalla attuale Soprintendenza per i beni architettonici della Liguria.

 - Nel 1943, causa il numero degli sfollati, fu aperta una succursale a Savignone; mentre nel 44, il 4 giugno, in un bombardamento aereo, le varie esplosioni vicine aprirono delle fessure negli spigoli del salone, distruggendo alcuni affreschi relativi agli episodi della guerra giugurtina.

 

 -  Un nuovo periodo di restauro, iniziato nel 1994 fu concluso con la spesa di 2,5 miliardi nel 1997.

 -  Attualmente, anno 2000, ospita la direzione della scuola media statale Sampierdarena (già intitolata ad Angelo Silvio Novaro; ha due succursali: una in via Rolando, 12 ed una in corso Martinetti, 77G).

   Vi si custodisce due grossi cartoni con -disegnate da N. Barabino- le bozze dei Vespri Siciliani(1873) e di “Pier Capponi che straccia i capitoli dfavanti a Carlo VIII”  a voce si riferisce che essi sono di proprietà della S.M.S. Operaia Universale di via Carzino. Alla quale l’aveva regalati direttamente l’autore, ed erano nel salone della palazzina nel 1932 avvennero gesti inconsulti di distruzione vandalica delle memorie dell’associazione (lapidi, libri, documenti: nell’ignoranza più completa, furono defenestrati anche questi disegni, ricuperati in segreto dal preside della scuola che li ricoverò in essa; e qui sono rimasti e divennero dono-forzato nel  1955 quando la SMS non trovò giustificazioni valide per ottenere la restituzione. (un disegno è riprodotto nel libro di Roscelli a pag. 217 ).

 

Il giardino, sviluppato prevalentemente verso levante, a nord rispetto la strada usata per raggiungere la Cella, quale rettangolo regolare, esteso sino a confine con quello di villa Gavotti (v.via Daste) ed usato a orto e vigneti.

(Il terreno retrostante la villa appare nella carta vinzoniana proprietà di un Doria, evidente insediato prima nell’occupare la fascia litoranea del borgo). Fu lottizzato all’atto della vendita della villa: il 5 apr.1856, il commerciante Giovanni Bruno, ne acquistò un lotto, che comprendeva anche una casa del manente, per 26mila lire, per erigerci il teatro G.Modena (vedi).

Il chiostro, costruito nel 1300, era in stile gotico, ed è vasto circa 200mq. dando così l’idea delle dimensioni originali del convento. La fascia esterna costituisce la zona chiamata ‘ambulatorio’ perché percorsa dalle monache in preghiera, lunga 28m per lato, larga 3,70m ed  alta 3,50m, coperta da volte a crociera che poggiano sul muro esterno e sulle colonnine binate, ed ai quattro angoli su massicci pilastri in pietra tagliata, alternata bianca e nera a fasce (queste volte mancano del cordone: ciò lascia presupporre che nella costruzione del palazzo nel 1500, abbiano sostituito le antiche travature).

Dei quattro pilastri a sezione rettangolare ed a strisce, tre hanno i capitelli i diversi solo per l’ordine di foglie sottostanti all’abaco; uno invece al posto delle foglie ha una fascia ornata con rilievi aggettati di visi di angioletti, musi di animali, un uccello. Le basi, uguali per tutti, constano del plinto, di un toro e di un listello separati da una scozia composta.

Le colonnine, trecentesche (e probabilmente alcune anche antecedenti: i loro capitelli hanno forme che possono risalire al 1100) belle ed eleganti, binate, poggiano  con una bassa base cilindrica (decorata con motivi vegetali a foglie praticamente sono tutte eguali; constano di un dado rettangolare, di un toro e di  una scozia composta: di queste si ammirano due tipi distinti, uno con foglie d’angolo ed altri con unghie a piccole volute) su un muretto (interrotto al centro di ogni lato da due fenditure che permettono entrare nell’interno); delimitarono insieme la parte interna dell’ambulatorio e l’area scoperta centrale.  Formano bifore e trifore costituenti sette (sagep.11, dice 5) campate per lato, con archi acuti e slanciati delimitanti la volta a crociera (Cuneo dice  che così rappresentano “uno tra i notevoli  esempi di stile ogivale che ebbe a lasciarci il medio evo di chiese e monasteri cogli annessi chiostri”);  hanno in alto capitelli diversi l’uno dall’altro per 10 tipi (alcuni con caratteri fogliacei, tipo “crochet” con foglie mosse come ad andamento naturale sormontate da altre piccole volute o foglie a bottoni -ed abaco sagomato alla foggia comune dell’epoca, a modanature semplici) .

