MARTINO via san Martino
da MVinzoni, 1757
===LA VIA: STORIA Essendo la via Emilia-Postumia dell’epoca romana percorribile in alto da Promontorio-Belvedere, il tracciato di questa strada anche se forse esistente in quell’epoca, non era gran ché sfruttato, almeno in forma carrettabile se non dai traffici che dall’interno necessitavano andare direttamente alla marina per essere imbarcati o commerciati. L’erezione nel periodo medioevale dell’abbazia di san Martino deve aver migliorato e più bene strutturato l’accesso, anche se tutta la strada era fuori del borgo, circondata da ampi prati che dal Belvedere arrivavano sino al Polcevera e probabilmente coltivati da contadini.
Anche allora, solo i fedeli accorrenti alle funzioni religiose festive, i radi trafficanti commerciali orientati verso l’entroterra o interessati alla marina, non ultimi anche tutti gli eserciti invasori via terra, debbono essere transitati lungo essa. Comunque, già tutti i terreni – dal colledi Belvedere al torrente – erano proprietà di ricchi signori.
Solo nel cinquecento si iniziò e costruirvi qualche villa; rimaneva però sempre una strada tendenzialmente extraurbana fino oltre al 1700: una documentazione un po’ più dettagliata, nasce dalla lettura della carte del Vinzoni.
La carta del Vinzoni, datata 1757 ma antecedente di verie decadi nella stesura, è una delle prime a descrivere questa via - a quel tempo ancora anonima come tutte le altre: il tragitto appare sovrapponibile all’attuale, ma sappiamo che era più stretta e circondata ai lati da prati suddivisi in rade proprietà, ciascuna occupata da una villa padronale con giardino e da orti (delle ville, alcune sulla strada, altre decentrate all’interno della proprietà, seppur cinquecentesche e quindi storicamente antiche, furono classificate ‘di scarso interesse artistico’ e fu concesso abbatterle; quelle rimaste oggi, in epoca estremamente pratica e legata ai soldi, sono presenti proprio come beni immobili, ma di Un proclama dei Padri del Comune, della serenissima Repubblica di Genova, datato 5 ott.1758, obbligò i proprietari di palazzi prospicienti la strada della zona Mercato, a concorrere alla spesa per il lastricamento; detta pavimentazione fu prevista continuare verso il Ponte, interessando alla spesa 18 proprietari; e verso san Martino, per “un percorso di 418 cannelle, con coinvolgimento di 12 cittadini proprietari ed una spesa di 1881 lire” .
In quei tempi, non poche erano poi le lamentele dei cittadini che ritenevano lontana e scomoda la abbazia - allora unica parrocchia -, a vantaggio della Cella, da poco affrancata dall’essere di privati.
‘nessuna utilità economica’ e quindi genericamente inutilizzate o stravolte).
Fin dall’antichità quindi non era usanza dare un nome preciso ed ufficiale alle vie, chiamandole genericamente in basa alla funzione che avevano: quindi questa era tale perché portava alla abbazia omonima, allora unica parrocchia.
Da sempre, anche quando l’asse viario primitivo e centrale del borgo (attuale via N.Daste) era unico che dalla Coscia portasse a ponente, all’altezza del centro - in zona Mercato - si formava un bivio: una strada portava al Ponte passando dietro la villa Centurione, ed ancora alla fine del 1700 era semplicemente chiamata ‘strada che passa a Cornigliano’; l’altra indirizzata verso l’entroterra, ed era altrettanto semplicemente chiamata “strada che in S.Pier d’Arena dal Mercato passa a san Martino”.
Un biglietto da visita, usato per ordinazione (nel caso allegato, n.50 pani di ottone, datata 10.2.1888), intestato a “Fonderia di Ghisa / di Tito Zenoglio / Sampierdarena via S.Martino n° 7 / attigua alla Stazione Ferroviaria ed al Tramway / si eseguisce su modello qualunque siasi lavoro / con tutta precisione e puntualità / i prezzi saranno i più limitati e dfa non emere concorrenza / specialmente per Commissioni di qualche rilievo” .
Un documento datato 1 agosto 1884 segnala alcune particolarità della società f.lli Sasso: la prima è che essa già esisteva allora e si interessava di commercio di pallini, tubi e lastre di piombo; secondo che era locata al civv. 9 e 10 di via S.Martino (e quindi, la collocazione in via P.Reti –vedi - è secondaria ad un trasloco); terza che era composta dai fratelli Gerolamo e GB; ed ultima che in quella data entrò a far parte della società un terzo fratello Enrico.
===GLI ACQUEDOTTI – non intesi col significato di oggi , ma con quello di allora che equivaleva ai torrenti, i quali dalle alture scendevano liberi a valle
disperdendosi in mille rivoli che – in caso di piogge importanti - lasciavano a valle ampi tratti pantanosi o acquitrinosi, difficili da percorrere se non addirittura malsani (da ciò il termine dispregiativo della zona a seguire, il Campasso). Sino al 1700, non sono descritte opere di bonifica importanti, essendo occasionali e quindi accettati come ‘naturali’ – anzi benefici nello svolgimento di opera di lavatura da tutte le scorie e lordure umane che venivano abbandonate nelle strette vicinanze delle case.
--1757. Come detto sopra, è di questo anno la consegna al Senato della carta del Vinzoni, la prima a descrivere e localizzare nella strada gli “Acquedotti” e, con essi, la successione delle proprietà. Nel grande disegno (2 metri per uno) - stilato per conto del Senato genovese, col fine di indicare il deflusso delle acque, a quei tempi malamente incanalate e tali da apportare sia utilità per i campi ma danni per le strade ed altre strutture sociali - le strade non tutte hanno nome; ma già ‘san Martino’ si chiamava la antica strada che portava alla parrocchia e faceva seguito a via Mercato (vedi) che convenzionalmente si fa finire alla confluenza con la crosa dei Buoi, prima della villa Centurione (che viene descritta in piazza N.Montano, ma il cui ingresso era, molto probabilmente, nella crosa dei Buoi).
===LE VILLE
a ponente: dopo la villa Centurione e la via san Cristoforo (oggi A.Scaniglia) compaiono, prima la lunga (verso il Polcevera) proprietà di Tomaso Spinola (il civ.4 attuale); seguita dai terreni di Giovannetta Lomellini, e dell’ecc.mo Domenico Spinola (il civ. 8, sino alla chiesa di s.GB Ddecollato). A loro seguiva un lungo appezzamento di proprietà ‘dell’Ospitaletto’ (sino all’altezza di v.B.Agnese; da poco cambiato di proprietà ma quasi illeggibile il nuovo = Magistrato degli Incurabili), a cui seguivano i terreni di un m.co Cambiaso e del m.co Stef.o Lomellino (sino all’altezza di via Tavani).
A levante invece, la stada inizia di fronte allo sbocco della crosa dei Buoi con una serie di case strettamente affiancate, alcune ancor oggi esistenti, delle quali la prima -procedendo verso il Campasso- è la più grossa ed imponente, ma ultima di via Mercato (è una grande villa, con molto terreno alle spalle,di proprietà dell’abate Spinola q.Nicolò, oggi abbattuta, e che sarebbe posizionabile all’angolo di levante di via GBMonti). Appoggiate al villone –scrivevamo- una serie di case che appartenevano in successione a: mag.co GioLuca De Franchi (praticamente scomparsa perché sovrapponinbile alla strada via GBMonti che allora non esisteva); seguita dalla casa di Fr.sco Rapallino; dei RR.PP.Agostiniani (della Cella); di una seconda di GioLuca DeFranchi; da quella del mag.co Filippo Centurione (quest’ultima, appare separata da un cortile dall’ultima casa della fila, la terza di GioLuca DeFranchi, che fa angolo con la “strada degli Incurabili” (vedi; -attuale via Anzani). Al di là di quest’ultima salita, che arrancava trasversalmente alla principale sino a, oggi chiamata, ‘Quota 40’, ma allora ove era un’altra villa, appare la proprietà di Ferdinando Spinola (con una casa, ma niente villa nella carta del Vinzoni; con villa segnata grossa ma di cui non esiste alcuna spiegazione neanche di quando è stata demolita, nella carta sottodescritta).
--1781. Di poco antecedente a questa data, un’altra carta – del Brusco, ove si confermano gli stessi nomi e – nel rettangolo a sinistra- descrive la spesa per ‘allargare’ la strada smussando le proprietà laddove erano ‘a prato’.
