MAMELI                                                        via Goffredo Mameli

 

LA STRADA  La titolazione al patriota, non è più a Sampierdarena; fu cambiata in epoca post bellica con l’intestazione ad Alfredo.Carzino (vedi, con più specificati i singoli palazzi) .

   Nella carta Vinzoniana del 1770 compare un tracciato già esistente, parallelo alla crosa della Cella e dei Buoi, che dal lato a levante della villa Centurione del Monastero arriva diritto alla via centrale principale oggi don Daste.

    Viene citata ufficialmente esistente nel 1890, quale nuova traversale da via Vittorio Emanuele (via G.Buranello) a via sant’Antonio (meglio, a via Mercato, e infine via N.Daste), in quanto ceduta al Comune dal principe Centurione,  essendosi formata nelle sue proprietà vendute a privati per costruire.

 

a penna, riporta l’anno 1893

   Nel 1901, un’impresa (Barabino-Calvi-Rebora) pose all’inizio, la prima targa in marmo per ordine del Comune; ma popolarmente venne pure chiamata “via della Provvidenza” da quando don Daste vi trovò la prima reale sede della sua opera assistenziale, fino al 1920.

 

In questo stesso anno fu affissa sulla facciata del civ.3, casa dell’Istituto (“con laboratorio di biancheria e fiori”), la grossa lapide che ancora oggi è visibile, in memoria del prete.

Don Daste – fondatore della Pia Casa della Divina Provvidenza - era deceduto il 07.02.1899.

Da subito un comitato volle apporre una lapide a memoria: un gruppo di circa venti cittadini, si era allo scopo congiunto per raccogliere il fondo necessario (tra i quali, presidente il prf cav. Pasquale Marullier fu Carlo (napoletano ma qui domiciliato, e che aveva dettato l’epigrafe); l’ing. Pietro Sirtori – che aveva disegnato come doveva essere la lapide; il cav. Nicolò Mazzino (che si era sobbarcato per intero l’onere della spesa – sia del marmo che dell’incisione ed affissione - lasciando che la somma già raccolta andasse a vantaggio dell’Istituto); l’industriale Sallustio Diana; l’avv. Giacomo Recagni; don Domenico Olcese parroco;  l’industriale Cinzio Bagnara; il marmista Francesco Grosso fu Agostino (che mise in opera la lapide gratuitamente) e vari altri (i commercianti: Sciaccaluga Emanuele, Motta Quirico, Chiappe Ernesto, Ricca Carlo; nonché Chiappe Arturo, possidente; DeBenedetti Angelo commissario straordinario del Comune; DuLac Capet Carlo regio pensionato; le signore (proprietarie e nubili) Pavan Clotilde, Dellepiane Apollonia, Dellepiane Maria e Morasso Maria.

Questo marmo, in data 20 gennaio 1901 su atto del notaio sampierdarenese dr. Perroni Luigi – con testimoni i sigg. Gancia Mario fu Michele e Pernecco GB di Luigi sampierdarenesi e impiegati comunali - perché fosse indelebilmente conservato anche dal Municipio locale - fu consegnato e regalato al Municipio stesso perché la conservi in perpetuo.

Vi fu scritto: “queste mura parlano della pietà -  di Nicolò D’Aste  - povero falegname , insigne Sacerdote  -  che nella Fede di Cristo limosinando  -  questo ricovero innalzò   -  alla femminile virtù --- Per pubblica sottoscrizione  -  i suoi concittadini  -  Q.L.P.  -  l’anno del Signore 1900 ”    

(il nome  D ASTE sulla lapide, è scritto con un lieve distacco dopo la D: probabilmente lo scultore  aveva messo l’apostrofo, e fu costretto a correggere cancellandola).

Il dono della lapide fu ricevuto – in mancanza di un sindaco essendo scaduto il mandato del cav. Malfettani Federico e prima che subentrasse il comm.pf.ing. Nino Ronco - dal regio Commissario Straordinario il conte cav.avv-. Angelo DeBenedetti, patrizio sarzanese, che pronunciò un commovente discorso. Quindi la lapide è comunale, come lo attesta il piccolo stemma civico. (il dr. Alfredo Remedi non ha trovato però la registrazione dell’atto di acquisizione da arte del Comune, anche se lo stemma posto al vertice e i due testimoni ambedue dipendenti comunali, dovrebbero testimonarne l’accettazione).

Questa lapide, su iniziativa nata nel 1976 del Gazzettino Sampierdarenese,  fu restaurata gratuitamente dal marmista D.Grasso nel 1982.