    

 

 

 

  

   L’interno del chiostro, che una volta era o prato o orto aperto al cielo,  ora costituisce il gran salone centrale.

  

Nella ristrutturazione del 1500 il chiostro fu coperto -come con un tetto- dalla gettata che nella futura villa divenne il piano terra (rialzato di tre metri rispetto la piazza e l’ingresso, reso raggiungibile –secondo il disegno del Golfi, innalzando il terreno della piazza antistante- più probabile tramite una breve scala centrale munita di due vie carrozzabili in ascesa ai lati, detta poggiolo). Per fare ciò,  riempirono  le campate tra le colonnine, e  costruirono nel retro dell’atrio –sopra il chiostro- un  cortile porticato (così ideato , per non gravare sulle fragili fondamenta del chiostro sottostante): così il sottostante, divenne come una cantina, circondato e coperto da nuove strutture, e fu abbandonato ed usato come magazzino e scuderia . Ma quello che riesce interessante è che le volta a crociera sotto l’androne d’entrata del palazzo, poggiano sopra una colonna di mattoni con capitello cubico in pietra: essa è esempio unico in tutta Genova; non solo, ma essendo il capitello anche grezzo, viene datato anteriore al 1200 e questo avvalora l’ipotesi che quando le suore entrarono in possesso del monastero, esso era già stato eretto da Canonici  chiamati ‘del s.Sepolcro’.

   Col restauro del 1810, per rinforzare il pavimento del piano terra con cemento armato, ci si accorse della esistenza del chiostro e della sua primitiva funzione: liberarono le colonnine dai riempimenti, rinforzarono le ali del palazzo per rifare il pavimento in cemento armato. Così facendo, il chiostro rimane  sempre ed irrimediabilmente sotto il pavimento,infossato, ed in modo che l’occhio –che anticamente poteva osservare il cielo- oggi si ferma alla copertura in cemento armato che lo ricopre, per formare la base del cortile sovrastante.

   Venne riportato all’antico splendore ed usato anche per scopi sociali (è stato anche palestra pugilistica, sala da ballo popolare, mensa popolare nel periodo bellico, sede del Circolo Musicale). Infine, affidato al preside prof Russo fu promossa l’idea di farlo adibire a palestra dando l’incarico alla Cooperativa della Scuola Edile Genovese: i corridoi esterni al colonnato furono abbassati a livello dell’interno che fu rivestito a parquet in legno sovrapposto ad un opportuno isolamento termico; si aprì di una porta di comunicazione diretta tra scuola e palestra, si ristrutturò l’ingresso da via del Monastero; furono rifatti a norma gli impianti elettrici ed igienici).

  È dichiarato monumento nazionale.

   La scala d’accesso, inesistente fino all’800 essendo il terreno leggermente in salita; fu applicata dopo quel restauro con le caratteristiche di poter raggiungere il portone tramite due laterali carrozzabili, e scalinata centrale anteriore. Ora, semplice scalinata anteriore.

  

   La facciatail disegno dell’edificio quando era monastero; l’incisione del Giolfi del 1750; una foto degli anni 1910; la visione attuale, spiegano l’evoluzione della trasformazione della facciata dell’edificio.

---Incisione del 1750. Inizialmente si evidenzia il bel portone, che ha tre caratteristiche: una, non appare  centrale ma asimmetrico (perché infatti  ci sono tre finestre a ponente e due a levante del portone stesso); l’altra  che è piano terra (perché probabilmente il dislivello d’altezza era superato dall’aver fatto la piazza in discesa); terzo, appare molto grande e riccamente incorniciato da stucchi. Al centro della facciata del piano nobile,  una grossa effigie con lo stemma di famiglia, eguale a quella più semplice posta su una facciata di una casa vicina.