Seguivano – sempre a levante della strada - le proprità del ser.mo GioGiacomo Grimaldi (con villa –ora distrutta- nell’angolo con l’attuale via s.G.Bosco-. Vedi sotto il profilo). Da qui iniziavano i terreni di GioNicolò Grimaldi (ora inclusi nel territorio di don Bosco assieme ai successivi) e la proprietà dei PP.Teatini (con la chiesa allora privata di s. GiovanniB.Decollato). Seguivano le terre dei sig.ri Ghezzi (sino grossomodo via Armirotti), e poi -estesi sino a via Caveri- quelli dei Rovereti (con la loro villa in alto, e nel cui centro c’era l’attuale via Currò).
--1790. La strada, ancora non aveva nome ufficiale, e viene citata come scritto sopra. (Alcuni proprietari appaiono cambiati: a ponente iniziava con le terre di Tomaso divise tra il magn.co Giuliano Spinola ed il m.co Agostino Spinola q. Massimiliano; poi dei Lomellini; del m.co Cristoforo Spinola q. Domi.ci; da Grillo Siasaro ossia Magistrato delli Incurabili; dal m.co Francesco Ponte, dal m.co M.Cambiaso. A levante il M.co Giuliano Spinola; poi m.ca Nicoletta DeMari alias GrimaldoGB; ecc.mo Pietro Francesco Grimaldo; chiesa dei RR.PP.Teatini; sig. Ghessi; m.co Benedetto Rovereto; parrocchia di san Martino; cappellania di casa Grisella).
Si iniziò quindi dopo questa data a dare dei nomi, sempre legati alla funzione: e poiché questa strada serviva principalmente per raggiungere l’unica parrocchia esistente nel borgo, la abbazia medioevale omonima posta in fondo alla zona, appare ovvio che fu chiamata via san Martino (posta all’inizio di vico Cicala (via A.Caveri), là viene descritta).
--1813. Non esistendo alcuna organizzazione stradale, ancora rimangono generici i riferimenti ad alcuni palazzi esistenti nella strada e dintorni; citati perché possedevano nel loro interno una cappella privata per funzioni religiose, e quindi erano catalogate signorili-: ‘casa Galleano Domenica da via san Gaetano’ (che non è mai esistita come via); ‘casa Gentile Filippo vicino a san Martino’; ‘casa Mari Lorenzo e parimenti una ‘casa DeAlberti GioMaria, ambedue vicine a san Gaetano’; ‘casa Negrotto Lazzaro vicino alla Palmetta’; ‘casa Spinola GB alla Palmetta’.
--1872. Questa strada centenaria, ebbe un nome nato quindi spontaneamente per ovvietà funzionale di avvicinamento alla chiesa parrocchiale, ed accettato ufficialmente dal Comune solo assai tardi: a mie mani appare in un documento con questa data.
--1890. La titolazione al santo di Tours rimase alla strada finché a questa data, fu deciso di cambiare (sia per la necessità politica di inneggiare al Risorgimento, sia anche in conseguenza al fatto che la abbazia era andata miseramente distrutta per abbandono e rimaneva attivo solo il piccolo Oratorio omonimo, di minore importanza storica): divenne così via A.Saffi.
Dal bivio, sulla strada ancor oggi esistono la “villa Spinola”, la “villa Grimaldi”(ora distrutta), la “villa Lomellini-Spinola”, la “villa Domenico Spinola” (di cui rimane solo la torre); la “villa -Pallavicini-Durazzo-Currò”, una volta tutte dotate di ampi spazi terrieri orientati verso e fino al torrente Polcevera (come da via Daste, a quel tempo via deMarini, le ville posizionate sulla strada estendevano le proprie proprietà verso il mare, anche da questa via le ville erano in genere alla testa di lunghi terreni coltivati a giardino, orto, frutteti, bosco, estesi sino al Belvedere oppure al torrente) ed oggi con spazi attorno praticamente nulli.
Descriviamo qui solo quelle che sono andate distrutte:
===VILLA Gio. Giacomo GRIMALDI: dove ora è il palazzo col civ.33rosso eretto nel 1960, c’era una villa nata tra il XVI e XVII secolo non si sa ordinata da chi né da chi eretta. Solo nella planimetria Vinzoniana del 1757 risulta in quegli anni essere di proprietà del serenissimo GioGiacomo Grimaldi per cui
è lecito presupporre che fu fatta costruire dalla famiglia di cui GioGiacomo fu erede. (tra parentesi, segnato con: *=, sono le diversità rilevate su altro libro El Siglo de los.., pag.233).
dalle macerie della villa è stato salvato da un muratore
questo intaglio facente parte di uno stipite.
Sarebbe andato alla discarica. Il marmo del caminetto
venne prelevato da Valdevit; ... ma non lo voleva.
Gio. Giacomo Grimaldi era nato a Genova in Fossatello, il 12 luglio 1705, figlio unico di Alessandro (marchese di Campo Tejar in Spagna, titolo conferito all’avo PierFrancesco da Filippo II) e di MariaValeria DeMarini q.Nicolò (*=AnnaMaria De Mari).
Giovanissimo andò in paesi stranieri soprattutto per imparare l’arte militare e diplomatica: nel 1740 fu ambasciatore a Venezia alla corte viennese per 11 anni (riconosciuto in una dedica “esemplare del perfetto gentiluomo, magnanimo nell’idea, splendido nel costume et obbligante nel tratto”), salvo parentesi nel 1746 quando tornò a Genova in occasione della guerra antiaustriaca e fu incaricato portare in località Torrazza al generale conte Schulembourg la dignitosa risposta del senato genovese. Dal 1751 al 54 fu Commissario generale in Corsica a districarsi tra ribelli corsi e francesi comandati dal marchese di Coursay (alla fine del mandato,1754, donò alla cattedrale di Bastia un prezioso ostensorio d’argento dorato – munito di trono per esposizione - con inciso suo stemma, sigla, e data.
Nel 1752 si iscrisse quale studente della Accademia Ligustica nella quale poi divenne direttore del settore pittura nel 1795, finanziatore e protettore; all’Accademia regalò in testamento un suo ritratto in piedi dipinto da Giuseppe Rossi ed un cifra di lire mille a perpetuo. Il 22 giugno (*=luglio) 1756 fu nominato Doge biennale, ed incoronato il 14 genn. successivo (amato e venerato dal popolo, autore di grandi veglie pubbliche domenicali e di altrettanto grandi feste da ballo o in maschera specie in rapporto a nozze di parenti o titolati, che perduravano per oltre un giorno e mezzo continuato, in modalità “non mai prima né dopo praticata”). Una sua statua adorna il salone del palazzo ducale, incluso tra i “generosi”.
Dopo il dogato, fu nominato senatore a vita e rinviato in Corsica come commissario generale;qui provvide a fortificare nuovi presidi, combatté gli insorti guidati da Clemente Paoli, vanamente bombardandoli dal castello di Paternò (subendo il loro attacco, che sconfisse la sua guarnigione svizzero-tedesca, costringendolo alla fuga a Bastia da dove gli fu ingiunto tornare a Genova ed implicitamente –giustificando gli insorti e mandando assolti alcuni ufficiali da lui condannati- gli fu dato contro. Sdegnato preferì deporre la tonaca di senatore a vita e tornare a Venezia, ove “uomo di spirito, amabile e ricco, viveva spesso ed ove poteva gioire dei piaceri della vita con più libertà che nella sua patria”), con uno stacco nel 1760 ad Avignone. Sofferente di gotta , morì 72enne, a Padova, il 26 gennaio 1777.