 

   Il Pagano 1902 riporta al civ. 2 l’appaltatore di costruzioni Trucco Gaetano (attivo ancora nel 1925; dal 1912 compare anche un Trucco Giuseppe  che ha materiale da costruzione ed assieme una fornace di mattoni); --- la fabbrica di pesi e misure di Demarchi Ambrogio success. Marchese ed ancora presente nel 1912;---


  al civ.8 la Lechner e Muratori fabbrica di biacca, colori, vernci e smalti; mastice per vetri; tel. 41252, attiva anche nel 1925 e nel ‘28 quando ordinava ad un’azienda torinese “25 fusti bianco zinco”.


   Sul Pagano 1908 si segnalano al civ.8  la sede dei produttori di biacca e fabbrica di colori e vernici Lechner e Muratori (¡ reclamizza ‘casa Italo Svizzera-ufficio e magazzino via G.Mameli, 8. Fabbrica via VEmanuele,5- annuncio speciale a Genova, rubrica colori; produttiva ancora nel 1925).

   Nel 1910 compare nell’elenco delle vie cittadine “da via V.Emanuele a via N.d’Aste (sic)”, con civv. sino al 3 ed 8.

   Nel 1911 e 1912 (vedi 1908) non è segnalata la farmacia che compare però nel 1919 al civ. 8 col nome “alla Cooperazione (oggi Popolare Sociale, nata si dice nella seconda metà del 1800,  ma compare sul Pagano solo negli anni tra il 1913 e 1919. In quest’ultimo anno aveva tel.820; nel 1925 tel. 41005).

   Nell’anno 1920 subirono un aumento di tasse da parte del Comune la soc. Muratori-Lechner (vedi 1902)  ed il sig. Molinari Alessandro titolare del teatro e cinematografo “G.Mameli” (già “Volta”, tel. 3935; cinema e varietà, tutti i giorni dalle ore 15 in poi-telef.41227-. Non vasto, internamente senza alcun segno d’arte, fu aperto al pubblico nel 1914; aveva all’esterno una leggiadra facciata,  evidenziata da due quasi evanescenti figure muliebri).

cartolina viaggiata anni ’20 – decorazioni esterne del teatro

sullo sfondo della strada l’ingresso della villa Doria-Ist. don Daste

 

   Nel Pagano/1919, 1920, 1921, 1925, al civ. 1 abitò fino oltre 1925 il medico dott. Carlo Bonanni (1862-1948). Nel 1911 abitava in via sant’Antonio e si appoggiava (non era da tutti avere il telefono) sia alla farmacia Sibelli che alla Milanesio; nel 1919-21 era in via U.Rela; nel 1925 è qui. Medico nel territorio sampierdarenese, fu anche  consigliere comunale e stimato benefattore per l’assistenza ai bisognosi: per questo merito, è stato insignito di una titolazione stradale nella zona di via Bologna in san Teodoro;-- al civ.15r Cocco Mario vendeva, ancora nel 1925, ‘articoli tecnici”;-- 17r i f.lli Pittaluga (oppure “Pittaluga e Figli, ditta¨”) accordano pianoforti; nel 1925 aggiungono “e Figli”; specificando: Casa fondata nel 1848. Unica fabbrica Ligure di Pianoforti ed Armonium a Genova; rappresentanti dei migliori e rinomati autopiani Kastner-Leipzig-London, montati sui primari Pianoforti Grotrian Steinweg-J.Bluthner-R.Lipp-Ed-Seiller-R.Weissbrod. Depositari di tutte le marche estere, cambi, affitti, riparatiure, accordature”;-- al 31r p.p. le Assicurazioni Genenali di Venezia, dal ’19 al ’25 -Anonima Ital.Infortuni-Agente Pr.le Lagorio, Silvi;--.

Funzionante era il ‘teatro Mameli’

 

appare in costruzione il civ.3 e non c’è in fondo quello di via Cantore

   Quando nel 1926 la periferia venne assorbita nella Grande Genova, cinque centri vantavano una strada intitolata al giovane patriota: Centro, Rivarolo, SPd’Arena (di 3a categoria), Sestri e Voltri.

Nel Costa/1928 si segnalano questi esercizi commerciali:

1=piani a cilindro (noleggio) di Tadini e Sclaverano---1=vini Molinari Alessandro---5p.p.=grossista giocattoli, mercerie, profumi Duilio Cesare---6r=modista Bondi Iole---10r=marmista flli Buzzone fu Federico---15r=macchinari usati Cocco Mario—17 fabbrica pianoforti Pittaluga e F.----20r=abiti fatti di Baroni E.---22=farmacia Alla Cooperazione---29r=garage Grassi--- 31r Assicurazioni Generali & An.Italiana Assic. contro grandine, infortuni;  e riassicurazioni---

   Nel Pagano/1933 durante il fascismo,. Al civ.1 Tadini e Scloverano erano una antica ditta di pianoforti (piani autopiani – noleggi – vendite – cambi – musica).