---Dopo i restauri ottocenteschi, la facciata fu ampiamente modificata : scomparso lo stemma centrale, per aprire le finestre in stile alessiano (simmetriche, tre centrali e le altre due lateralizzate),  alternate e incorniciate da dipinti e fastigi a tinte vivaci,  stucchi, con  gusto tardo barocco;  lo stemma della famiglia fu  rifatto sopra il portone (poi distrutto durante le vorticose giornate del periodo 1796-9).

      ---Infine, nel restauro del 1912 si propose la facciata odierna, neo rinascimentale, con  cornici, timpani, trabeazioni e sotto il cornicione da mensoloni, tutti in stucco, secondo la moda del momento. Sopra il portone d’ingresso, lo stemma è quello cittadino col sole nascente dal mare.

 

       Nell’ interno, subito si entra in questa prima  stanza:

        

l’atrio, scendendo le scale        con l’ingresso alle spalle               soffitto

=l’atrio, più ridotto in profondità e non in asse col cortile retrostante (modalità mai accettata dall’Alessi ma, così  obbligati in struttura anomala causa il chiostro sottostante  ed i grossi piloni perimetrali che debbono sorreggere il pavimento); ma l’occhio subito si distrae nell’ammirare tra vasti fregi e grottesche (o raffaelleschi), il primo affresco di Bernardo Castello dipinto nella medaglia rettangolare centrale incorniciata da stucchi all’apice della volta (fatta a padiglione lunettato). Vi è rappresentata la scena di “Erminia sfuggita ai cavalieri cristiani, si trova tra i pastori(settimo cap., dalla Gerusalemme Liberata, del Tasso: il poeta scrive “e vede un uom canuto, all’ombre amene, tesser fiscelle alla sua greggia accanto, ed ascoltar di tre fanciulli il canto. Seguite (dice) avventurosa gente al ciel diletto, il vostro bel lavoro; chè non portano già guerra quest’armi all’opre vostre, ai vostri dolci carmi! …” la lettura simbolica vuole interpretare il tema  espresso proprio all’ingresso, come la fuga al corteggiamento iniquo della città e del potere, per fuggire con i pastori in campagna, nella vita semplice e piacevole ad “ascoltar di tre fanciulli il canto”: lo stesso soggetto sarà per villa Imperiale, con la raffigurazione di flora e fauna. Al Louvre è conservato il disegno preparatorio. Nel 1590 il pittore incise la medesima scena per decorare una edizione speciale dell’opera letteraria. L’unica cosa che lascia perplessi sulla scelta del simbolismo, è l’esaltazione di Erminia che era un cavaliere musulmano.

Nelle lunette si vedono riquadri con ‘battaglie tra mostri marini’; e nei pennacchi ‘figure allegoriche femminili’. Il tutto fu ritoccato da ridipinture successive.

=nella sala a terreno, a destra, già sede della biblioteca (che già nel 1875 possedeva 4mila volumi), sulla volta a padiglione, al centro ed in un finto cassettone prospettico, il “trionfo di David”, il disegno appare più frutto di allievo non conosciuto, piuttosto che del Castello; e sempre dentro il finto cassettone, divinità mitologiche. Sottostante, in quattro riquadri più piccoli, scene forse riferite alla vita di David  (corteo di donne danzanti e festanti; sacerdote che compie un sacrificio; donna attorniata da donne e fanciulli cantanti; sacerdote che fa abbattere una statua in un tempio).  Nei riquadri ovali, racchiusi in cornice stuccata,  sono “le quattro stagioni”, affiancati da altri riquadri rettangolari descriventi dipinte su un piedistallo “allegorie della virtù”. 

Agli angoli, quattro putti disegnano lo stacco.

 

la testa di Golia impalata                              a fianco e sotto: scene di Davide

  

 

   Il cortile, collocato al piano terra nel retro del piano terra, verso nord, è come una corte - delimitata da un bel colonnato marmoreo che - dall’angolo in fondo- dava accesso diretto alla chiesa

 

   

                                                     

Nell’intervento effettuato nel 1910, fu rialzato di un piano con un corpo di fabbrica completamente nuovo soprastante l’antico chiostro e, volutamente lasciato vuoto per non gravare su esso col peso. Lateralmente però, ai quattro lati, l’edificio doveva essere alzato di altri due piani ma, oscurando  così il retro del palazzo Balbi, dopo un contenzioso durato a lungo si rinunciò all’elevazione. Nel cortile solitamente tutte le foto di classe degli alunni.