Oltre il palazzo in Fossatello, Gio. Giacomo possedeva la villa di San Pier d’arena, che allora era “alla fine di un viale che aveva l’ ingresso sulla “strada di s.Martino, al civ. 14”. Qui ospitò Rosalia (graziosa marsigliese, che nei giardini della villa ebbe a conoscere i coniugi Paretti, zii del futuro marito e loro futuro erede) e Seingalt conosciuto durante il viaggio in Francia. E qui, il 24 maggio 1775 stilò il testamento che fu letto anche in Senato avendo delle disposizioni di pubblico interesse: oltre a legati alle varie opere pie ed a una zitella genovese per maritarsi, volle che dai fidecommissari esecutori si erogasse annualmente una somma di 10mila lire quale stipendio per un ufficiale (col grado minimo di maresciallo di campo, che sappia addestrare, comandare e dirigere bene la truppa; somma che diveniva 2000 mensili se l’ufficiale doveva partecipare ad una guerra); ed altra somma per spedire di triennio in triennio in una accademia di Francia un giovane ingegnere militare per studiarvi l’arte e che – tornato in patria - godrà di pensione vitalizia di lire 8oo annue. Inoltre, sempre stimando prioritaria la pace, non potendo però la Repubblica schermirsi dal difendersi quando necessario, stabilì fossero acquistati 10mila fucili, nuove artiglierie, e riattato il forte di Vado – edificato quando era doge e battezzato di s.Giacomo - e che vi abitasse una piccola guarnigione. Altrettanto ogni anno ed in perpetuo una rendita per i “gentiluomini di poppa” ovvero buoni ufficiali per la navigazione; dei quali, i 4 più giovani però, che – quanto tornati in porto - frequentassero l’Accademia Ligustica della Nautica gestita da un insegnante pagato da parte del lascito.
Il Senato per gratitudine, fissò far scolpire una sua statua: dopo varie vicissitudini, solo 15 anni dopo fu completata da Ravaschio e posta alla sinistra del trono ducale; descritta in stampe di Gravier nel 1788 su “description des beautés de Genes”; fu distrutta nella rivoluzione popolare degli anni a seguire.
A fine 1700 la villa era sulla strada, possedeva sul fianco un giardino pensile, ed era inclusa in un ampio lotto di terreno a prato, giardino ed orti,racchiuso: dalla strada sino alle erte pendici di Belvedere, e tra la proprietà di GB Grimaldi a nord (con la ‘villa Bianca’ descritta sotto) e quella di Ferdinando Spinola a sud (vasto terreno ben visibile nella carta del Vinzoni del 1757)
Come tutti i giardini ed orti del borgo, anch’esso - a fine 1800, e quando ancora di proprietà della Rebora vedova Cristofoli - fu disperso, lottizzato e coperto di case.
Nel tardo 1800 divenne proprietà di Pietro Cristofoli (a cui è stata dedicata una via cittadina: vedi ad essa indicazioni sulla vita del medico garibaldino).
Sappiamo che dalla vedova Cristofoli ed eredi fu venduta nel 1912 una parte della proprietà al ‘Collegio convitto Ernesto Foscarini’ (scuola privata per corsi accelerati di scuole elementari e tecniche con speciali corsi accelerati particolari preparatori per ammissione al r. istituto nautico, sia capitani che macchinisti; ma poi anche per ginnasio, liceo e commerciali; nonché per giovani stranieri. Aveva villeggiatura estiva a Busalla. Era stato premiato con medaglia d’oro e grand prix alle esposizioni internazionali di Roma-Londra-Parigi-Bruxelles-Genova. Rimase sino al 1918.
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La foto riprende la villa, -già dei Grimaldi, sede della scuola; appare chiaro sia riprodotta la facciata a mare con giardino. A destra nello sfondo il campanile della chiesa di s.Gaetano
il disegno mostra un viale di accesso esagerato rispetto la realtà: in basso a sinistra sarebbe via s.Martino, poi divenuta via Saffi
(al sig. Ventura viene comunicato che il figlio non ha superato l’esame di ammssione al regio istituto nautico “quantunque si fosse ben preparato. Non gli rimane che ripetere la III classe”)
In questi anni, la strada divenne via A.Saffi, e la villa dovette subire un periodo di abbandono perché si descrive che “i fiori del giardino furono strappati dalle aiuole per lasciar posto alle ortaglie; la casa, bella nella sua semplicità delle forme architettoniche, e ridente per un loggiato di cui s’indovina tuttavia l’eleganza alberga ora un pastificio (fabbrica di pasta alimentare)”.
Nel 1922 in alcuni locali vi aveva sede un circolo ferrovieri (durante il cui uso avvenne il fatto di Egidio Mazzucco) e - non si sa da quando - era già divenuta proprietà dell’ imprenditore Capello (che nel 1937 riuscì – malgrado ci fosse un ampio scalone affrescato - ad ottenere l’autorizzazione alla demolizione (per alto degrado, scarso valore storico, impossibilità di restauro): col beneplacito delle autorità di allora, poté così arricchirsi costruendo nel posto due ampi palazzi ad uso abitativo (il primo al posto della villa nei primi anni bellici; il secondo nel posto del giardino a guerra finita... il timore era che se avesse costruito sarebbero stati requisiti per dare alloggio a chi aveva avuto distrutto la casa per bombardamenti ).
===VILLA GRIMALDI, PALLAVICINO, SALESIANI (detta ‘villa Bianca’). Era posizionata arretrata rispetto la via principale, all’interno del lotto terriero; ad essa si accedeva tramite un lungo viale che iniziava dove ora grossomodo è la farmacia San Gaetano.
LA VILLA : dalle forme -deducibili dall’immagine fotografica-, si può far risalire al periodo cinquecentesco del rinascimento, possedendo la struttura tipica locale di gran lunga prealessiana: tetto a lastre, inclinato, con abbaino decentrato; struttura fondamentale rettangolare, con un corpo laterale ad L. La facciata era caratterizzata dal portone bugnato e sormontato da stemma e nicchia, stranamente decentrato, e che dava ingresso ad uno stretto vano munito di volta a padiglioni da cui uno scalone munito di balaustra marmorea sicuramente sfociava nella loggia. La facciata comprendeva anche ampi finestroni muniti di inferriata, ed un lungo marcapiano esteso per tutta la lunghezza, divideva il piano terra dal primo ed accentuava la larghezza del rettangolo.
Al piano nobile una grande loggia laterale a tre fornici sulla facciata principale e due sulla laterale nell’angolo sud-ovest, tamponata in seguito, ma lasciando in evidenza le arcate, lesene e capitelli esistenti;guardando la facciata le ampie finestre erano inserite nella facciata con spazi irregolari creando l’illusione di una parte destra della villa vissuta in un modo più concentrato, forse dai proprietari, e l’altra –vicino al corpo laterale ad L-, più diradata, come forse vissuta dalla servitù o servizi.Si descrive che le volte della stanze erano affrescate con riquadri centrali.
IL TERRENO si estendeva dalla strada sino al Belvedere ed era coltivato ad ampie fasce. Nella proprietà espressa dal Vinzoni , esisteva nella parte superiore un altro edificio (forse quello del contadino) e vicino un laghetto, ed un ninfeo.Dalla carta vinzoniana a cui si risale come primo documento scritto, nel 1757 la proprietà era intestata all’eccellentissimo Gio Batta Grimaldi.
In epoca non accertata divenne proprietà della famiglia Pallavicino, anch’essa interessata al nostro borgo, con altri possedimenti.
