MINOLLI                                      piazzetta dei Minolli

 

TARGA: piazzetta – dei - Minolli -  Già Piazza Savoia

                                                         

   

 

QUARTIERE MEDIEVALE:   Canto - Castello

 da MVinzoni, 1757. In fucsia la chiesa della Cella; in celeste villa Cambiasio. La piazzetta era tutta spiaggia anonima.

 

N° IMMATRICOLAZIONE:   2804,    CATEGORIA: 3

 da Pagano 1967-8

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA - n°:    38720

UNITÀ URBANISTICA: 26 - SAMPIERDARENA

 da Google Earth 2007. In fucsia la chiesa della Cella; celeste villa Cambiaso.

 

CAP :   16149

PARROCCHIA : s.M. della Cella

STRUTTURA:   tratto che unisce via San Pier d’Arena a Lungomare G.Canepa,  di fronte alla villa  Cambiaso (ex-pretura).

Bisenso veicolare.

È servita dall’acquedotto DeFerrari Galliera.

 

CIVICI

2007= Neri:  1

           Rossi: dispari da 1r a 7r; e da 2r a 4r.

 

STORIA:  La piazzetta era già formata all’epoca -1757- della carta del Vinzoni, posta di fronte alla villa Cambiaso; è pensabile, vista l’importanza del proprietario della villa, che fu lasciato spazio vuoto davanti perché lasciava adito alla vista del  mare  per le numerose stanze di essa che prospettano a sud.

In questa carta, la villa Cambiaso a levante confina con la proprietà del mg.co Giorgio Spinola, che davanti ha la spiaggia; dalle due proprietà due rivoli d’acqua convergono in unico torrente centrale che sfocia in mare e che è chiamato “sc.di St Antonio”. A ponente, la villa è affiancata da una serie di case: di un Mongiardino; da quella dei figli (?) di Pittaluga; da quella dei RR.PP. della Cella e - ultima ad essere aperta sulla piazza - del sig. David Giordano; invece la spiaggia – sempre a ponente - è limitata da una costruzione di piccole dimensioni (affiancata da una lunga descrizione, praticamente illeggibile, su due righe sovrapposte:  “.....Giu..zaio..piazza? com...”) seguita da una grossa casa (attribuita a non precisati  “mag.ci C.O.”).

 

   Agli inizi del 1900 si chiamava piazza Savoja (altrove ‘Savoia’),  in onore della casa regnante, e facilmente memorizzabile per la presenza dei bagni omonimi.

   

   Il 17 ago.1903 vide inaugurare il caratteristico chalet del “Club Nautico Sampierdarenese”: una struttura a palafitta in legno pitch-pine progettato dall’arch. Giuseppe Ratto, comprendente un ampio salone, animato ed ameno posto di ritrovo associativo, alcuni uffici, e la possibilità di proteggere una quindicina di barche di ogni dimensione. Rimarrà eretto fino al 1927 quando -per consentire la costruzione del porto, venne smontato per essere ricostruito sul lido di Pegli anche se un poco modificato. La sede fu trasferita nella palazzina ex-Croce d’Oro in via Sampierdarena, ove esiste tutt’ora*** (nel 1951 fu  organizzatore di una gara velica notturna, resa magica dalle luci delle numerose imbarcazioni e dalle fotoelettriche del Genio Militare. Lo sbocco al mare attuale del club, dopo varie peregrinazioni, è a Punta Vagno. Era sede anche della “scuola di vela C.N.S” e della sezione “Canottieri”; i velisti sampierdarenesi erano tra i migliori del Mediterraneo, sia come conduttori sia come costruttori: nomi come Luigi Oneto, Gilberto Pestalozza, Nicolò Russo, oggi sono sfumati nel nulla, ma in quegli anni di primo secolo, erano fonte di gloria e di  orgoglio cittadino, vissuto con la stessa intensità di una vittoria oggi della squadra di calcio del cuore, specie nell’edizione annuale della “coppa Città di Sampierdarena”.

   Tale era ancora nel 1933, di 5.a categoria, con un solo civico; solo il 19 agosto 1935 su delibera del Podestà, avvenne il cambio del nome con quello attuale.

Nel Pagano 1940 è descritta ‘da via N.Barabino’ con solo un civ. 1n di Bianchi St&Figli, ard.