 

               

prima rampa                                                                                                seconda rampa

=Lungo la risalita delle scale sulla volta a botte, tra decorazioni a grottesche e figura allegorica,  è descritta  nella medaglia con finta cornice di stucco, la leggenda di “Perseo che libera Andromeda”. Perseo, fuggito all’ira delle sorelle della Medusa, il mostro da lui ucciso, arrivò trasportato dai sandali alati in Etiopia ove regnava Kefeo, sposo di Cassiopea: questa aveva offeso le Nereidi per eccessiva vanità, e Poseidone per punizione aveva mandato un mostro marino divoratore di esseri umani; i vati avevano dichiarato che il flagello non sarebbe cessato finché gli non fosse stata donata in pasto la figlia del re Andromeda. Così mentre ella legata alla roccia attendeva l’orribile fine, apparve Perseo che ucciso il mostro liberò la fanciulla e ne fece sua sposa. Negli ovali e lunette sono paesaggi con figure generici.

 

=Al piano nobile superiore,

  salone N.Barabino

-a sinistra invece appare un ampio  salone, dedicato a Nicolò Barabino; longitudinale (ricco a sua volta di decorazioni affrescate sulla volta a padiglione, rappresentanti nei 5 medaglioni centrali di difficile interpretazione  la “guerra dei romani contro Giugurta re di Numidia”: il centrale più grande raffigura forse “Mario che combatte i Numidi presso Cirta”, è vistosamente crepato causa le vibrazioni subite durante i bombardamenti dell’ultima guerra mondiale; gli altri episodi  forse sono: ‘il perfido Giugurta incatenato’, ‘lo scontro tra i due eserciti’ ‘la divisione delle spoglie tra i vincitori’, ‘due prigionieri tra cui un re  nel campo militare romano’.

 

affresco di Mario                                                                                lo scontro

  

A descrizione dell’Alizeri, anche le pareti del salone erano affrescate, con sfondati prospettici ricchi di colori ed invenzioni -insuperati dall’autore stesso in nessun’altra produzione-ora purtroppo scomparsi; furono sostituiti al restauro della fine del XIX secolo dagli spolveri del Barabino per i dipinti dei Vespri Siciliani, Pier Capponi, Carlo VIII, e di putti.

            

Si notano pure tra i grossi riquadri su descritti, quattro finte nicchie monocromi color bronzo con effigie a statua di imperatori romani o di armati, e nelle medaglie d’angolo incluse in cornici ovali dorate a loro volta inserite in cartelle molto elaborate e di finto stucco le immagini a busto di Cicerone, Cornelia, Pompeo e Lucrezia; nelle lunette sovrapporta, dipinti di Angelo Vernazza; due gessi di Nicolò Barabino).

        

 

      

                          

 

 

 

Quando nel 1911 la regione Liguria partecipò con un padiglione (progettato dall’arch. Venceslao Borzani e decorato dal pittore Antonio Calcagnadoro – Rieti1876, Roma 1935 -) all’Esposizione Etnografica, tenuta a Roma (culminata con l’inaugurazione dell’Altare della Patria) per il 50enario dell’Unità d’Italia, il Comune di SPd’Arena partecipò (assieme  a quello della Spezia, di Genova, di SestriPonente, Savona e Sanremo) con materiale prodotto da Angelo Vernazza e ma mobilieri locali. Finita l’Esposizione, l’ing. Botto Giuseppe fu incaricato del ricupero del materiale che Vernazza stesso si premurò di riutilizzare  sistemando gli album nella biblioteca e i mobili (un tavolo con poltroncine, gli scranni con braccioli, portavasi, leggii e lamadario) che furono collocati nel salone di questo edificio (il lampadario nella sala d’ingresso a piano terra).