L’11 luglio 1888 il tutto fu acquistato dai Salesiani direttamente dalla marchesa Teresa Durazzo nata Pallavicini, comprendente un territorio che dalla strada principale arrivava poco oltre la ferrovia soprastante ed aveva quindi già perduto una parte degli spazi retrostanti, come detto estesi sino all’alto della collina. I Pallavicini erano generosi benefattori di don Bosco: il senatore Ignazio Alessandro, (abitante in Pegli nella fastosa villa che ora è parco comunale; pur essendo ancora genericamente giovane, nel 1800 aveva 64 anni, praticamente non usciva più di casa ove abitava assieme alla unica ed energica figlia Teresina (vulgo Nina, 1847-1914) sposata al conte Marcello Durazzo IV (11 dic.1821-1904, penultimo discendente dei marchesi del ramo di Gabiano) ed al nipote GiacomoFilippoV DurazzoPallavicini (7.8.1848—21.9.1921—sposo il 15.6.1874 con GiuliaDainelliMasetti, e 1.5.1912 con MatildeGiustiniani, erede universale di entrambe le famiglie, delle quali insieme assunse il nome –dal 1873-, ma che con lui si estinsero assieme al ramo di Gabiano) (Gabiano è un centro di Casale Monferrato, con castello, allora con titolo di marchesato e proprietà del duca Ferdinando Gonzaga da cui fu acquisito –1624- per sua insolvenza di un grosso debito contratto; il ramo era nato con Agostino Durazzo (1555-1630) ). Sia madre che figlio, dopo aver preso in mano la conduzione delle aziende delle due famiglie, ricostituiranno l’archivio di famiglia trascurato dal padre e permetteranno agli studiosi di archivi di riprendere la storia della famiglia) fu il primo che nel 1850 a Torino, facendo parte di una commissione inviata a verificare l’iniziativa del prete Giovanni Bosco; entusiasta fece modo che il Senato gli elargisse una somma, instaurando così un rapporto cordiale e confidenziale che ne approfittò nel futuro per ottenere assillantemente aiuti economici, elargiti con pazienza e bontà dal senatore e dalla figlia, sino alla promessa di una somma fissa annuale se don Bosco fosse venuto a Genova. Il senatore morì e subito dopo don Bosco venne a Genova; ricordando la promessa andò dalla figlia Nina a chiedere la somma promessa dal padre; fu il marito Durazzo ad intervenire, frenando bruscamente e seccamente le esigenze del sacerdote, raffreddando così il loro amichevole rapporto. Non senza un certo imbarazzo si tentò di riprendere delle trattative quando i salesiani furono informati delle intenzioni di vendere la proprietà di San Pier d’Arena, della quale erano in più d’uno interessati ad entrarne in possesso; ma la sorte aiutò i preti in quanto l’agente dei Durazzo, Franco DeAmicis, era amico del direttore don Marengo; la ruggine si ammorbidì ed il 26 febbraio ci fu un primo incontro col conte Giacomo (il padre era divenuto pressoché cieco e la madre conservava una certa ritrosia con i salesiani): 50mila lire all’atto del contratto (in buona parte donate dal benefattore Pietro Romanengo) ed altre 50 mila a rate, sgombero delle case, miglioria della costruzione sulla strada ad uso asilo, liquidazione dei contadini, tentativo di spostamento ai confini di vico Landi. Dopo rocambolesche vicissitudini, alla presenza del notaio Antonio Bardazza, della nobile famiglia, due testimoni ed i salesiani, il giorno 11 luglio 1889 fu firmato l’accordo di cessione.
All’atto dell’acquisto, la villa forse era ancora occupata da Luigi Testori che da anni vi aveva impiantato una fiorente tintoria, che era stata premiata nel 1846 e che era abbastanza di alta produzione ancora nel 1860 (ed è lei presumibilmente la ‘stamperia d’indiane’ e stoffe in seta lavorate, citata nel 1849 dal Casalis a Sampierdarena).
«La storia dei setaioli è molto importante nella sua evoluzione. I viaggi dall’oriente, Cina→ Arabia- avevano importanto l’arte del tessere; l’evoluzione ci portò ad essere nel 1500 i più ricercati in Europa: l’esportazione dei cotoni, le sete, i broccati, i velluti e damaschi liguri rappresentavano un mercato floridissimo (le corti di Spagna e Francia non riuscivano ad eguagliare la bellezza, originalità e morbidezza dei tessuti e la bellezza dei disegni) sfruttato dai Lercari, Cicala, Doria. Al punto che il Banco di s.Giorgio finanziò i commercianti e favorì la Corporazione (nella quale si distinguevano con diverso statuto i tessitori, i seatieri, cendareri, filatori d’oro e argento, propensi a trasmettere di generazione in generazione i segreti delle trame) la quale in quei secoli arrivò a possedere 18mila telai corrispondenti a 25mila lavoranti: di essi oltre 10mila erano a San Pier d’Arena e val Polcevera. Non solo, il Senato intervemnne con leggi severe per evitare le emigrazioni di esperti. I tessuti locali, erano quindi ancora molto in uso dal 1600 fino al primo 1700, tra le dame sia aristocratiche che popolane (essendoci produzione di tessuti sia raffinati che altri accessibili a tutte le possibilità economiche). Iniziarono a cadere in disuso, nella seconda metà di quel secolo.
La regressione economica in epoca napoleonica, determinò una regressione produttiva gravissima. Il colpo finale venne dato dalla scoperta in Francia della colorazione stampata dei tessuti, usando macchinari e sostanze chimiche; al punto da iniziare una produzione industriale che distrusse quella artigianale.
La Repubblica corse ai ripari invitando a Genova specialisti esteri di stoffe stampate.
---La storia dei Mezzeri: ha pure essa la sua importanza nei mercati locale e europei. Già a metà del XVII secolo (1650 circa), specie in Francia avveniva l’uso pratico e comune di tele di cotone stampate in India. (dapprima dette ‘calicot’ - da Calicut, oggi Kozhikode, sulla costa del Malabar - o ‘indiane’; le originali importate tramite i portoghesi e la Compagnia delle Indie).
Il sistema di stampa fu copiato, con l’arrivo anche delle sostanze coloranti, abbassandone i prezzi e favorendone il mercato anche nell’alto ceto al punto di minacciare quello dei setaioli; essi nel 1696 riuscirono ad ottenere da Luigi XIV un pesante freno alle importazioni, rallentandone l’evoluzione sul mercato ma determinando uno spostamento delle fabbriche dalla Francia alle nazioni vicine (Svizzera in particolare – dove nel 1746 esistevano a Mulhouse, Basilea, Neuchathel importanti fabbriche e geniali disenatori e stampatori in policromie, perfezionate decorazioni orientalizzanti e con nuovi ordinamenti. Ma anche in Alsazia e Italia). L’editto reale fu abrogato in Francia nel 1759, ma ormai la fuga era avvenuta.
Nel 1784 ecco pervenire, da Clarona a Cornigliano, i fratelli svizzeri Giovanni e Michele Speich chiamati in Genova – ove erano i setaioli ma non gli stampatori - da grossi commercianti locali il cui richiamo era secondario all’invito pressante da parte del Senato di usare produzioni locali evitando le importazioni. Cosicché i due svizzeri arrivarono forti della protezione di una concessione di esclusività (concessa nel 1787) per 15 anni, seppur con l’obbligo di istruire anche la manovalanza locale dei ‘segreti’ (le percentuali e qualità delle varie tinte; i fissativi per rendere i colori inalterabili; i mordenti – come l’acetato di Al per il rosso, di Fe per il viola, e loro miscele per ottenere finanche il color pulce; gli stampi – pare che gli Speick ne avessero oltre 1500 -; i tempi di lavorazione per le sovrapposizioni e fissazione dei colori (esistevano tcniche chiamate degommaggio= doppio bagno d’acqua a 68° con sterco di vacca e creta di Francia e poi lavaggio in acqua corrente – garanzaggio= usando la garanza di Avignone – il bollibigio= bagno di tre ore a temperatura crescente finio all’ebollizione); i tinelli di tinte, estratte da animali (la cocciniglia), da legni (quelcitrone, campeccio o fusteto, sandalo rosso, brasiliani), da radici (robbia, curcuma), da foglie (ginestra, vergourea), da paste (indaco, oriana, oricella), da erbe (guada); ecc), e dell’essere capaci di rielaborare l’antica tradizione (anche se aveva perso ogni lettura simbolica originale) con metodologie più moderne e raffinate.
Infatti, raccogliendo sia le antiche tradizioni locali di produzione e colorazione di tessuti specie del cotone e già chiamati meizari (termine di origine araba : mi’zar=velo) e sia le originali metodiche orientali, iniziarono in località vicina al torrente Polcevera la produzione di loro tessuti chiamati appunto volgarmente ‘mezzari o mézero’. In cotone, ma anche lino o seta, è un grande scialle di misura fissa m.2,5x2,8 (e se più piccolo chiamato ‘pessotto’), capace di coprire la testa, le spalle fin oltre i lombi delle donne). Caratteristici erano i disegni indiani di foglie e fiori, con il simbolico “albero della vita” – così i nomi ‘dell’albero vecchio’ (tipico di L.Testori), ‘del castagno’ arricchiti di fiori variopinti o da animali per cui erano ‘del macaco’, ‘delle scimmie’,’del pavone’, ‘dell’elefante bianco’, e così via -.
Che le donne amassero coprirsi con ampi scialli, si risale all’antica Roma , con lo strophium; mentre poi le veneziane lo chiarono zendado e le spagnle mantille.
