LANTERNA via (alla) Lanterna
salita della Lanterna
via Porta della Lanterna
Sono tre titolazioni ad uso popolare, e quindi intercambiabili corrispondenti al tratto che univa il Largo Lanterna alla Porta omonima, scavato nella roccia posta a strapiombo dal forte soprastante; e, dalla strada sul mare.
stampa della salita; segnala la cappella
del SS Salvatore
A causa della non definita titolazione ufficiale di questo tratto di strada, può essere ricondotta la lunga e non risolta diatriba tra i Comuni di Genova e San Pier d’Arena. I quali, ambedue, ne vantavano diritto al possesso (ed anche al dazio) addivenendo alle vie legali e quindi nessuna delle due autorizzata a farlo sino a fine sentenza; che infine non avvenne perché nel 1926 Genova ‘fagocitò’ il Comune vicino.
La prima delle tre è citata solo dal Novella tra le via di San Pier d’Arena, e già nel 1910 era in disuso da non esistere più. Però la ‘Guida del porto’ edita dal Pagano nel 1954 segnala la persistenza di una “via alla Lanterna, dal termine della «via al Passo Nuovo» alla cinta doganale del «varco di ponte Etiopia»”, in territorio di proprietà del CAP.
Litog.Schultz; disegno Guesdon. Vista dall’alto
(da pallone aerostatico?) – 1850circa –
litogr. 362x469 – Hauser, Parigi.
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1 STRADA – 2 PORTA – 3 LANTERNA
(ciascuno in sequenza cronologica - per le Mura, vedi a via Bastioni)
1 - LA STRADA fin dai remoti tempi dei romani, il viandante sia appiedato che con animali e carri, dalla riviera di ponente o dalla Valpolcevera per raggiungere la città o il suo porto aveva una sola strada più corta ed agevole: salire al Belvedere, superare san Benigno e discendere alla Chappella (Di Negro), scavalcando dall’alto tutta la lunghezza della spiaggia. Aprire un passaggio lungo la riviera, dove la scogliera era dura roccia e ripida, per le 1-200 anime che abitavano il borgo, col rischio che la via potesse essere usata da nemici invasori, non era convenienza di alcuno .
Probabilmente, i primi sentieri furono aperti dagli abitanti della Coscia quando si perfezionò la costruzione della prima torre di segnalazione con fuochi attorno all’anno 1128. Fu forse ampliata a carrettabile quando le mura arrivarono alla porta dei Vacca (1155), ma solo dalla parte a levante: sono di quell’epoca ordinanze mirate a dividere il traffico tra le due strade, quella sul colle e quella a mare; quest’ultima regolata anche con sbarramenti a difesa sia dalla parte della Coscia che dall’altra a levante. La zona divenne Capo Faro quando si iniziò ad usare vetri di ampliamento della luminosità.
Una certa viabilità doveva già esserci nel 1548 quando l’arciduca Massimiliano (figlio del re di Boemia Ferdinando I il quale ricevette la dignità imperiale sugli stati tedeschi dal fratello CarloV quando il 12 settembre 1555 questi decise di abdicare), dopo aver sposato per procura la cugina infanta Maria Teresa figlia di CarloV, proveniente da Augusta-Innsbruck-Mantova-Milano) arrivò a Genova (20 luglio) per imbarcarsi per Barcellona-Valladolid a sposare ufficialmente Maria Teresa. Seguito da folto corteo di gentiluomini (Alemanni, Boemi, Spagnoli, Borgognoni, Fiamminghi) fu ospitato a Fassolo; prima, 150 giovani genovesi (con “riche veste tel d’oro e d’argento’; e dame e damigelle, mirabili per bellezza e ricchezza di ornamenti, che occupavano le finestre e le porte di tutte le case poste lungo il percorso) gli erano andati incontro a 8miglia; tra suoni di tromba e tamburi lo scortarono per San Pier d’Arena ove “per la strada de la Lanterna… era concorso puoco men di tutto il popolo di Genova”.