Questo grande salone è orientato verso nord; ed è contornato - da stanze salotto - 3 a destra e tre a sinistra; di esse solo tre conservano dipinti degni di attenzione, a ovest:

sala con volta  ricoperta di decorazione a grottesca riccamente intrecciata con palese innovativa creatività, molte ridipinte:

  

Sala A destra del salone (foto sotto - oggi 2011 sede della ‘sala professori’), si apre verso levante, ed affacciato sulla piazza antistante il salotto  detto di Callisto  perché vi è affrescata nel riquadro centrale il rimprovero della ninfa agreste Callisto, epilogo della sua storia: Giove innamorato della giovane, le si era avvicinato sotto travestimento; del non essersi accorta e difesa, fu osteggiata e sgridata da Diana contornata dalle ninfe al bagno; rappresenta una scena molto dettagliata da sembrare una miniaturatra le più graziose e procaci (a quei tempi, la magrezza era sininimo di povertà o malattia), visibili sui soffitti genovesi generalmente prodighi di nudità; nelle medaglie d’angolo altri episodi del mito di Callisto (la ninfa Callisto al fiume, Giove vede la ninfa, Giove trasformatosi con le sembianze di Diana si avvicina a Callisto, Giove corteggia Callisto). Nei riquadri sottostanti, sono dei paesaggi di fantasia;  nelle lunette sono busti in finto marmo di divinità sottoposti a cellette decorate a grottesche.

Alle pareti, due grossi quadri sono di A.Vernazza:

 

  

sala Callisto  -  Diana e Callisto fra le ninfe –

                  

due delle quattro figure d’angolo.                             il quadro riproposto sotto,  nella sua dimensione.

 

                   

presumo raffiguri e simboleggi la famiglia:               si dice descriva la famiglia Canzio ai giardini di

lui, col martello è operaio; al centro la madre           villa Scassi; lei a destra in camicia rossa; lui da

con bambino; Apollo, Mercurio e le muse sono        anziano signore, con medaglie e bastone.

gli dei che proteggono l’unione.

 

sala – d’angolo di ponente del palazzo: con volta a padiglione, contiene sul soffitto un riquadro in cornice di stucco, assai deteriorato e stinto titolato ‘scena di pesca’ e circondato da grottesche e da quattro riquadri con scene di paesaggi di fantasia.  Sulle pareti due grossi quadri del Vernazza:

  

 

    

la spiaggia di San Pier d’Arena                              cantiere navale

 

      

busto Angelo S.Novaro               lavori manuali degli studenti

 

===senza un civico distintivo, nella rientranza a levante tra la piazza e la via del Monastero (viene descritta in “via del Monastero” in quanto appartiene ad essa), proseguendo la lottizzazione dell’ampio parco della villa, nello stesso anno 1905 del monumento, si inaugurò un ingresso del mercato che,  posizionato a mare del teatro si apriva con questo cancello anche sulla piazza; era a testimonianza della scelta di rendere la zona epicentro della città. Ora appare definitivamente chiuso ed usato come uscita di emergenza del teatro e per i trasporti dei materiali necessari al teatro stesso.

 

DEDICATA     

La titolazione è comunemente  attribuita alla precedente presenza di un monastero delle suore del s.Sepolcro, rimasto come base dell’edificio attuale, compreso il suo chiostro  tutt’ora esistente.

Remedi propone un’altra spiegazione: Monastero quale marchesato dei Centurione in Spagna. La spiegazione sta in due  considerazioni: la prima, che nessuna villa in Genova si qualifica nel nome del suo sedime, quanto invece solo con quello della famiglia che la ha eretta ed abitata. Secondo, che i Centurione erano anche marchesi di Monasterio, che a lungo hanno mantenuto questo titolo che, a ragion veduta avrebbe più meriti ad essere mantenuto nel nome, sicuramente più dell’antico convento di suore.