Nello spazio dell’attuale supermercato – 1rosso-  c’era un rispettabilissimo teatro-cinema (chiamato dapprima Volta, eretto nel 1914 e così citato in una guida cinematografica di quell’anno; su un preesistente padiglione cinematografico, in stile liberty, ricco di decorazioni esterne; poi Mameli, infine Astoria- vedi in via Carzino);

al civ.2 oltre alla sede della Società di Mutuo Soccorso Universale, c’era quella delle Brigate Nere e dell’Unione Marinara Fascista; al civ.5 un circolo schermisti.

Qui è scritto aveva sede – forse provenienti dalle sale dell’Universale - anche una succursale del “liceo Musicale Angelo Gasparini: fondato nel 1908, con insegnanti tutti diplomati nei regi conservatori: nove di pianoforte; tre per violino; uno rispettivamente per teoria, armonia, canto, violoncello, storia della musica. Sul Pagano/33 detto liceo è in via XX Settembre 16.4 con succursali nell’abitaz. del maestro in v.David Chiossone 1,  ed a SPdA in via Mameli, però 5; in questa data ci sono attivi tre Gasparini, uno  Angelo, maestro di musica; Jole, maestra di canto; Luigia, maestra di pianoforte;

 al civ. 8 la farmacia ’alla Cooperazione’ Nel 1933 fungeva da recapito a vari medici della zona (dr Steneri, Roncagliolo, Bonanni, Lanza ed i due Gandolfo);al 15r negozio di articoli tecnici di Cocco Mario; al 17r Pittaluga Giuseppe & Giovanni¨ gestivano la fabbrica ligure di autopiani, pianoforti e armonium; accordatori, riparatori;  al 29r la pasticceria f.lli Pastorino con negozi in via Daste, via Carducci e corso Dante Alighieri.

Non specificato dove,

 Di questi anni, non precisato quando, si faceva rèclame il “Gran caffè Diana” con biliardi, carambola, ping pong, sale da gioco.

   Appare già trasferita di sede l’opera don Daste.

   In quell’anno fu pavimentata con masselli di granito per tutti  i 600 mq di superficie, con la spesa di 50mila lire.

   Nel 1935, il 19 giugno, il podestà deliberò fosse cambiato il nome per non sovrapporsi all’omonima genovese, e la fece chiamare ‘via Popolo d’Italia’.

   Nel 1945, il 19 luglio, la Giunta comunale decise per denominarla ‘via Alfredo Carzino’.

   Negli anni le case non hanno subìto variazioni di numerazione o di rifacimento.

 

DEDICATA al patriota genovese, nato (in una modesta casa presa in affitto dai genitori) il 5 sett.1827 in piazza san Bernardo, 11(il Secolo XIX dice 30) e battezzato in san Donato con i nomi Giacomo (del padrino), Raimondo (nonno paterno), Goffredo (nel ricordo di un parente della madre, Gottifredo Zoagli padre di Nicola doge,  fondatore nella colonia di Caffa sul mar Nero, e poi ammiraglio e governatore della Corsica)

   I genitori  furono l’aristocratico cagliaritano, marchese Giorgio, dei conti Mannelli, ufficiale della Marina sarda distintosi nella spedizione nel 1818 contro il bey di Tripoli e che raggiunse il grado di contrammiraglio; ed  Adelaide, nobildonna unicogenita della marchesa Angela Lomellini e del marchese Nicolò Zoagli dell’ antica famiglia dei Zoagli che conta negli ascendenti due dogi della Repubblica (Nicola-1394 e G.B.-1561) nonché consoli ed ammiragli della Superba). 

   Primogenito di sei figli (gli altri nasceranno in piazza san Genesio (oggi largo Sanguineti) in una casa di proprietà dei Zoagli occupata un anno dopo; 2 maschi, GB e Nicola, e tre femmine morte tutte in fresca età giovanile: Emilia (o Eulalia), Angelina ed Elisa (o Luisa)), già da fanciullo, era bello fisicamente, ricco d’ingegno, ma di fragile costituzione da passare tre quarti della sua infanzia a letto, e di carattere irrequieto: rimasto indietro negli studi per motivi di salute, era molto taciturno, malinconicoe delicato verso gli altri

Solo all’età di tredicenne, rapidamente ricuperò gli anni perduti con una personalità mista: credeva in Dio ma anche nei rivoluzionari; buono, ma fiero di determinati ideali (prima privatamente sotto la guida del mazziniano Michele Giuseppe Canale (scrittore di una ‘storia della Repubblica’) e poi  presso l’istituto degli Scolopi (più laici e progressisti dei Gesuiti)).