Lo stesso itinerario nel 1581, quando la su descritta imperatrice Maria, vedova del Massimiliano di cui sopra, ritornò a Genova arrivando da Voltaggio e Cornigliano (ove dormì), per il Ponte (riaggiustato per l’occasione) fino a Fassolo; e nel febbraio 1599 quando arrivò Margherita, figlia di Carlo di Stiria col cugino Alberto arciduca d’Austria, diretti in Spagna per sposare rispettivamente re Filippo III e la sorella l’infanta Isabella Clara Eugenia.
Per l’occasione fu eretto presso la Lanterna un maestoso arco trionfale costruito dallo scalpellino Taddeo Carlone riutilizzato poi quattro mesi dopo per altra occasione; vivacemente colorato, costruito con materiali “effimeri” –legno, stucco, tela a riproduzione di marmi policromi e bronzi dell’”architettura durevole”; statue degli Asburgo con scene della loro vita: primi nominati a reggere il Sacro Romano Impero, nozze, vittoria sui turchi a Lepanto). Nel percorso, Alberto “intenditore ed appassionato d’arte, aveva anche apprezzato particolarmente il “deliziosissimo piano” di San Pier d’Arena, ricco di “artificiosi palazzi e ville”, del quale aveva richiesto un “disegno in pittura”.
L’invasione portata pochi anni prima da Carlo Emanuele duca di Savoia ed i francesi, determinò negli anni 1626 la necessità di costruire la settima cinta di mura con l’istituzione del “Magistrato delle nuove mura”, composto da vari ingegneri ed architetti militari (tra i quali l’ing. militare frate Gaspare Maculano -Barozzi scrive Vincenzo perché noto come padre Vincenzo da Fiorenzuola, un domenicano divenuto poi cardinale; don Giovanni DeMedici; Ansaldo DeMari; e, con a capo di tutti, Bartolomeo Bianco). Essi, studiando, elaborando ed aggiornando progetti di Gaspare Vasari del 1568, proposero l’inizio dei lavori partendo proprio dalla Lanterna. Tutto doveva soddisfare l’esigenza di “bellezza, fortezza, magnificenza, comodità”, ma anche di salvaguardia alle irruzioni.
Il progetto fu approvato il 6 maggio 1626.
La cerimonia della posa della prima pietra avvenne il 7 dic.1626, presenti:
---i Deputati delle Mura; ---l’arcivescovo di Savona Domenico De Marini che celebrò il rito religioso all’aperto su un altare arricchito dal reliquiario contenente il braccio di san Giovanni Battista poi portato in processione; l’Arcivescovo di Genova non aveva voluto partecipare per attrito col Doge che gli impediva di spostarsi in città seguito da armati personali; ---Gio Vincenzo Imperiale (vedi “villa Scassi”) quale Cerimoniere; ---un carmelitano chiamato Domenico di Gesù e Maria, che pronunciò il sermone; ---tutte le confraternite; --- i consoli di tutte le arti, ---i serenissimi Collegi, nobili e tanta massa del popolo. Il doge Giacomo Lomellino chiuse la pietra: un cubo di marmo, di due palmi di lato – sulla facciata esterna del cubo marmoreo fu incisa una iscrizione dettata da Gio Vincenzo Imperiale procuratore dei deputati e valente poeta (“vedi villa Scassi”) con questo testo: “divisque io, Baptistae, Georgio - Laurentio et Bernardo tutelaribus - proflicato bello - ad hostium terrorem civium securitatem libertatis propugnacolum - hic undequaque moenia montibus abtanda - se suaque dicabat - ures Genua - religiosa unanimis inconcussa - anno salutis MDCXXVI - VII decembris (= a Dio, alla Madre di Dio, ai protettori Giovanni Battista, Lorenzo, Bernardo, terminata la guerra, a terrore dei nemici, a sicurezza dei cittadini, a difesa della libertà , qui e per ogni dove poste in assetto le mura, la città di Genova religiosa e inconcussa dedicava unanimemente se stessa ed ogni sua cosa, anno del Signore 1626, 7 dicembre“).
Questa pietra, andò perduta durante gli scavi del 1861.