(“Ottavio Centurione, figlio di Marco e di Livia Centurione, era commendatore di Zara, cavaliere di Calatrava, membro del Consiglio di guerra di Filippo IV, maggiordo momaggiore della regina donna Isabella di Austria e primo marchese di Monasterio, cittadina in provincia di Badajoz nella comunità autonoma dell’Estremadura – comarca di Tentudia, sui versanti  settentrionali della Sierra Morena – a nord della Sierra Tudia – verso i confini del Portogallo, lungo la antica via dell’argento da Merida a SivigliaAveva sposato la nobile Battina Doria q.Agostino, ed ebbero un’unica figlia, Chiara – andata sposa al cugino Domenico Centurione; ebbero una figlia, Anna Maria. Alla morte di Ottavio, il titolo fu trasmesso alla figlia Chiara e da lei alla nipote Anna Maria; ma morendo quest’ultima diciottenne, retrocesse a suo padre, Domenico, praticamnte un Centurione ormai definitivamente spagnolo seppur imparentato con i Doria, i De Fonseca ed altre.; il ramo si estinse nel XIX secolo, quando Soledad Centurion y Oroyo, settima marchesa di Monasterio; essa aveva sposato il conte Juan Antonio Fivaller y Taverner passò il titolo (ottavo discendente)  al figlio Fernando Fivaller y Centurion, morto senza figli. Il titolo passò (nona) alla sorella di Fernando, Maria de las Mercedes Fivaller y Centurion, che sposando il marchese Gabino Martorell, ebbero numerosi figli: tra essi José Maria Martorell y Fivaller che – anche se non più Centurione del Monasterio -  nel 1859 ereditò molti beni di famiglia esistenti in San Pier d’Arena tra i quali la chiesa di san Giovanni Decollato, che poi vendette nel 1872 a don Bosco”

Remedi propone che anche la villa Centurione posta in piazza N. Montano sia stata dei Centurione spagnoli, essendo questa villa posizionata a nord di un terreno che, a mare ha la villa del Monastero.

 

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-D’Oria S.-Sampierdarena   San Teodoro-DeFerrari.2001.pag. 19.49

-Favretto G.-Sampierdarena 1864-1914 mutualismo e...-Ames.2005-pg.163

-Gazzettino Sampierdarenese  :  8/73.16disegno  +  10/73.10  +   2/83.6.7.12  +  2/84.4  + 4/87.3  +  7/89.1  +  7/90.8  +  8/90.8  9/90.5  +  5/91.3  +  1/94.7  +  3/94.15  +  4/95.7  +  8/95.8  +  3/97.9  +  6/97.11  +

-Genova, rivista del Comune  :  11/51.48

-Gregori M.-Pittura murale in Italia-SanPaolo-voll.II.2 pag.212-III pag.79

-Guide Sagep n°80foto-piante     

-Il Secolo XIX quotidiano: 28.12.97 +

-Lamponi M.-il Fascismo in Valpolcevera-ed.M 1999-pag 35foto

-Lamponi M.-Genova in bicicletta-Valenti.1977-pag. 45.80  

-Lamponi M.-Sampierdarena- LibroPiù.2002- pag.68

-Levati PL.-Dogi biennali- Marchese & Campora.1930-vol.I-pag.403

-Massobrio G.-l’Italia per Garibaldi-SugarCoSe-pag. 115

-Museo di s.Agostino-archivio uffici toponomastica – pag. 93

-Magnani L.-Il tempio di Venere-Sagep.1987-pag.127   

-Novella P.-Strade di Ge.-Manoscritto bibl.Berio.1900-30-p.12.14.19.25  

-Pagano/1940-pag.341

-Parma E.-il Cinquecento-CARIGE.1999.=pag. 344 foto   

-Pastorino&Vigliero-Dizion. delle strade di Ge.-Tolozzi.1985-p.1204-1609

-Poleggi E. &C-Atlante di Genova-Marsilio.1995-tav. 34

-Ragazzi F.-Teatri storici in Liguria-Sagep.1991-vol.I-pag.80

-Ragazzi F.-Sampierdarena 1864-1914 mutualismo e...-Ames.05-pg.111.248

-Remedi A.-Il palazzo del Monastero e...-ricerche personali

-Roscelli D.-Nicolò Barabino-soc.Universale.1982-pag.151.162  

-Soprani&Ratti-Vite de’ pittori, scultori..-Tolozzi.1965-vol.I-pag.154

non citata : Ratti-Instruzione di quanto può vedersi-Forni.I.387, II.88