Interessante digressione si può portare sui metodi scolastici di allora (1841): a Goffredo 14enne, l’insegnamento mirava soprattutto coltivare i sentimenti, basandosi su fantasia, curiosità e cultura classica (la Bibbia, i classici latini, la letteratura italiana con Parini, Monti, Dante, Foscolo, Manzoni, Leopardi, Guerrazzi, ecc; e straniera con Goethe, Schiller, Byron, Moore);  si basava su saggi letterari nel comporre di ‘rettorica’ (ovvero scrivere prosa o poesia latina o italiana su argomenti storici) o di ‘umanità’ (sempre in latino o italiano ma su argomenti di storia sacra, mitologica, romana),grammatica, aritmetica, lingua italica, calligrafia. Con periodici saggi anche semipubblici o in  trattenimenti accademici si distribuivano solennemente dei premi e votazioni (dati in ‘menzioni’, a loro volta basate sull’impegno, la assidua quotidianità alle lezioni, al risultato). Così leggiamo di Goffredo in quegli anni che si cimentò in una ‘canzone libera intitolata‘ispirata ed ispiratrice’ ed altra ‘corona’ quest’ultima recitata da un altro allievo; e lo vediamo premiato (‘in solemni praemiorum distributione-meriti insignibus decorati sunt experti probatique ex rhetorica,... merito pares Mameli Godefridus...’).   Suoi compagni di scuola erano Nicolò Montano, Lazzaro Romairone, Bartolomeo Boccardi 

Dopo il liceo, a fine 1841 si iscrisse alla facoltà universitaria di filosofia, passando poi a giurisprudenza (i cui due primi anni erano comunque di filosofia), ma fu obbligato a sospendere gli studi, perché allontanato per un anno dall’università causa un violento e ‘con vie di fatto’ litigio con un compagno di corso (Giuseppe Lullin, diciottenne cagliaritano). Così  la sua attenzione, liberata dall’impegno scolastivo, venne totalmente attratta da interessi affettivi (si innamorò della marchesina Geronima Ferretti; ma i genitori di lei le imposero nel 1846  un matrimonio più ‘sicuro’. A lei dedicò un carme intiolato Un’idea’, siglato ‘R.R.di F.’), politici e di amor patrio, misti ad un non sopito odio contro i dominatori stranieri.

Dal 1842 produsse: dei saggi poetici come ‘Giovine crociato’ e la ‘Battaglia di Marengo’; un dramma il ‘Paolo da Novi; altri carmi, la ‘Vergine e l’amante’, ‘Ballata’; delle odi come ‘Dolori e Speranze’ ed inni:  a Roma, Dante, Apostoli, i fratelli Bandiera,; nonché, scritti, orazioni, discorsi pubblici, tutti tesi ad incitare l’ animo alla lotta mescolando nella sua ancora immatura età, l’ardore e l’impeto del padre, con la dolce fermezza della madre.

Erano anni di grande fermento: i Piemontesi, “foresti”, erano poco tollerati perché da secoli nemici e  dal 1815  affossatori della vecchia e gloriosa repubblica (culminati infine con Lamarmora che costrinse la città ad arrendersi offendendola con arroganza e violenza, dando avvio ad un lungo attrito tra Genova ed i bersaglieri; l’Austria, ancora imperante in Italia veniva odiata, continuamente ricordando i fatti del Balilla, ed era l’unico sentimento che accomunava la gente, specie nei fortissimi contrasti tra repubblicani e monarchici; Mazzini che alimentava lo spirito ribelle, anche se nel 1833 la Giovine Italia aveva avuto il massacro di 14 affiliati; le società segrete -spesso mascherate da Società Scientifiche- creavano immensa preoccupazione alla polizia di stato: tra esse la “Entelema” circolo culturale chiavarese di cui Goffredo divenne l’anima, nato per discutere di storia e letteratura ma che -con l’immissione di Bixio- acquisì alto ideale mazziniano e politico in genere; l’elezione di Pio IX acclamato come papa liberale, nell’idea di rendere favorevole l’opera del clero tendenzialmente conservatore; l’istituzione della Guardia Nazionale per le continue manifestazioni popolari, miranti a forzare la mano ad un titubante re torinese. Non poca confusione comportava  essere Mazziniani repubblicani, avverso ai Gesuiti (accusati di conservatorismo) e contemporaneamente constatare che solo l’avversato re del Piemonte avrebbe potuto realizzare l’unità nazionale (con avvenimenti altrettanto contrastanti: le riforme di Pio IX e quelle albertine (questi nel sett.1847 scaldò gli animi scrivendo ‘se la Provvidenza ci manda la guerra dell’indipendenza d’Italia, io monterò a cavallo coi miei figli e mi porrò alla testa del mio esercito’; e nel nov.1847 in visita a Genova fu fermato da Bixio con la famosa frase ‘sire, passate il Ticino e saremo tutti con voi’, generando nel re uno spavento profondo essendo di temperamento incostante, per cui temporeggiava e forniva sospetto di intempestivi pentimenti), mentre tutta l’Italia ribolliva di agitazioni (a Palermo,  a Pavia,  e il 18 marzo a Milano prologo delle 5 famose giornate).