Dentro la quale fu posta una grossa medaglia d’argento di mezzo palmo di diametro, unico conio prodotto dall’orafo Antonio Assereto, racchiusa da una custodia di rame, raffigurante da un lato lo stemma della Repubblica e l’iscrizione “Dux et Gubernatores - 1626; e sull’altra faccia l’immagine di nostro Signore, della Madonna – eretta, col Bimbo a sinistra in braccio - e dei quattro protettori, circondata dai 4 santi protettori: alla sua destra Lorenzo e Giovanni Battista; a sinistra Giorgio e Bernardo. Questo medaglione, del peso di 950 gr. e del diametro di 13 cm fu casualmente ritrovato nel 1861 durante gli scavi di demolizione di san Benigno; fu acquistato all’asta dal collezionista locale Luigi Franchini, ma andò disperso quando la sua collezione andò all’asta nel 1879; si scrive che fu acquistata da un inglese, del quale si sono perdute le tracce. Sulla base di ricerche archivistiche, il disegno fu riprodotto nel 1978 (vedi A Compagna, 1977, n.6)).
La cerimonia fu seguita da una raccolta di oblazioni e da un solenne Te Deum in cattedrale. Tutte le navi e le artiglierie di difesa cittadina, esplosero assieme con salve di cannoni, la loro partecipazione.
Dapprima, essendo zona militare, per i viandanti la strada percorribile era sempre quella che da porta san Tomaso (zona Principe), dalla zona oggi DiNegro salire a Promontorio; altrimenti era necessario usufruire di servizio via mare.
I lavori, a ritmo continuato iniziarono solo nel 1630, e i 20 km di mura vennero eretti in tre anni sotto la direzione dell’architetto Ansaldo De Mari – poi di Bartolomeo Bianco da 800 operai, con il concorso economico – una tassa proporzionata al reddito individuale- per quasi 20 chilometri. Furono poste ben nove porte (cinque sui crinali all’incrocio con le mulattiere necessarie per i commerci con l’interno. Tre con le direttrici della riviera: la nostra; la porta Romana presso il ponte di s. Agata e verso la Valbisagno; e la porta Pila verso la Foce ed Albaro corrispondente a levante della nostra. Nonché due sul mare, a Ponte Reale ed a Ponte Spinola).
La grandiosità finale suscitò l’interesse di papa Urbano VII al quale furono inviate due tele dipinte da Andrea Ansaldo raffiguranti in pianta ed in prospettiva la città con la cerchia.
Tagliata litogr. Louis Lebreton-Metà 1800
Partendo dalla punta estrema di san Benigno, aprirono una esigua via lungo la scogliera sul mare, arrivando a tagliare la pietra a monte della Lanerna e riempire la scarpata a mare (da questa opera, la zona venne chiamata ‘Tagliata della Lanterna’ una terrazza completamente artificiale, aperta su terreni già di proprietà della villa del marchese G.B. Serra e piazzale d’accesso alla vera porta di ingresso. Quindi non era una via vera e propria, quanto solo uno stacco, d’unione tra via De Marini e la spianata alla Porta, e che iniziò a chiamarsi “via Lanterna”).
Anche lungo la scogliera vennero eseguiti tagli di roccia, riempimenti, pilastri e muretti di sostegno e ponti sul vuoto sottostante: per chi avesse avuto necessità di oltrepassare l’ingresso, salendo da San Pier d’Arena, doveva superare quattro posti successivi di guardia: ---il primo ostacolo era rappresentato dalla “porta dei grifoni”, così chiamata per la cancellata a sbarramento, sorretta da due pilastri con sovrapposta in marmo l’immagine simbolica della città; ---questa era seguita da un ponte levatoio dietro a cui erano ---altre tre cancellate la più interna era la più importante strutturalmente, detta “avanzata della Lanterna”; ---questa era seguita da un secondo ponte levatoio e ---dall’ultima, la quinta, cancellata (a ridosso di quest’ultima, era una piccola cappelletta che racchiudeva un altare e l’effige del SS.Salvatore; demolita la struttura nel 1719, l’immagine fu trasferita all’abbazia di san Martino): così si raggiungeva la “tagliata”.
Così infine, la strada acquisì dignità di nome specifico.
Una lapide venne apposta alla fine dei lavori nel 1633 là dove si prospettava sarebbe stata costruita la facciata della nostra porta, quella principale verso ovest, nel piano della Lanterna, volutamente - per ragioni difensive - più piccola delle altre porte, atta da soddisfare appena l’accesso a carretti.