   Sino al 1988, quasi metà dello spazio a ponente era occupato da un rivenditore di laterizi; quando chiuso l’esercizio, lo spazio della piazzetta da lui occupato è rimasto recintato a sottolineare che quel terreno della piazzetta, è ‘privato’; mentre a levante, al 7rosso dal 1991 è un distributore di benzina.

 da Lungomare Canepa – 2009

 

DEDICATA  L’ideale per ogni armatore, sia di piccola imbarcazione che di grossa nave, avere un carico pieno, sia all’andata che al ritorno. Ma prima dell’avvento dei brokers organizzatori - dopo il 1800 - questo era raro succedesse: una nave portava un carico e poi spesso tornava vuota. Ma vuota, non appesantita se non dal carico delle vele in alto, sul mare un po’ mosso o col vento forte, non era raro addirittura il rovesciamento. La necessità di provvedere ad un peso stabilizzante, fece nascere questa caratteristica e tipica figura marinara del zavorratore (la zavorra era “a saura”, e il potarla era “saurâ”), cioè a quei trasportatori di sabbia, e non ‘zetto’, da caricare dentro le stive delle navi quale carico fittizio necessario per far mantenere alle navi -vuotate del loro carico reale- il pescaggio in mare e di conseguenza la stabilità e l’equilibrio, pena lo scarrocciamento nel mare mosso, fino al ribaltamento. In ‘cuffe’ o sacchi pesanti, il materiale veniva raccolto sulle spiagge, trasportato con barche a carico quasi a pelo d’acqua sino alle navi, dalla barca alla stiva in un interminabile numero di viaggi su assi mobili a seconda delle condizioni del mare, depositato lungo la chiglia, ed infine livellato per assicurare la massima stabilità.

   Ovvia l’operazione inversa quando la nave arrivava vuota e doveva essere szavorrata per essere caricata. Necessario era non perderla, sia per non alzare il fondo del porto, sia per la fatica che comportava possederla.

   Etimologia, il termine non ne ha, non risultando dedotto da alcuna parola precedente. Rimane quindi un nome a se stante, nato senza una evoluzione linguistica, anche se il mestiere è antichissimo. Da alcuni è fatto derivare dal latino ‘minarii’ ovvero minatori in quanto operavano scavando, anche se solo in superficie; e qualcuno più erudito, li chiamava ‘Minali’. Come tale venne accettato, rilevandosi il termine Minollo anche in un discorso del Cavour alla Camera dei Deputati a Torino, quando si espresse in favore dell’abolizione dei privilegi ai monopoli portuali (camalli, calafatatori, minolli, ecc.) 

   Il loro insediamento preferenziale alla Coscia di San Pier d’Arena (le altre corporazione più significative, furono a Sturla dove però venivano chiamati “sturlotti”,  a Cornigliano che si chiamavano ‘curnigiotti’ ed a Sestri i ‘sestrin-i’) fu senz’altro indotto dalla spiaggia, la più ricca del prezioso materiale e in contemporanea il posto più vicino al porto. La loro agglomerata presenza, assieme a quella dei primi pescatori e la loro cadenza dialettale, determinarono  la caratteristica fondamentale del  quartiere  e dei primi abitanti del borgo. Tradizionale era il berrettino di lana -usato poi da tutti i pescatori-, di un bel blu con il pompon rosso (che ancor ora è tradizionale e generico sinonimo della figura del pescatore di nome Baciccia).

   La storia:    Senz’altro il loro mestiere è notevolmente antico, essendo problema già dei fenici e dei romani. Ma per una primitiva organizzazione del mestiere occorre risalire ai primi anni del mille, agli albori della Repubblica, con il nascere dei primi cantieri di navi (con tonnellaggio sempre maggiore e quindi con maggiore necessità di ‘pescaggio’ per la stabilità e l’ondeggiamento) e di una certa organizzazione dei trasporti (come le crociate (la prima del 1096, ma più organizzati nelle successive) o la costruzione di flotte, mirate alle varie battaglie navali, a memoria prima fra tutte la Meloria contro Pisa (nel 1284)). All’inizio il servizio era sprovvisto di specifico regolamento  portuale, ed era soggetto al solo controllo di un ‘guardiano del porto’ che si limitava -dalla sua casetta posta vicino al molo Vecchio- a verificare strettamente che non avvenissero spargimenti di materiale nello specchio del porto per non contribuire all’annoso problema del fondale basso.