Sentimentale e poeta quale si forzava di essere, fu il 1846 con la poesia ‘ad un Angelo’ a segnare una netta trasformazione espressiva in senso sociale ed umanitario.

A metà 1847 compose il primo inno, titolato ‘Dio e popolo’, lasciato da parte per declamarlo il 10 dicembre 1847 in Oregina, in occasione dell’anniversario e commemorazione della cacciata degli Austriaci,  dei fatti del Balilla, dello scioglimento del voto del  1746 (in occasione della grande e solenne manifestazione popolare indetta anche per la celebrazione delle bandiere: convennero all’Acquasola più di 25mila persone con un migliaio di bandiere municipali e delle varie nazioni; tra esse comparvero anche due tricolori: in quell’occasione egli osò sventolare per la prima vota a Genova la bandiera nata a Reggio Emilia, e che la polizia per evitare subbugli, dovette rassegnarsi lasciare libere. Carducci in un saggio dedicato al Mameli, segnala che nel corteo,  fu lui il primo a  sventolare  il tricolore  con un gesto che anche i più accesi titubavano e paventavano compiere. L’inno ha come ritornello le parole <che se il popolo si desta-Dio combatte alla sua testa-la sua folgore gli da>)). In attesa, l’8 settembre 1847  scrisse i versi che compongono le parole di un secondo inno ‘Il canto degli Italiani’ (questa poesia, portata a Torino dal pittore Ulisse Borzino, non appena letta in casa dell’ amico Lorenzo Valerio ove si leggevano al pianoforte vari inni provenienti da tutta Italia, nell’entusiasmo generale fu musicata di getto da Michele Novaro (anche lui genovese, maestro di musica, autore di molti canti patriottici, vissuto dal 1818 (o 1822) al 1885: quella sera, tornato a casa, sul suo clavicembalo tanto studiò le prime note gettate in casa Valerio che alla fine produsse la musica voluta). Il testo forse anche lui fu cantato la prima volta in pubblico a Genova il 10 dic.1847 in Oregina, come descritto sopra, ed essendo assai orecchiabile, ebbe rapidissima diffusione: la polizia rincorreva come fiera all’assalto tutti coloro che lo cantavano, favorendone invece la diffusione e l’esternazione in ogni minima occasione ufficiale o non. Col nuovo titolo tratto dalla sue prime parole (‘Fratelli d’Italia’) il popolo in un lampo lo aveva fatto suo; fu cantato da tutti, civili alle feste e raduni, e militari (soldati  dall’epoca della prima guerra di Indipendenza fino alla costituzione del regno unito); ed è ancor oggi inno ufficiale della Repubblica italiana. L'INNO oggi,  è provocato dal senatore Bossi a capo della Lega, che preferiscono il coro del Nabucco, decisamente lagnoso per essere un inno; almeno, quello di Mameli è 'tonico'. Chiedersi se musicalmente è meglio Verdi, ha una risposta ovvia; ma qui non si tratta di festival con un migliore vincitore, ma di provare quel minimo di scossa, di guizzo, di brio capace di svegliarci dal torpore nazionale. Ma essi fanno finta di non sapere -a puro scopo provocatorio- che esso fu scelto da G.Verdi stesso, nel 1846, per inserirlo nel suo “Inno delle Nazioni” (assieme alla Marsigliese ed al God Save the King); e non valutano che tra le righe c'è il simbolo fondamentale dei padani, là dove scrive “  Dall'Alpi a Sicilia, ovunque è Legnano”.  Comunque appare ovvio che l'attacco della Lega non esisterebbe, se alla base del sentimento nazionale non ci fosse un grave lacuna emotiva, una stanchezza dell'orgoglio (anche se il contrario, ovvero il nazionalismo spinto oggi sarebbe un male peggiore: i confini non debbono essere più sacri; non ci si mette sull'attenti con la mano sul cuore al suono dell'inno; non ci sono neanche più ideali a sostenere la lingua (favorendo il romanesco e sopportando l'ignoranza sulla grammatica e sintassi); ci facciamo scivolare sulla pelle le critiche della stampa estera.

Altrettanto Michele NOVARO, che compose la musica nel 1848, che -tutt'altro che antitradizionalista- fondò a Genova una “Scuola Corale Popolare”; curò una antologia di canti popolari (raccolti in un album titolato “Viva l'Italia”); e nel 1874 scrisse un'opera buffa dialettale “O mego pé forza”.