Sul piazzale rivolto al mare, fu posta una batteria con 12 pezzi di cannoni, sistemata dietro grossi parapetti a merloni e a cannoniere; risultò inutile nel 1684, quando ci fu il bombardamento dal mare da parte della flotta di Luigi XIV, con tentato sbarco sulla nostra spiaggia, per inefficienza di potenza di tiro ma anche per imperizia.
da un quadro dl 1600 nella fine del 1800
viaggiata 1901 allargamento
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2 – LA PORTA - l prospetto, in stile dorico, ideata dal carrarese Giovanni Antonio Ponzanelli (1650-1735; Tuvo-Campagnol scrivono Ponsonelli; Gardella scrive Giacomo Antonio, e 1654-1735).
ingresso da San Pier d’Arena la porta di uscita da Genova,
stampa del 1632
Al di fuori, racchiusa tra caserme a monte ed un bastione a mare, appariva massiccia e con fregi vari; due colonne di stile dorico erano ai lati dell’unico alto fornice.
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La statua -
la porta fu sormontata da una ben precisa statua, rappresentativa della Regina della città di Genova, della ”Madonna col Bambino“: seduta col Bimbo sulla coscia, lei incoronata e con lo scettro, e lui con le chiavi (detta anche semplicemente la Madonna di Genova, o Augusta). Una bolla del 1630 di papa Urbano VIII, stabiliva che aveva diritti solo chi avesse avuto rango reale; questo indusse la Repubblica ad assumere nel 1637 il titolo regio, tramite l’espediente di nominare regina la Madonna, salvaguardando così l’integrità repubblicana e la devozione particolare che la città sempre onorava alla madre di Dio. Nei Libri Cerimoniali, si volle che l’immagine della Vergine col Figlio -sia sulle mura che sulle monete- tenesse in mano una pergamena con scritto “et rege eos”, sovrapposta allo stemma della Repubblica).
Era stata ordinata a Bernardo Carlone (nato nel 1637 circa; figlio di Giovanni da Rovio; fratello maggiore di Tommaso; è persona poco documentata ed ha oggi poche opere attribuite, perché dopo un breve soggiorno a Modena negli anni tra il 1650-60, morì precocemente in terra d’Austria. Questo fece sì che inizialmente numerose furono le attribuzioni dell’opera ad altri scultori, tra i quali: il fratello minore Tommaso Carlone; Bernardo Castello; Domenico Scorticone. Recenti studi di Elena Parma e MariaClelia Galassi –in sintonia con i Remondini- attribuiscono l’opera a Bernardo), e fu messa in loco nel 1643.
I Remondini raccontano che nell’anno 1857 la statua fu posta a restauro (specie nel rifacimento di una mano ed un piede della Madonna; di un braccio e dito del Bambino; indoratura della corona, scettro e chiavi). La cifra necessaria era stata raccolta dal popolo, in particolare dai sampierdarenesi: Maddalena (o Chiara) Serra, Domenico Carpaneto, Giuseppe Sommariva, Lorenzo Bennati, Giovanni Bottino). Anzi, la cifra accolta –superando le 700 lire a fronte delle 416 necessarie- permise restaurare anche la Madonna di Porta Pila).
Vi rimase fino al 23 marzo 1878 essendo stata decretata l’anno prima la demolizione della porta per nuovi piani urbanistici. Rimossa di notte (“per non provocare maggiormente il disgusto della popolazione”), fu calata tramite una imbragatura che prevedeva un cappio attorno al collo: nessun operaio volle eseguire la legatura e fu affidata ad un non genovese. Dapprima fu posta sulla vicina porta di san Tommaso (a Principe), ma dopo pochi mesi, già nell’ottobre, il giorno 22 si costituì una commissione della Confraternita di s.Antonio Abate, della Marina, mirante ad una collocazione più degna e ad un periodo di ‘riparazione’ morale per l’affronto fatto all’immagine della Regina (tridui di preghiere e s.Messe).