Nel Regesti di val Polcevera (II.298), 1 ott.1587 si legge “è concessa facoltà di Deputati sopra la fabbrica delle mura di Genova verso il mare, di valersi di una trireme per condurre le chiatte cariche fuori della torre di Capo faro e per ricondurle cariche di sabbia di Sampierdarena, al solito luogo. Inoltre alla custodia di detta trireme sono delegati cinquanta soldati, venticinque italiani e venticinque tedeschi”.

   La corporazione nacque nel 1585, su domanda di alcuni capitani di navi ai Padri del Comune, e contemporanea  loro sollecitazione del nome di Antonio Garibaldi quale unico e serio fornitore di sabbia pulita, e non terrosa o mista a pietre inidonea allo scopo. Si iniziò così in quell’anno a sancire e prefissare le regole, di quella che diventò una vera e propria Confraternita, fornendo una licenza specifica -dietro versamento di una cauzione di 150 lire- e con autorizzazione di prelevare sabbia sul litorale di San Pier d’Arena solo per un terzo del fabbisogno giornaliero.

      In breve seguito nacquero regolamenti o precetti, emanati al fine di regolamentare il loro lavoro, il comando dei capo famiglia e l’ingresso nella corporazione dei giovani; ciò malgrado -anche dopo l’istituzione della Corporazione e il tutto sancito con minaccia di punizioni pesanti (come multe, carcere, ‘tratti di corda’, abrogazione del diritto al mestiere), infinite apparvero le  irregolarità, le disattese, furti e frodi incontrollabili .

   Solo l’8 giugno 1611 uscì il primo statuto (composto di solo sette punti; con migliorie e correzioni in rapporto alle esperienze raccolte ed aggiungendo via via nuove e più dettagliate regole (sempre disattese e fonti di continue lagnanze) un secondo statuto fu pubblicato nel 1620; ed un terzo dal Magistrato del padri del Comune il 21 maggio1688) .

Ai primi 24 ‘marinai’ iscritti  (che risultano tutti provenienti dal nostro borgo) e riuniti così in associazione o confraternita, si stabilì che tra loro si chiamassero “fratelli” e fu loro data la nomina di maestri dell’arte, con a capo un Console (o priore); ed un vice console (eletti tra i capobarca); veniva fissato il pieno monopolio dell’ arte o mestiere  (divenuti specificatamente ‘minolli’, e che usavano prevalentemente dei leudi);  l’iscrizione si ereditava di padre in figlio (nel 1815 su 45 iscritti, ben 14 si chiamavano Fossati e 10 Bertorello) oppure si comprava o vendeva (questa familiarità andrà poi modificandosi nel tempo a favore della fratellanza o presenza contemporanea del ‘messiavo’ e dei figli del figlio); una tariffa omologata da applicare uguale per tutti per evitare dannose concorrenze tra loro e le sanzioni da subire in casi di inadempienze o irregolarità (era interesse dei capitani essere serviti subito e non dover perdere tempo in attese inutili; ma era anche necessario proteggere il servizio di fronte a capitani che fossero troppo veloci nell’andarsene senza pagare o servendosi da più minolli o addirittura zavorrandosi da soli: è del 23 dic.1761 una lettera denuncia alle autorità, previo giuramento e”toccate le sacre scritture”, di  ‘marinai di un bastimento di Loano che- dopo aver sbarcato l’olio- si autoprelevarono due lancie (sic) di zavorra sulla spiaggia davanti alla chiesa di N.S.della Cella’ , dove era proibito); le responsabilità tecniche del mestiere (col fine di tutelare le spiagge dei luoghi di raccolta ed il fondo marino dalla dispersione del materiale trasbordato con coffe: uso di ‘velloni’ o teli protettivi di almeno 12 palmi, durante il trasbordo; nonché si stabilì il non trasportare né conservare la sabbia durante la notte, ma obbligo di scaricarla presso la ‘casa del Comune’ in San Pier d’Arena; poi divenne deposito anche ponte Cattaneo); l’età minima d’inizio (16 anni), il periodo di apprendistato (4 anni); l’obbligo dell’obbedienza al Console; il santo protettore (s.Francesco da Paola); l’obbligo del lavoro distribuito per equità;  l’obbligo di offerta prioritaria ai mulattieri (dal 1688, durato poco tempo: anch’essi riuniti in Arte, e che svolgevano servizio di trasporti dentro la città e sobborghi); l’assemblea, valida solo se rappresentata dai 2/3 degli iscritti, eleggeva ogni anno un console (col minimo del 50% dei voti disponibili, e quello decaduto, entrava a far parte del consiglio, il quale legiferava e condannava i trasgressori).