Poiché il mondo è sempre pieno di revisori che tentano di mettersi in mostra producendo nulla se non tentare di distruggere l’opera degli altri, negli anni prima del 2000 si iniziò un insistente lavorio per fargli preferire il canto verdiano dal Nabucco, non nato allo scopo, molto più musicale ma privo della gagliardia necessaria per un inno. Alla fine, fu il presidente della Repubblica Adelio Ciampi a spezzare gli indugi,  dando netta preferenza all’inno di Mameli e coinvolgendo anche i titubanti in una orgogliosa scelta definitiva assieme all’esternazione del tricolore: le parole dell’inno possono essere superate, Roma è capitale e l’Italia è fatta, ma quello che conta è lo spirito e la grinta per arrivare a tutte le méte  ulteriori.

Ma maturava il momento dell’azione. Appena fu costituita la Guardia Nazionale, si iscrisse e subito fu nominato tenente di compagnia, capitanata dall’ex ministro Vincenzo Ricci.

E così ventunenne(con Bixio come luogotenente anche se più anziano),    comandando 300 giovani (la ‘compagnia genovese Mazzini’) accorse a Milano dove erano scoppiate le famose 5 giornate (il 17  le prime avvisaglie avevano fatto allontanare governatore e viceré: la notizia arrivò a Genova il giorno dopo, primo delle fatidiche 5 giornate: 18-22 marzo 1848,  mettendo in moto Nino Bixio. Per il 19 esisteva per Mameli un impegno vincolante: un comizio da tenere al teatro Diurno dell’Acquasola (oggi Politeama Genovese) diretto alla gioventù locale; di fronte ad una folla enorme, disse chiaro “a Milano si muore, io e gli amici partiamo stanotte”. Il gruppo di cento volontari non raggiunse Milano perché, inglobato in una colonna  guidata dal generale Torres, perdette il tempo opportuno. Mameli, giunto egualmente da solo nella capitale lombarda,  assolse alcuni incarichi militari e si incontrò con  Mazzini suo idolo. Raggiunse il gruppo dei 300 a Gravellone il pomeriggio del 20 e   furono guidati a combattere a Governolo, e dopo a Vicenza; fino alla sconfitta di Custoza ed all’armistizio di Salasco. Subito dopo si unirono alla protesta armata di Garibaldi che aveva rifiutato l’armistizio, partecipando alle battaglie di Luino e Morazzone in 3mila contro 15mila, fino allo scioglimento forzato e ritorno a Genova ove il 16 settembre 1848  recitò al Carlo Felice con commozione di popolo ed a beneficio della città veneta liberata ma assediata (in tutte le città italiane si erano aperte questue per soccorrerla dalla fame e miseria) un suo canto intitolato ‘Milano e Venezia’. La storia produttiva del poeta, si arricchisce nel 1848 di un altro inno intitolato “Inno militare” che, su promozione del Mazzini,  fu musicato da Verdi. Questi, cercando di comporre ‘più popolare possibile’ restituì in ottobre parole e musica a Mazzini, sollecitando alcune variazioni poetiche per favorire il ritmo musicale. La lettera, inviata in Svizzera ove Mazzini era rifugiato, non arrivò a destinazione (forse il Mazzini si era già allontanato), cosicché  fu ritornata a Milano ai Ricordi, e là giacque inutilizzata.

Garibaldi a settembre 1848 è a Genova. A fine ottobre parte con 500 volontari compresi Bixio e Mameli, per Ravenna  intenzionato a proseguire per Venezia. Mameli volle fare di più: si precipitò ad Ancona dove era il padre a comando della fregata sarda DeGeneys, invitandolo in nome dell’unità d’Italia ad una azione diretta contro l’Austria (il burrascoso incontrò terminò col rifiuto del genitore di disubbidire agli ordini del re, concedendo recitare ai suoi ufficiali l’ode per Venezia. Caro costò lo stesso all’ufficiale, perché venne immediatamente sospeso e messo anzitempo a riposo. Fu il maggiore motivo di rimorso del giovane, nei lunghi giorni dell’agonia finale).  Qui venne a sapere che a Roma Pio IX era fuggito e la città in mano ad una Giunta d’attesa. Così scelse scendere a Roma precedendo il Bixio di pochi giorni, per proclamare infine con lui la Repubblica Romana l’8.1.49.

Il 23 marzo Carlo Alberto venne battuto a Novara, ed abdicò. Gli Austriaci imposero patti duri, e Genova il 28 marzo insorse e  cacciò il presidio piemontese: Mameli da Roma accorse con Bixio e 450 volontari per porsi a disposizione del gen Avezzana; ma arrivarono il 7 aprile, che già tutto era finito (dalla costa di san Benigno, con la resa del forte di san Giuliano e di Belvedere, si era completato l’accerchiamento della città).