La loro assiduità ottenne che la Madonna fosse affidata alla Confraternita del suddetto Oratorio, previo pagamento -registrato con atto notarile (30 ottobre 1878) - di lire una,05 annuale. Così dapprima fu collocata nella loro chiesa (le spese furono totalmente sostenute da un loro confratello, il cav. Angelo Borgo, che donò le 308 lire necessarie all’operazione effettuata da lui stesso con la sua impresa, come da rendiconto del 1879).
Con delibera del 1884 (3 marzo) il Comune di Genova comunicò ufficialmente l’autorizzazione ad un collocamento della statua e della lapide col ‘Posuerunt me custodem’, nell’Oratorio.
Inutilmente nel 1887 una nuova ondata popolare, guidata da alcuni consiglieri, raccolse ben 83mila firme ad una petizione mirata a ricollocare la statua nella zona della Lanterna presso il mare.
Solo nel 1937, per interessamento del cardinale Dalmazio Minoretti la statua fu restituita al Comune che la donò al Consorzio Autonomo del Porto. Sulla facciata dell’Oratorio, fu posta una lapide a ricordo della conservazione della statua.
Il CAP, ente nato nel 1903, si assunse l’onere –dopo solenne cerimonia in s.Lorenzo, con benedizione delle insegne, corona, scettro, chiavi- della definitiva sistemazione sulla punta del molo Giano, accanto alla Torre dei Piloti, in posizione sud-ovest e con la scritta “Genova, città di Maria Santissima”.
Vicino fu posta una lapide a ricordo: «LA MADONNA - POTENTE PRESIDIO DEL NOSTRO MARE - PER OLTRE DUE SECOLI – SULLA PORTA DELLA LANTERNA – DEMOLITA L’ANNO MDCCCLXXVII – DOPO DODICI LUSTRI – PER CONCORDE VOLONTA’ DEL POPOLO – EBBE QUI NOVELLO TRONO – BENEDIZIONE DIVINA – ALLE NAVI ARDIMENTOSE – CHE NELLE TERRE PIU’ LONTANE – ESALTANO – IL GENIO E LA FEDE – DI GENOVA CREDENTE ED OPEROSA»
Durante l’ultimo conflitto mondiale, il 4 settembre 1944 la statua precipitò in mare.
Il giorno 7 febbraio del 1946 fu occasionalmente ritrovata mutilata sul fondo, da alcuni operai dell’OARN impiegati nello sminamento del porto (ricerche più minuziose fecero ritrovare anche le parti mancanti: l’avambraccio destro, scettro, corona ed il tronco del Bambino). Subito si istituì un comitato, ma i cui fondi non risultarono sufficienti a coprire le spese. A seguito dell’interessamento del card. G.Siri e dell’ONARMO, nel 1952 il prof. Ortelli poté completare il restauro e l’11 maggio la statua fu ricollocata sul molo Giano.
Nel 1999, all’atto della costruzione della nuova Torre dei Piloti, si decise farne una copia da collocare sul molo, preservando l’originale in luogo più consono, nel cortile dentro il Palazzo san Giorgio. Il calco, eseguito dal restauratore Axel Nielsen permise farne una copia in vetroresina, attualmente esposta presso la Nuova Torre dei Piloti.
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In alto, sul basamento e sotto la statua, fu posto la scritta “ posuerunt me custodem”; sotto ancora, coperta da due grifoni e stemma, una lunga lapide: NE MUNIMENTA NATURAE - HOSTIS VERTERES IN PERICULA - TERTIUM SIBI MORORUM AMBITUM - PER ORAM MARIS ET JUGA MONTIUM - PERICOLOSISSIM? TEMPORIBUS - LIBERTAS TRIENNIO - FESTINABAT- ERECTUM ANNO SAL. MDCXXXIII - RESTAURATUM MDCCXII : affinché il nemico non volga a danno le difese concesse dalla natura - il terzo giro di mura lungo il lido del mare ed i gioghi dei monti - in tempi pericolosissimi - il popolo libero in tre anni si affrettava a compiere- eretta l’anno del Salvatore 1633 - restaurata nel 1712.