Non tutti gli allievi della ‘scuola Speich’ ebbero la genialità di creare disegni e tinteggiature, da emergere sul mercato (gradazione di colori, ombreggiature, figure estrose); unico appare sia stato il Testori, nativo da Tortona ove era ancora domiciliato nel 1833, che si era formato come capo chimico presso gli Speich, dei quali divenne genero sposando, a 33 anni, nel 1838, la diciottenne Maria figlia di Mattia (Michele?) Speich. Ebbero 10 figli, ma solo Ottavio – nato 11 giugno 1843 - si interessò dell’attività paterna. Forse fu un figlio del Testori che si sposò con la zia Rosina Speich, alla morte della quale nel 1896, in parrocchia di Cornigliano si certifica “vidua q. Testori Aloysii”). Il Testori, poi titolato professore, da Cornigliamo nel 1825 aprì nella villa sampierdarenese un proprio stabilimento che qui funzionò fiorente sino al 1866. Nel settembre 1846 all’Esposizione dei Prodotti e delle Manifatture Nazionali, ottenne una “medaglia di rame, onorificenza per tessuti d’apparati e mesari di buona qualità e di colori vaghi ben assortiti”. Era presente nell’attività un fisico inglese di nome Palmer Gorge il quale nella richiesta di proroga del soggiorno specificò essersi già stato occupato per sei mesi ”nella fabbrica di indiane in Sampierdarena, ove nella sua qualità di Professore di fisica e molto versato nella chimica massime relativamente alla tintura…d’un nuovo giallo …e la porpora inglese finora sconosciuti. Il Testori proseguì l’attività anche dopo essere rimasto vedovo; comunque in quella data l’azienda proseguì per opera del figlio Ottavio e di alcuni nipoti che preferirono trasferirsi nel ponente genovese sia perché sfrattati (dai salesiani), sia per altre motivazioni sconosciute ma legate soprattutto al calo di interesse dell’arte prodotta.
Si sa che a San Pier d’Arena nel 1700 si era impiantata una eguale industria della famiglia David (dal 1760 Luigi David iniziò in rione non conosciuto la produzione di teli di cotone stampati con cui le dame genovesi amavano avvolgersi; morì nel 1785. L’attività fu continuata dai figli Giovanni e Luigi, quest’ultimo era nato 1755; nel 1812 l’azienda era ancora molto fiorente malgrado un lungo contenzioso con gli Speich e gli Hadner sul tema della qualità dei colori e dei prezzi; nel 1815 aveva ancora 113 lavoranti, risultando così la più grossa nel settore. In quegli anni si trasferì a Cornigliano. Un ultimo erede dei Testori (il prof Edoardo, direttore didattico del liceo Mazzini, donò al Comune un opuscolo intitolato “Trattato sulla stampa delle tele di cotone” facente parte del corredo proveniente dall’antica manifattura, ultima testimonianza scritta di una attività locale di alto pregio.
Contrario al vincolo di quindici anni concesso agli Speick, dopo dieci anni circa, ecco comparire in San Pier d’Arena – con lagnanza degli Speick al Senato - un concorrente di nome Luigi David (ed a Genova una AngelaMaria Torre che però si limita a fazzoletti turchini). In pochi anni, e quindi agli inizi del 1800, avevano sede in San Pier d’Arena anche: la manifattura di un certo Cristoforo Hadner (che occupava 60 stampatori e 52 operai,compresi bambini a partire dall’età di 5 anni, con produzione di 1670 pezzi fra cui 1250 mezzari; si associò con gli Speich; nel 1815 l’erede GioBatta Hadner aveva solo 24 lavoranti e si sciolse negli anni immediatamente a seguire). E quella di Doria Carlo (che aveva 22 lavoranti pagati giornalmente da 40 cent a 1,5 lire –mentre un disegnatore prendeva 2 lire e mezzo ed un chimico del colore arrivava a sei lire. In totale più di 500 lavoranti, che permettevano una ricca esportazione in Francia, Inghilterra, Olanda, Svizzera). Forse furono i Doria gli ultimi stampatori locali ancora attivi nel 1874, con 60 operai.
Mentre il terreno era curato da un contadino che occupava una cascina vicino e con il quale nacque poi un piccolo contenzioso perché –per ovvie problematiche professionali e familiari- non voleva andarsene.
L’ acquisto -fortemente voluto da don Bosco- mirava ad allargare lo spazio dell’Opera Pia, a sua volta finalizzato a creare finalmente uno dei principi basilari dell’ordine: l’Oratorio.
Il terreno acquistato dalla marchesa, inizialmente era diviso dalla primitiva proprietà salesiana da una stradina (vedi vico Landi).
Tutto il vasto appezzamento -compreso tra la villa e la strada- fu diviso a metà trasversalmente, dedicando la parte verso la strada per l’Istituto e quella a monte per l’Oratorio (per il quale fu preferito aprire l’ingresso sul fianco, in quella che diverrà via don G.Bosco, praticamente come rimane oggi). Ma sino ancora al 1935 esisteva a partire da via Saffi il viale centrale sino alla villa: in quella data il 2 luglio fu dato il via all’erezione del caseggiato che fiancheggia la strada principale e si estende ancora in via san Giovanni Bosco: primi a cadere un grosso albero del viale ed i due pilastri che delimitavano sulla strada il viale stesso (E’ un anno in cui la massa cittadina è pressoché unanimemente fascista, in cui si inaugura la Camionale(29 ottobre), in cui a novembre la Società delle Nazioni indice le Sanzioni contro l’Italia che ha aggredito l’Etiopia, facendoci inventare l’autarchia).
Nel 1965 i Salesiani “malati dalla cosiddetta ‘febbre del mattone’”, riuscirono a far dichiarare la villa obsoleta e di nessun interesse storico, e quindi demolibile a vantaggio della nuova palazzina che ancor oggi argina il limite orientale del terreno salesiano. Quando nel 1935 si volle erigere il complesso al limite della strada principale (allora via A.Saffi oggi via c.Rolando) con conseguente riorganizzazione delle strutture interne, il Comune di San Pier d’Arena si affrettò ad anticipare ai salesiani che “il palazzo GioBatta Grimaldi, ora Ricreatorio salesiano, con scalone, raffaelleschi ed altre ornamentazioni pittoriche, ha importante interesse ed è quindi sottoposto alle disposizioni contenute negli articoli di legge…”
. Su Miscio si legge: “Quando negli anni sessanta si comincerà a infradiciare con acqua fatta scorrere a bella posta le pareti del palazzo per farlo crollare questa disposizione e questa legge e questo rimorso per nulla avranno intronato le orecchie e gli occhi dei demolitori”; ed in altre pagine parlando di don Mosconi direttore dell’oratorio “Presto ritornerà a far fuori la vecchia villa Pallavicini Durazzo, con modi altrettanto singolari, idraulici specialmente, a lenta macerazione per crolli facilitati. Distratte le Belle Arti”.
===VILLA Domenico SPINOLA Nella strada che dal centro del borgo conduceva alla abbazia di san Martino, allora parrocchia,e da qui ai confini verso Certosa, questa villa appare l’ultima come collocazione, costruita in epoca cinquecentesca.
Di solenni dimensioni, in modo tipicamente genovese ad L, affiancata dalla massiccia torre, dalla carta del Vinzoni appare appartenere nell’anno 1757 appartenere al ‘magnifico Domenico Spinola’. Nulla si sa dei proprietari nel tempi prima di allora e nemmeno per oltre cento anni dopo. Divenne infatti proprietà di un certo Grasso verso la fine del 1800, di ciò e di esso non si trovano ulteriori notizie se non indirette.
Da questi, il palazzo fu venduto (per circa 90mila lire di allora) nel 1907 al Comune locale, che la adibì a scuola: viene definito “palazzo scuole maschili occidentale (già Grasso)”. I locali al piano terra furono per un lungo periodo utilizzati come”servizio bagni pubblici”; e si presume che corrisponda a questo palazzo quanto compare in un elenco del 1908, con le proprietà immobiliari del Comune di San Pier d’Arena:”immobile adibito a delegazione di P.S.- scuole vespertine- Bagni popolari e Caserma Guardie di P.S.”.
Nel 1926 tutto passò in consegna a Tursi; fu deciso nel 1963 di demolirla per erigervi il palazzo tutt’ora esistente, dall’ottobre di quell’anno adibito a scuola media statale.
La torre è sopravvissuta alla distruzione, esiste ancor oggi, ristrutturata negli anni 2000-2002, e non più isolata ma con facciata continua ai palazzi adiacenti, è occupata dal tabacchino a piano stradale dove è visibile la svasatura di rinforzo del muro; nei piani superiori è un vano della casa adiacente che sia apre in via DGStorace; rimane ben conservato l’apice coronato da ampi mensoloni, dai quali solamente si intuisce la natura iniziale.