Il negoziato prevedeva la resa e  l’imbarco dei ribelli (da Lamarmora classificati ‘radicali e facinorosi nazionali e stranieri’); Avezzana, Cambiaso, Mameli e Bixio con 450 volontari si imbarcarono sul  vapore americano ‘Princetown’, sino a Livorno e poi a Civitavecchia ove giunsero il 30 aprile in tempo per vedere sbarcare da navi francesi le truppe del generale francese Oudinot da inviare contro Roma (disobbedì all’ordine di aspettare un altro contingente che era in attesa di imbarco a Marsiglia. C’era anche  Avezzana, suo generale, e che il 22 aprile 1849 su carta intestata della Guardia Nazionale di Genova, gli firmò un documento: “il sottoscritto nomina Goffredo Mameli suo aiutante di campo. Ordina per conseguenza a tutte le autorità civili e militari di ricevere gli ordini sia a voce che in iscritto i quali venissero trasmessi dal detto ufficiale. Il generale Giuseppe Avezzana)

Così il giorno 30 aprile Roma fu  assalita dall’esercito francese, anch’esso repubblicano, ma fu fermato, obbligando l’Oudinot ad un temporaneo armistizio. Dopo questi scontri Goffredo si ritrovò col grado di capitano di stato maggiore, comandante di 5mila fanti (contro 30 mila) ed innamorato di Adele Brambati (patriota veneziana, trentenne (otto anni più anziana di lui, moglie di un funzionario che era rientrato a Venezia). Garibaldi approfittò della pausa per guidare una insurrezione napoletana antibirbonica, guidando Mameli ed i volontari alle vittorie di Palestrina e Velletri.

Ma i francesi, rinforzati con 35mila soldati rotto l’armistizio li costrinsero a rientrare  a Roma ove   il 3 giu.1849 nella difesa della villa  Pamphili (il Secolo scrive Corsini) vicino a porta s.Pancrazio al terzo contrattacco in una  carica alla baionetta, Mameli fu ferito alla tibia sinistra poco sotto il ginocchio (identica ferita di Alessandro DeStefanis morto durante l’insurrezione di Genova; e Bixio all’inguine). Portato all’ospedale della Trinità dei Pellegrini, fu tardi quando il chirurgo Agostino Bertani -venuto a consulto il 19 giugno- ritenne doversi amputare l’arto sopra il ginocchio.Ma la ferita complicata dalla cancrena, gli permise sopravvivere per un mese assistito dal suo attendente (anch’egli genovese, e che somigliando al papa era stato soprannominato Pionono). Dopo una nottata di deliri (chiamò il padre per chiedergli scusa della leggerezza commessa e costata la carriera, declamò versi sconnessi, inneggiò alla patria augurandole giorni migliori, chiamando la dolce Adele) l’infezione  lo uccise alle 7,30 del mattino del 6 luglio, a nemmeno 22 anni (mentre lui sperava in un arto artificiale di origine parigina o comunque -senza una gamba- di almeno poter combattere a cavallo; ancora quando da tre giorni il nemico era entrato  vincitore in Roma e gli amici avevano dovuto abbandonarlo per la triste via dell’esilio, lasciandolo con Adele, Pionono ed il Bertani: questi scrisse il giorno 2 a Genova il drammatico dispaccio ‘Goffredo è spacciato. Si affrettino’, ma questo arrivò il 7. E quando poi il padre arrivò il giorno 9 a Roma restituita al Papa,  nel caos gli  fu  negato –con non poca arroganza- il  poter ricuperarne le spoglie, anche perché nascoste dal Bertani, non sapevano dove fossero. Gli fu resa solo la spada, dono di Mazzini).

I suoi resti - imbalsamati dallo stesso Bertani (che sottrasse una ciocca di capelli per la famiglia), furono sepolti  con modestissime esequie nei sotterranei della vicina chiesa di s.Maria in Monticelli, dalla quale -in gran segreto dal Bertani- furono poi traslati ‘in deposito’ in un feretro distinto dalle sue iniziali inchiodate all’interno, nella chiesa delle Stimmate. Poi furono ricercate a lungo ma senza esito dai familiari per essere riportate a Genova (sempre per malaugurate interferenze, come dapprima la guerra stessa, poi smarrimento di lettere di autorizzazione a procedere, ritardo negli interventi tipo la  morte di chi aveva in custodia le spoglie e quindi provvisorio smarrimento). Il 21 settembre 1870, il Bertani rientrato a Roma dopo la breccia di Porta Pia, fece ritrovare la cassa. Dal Comune di Roma il 9 giugno 1872 (ad un anno circa dalla morte del padre Giorgio ed a tre mesi di Mazzini)  fu trasferita al Campo Verano. Nel 1940 furono traslate al Vittoriano e, dal 1941 riunite assieme a quelli di tutti i difensori di Roma nel mausoleo del Gianicolo.