   In contraccambio dei privilegi, ogni minollo doveva ogni anno trasportare gratuitamente quattro barcate di materiale del fondale portuale e scaricarlo fuori del bacino, in luoghi prefissati ‘dal sig. Deputato’ oltre Lanterna. Dal ‘Libro dei Minolli’ manoscritto rilegato, conservato tra i registri dell’oratorio di Coronata del P.mo Genaro 1754, si fa obbligo agli iscritti all’arte –per un atto sancito davanti al notaio Angelo Grana- di pagare per ogni ‘barcata (carico)’ un soldo all’Oratorio (o di san Martino o di Coronata); doveva essere il patrone o marinaio, e le loro mogli, a versare il dovuto al console il quale custodiva le monete in una bussola chiusa a chiave le quali erano custodite dai cancellieri.

   Le barche erano per lo più dei ‘leudi’ o “liuti o pendo”, di cui assai spesso divenivano proprietari- utili allo scopo, ma pericolosi nel diporto specie col mare grosso e privi di covertata, riconoscibili per un numero progressivo e per il nome di battesimo legato per lo più al nome di una donna di casa (moglie o madre o figlia, tipo ‘bella Giovanna’, ’a maæ Cattaenn-a’, ‘la Giuna da Coxia’, ‘la Ruxun’, ‘mué Main’, ‘a Paxiauna’, ‘mué Bedin’) o stranezze (tipo ‘aguabba’, ‘barudda’, ‘u stortu’(O storto), ‘cuirin’, ‘mâa taggiou’ (Mätaggiou), ‘gritta piouxa’, ‘mandilà’).  Era loro detto: ‘vale più essere padrone di un gozzo che marinaio di un grande vapore’.

   Il 6 ago 1670 Pasqualino Bruzzo e soci “si obbligano in solidum a provvedere arena di S.Pier d’arena granita uguale che non sia quella che par zetto...per un anno con li loro tre liuti ogni volta che la marina sia buona”: questa fornitura fu impegnata davanti a notaio, per la fabbrica dell’Albergo dei Poveri nella valletta di Carbonara.

   Loro funzione suppletiva era anche di tenere pulite e sgombre le spiagge; causa l’incessante bisogno di sabbia  -materiale pressoché mai di ritorno- si dovette legiferare perché il prelevamento avvenisse razionalmente, a volte anche lontano: un decreto del 1761 obbligò recarsi a fare prelievi ‘alla bocca della Fiumara di Polcevera’ (ed in casi estremi anche  in riviera alla Vesima o anche Arenzano), allungando così però il tragitto ed i tempi di fornitura e riducendo le possibilità di guadagno; per certi bastimenti potevano occorrere 500-700 tonnellate di sabbia da depositare  dove il comandante ordinava per l’assetto della nave pena il possibile rovesciamento e naufragio del veliero; se si moltiplica per l’alto traffico portuale giornaliero, ci si può rendere conto della fatica e della quantità di materiale che comportava.

   Il lavoro iniziava con la raccolta della sabbia, trasportandola con carri trainati da buoi fino in centri di raccolta (probabilmente al piccolo molo della Coscia ed al Molo Vecchio vicino al Lanternino, ove ovviamente dovevano provvedere a delle scorte per eventuali richieste contemporanee, oppure da mantenersi nelle barche stesse, ma mai sulle calate); su richiesta portarla sulle navi mediante sacchi (sabulum, dal latino) 

   Vita faticosa, ma anche pericolosa: dovevano lavorare con qualsiasi tempo (sole o vento, neve e freddo) e con qualsiasi mare, ed anche per navi non ancorate nel porto: era necessario divenire provetti marinai, spesso famosi anche per interventi extra-professionali di salvataggio (allo scopo i Magistrati del mare avevano organizzato dei servizi specifici; ma chiunque poteva venire coinvolto nelle urgenze); e non era raro che nel lavoro perdessero la barca e la vita.