(Questa lapide fu rimossa all’atto della distruzione della porta, e collocata nel vicino bastione nel 1884; così è scritto in altra lapide posta-sulle mura prospicienti via Fantuzzi- una nuova targa a memoria (a sua volta scomparsa con le demolizioni del colle di san Benigno): «VETEREM PORTAM AD PHARUM - ANGUSTO LOCO EXTRUCTAM IANDIU COMMEATIBUS IMPAREM - V IDUS FEBBRUARIUS ANNO MDCCCLXXVII - ORDO GENUENSIS AMOLIENDA DECREVIT - TITOLUM INDE REFIXUM IN PROXIMO DIRUTAE MOLI PROPUGNACOLO - STATUENDUM CURAVIT MDCCCLXXXIV»: l’antica porta al Faro - costruita in luogo angusto insufficiente al traffico - l’8 febbraio 1877 - il Comune genovese decretò la demolizione - L’iscrizione di là rimossa dalla porta demolita si stabilì di ricollocarla nel vicino bastione il 1884).
Le possenti mura diedero accesso alla città tramite una porta, posta circa cento metri più a levante della Lanterna stessa (con un prospetto in stile dorico ed un solo fornice d’entrata-uscita (lo schema tipico, già elaborato anche dall’altro architetto che si interessava della porta - Giovanni DeMedicis - aveva il transito centrale aperto sulla via da unico fornice, ed era affiancato da due ampi locali a lati, dei quali quello a mare prevedeva anche un vano prigione. Fu arricchita da fregi dal carrarese Giovanni Antonio Ponsanelli (1650-1735) e sormontata da una statua della Madonna scolpita da Bernardo Carlone, al cui basamento stava scritto “Posuerunt me custodem”; ed una lapide -retroposta allo stemma cittadino in rilievo - con l’iscrizione latina: «Ne munimenta naturae - hostis verteret in pericula - tertium sibi murorum ambitum - per oram maris et juga montium - periculosissimis temporibus - libertas triennio - festinabat - erectum anno s. MDCXXXIII - restauratum MDCCXII» = affinché le difese naturali -il nemico non le volgesse in pericolo - un terzo giro di mura - lungo la spiaggia marina ed i gioghi montani - in tempi pericolosissimi - la Libertà in un triennio - compiva - eretto nell’anno del Salvatore 1633 - restaurata nel 1712.
(Miscosi scrive eguali le parole della lapide, escluso in fondo ove lui dice che era scritto “erectum a. salutis MDCXXXIII – restauratum A.D. MDCCXII”= eretta nell’anno della salute 1633 – ristorata l’anno del Signore 1712).
Il 14 luglio 1794 la porta fu attraversata da Napoleone: ancora solo comandante l’artiglieria dell’Armata d’Italia, vi passò proveniente da Loano assieme a sette altre persone tra cui il fratello Luigi e tre generali. Nei quattro giorni di permanenza, seppur costantemente pedinato, poté liberamente spingersi a guardare le difese della Tenaglia e di san Benigno (la Repubblica era con i ‘turisti’ tutt’altro che chiusa e sospettosa; eccetto nelle questioni private di famiglia o palazzo, permetteva nel suo territorio ampia libertà nonché una certa cordialità festaiola, ricca e godereccia. Però, quello che era fuori delle mura sino al confine, era considerato ‘colonia’: era sì abitudine aristocratica avere una villeggiatura, ma non per valutare la riviera quanto che fosse opportunamente vicina da non creare distacco dai propri affari entro le mura).
Il 26 novembre 1796, seguita da un piccolo corteo, arrivò da Milano Giuseppina Tascher (o meglio Marie-Josephine-Rose) de la Pagerie, vedova Beauharnais, viscontessa, già amante di Barras, da marzo 1796 moglie di Napoleone Bonaparte (una visita diplomatica? una fuga d’amore con Ippolito Charles suo cavalier servente ed amico del cuore? Una vacanza proposta dal Serra, corredata da feste, conversazioni, giochi (sui prati –erano in voga ‘il gioco del pallone’ o palla a mano, le bocce, e ‘la barre’-), mondanità e banchetti, ultimi sussulti di grandezza dei nobili che senza curiosità per l’improvviso arrivo, le aprirono le case e gli sfarzi?- I Beauharnais erano una nobile famiglia dell’Orleans; Alexandre -1760-94- aveva sposato Giuseppina con la quale aveva avuto due figli; di essi Eugenio de Beauharnais diverrà 1805 viceré del regno d‘Italia). Per garantirle sicurezza, Faipoult - della legazione francese a Genova sita in piazza Fontane Marose - fece entrare in città delle guardie francesi, accasate in San Pier d’Arena ove era un ‘deposito’ militare (alcuni ufficiali senz’altro erano ospitati nelle ville della Fortezza e degli Imperiale). Improvvisamente la sera del 2 dicembre, richiamata dal marito geloso, riattraversò di notte - per la Bocchetta - l’Appennino.