Il terreno assai vasto si estendeva sino al Polcevera ed alla via che nel 1777 aveva fatto aprire il doge GB Cambiaso; ed anch’esso a L si apriva sulla via san Cristoforo (via Pieragostini). Fu deturpato prima dalla ferrovia, poi dalla strada, ed infine lottizzato (via Abba, deposito AMT) lasciando una microarea nel retro che non dona neppure l’idea reale della sua presenza
prima del restauro, e dopo
La chiesa omonima, prima parrocchiale del borgo, è descritta a vico Cicala.
Tuvo trascrive la memoria dell’atleta Pavanello che disse essersi presentato “alla palestra della ‘Sampierdarenese’ che allora era relegata in aule delle Scuole Elementari in piazza San Martino”: considero un errore mnemonico dell’atleta ed una sua valutazione vaga della località perché non è mai esistita una piazza omonima, forse quella della vicina ‘dei Mille’ (piazza Ghiglione) perché tra i vari pellegrinaggi di sede della Sampierdarenese Ginnastica ci fu anche questa piazza; comunque in quegli anni la società occupava la palestra di via generale Marabotto (via DG Storace) che era posizionata in zona san Gaetano.
DEDICATA a Martino, poi divenuto santo, vescovo di Tours.
LA VITA figlio di un tribuno pagano, ufficiale romano, nato a Sabaria Sicca (territorio della Pannonia, oggi la città ha nome: Szombathely, Ungheria) nel 330 dC. circa (Giardelli scrive 315 ca; Manns, Castelli ed altri dicono 316 o 317: forse questa data renderebbe i conteggi della sua età, più veritieri).
Si descrive che a 11 anni fuggì di casa per non voler seguire la vita militare a cui era destinato, nella sua fuga trovò ospitalità da una famiglia di cristiani che lo convinsero a tornare a casa lasciandogli però il seme del Vangelo. Boschieri invece narra che la conversione seguì un sogno premonitore del dono del mantello. Ovvio, che nessuno saprà mai i particolari di quei tempi.
È santo nazionale gallo-francese, laddove è molto popolare (in Francia si contano quattromila chiese e migliaia di paesi, intitolati a lui); ma anche in Italia, con solido rapporto del nord ovest, perché buona parte della fanciullezza fu trascorsa a Pavia (antica Ticinum), ove il padre era stato trasferito e dove conobbe i primi cristiani, prima di trasferirsi ad Amiens dove nell’anno 339 fu battezzato diventando catecumeno (da pochi anni, il famoso ‘editto di Milano’ aveva decretato libera e con diritti civili la religione cattolica. Dalla persecuzioni e catacombe, la religione ‘esplose’ nel numero dei fedeli andando ad ‘invadere’ anche gli spazi propri dello stato creando un connubio di dipendenza assai pericoloso nel concetto della libertà vera e propria).
Nell’anno 345, (all’età di 15 anni se nato nel 330; 29, se nato nel 316), per lui a malincuore, ebbe il diritto (ed anche dovere, come figlio di veterano, secondo disposizione dell’imperatore) di divenire militare nella guardia a cavallo sotto l’imperatore Flavio Claudio Giuliano (detto l’Apòstata perché nell’anno 350 –diciannovenne- i suoi studi lo portarono a abbandonare il cristianesimo, adottato da suo zio Costantino; escluse i cristiani dall’insegnamento e ritornò alle persecuzioni in vantaggio degli dei pagani greci; condusse campagne militari contro le popolazioni germaniche degli Allemanni e poi in Persia dove morì nel 363) che lo investì della nomina a cavaliere (simboli erano la spada, lo sperone, il falco) ed ove divenne famoso perché seppur a contatto con rudi ed ignoranti fanti, seppe sempre gestire il suo grado con umiltà e serenità.
Facente parte della guarnigione di Amiens, fu in quegli anni che divenne partecipe della storica e fortemente simbolica divisione del mantello militare con un povero mendicante infreddolito. Gesto che lo contraddistingue in tutte le icone perché concomita con la sua convinta conversione alla fede cristiana.
Particolare di quadro attribuito a Lazzaro Calvi del 1584, collocato nella chiesa della Cella
Le leggende vogliono - sia che nella notte Gesù gli apparve, vestito con l’altra metà del suo mantello, a significato che l’aveva ricevuta lui-; e sia che dopo il gesto, per tre giorni ci fu un sole splendente mirato a riscaldare il soldato, cosicché è diventata leggenda una particolare mitezza del clima in quei giorni che sono pur sempre gli ultimi dell’estate -attribuita come dono divino conseguente il suo gesto- e pertanto chiamati “estate di san Martino”, forieri della rigidità invernale.
Dopo sei anni di catecuminato, nel 352 quando l’imperatore era già impegnato nella riforma dell’amministrazione e religione), ricevette il battesimo; e dopo esso –anno 354, decise abbandonare la milizia (si scrive che, per non essere tacciato di viltà, propose all’imperatore marciare alla testa delle sue truppe armato solo di una croce) ed affidarsi al vescovo Ilario di Poitiers per divenire diacono (a 34 anni lo si sa ancora in quella città a completare la sua formazione) e poi da questi essere ordinato sacerdote: in questa veste si dedicò a fare l’esorcista e ad avversare l’arianesimo che in terra franca prendeva campo tanto da essere sottoposto a frustate da un vescovo ariano.
Tornato dai genitori, riuscì a convertire la madre; e dopo breve soggiorno a Milano -ove fondò un monastero- preferì prudentemente allontanarsi dalla città essendo entrato in contrasto col vescovo ariano Aussenzio.
Cercò realizzare un desiderio giovanile trasferendosi in eremitaggio nell’isola Gallinara (al largo di Alberga, isoletta disabitata, esposta senza alberi ed il cui toponimo deriverebbe perché approdo delle gallinelle selvatiche. Si narra che non essendoci cibo, si nutrisse di elleboro che è velenoso, ma che non morì –si pensò perché protetto da Dio-. Molto presumibilmente passò per Genova e per il nostro borgo, ove lasciò una traccia profonda, duratura e feconda, tale da far dedicare a lui ben tre Pievi nel levante –a Framura, in Albaro e la prima nostra abbazia locale, sorta ben più tardi), dove si fermò oltre due anni assieme ad un altro correligionario (Boschieri dice 10 anni, concordando che nel 360 era a Poitiers), dedicandosi alla meditazione ed all’agricoltura.
Quando nel 361 il vescovo Ilario, anche lui già esiliato dagli ariani, poté riprendere la sua sede di Poitiers per editto imperiale, anche Martino rientrò in Francia scegliendo proseguire là la vita solitaria iniziata nell’isola. Invece, inviato a Tours, il suo stile fece raccogliere attorno a lui numerosi discepoli decisi a condividere il suo modo di vivere (aprì a Ligugé un altro centro, il primo monastico francese, da cui provennero poi numerosi vescovi e studiosi; a Marmoutier vicino a Tours nel 375 ne aprì un altro); e risvegliò nella gente un fermento religioso inaspettato, al punto che –seppur osteggiato da alcuni nobili e un certo clero per le sue umili origini e comportamento- creò sulla sua figura un alone di santità (favorita anche per lenta ma evolutiva cristianizzazione di tutta la Gallia, per aver favorito l’apertura di conventi ed abbazie, ed aver difeso con previdente saggezza l’autonomia della Chiesa dall’autorità civile, contro le oppressioni dei poveri indifesi perseguitati sia dalle autorità civili che religiose).
Nel 371, divenuta vacante la sede vescovile di Tours, Martino fu nominato a quella carica per volontà popolare (‘a furore di popolo’). Iniziò la sua missione con la massima semplicità monacale, con altrettanta intransigenza morale, nel modo più umile; e, povero tra i poveri favorì la pace, pur avendo trovato una diocesi non impostata anzi dissestata, bisognosa ed abbastanza confusa tra la nuova e vecchia fede. Molto si adoperò per oltre ventisette anni; durante i quali alcune guarigioni miracolose, liberazione degli indemoniati e resurrezioni, aumentarono la sua fama. Fu pure fondatore di due monasteri: uno a Ligugé che è il più antico d’Europa, ed uno a Marmoutier destinato a divenireuno dei più grandi centri monastici.