Ed altrettanto ovvie le varianti nel sistema: vengono ricordati  ponti tra barca e barca fatti con i remi (e quindi assai instabili), ed i  ‘camalli do säto’ cioè caricatori e scaricatori che in assenza di gru sollevavano la merce dalla stiva (e viceversa: sabbia, ma anche carbone o altre derrate) facendo da contrappeso gettandosi dal ponte alla stiva appesi alla corda passata ad un verricello. Come altre corporazioni, e con maggiore sensibilità considerato gli alti rischi e l’imponderabilità che comportava il mestiere, i Minolli erano molto religiosi  ed il loro culto è dimostrato dalle attenzioni poste all’antica chiesetta dei Cibo detta del Quartieretto; dalla scelta -proposta all’approvazione dei Padri del Comune- di san Francesco da Paola quale protettore (fissando la celebrazione della messa solenne nella ricorrenza annuale ed una multa, di lire cinque, per chi non avesse osservato riposo il giorno della festa: la somma era da dividere tra la corporazione e la cappella ove era ospitato il santo il cui culto era stato introdotto dai revv.Padri Minimi dal 1644 al 1653); dalla partecipazione in massa alle funzioni religiose e manifestazioni varie (come tutte le confraternite avranno posseduto oltre allo statuto ed una sede, anche le divise e forse i cristi d’argento pesantissimi; però nei vari testi delle Casacce non sono mai descritti, evidentemente erano solo o prevalentemente una confraternita professionale).

   In quegli anni, evidentemente al limite dell’assottigliamento del litorale, legato alla diuturna usuale asportazione di tonnellate di sabbia con conseguente pericolo alle case durante i fortunali e mareggiate, le autorità decisero ridurre il numero degli iscritti, da 35 agli originali 24: allo scopo fu addirittura proibito ai maestri d’ascia sampierdarenesi di costruire nuovi leudi; ed offerto ai minolli in necessità di comprarne uno, di prenderlo da chi cessando era obbligato a vendere finché non si fosse pareggiato il numero alla cifra prestabilita.

   La Municipalità, nel 1804 si esprime in merito additando che “l’arena o zavorra è il prodotto del Paese, la cui sortita a comodo altrui, scema il litorale, apporta della spesa, pregiudica le strade e fondi territoriali, niente di più equo che chi l’estrae contribuisca alle spese della Commune, tanto più che con un divieto cotanto teme”.

   I Padri del Comune emanarono  nuovi regolamenti il 30 settembre 1814 ed il 10 aprile 1817, confermando le regole precedenti, aggiornando i prezzi (concedendo di chiedere una lira e sessanta alla tonnellata, che permetteva un guadagno giornaliero di due lire e mezzo al dì) e le quantità delle prestazioni (Due fonti lette, relative all’anno 1814  (ed ancora nel 1851), forniscono alcuni valori della corporazione in quantità diverse: riportiamo -uno normale ed uno in parentesi- i dati differenti: allora gli iscritti o Maestri erano 35 (45); avevano alle dipendenze 180 marinai e 45 garzoni;  possedevano 45 (22) liuti); dipendevano da un  ‘viceconsole di marina’ di San Pier d’Arena che era l’amministratore; erano tutti di San Pier d’Arena; lavoravano a turni e si distribuivano tra loro il guadagno in parti eguali: in totale 270 persone che si mantenevano con questo lavoro. Il posto si comprava, si vendeva e si ereditava. Il Comandante del Porto poteva interessarsi solo della disciplina.

  Nel 1823 il sindaco Vincenzo Canale propone al Consiglio comunale di passare £ 768,10 –moneta di Genova- alla cassa di beneficenza. Tale cifra proveniva dai diritti pagati dai Minolli per l’estrazione della sabbia e ghiaia da questa spiaggia (oltre che da un lascito del fu principe Francavilla).

   L’anno dopo  la direzione delle Dogane e del Porto Franco segnalano al sindaco che verrà appliacata una multa al battello n. 33 dei Minolli perché la matttina del 15 gennaio “in contravvenzione con i regolamenti, ha voluto caricare e partire dalla spiaggia molto tempo prima del suono dell’Ave Maria”.

   A suon di prelevare sabbia, iniziano tempi duri per i minolli: Già nel 1825 vengono diffidati dal sindaco di raccoglierne alla Coscia; due anni dopo dall’Intendente Generale –oggi prefetto-  che li obbliga ad allontanarsi verso ponente dalle patrti del Palazzo del Vento.