Una carta del colonnello Brusco datata 1797, riporta sulla strada ancora l’esistenza del ponte levatoio. Sarà rimosso con la nuova porta della Lanterna. Sopra il ponte si prolungava un muro, da esso ai bastioni, già allora con vistose crepature e interruzioni, presumibilmente limite della vicina casa dei DiNegro. Presso questo muro era la nicchia con l’effige del SS Salvatore.
Da quest’anno la porta alternò libero transito e chiusura, a seguito di cambiamenti di fronte, rapidamente uno susseguente all’altro:
---come da anni ed anni, ancora nella primavera-estate venne attraversata da lussuose ed imbaldaccate carrozze -dagli sportelli dipinti dello stemma nobiliare- condotte da numerosi serventi che portavano i vari patrizi e relative dame imparruccati ed incipriati, nelle residenze estive, oppure da rade portantine per singoli signori in movimento tra ville e città, carichi di muli. Il traffico maggiore, è ancora condotto via mare. Genova, e con lei San Pier d’Arena, sono ancora speranzose ed alla ricerca di motivi di festa per potersi distrarre dalla normale routine fatta di sporcizia, fame e sudditanza: occorreva adattarsi ed inneggiare alle coccarde, agli alberi della libertà, ma - non era una novità - anche all’occupazione del più forte.
---a maggio, il primo attacco interno dei ‘Vivamaria’: vincendo i giacobini posero da dentro le mura uno stato di assedio in conseguenza del quale chiusero le porte cittadine; fu Napoleone nel luglio che con drastica decisione impose la condotta da seguire: la nascita della Repubblica Ligure.
---a settembre il riemergere dei Vivamaria quando il nuovo regime democratico aveva offerto quanto di più democratico si poteva avere: una nuova Costituzione, da votare. Ma la stesura del documento, affidata ad una commissione di saggi, vedeva prevalere tra i religiosi l’idea dei giansenisti del Degola (vedi), in aperto contrasto e molto, troppo lontana dalla Curia (con l’arcivescovo allontanato e pronti a sostituirlo con un sacerdote giansenista, dove vasi creare a fianco di uno Stato laico modellato su quello francese, una Chiesa volutamente povera (alla quale erano stati confiscati tutti gli arredi d’oro ed argento) e senza privilegi, con gerarchie e cerimonie non centralizzate; erano inseriti nel programma problemi grossi come i diritti civili dei preti, le ordinazioni dei sacerdoti, le dispense per i matrimoni, l’inviolabilità dei luoghi sacri, la validità delle leggi laiche prevalenti su quelle ecclesiastiche): tanto bastante perché i parroci periferici - e per noi della Valpolcevera - impauriti della ritenuta volontà dei democratici, di distruggere la religione e gli ordinamenti religiosi, il giorno 3 facessero scattare la rivolta. I paesani, arruolati in squadre armate solo del numero, della rabbia, della paura, di falci e forconi, al grido di Vivamaria, e guidati da cittadini più intraprendenti e politicamente impegnati, da San Pier d’Arena salirono per occupare il forte di san Benigno, il Tenaglia e poi lo Sperone. Invano l’arcivescovo Giovanni Lercari cercò di rassicurare che la nuova Costituzione non era poi così distruttiva (non era del tutto vero; anche se in quel momento occorreva di più calmare gli animi ed evitare lo scontro con gli armati; difficile ed improponibile ripetere il 1746 contro l’Austria. Viste inutili le trattative, il 5 settembre il generale Duphot (di Lione: dopo aver condotto questa contro-controrivoluzione, fu trasferito a Roma ove rimase ucciso a dicembre nel sedare anche là una rivolta antigiacobina) con armati schierati in ordine, quasi senza combattere rioccupò Belvedere, Promontorio, san Benigno, indi liberò il Tenaglia occupato dai ribelli (e poi infine anche lo Sperone). Di nuovo interpellato, Napoleone consigliò accantonare gli articoli che riguardavano i religiosi (dando così una scrollata ai giansenisti ed amicandosi il Papa di cui aveva più bisogno nei suoi programmi futuri). La Costituzione così modificata, il 2 dicembre fu sottoposta al voto ed approvata dalla quasi totalità dei 115.890 elettori (1192 votarono contro).