Se nel suo governo molto dovette viaggiare e presto essere amato ed ossequiato dal popolo per ripetuti episodi miracolosi, in contemporanea entrò in contrasto con i numerosi correligionari che sfruttando la libertà religiosa concessa si erano adagiati nell’agio della nuova posizione sociale ottenuta con i benefici dell’imperatore, e vivevano la missione sacerdotale allontanandosi dalla semplicità iniziale della parola di Gesù (così per esempio rifiutò sedersi a tavola con l’imperatore Massimo perché egli favoriva circondarsi di sacerdoti che miravano ad una vita più di cortigiani assoggettati alla sua benevolenza imperiale che proiettati al bene dei fedeli soprattutto dei poveri).
Famosi episodi della sua vita sono: ‘il Miracolo del fuoco’ (quando –subito dopo la rinuncia alle armi- volle recarsi dall’imperatore Valentiniano per ottenere grazia per dei condannati; nel timore di acconsentire, non fu ricevuto; passata una settimana di penitenza, con veglie di preghiere e digiuno, si ripresentò all’imperatore il quale ebbe una violenta reazione di rifiuto che rientrò solo quandò all’improvviso il trono sul quale era seduto prese fuoco; persuaso dal prodigio, accettò le richieste di Martino. Dopo questo fatto, avvenne ‘la resurrezione di un fanciullo’ appena fuori dalle mura di Chartres.
Era un periodo in cui crescevano -e più o meno radicavano- parecchi isolotti di eretici: pericolo questo legato alla ampia e rapida espansione della fede cristiana, e quando ognuno -chiuso nella propria cultura- si sentiva convinto dell’esatta propria interpretazione del messaggio divino (tra essi Narsete, Leucadio ma sopratutti lo spagnolo Priscilliano ad Avila; tutti religiosi che, ostacolati dai vescovi succubi dell’imperatore, furono da esso condannati a morte: solo Martino si adoperò perché fosse eliminata questa sentenza, meritandosi la venerazione popolare anche se per ottenere il consenso dell’imperatore aveva dovuto scendere a compromessi per lui avversi).
Fu riconosciuto santo: uno ‘non martire’ (come anche s.Antonio) tra i primi della Chiesa,.
Quando morì, a Candes l’8 novembre 397, la sua tomba divenne un punto mirato di pellegrinaggio per tutto il medioevo.
JdV scrisse che Ambrogio, vescovo di Milano, mentre celebrava messa, ebbe ad addormentarsi durante la lettura dell’epistola: al risveglio, a chi gli rammentava di dover finire la cerimonia, disse di aver sognato che era morto Martino e che lui era presente al funerale (non corrisponderebbe perché Ambrogio a novembre era già morto dal 4 aprile della stesso anno)
Una ’vita di Martino’ fu scritta da Grergorio di Tours (Clermont-Ferrand 538ca-Tours 17 nov.594; fu storico agiografo di episodi gallo-romani e divenne vescovo della stessa città (che era una delle undici sedi metropolitane della Gallia Merovingea); da Sulpicio Severo che lo descrisse girare con un vestito di pelo ruvido, detto pallium, nero, e pendente come un saio; e lui barbuto e peloso da personaggio selvaggio; e da Tomaso da Celano (il quale dopo aver letto la storia della sua vita, la usò come modello per scrivere quella di Francesco, dichiarando Martino ‘precursore’ di Francesco). Anche da Jacopo da Varagine (nella ‘Legenda Aurea’ fa una dettagliata descrizione della sua vita).
MIRACOLI ricca di fantastici e fantasiosi avvenimenti è lo scorrere della sua vita; ovviamente frutto dell’ingenuità di quei tempi, narrati in poesie e racconti detti ‘Martinadi’.
Recatosi nella città di Gabato, guarì il sindaco colpito da lebbra: questi fece cambiare nome alla città che da allora si chiamò Levroux (dal latino Leprosum);
La sua tomba fu mèta di intensi pellegrinaggi; uno stagno vicino fu oggetto di immersioni miracolose;
La ‘Cappa di san Martino’ fu a lungo considerata reliquia dai reali merovingi manenuta a protezione sia dei bisognosi che dei malati;
A Pont-Saint-Martin, localtà della Val d’Aosta, si assicura che il santo – di passaggio – contrattò col diavolo perché non distruggesse un ponte che univa le due rive del torrente Lys; quello accettò in cambio dell’anima del prima che lo avesse attraversato; e san martino fece passare per primo un cane, gabbando il diavolo. A ricodo, nel carnevale viene organizzato un corteo che attraversa tutto il paese
In Belgio, il gesto del mantello veniva ricordato dai bambini di Coblenza, di Dunkerque ed altri centri -nel giorno a lui dedicato- con il percorrere le strade con fiaccole, lanterne e cori: Giardelli cita una usanza locale anche da parte degli adulti: mangiare di oche (è periodo del passaggio di quelle selvatiche e della caccia in genere) e bevute col vino in botte da spillare. Questi due eventi (oche e vino) giustificarono altrettante leggende (del vino, il santo che – ricercato - fa nascosto da un oste dentro una delle botti vuote; gli sgherri in cantina trovarono tutte le botti piene e, ubriachi, cessarono di cercarlo. Le oche, narrando che sempre nel tentativo di nascondersi in un recinto pieno di oche –in questo caso per non essere nominato vescovo, non ritenendosi degno - fu scoperto dal loro starnazzare e quindi fu costretto ad accettare suo malgrado l’incarico: da qui la giusta punizione delle oche
TRADIZIONI
La festa è l’ 11 novembre. È comunemente riconosciuta come data di demarcazione con la stagione dell’inverno e con tutte le operazioni ad essa congiunte
Il taglio del mantello vorrebbe essere simbolo del taglio stagionale, riprendendo una usanza del calendario celtico di divisione tra estate ed inverno. Viene comunemente detta “estate di san martino” il tempo di quattro giorni di sole, donati al mondo per il gesto del mantello. Il giorno di san martino precede l’inizio del periodo invernale dell’Avvento. L’inverno quale solstizio, inizia dal 21 dicembre; ma nei tempi in cui non esistevano le comodità di oggi, fu scelta questa data – essendo il personaggio conosciuto da tutti - per considerare finiti i lavori in campagna (la semina dei prodotti invernali), sui pascoli (rientro dagli alpeggi), finita la raccolta dei frutti (noci, castagne, funghi, ecc), nonché conclusa la vendita dei prodotti (con conseguente disponibilità economica); di conseguenza, verbale e tacito accordo, della scadenza a quella data dei contratti (inizialmente quelli di affitto a mezzadria dei fondi rustici; poi estesi a tutti i tipi di patti, basati sulla parola). È noto che questa ricorrenza era già in atto nel genovesato dall’anno 856, ma acquisì rilevanza speciale dal secolo dopo (si era convenuto che a quella data scadevano i contratti, e si ricorreva al rinnovo ed al pagamento dei canoni livellari. Per esempio è scritto che nell’anno 946 dC il vescovo di Genova Teodolfo, locava una terra in Mongiardino a due fratelli obbligandoli ad un canone (monete d’argento ed un pollo) da pagarsi il giorno della messa di san Martino; lo stesso nel 972 per delle terre a Gavi).
La società contadina, dai tempi medievali, guidata dalla religione, poneva il termine anche ai fini matrimoniali (col fine di far nascere i bambini nei mesi caldi); viene narrato che in Francia, seppur frenati dalla Chiesa (che imponeva una moralizzazione dei costumi, una legittimazione del termine famiglia, benedetta dall’evento sovrannaturale dell’Avvento), inizialmente si accettava il rito pagano di ‘provare’ prima il matrimonio, essendo esso al fine specifico della riproduzione; queste trasgressioni rientravano in antichi riti agresti ripresi appunto dalla religione cristiana e da concludersi nel giorno di san Martino.
Da buon militare, viene descritto anche come generoso, seppur deciso, antesignano di Robin Hood (togliere ai ricchi per donare ai poveri, contro i prepotenti); oppure come fervente distruttore dei templi pagani sparsi nelle terre da lui visitate (nei quali – diceva lui – si annida il Male).
PATRONO di numerose città (in Italia Belluno) ed innumerevoli chiese. È considerato protettore di numerose categorie di persone: della gente di chiesa; dei viaggiatori, albergatori, osti; dei poveri e mendicanti; pastori, vignaioli e vendemmiatori; sarti, tessitori e pellicciai (si descrive che ad Amiens tutti gli anni i ellicciai regalano al vescovo una pelliccia di agnello affinché lui la doni ad un povero in nome del santo); soldati cavalieri ed armaioli; di bambini irrequieti (veniva chiamata ‘martin baton’ la frusta che il santo regalava ai bambini capricciosi, scendendo come la befana dal camino; e che poi venva usata per correggere il loro temperamento; da questa parola derivò ‘martinet’).