Una brevissima esistenza -troncata da una palla francese e repubblicana -  riuscì  a farsi classificare grande dal popolo e dagli storici (ma inviso e quindi trascurato dai governanti di allora -sia il re che il papa- per una costante ostilità nei loro confronti degli ideali mazziniani),  perché fu capace di affratellare tutti gli italiani con quell’inno. Cent’anni dopo con la vittoria repubblicana al primo referendum democratico post bellico, fu riproposto come inno nazionale: per la precisione si sa che nel 1946 il neo ministro della guerra Facchinetti dovendo sostituire in fretta la Marcia Reale propose l’inno di Mameli perché già pronto; esso fu accettato dal Consiglio dei Ministri solo in via provvisoria. Ma evidentemente tra i nostri difetti c’è che niente è più definitivo delle decisioni provvisorie!. Per questo più volte  questo inno si è attirato critiche le più disparate, per la sua istintiva semplicità e per non essere all’altezza del ruolo che svolge, sia per qualità del testo che della musica (con preferenza delle classiche note verdiane dal Nabucco.

Mio personale giudizio è che un inno non deve essere un classico musicale o letterale, ma deve essere un ‘valore’ che per orecchiabilità e per semplicità, sappia accomunare ‘con immediatezza e vitalità’  tutta la popolazione che lo canta; e questo parere è suffragato dalla lettura dei testi degli altri inni nazionali, dal francese in primis, che offrono soprattutto una musica molto solenne o enfatica con testi che banalmente o irruentemente invocano la protezione divina o incitano  all’unione ed alla ribellione all’oppressione di qualsiasi tipo: unità, giustizia,libertà, dio salvi la regina, ‘in god we trust’.   Al limite contrario forse allora  quello spagnolo e san Marino, che hanno solo una musica, senza un testo.

In nessuna città italiana mai fu eretto un monumento a suo onore e - con particolare torto - neppure nella sua città natale, che limitandosi a numerose lapidi ha favorito un mesto velo di dimenticanza (all’Università (nel 1872 dagli studenti), pza s.Bernardo 30, via s.Lorenzo 11 (questa targa dovette essere ritoccata cancellando la frase ‘in questa casa ebbe culla’ quando si chiarì che vi aveva solo abitato essendo nato in via s.Bernardo), pal. Ducale (v.T.Reggio), v Delle Grazie 13).

 

L’inno e le polemiche degli anni 2000.  Se Goffredo può essere considerato simbolo dell'attuale Italia, avendo il giovanissimo combattuto nel marzo 1848 per la liberazione della Lombardia (Padania) dagli Austriaci, e l'anno dopo a Roma per sostenere la Repubblica, l 'INNO oggi è provocato dal senatore Bossi a capo della Lega, che preferiscono il coro del Nabucco (decisamente lagnoso per essere un inno; almeno, quello di Mameli è 'tonico'. Chiedersi se musicalmente è meglio Verdi, ha una risposta ovvia; ma qui non si tratta di festival con un migliore vincitore, ma di provare quel minimo di scossa, di guizzo, di brio capace di svegliarci dal torpore nazionale). Ma essi fanno finta di non sapere -a puro scopo provocatorio - che esso fu scelto da G.Verdi stesso, nel 1846, per inserirlo nel suo “Inno delle Nazioni” (assieme alla Marsigliese ed al God Save the King); e non valutano che tra le righe c'è il simbolo fondamentale dei padani, là dove scrive “  Dall'Alpi a Sicilia, ovunque è Legnano”.  Comunque appare ovvio che l'attacco della Lega non esisterebbe, se alla base del sentimento nazionale non ci fosse un grave lacuna emotiva, una stanchezza dell'orgoglio (anche se il contrario, ovvero il nazionalismo spinto oggi sarebbe un male peggiore: i confini non debbono essere più sacri; non ci si mette sull'attenti con la mano sul cuore al suono dell'inno; non ci sono neanche più ideali a sostenere la lingua (favorendo il romanesco e sopportando l'ignoranza sulla grammatica e sintassi); ci facciamo scivolare sulla pelle le critiche della stampa estera.

Altrettanto Michele NOVARO, che compose la musica nel 1848, che -tutt'altro che antitradizionalista- fondò a Genova una “Scuola Corale Popolare”; curò una antologia di canti popolari (raccolti in un album titolato “Viva l'Italia”); e nel 1874 scrisse un'opera buffa dialettale “O mego pé forza”.

 

 

BIBLIOGRAFIA

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