   Una legge del 14 ago.1844, sancita da Carlo Alberto, abolì tutti i privilegi di tutte le corporazioni. Questa legge fu disattesa a Genova dai Minolli, come se non riguardasse loro e fecero durare ben più a lungo la tradizionale metodologia, con non lievi disagi per i mercantili  (La legge era nata per cercare di limitare queste situazioni abnormi; ad esempio, la maggior parte della marina mercantile sarda, era occupata nel trasporto di cereali dal mar Nero e dal Levante e tali navi in genere ripartivano da Genova vuote; perciò necessitavano di zavorra di cui i minolli avevano l’esclusiva -con prezzi più elevati (per un bastimento di 350 t., a Genova occorrevano £.400 a Livorno £.168 ed in Inghilterra £.250); con situazioni di sfacciato ‘approfittamento’ e frodi -se il mare era agitato -se il prelievo era imposto lontano dal porto; o accumulando lavoro ed obbligando i vascelli a lunghe inutili soste nel porto- ecc.; e lo stesso valeva per le altre categorie, tipo i facchini, i cadrai, maestri d’ascia, ecc.).

   Nel 1855, in una relazione scritta dall’Intendente generale della divisione amministrativa di Genova Domenico Buffa indirizzata al Ministro dell’Interno Cavour, sulle 11 arti privilegiate del porto, egli esprime il parere: «...dei minoli o zavorrai i quali appartengono al borgo di S.Pier d’Arena e vi hanno stanza. Fors’anche l’origine di questo borgo…dee la origine ai minoli, come induce a sospettare lo stesso suo nome: gli zavorrai ivi stabilitisi, come in luogo nelle vicinanze del porto il più adatto a farvi zavorra e versarvi quella di cui volevano scaricarsi le navi, furono per l’avventura in antico il primo nocciolo di questa città di cui ora talvolta, benché a torto, sente gelosia il commercio di Genova...». Quindi i loro regolamenti avendo radici lontanissime  non erano facili da scalzare anche se questi privilegi comportavano non pochi danni alle arti marittime.

GB Ferrari racconta che nel gennaio 1871 naufragò sui nostri scogli il brick Rachelina guidato dal capitano camogliese Olivari Fortunato in una ‘notte   di nevara’: gli zavorrai (se ne ricordano: Gerolamo Pittaluga, Pietro Tixi detto ‘o Peu’, GB Bertorello (che seppur ferito ritornò a salvare per ultimo il morente capitano) ed il rapallino Canessa Giamba)  accorsero e salvarono l’equipaggio.

      Ma, con la fine della vela, anche questa attività ebbe gradatamente a diminuire spontaneamente: nel 1880 gli iscritti erano solo 45; e gradatamente cambiarono mestiere, ridotti a chiattaioli (o bunckeristi; ovvio il cambio di  corporazione, divenendo scaricatori, pesatori, ricevitori,  per lo più avendo adattato il barco al trasporto del carbone, per una portata di 100t.) o tristemente abbandonando il mare per l’Ansaldo (allora chiamato ‘il Meccanico’), tentando di fondersi con altre imprese portuali (come la Tortarolo) fino ad estinguersi  per il sopraggiunto sistema di zavorramento ad acqua con le camere stagno nelle navi costruite di ferro.

Ancora nel 1922, nel regolamento portuale era prevista la fornitura di zavorra, previa autorizzazione del Consorzio  (ufficio marittimo di ponte Morosini): autorizzate dapprima due ditte, Carlo Lagorara &C, e Bertorello, le quali dovevano depositare al Consorzio 8 cent. per ogni tonnellata di zavorra (4 cent per il demanio e 4 per eventuali spese e riparazioni delle calate); poi aumentate con la Lagorara e Casassa, la Danovaro, la NGI, la Viale-Scott, i Bruzzo, i Sanguineti ecc; ogni flottiglia si distingueva per colori e disegni); i capitani o gli armatori, potevano contrattare il zavorramento del loro bastimento pagando £.1,70 / tonn. o in base alla linea di immersione,  per una quantità limitata da avere sufficiente stabilità nel  movimento dentro il porto; gli zavorrai dovevano espletare il lavoro di scarico delle loro barche entro 5 giorni, dovevano provvedere a tendere dei teloni per evitare l’interramento del porto stesso e non  potevano  lavorare di notte).

   Così, SanPier d’Arena è l’unica località che ricordi questo nome ligure e questo mestiere scomparso.

 

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