Protettore altresì della folta vegetazione, allora fonte di ricchezza, nel significato del superamento della morte invernale; della fertilità dei campi (sul calendario delle Vigne si cita per il 4 luglio, giorno della sua nomina episcopale, che i contadini assoggettati ai Vescovo, portavano a lui le primizie dei campi ritenendolo di buon auspicio per l’esito dei raccolti).
Di alcuni animali domestici (oche soprattutto, usate nei banchetti importanti farcite di castagne e vino; anche cavalli e l’orso: esso, chiamato orso martino, entra in letargo per risvegliarsi a fine febbraio o oltre ).
È pure invocato contro i tagli, i morsi (di rettili e ragni), le eruzioni (erisipela, pustole, vaiolo), ed a favore del vino novello.
Il meccanismo della rotazione vita-morte (o viceversa considerato che l’1 nov. è giorno dei morti; e da essa, il piangere-ridere), estate-inverno, caldo-freddo, astinenza-sessualità, uomo (che da nudo-si veste: il mantello), celibe-maritato lo fanno raffigurare in Bulgaria con il simbolo della ruota.
Si scrive che è pure protettore dei ‘cornuti’: un marito che si ubriacherà alla festa di nozze, giustificherebbe il suo stato poi da sposato. Ma esiste anche una spiegazione storica: Martino era guerriero proveniente dall’Ungheria e là scalzò nella fede il dio celtico cavaliere, Kernunnos che era raffigurato con le corna in capo, eguali a quelle dei cervi – antico simbolo di ciò che cade e si rigenera con la primavera-: due corni sull’elmo divennero il simbolo dei guerrieri Galli e dei Longobardi poi, i quali quando si convertirono al cristianesimo assunsero Martino a loro santo protettore, munito di cimiero cornuto. E poiché il nome Martino pare di origine longobarda, alla pari di Pietro latino, ne conseguono tutte le tradizioni sui cornuti alimentate dai romani nel desiderio di denigrare le usanze dei nemici: così Martino era il marito cornuto di Berta madre di CarloMagno, e ‘martinaccia’ è la lumaca perché cornuta
USANZE paesane liguri:
---a Maxena (entroterra di Chiavari) l’11 novembre si metteva all’asta ai presenti – anche di paesi vicini- un sacco di fichi secchi di oltre trenta chili da dare nella mangiatoia delle mucche dopo aver constatato che funzionava da eccellente corroborante.
---a Leivi, nella piazza antistante la chiesa dedicata a san Rufino, l’11 novembre si metteva all’incanto il granoturco; particolarmente rinomato quello proveniente da una località detta ‘dietro la costa’.
---a Zoagli nella chiesa che dall’anno 973 è dedicata al nostro santo il pittore Raffaele Resio nel 1893 raffigurò il santo nella volta della cupola; e in una nicchia alle spalle dell’altare c’è una sua statua ‘scoplita con forte impronta popolare’; e sempre a zoagli (a volte a Rapallo) una manifestazione paganeggiante gli è dedicata sotto forma di processione ’della bandiera’alla quale partecipavano in allegro corteo tutti i mariti notoriamente traditi
---a Giustenice, si faceva un banchetto con giustificate grandi sbronze: alla finre, al più ubriaco perso veniva posta una mitria di carta adornata di nastrini, nominandolo Abate degli stolti
---a Monterosso lo sfogo festaiolo del giorno di s.Martino, si riversava sugli operai che tornano in treno da lavorare: venivano accolti da apposito comitato con motti, lazzi ed allusioni relative alla loro assenza da casa riportate a voce o con manifesti o tramite lettere spedite per posta giorni prima. Alla sera, dopo ampia mangiata e bevuta, una processione con l’effige di san Cornelio e rullo di tamburo, intonava davanti alla casa dei malcapitati.
---a Bastremoli (Spezia), il santo protettore contende con san Leonardo protettore del paese di fronte; i due santi cercano di spingersi nel torrente che divide i cui abitanti sapranno chi ha vinto perché se caduto in acqua è stato san martino, pioverà l’11 novembre; se s.Leonardo , pioverà il 6; se nessuno dei due ha vinto, non pioverà. Con buona pace di tutti.
---a Lumarzo, il giorno è chiamato “fiera dei becchi”
PROVERBI e detti:
--“A san Martin se spinn-a o vin”; in particolare il vino novello. Secondo una tradizione, il santo inseguito dai nemici durante i giorni di un autunno, cercò rifugio presso un contadino che nella fretta lo fece nascondere in una delle botti vuote; quando sopraggiungero i soldati, cercarono solo in cantina ma trovarono solo botti piene. Si ubriacarono e se ne andarono lasciando al contadino le botti piene del vino novello, molto usato da aspergere sulle castagne arrosto.
--“a san Martin s’inciuccan grandi e piccin”
--“a san Martin arvi a botte e assazza o vin”. Evidentemente ogni scusa è buona, anche se possiamo pensare che sia la ripetizione di una festa brumale greco-romana al dio Bacco (Dioniso per i greci), con giustificazione cristiana.
--“a san Martin mettite o ferriolin” ovvero la mantella; proverbio savonese che fa riferimento al freddo che può subentrare ad una opposta ‘estate di san Martino’
--“a san Martin l’inverno o l’è ‘n cammin”
--“se piove a san Martin, pioverà ancora per quaranta dì”
--“fare san Martino” l’ 11 novembre-giorno della morte del santo- per gli agricoltori (sicuramente quelli liguri) è la data di riferimento per ogni contrattazione (di alloggi, terreni, compravendite, affitti ecc.).
-- altri sono i detti conosciuti, ma, non di competenza ligure
ICONOGRAFIA è rappresentato in tante varianti come soldato romano a cavallo nell’atto di donare il mantello; meno come vescovo accanto ad uno storpio (a volte ha un modellino di una chiesa a destra (Magonza) o un’oca (solo in Baviera) o con una coppa (allusione alla vita)).
CHIESE
Negli ultimi anni del XIII secolo, nella diocesi milanese esistevano ben 133 chiese dedicate a lui; nel V secolo, nel genovesato, ve ne erano quattro: la nostra, Albaro, Fra mura (un marmoreo pulpito di stile barocco porta in rilievo gli emblemi dei quattro evangelisti e l’effige del santo: si racconta che fu scolpito per la basilica di san Siro genovese e che costò allora 7mila lire genovesi), Pastorana (oggi AL).
Poco frequente è stato in genere che - nelle chiese- fosse dedicata tutta una cappella al nostro santo; una famosa –composta da 21 diversi affreschi o vetrate- fu dipinta sulle pareti, volte e vetri ad Assisi nella Basilica Inferiore da Simone Martini che attinse scrupolosamente dal testo di Jacopo da Varagine (escluso per l’investitura ed il funerale, non descritti nel libro); la scelta pare dovuta non tanto al titolo del committente nel 1312, Gentile Partino da Montefiore, cardinale francescano della chiesa romana dei santi Silvestro e Martino; quanto all’interpretazione dei parallelismi e punti di contatto tra Martino e Francesco: il primo ‘miles’ dell’imperatore e -dopo la rinuncia alle armi- soldato di Cristo, il secondo nominalmente conosciuto come ‘novus miles Christi’; per amore di Gesù, ambedue rinunciatari e donatori ai poveri: uno delle armi e poi del mantello, l’altro dei beni terreni. Per tali affinità, Martino viene considerato il ‘precursore’ di Francesco.
A SPd’Arena la prima medioevale parrocchia, localizzata in vico Cicala (vedi -via A.Caveri) fu titolata a lui. Oggi la chiesa della Cella porta il suo nome quale contitolare ed ha sul suo soffitto affreschi inerenti alla sua vita (vedi). Un rione del borgo fu titolato a lui ed è rimasto, quale ‘anticamera’ del Campasso di cui fa parte (zona compresa tra fine di via C.Rolando, epicentro in piazza Masnata, sino all’incrocio con via del Campasso dove all’angolo d’inizio di quest’ultima esiste una sua vecchia icona.
DeLandolina/1922 s’abbaglia e prende grossa cantonata quando -riferendosi a ‘via san Martino’- la riferisce alla zona ove fu combattuta la famosa battaglia del 24 giu. 1859. Perché il nome dato alla chiesa, al rione ed alla strada, è decisamente precedente all’evento bellico.
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