---Nell’anno 1800, le truppe austriache posero assedio a Genova accerchiandola da terra (la flotta inglese dal mare) attestandosi a Cornigliano e Rivarolo: appena giunti, il comandante Hoenzollern all’alba del 22 aprile assaltò con un reggimento (chiamato Nadasky) le fragili linee franco-genovesi, e giunse quasi a passo di corsa attraverso il borgo fino al ponte levatoio; qui però la reazione fu più intensa e mirata, e l’assalto fu arrestato; nel frattempo due battaglioni discesi dal Belvedere, costrinsero gli imperiali a rientrare al di là del torrente Polcevera, pagando l’assalto con 115 morti e 328 prigionieri (contro i 37 morti franco genovesi (cifre di fonte francese). In un rapporto fatto da un ufficiale francese, si legge che durante il combattimento, alcuni abitanti di San Pier d’Arena avevano sparato contro i suoi soldati, e che alcuni contadini ne avevano ucciso uno già ferito. Questo fatto dimostra la brutta posizione degli abitanti del borgo, lasciati fuori e non difesi dalle mura, alla mercé dell’attaccante che certamente non era tenero: furti, vessazioni, violenze fisiche e sessuali, reclutamento obbligatorio; anche se coloro che desideravano vivere fuori delle mura erano genericamente indifferenti alle lotte di potere o addirittura contrari al governo specie quello francese perché rappresentante di idee rivoluzionarie anti religiose).
La strada fu percorsa il 4 giugno di quell’anno dai francesi di Massena, diretti verso ponente, vinti ma con l’onore delle armi;ma poi rientrati il 23 giugno 1800, dopo la vittoria di Marengo.
---nel 1805, il 30 giugno, il doge Michelangelo Cambiaso (allora chiamato “maire”, corrispondente al nostro termine di sindaco, in quanto che la Repubblica era nuovamente soggiogata dalle truppe e potere francese) , nei pressi della porta, consegnò a Napoleone le chiavi della città, che rifiutò sottintendendo il mantenimento della libertà repubblicana.
Nel 1814 una mareggiata più intensa del solito, distrusse la muraglia di sostegno della strada e di protezione della strada della marina (via San Pier d’Arena). I lavori di ripristino furono affidati con appalto del 1815 all’impresa Cremona Ippolito e la prosecuzione il 26 marzo 1817 a Maffei Domenico, ma tanto si costruiva e tanto il mare si rimangiava irrimediabilmente tanto che fu riaffidata nel 1826 all’impresa Picasso Antonio (appalto del 8 maggio per 9.581 lire, ma non eseguita al completo per mancanza di fondi).
Con l’arrivo del regno di Sardegna dei piemontesi, nel 1819 circa, essendo anche cambiata la potenza delle armi e le necessità di difesa, fu deciso dal Commissario Prefettizio Felice Segre (definito ebreo borioso, massone e spadroneggiante) dismettere l’uso di questa porta e di tutti gli sbarramenti (cancellate ed i ponti levatoi considerati ostacolo al transito ‘moderno’ visto che molti ancora preferivano farsi traghettare via nave raggirando l’ostacolo).
Il 4 dicembre 1822 l’ingegner Argenti Francesco propose allargare la strada presso il ponte levatoio in quanto la ristrettezza costringeva i sempre più frequenti carriaggi a fermarsi, adottando un irritante ‘senso unico alternato’. L’acquerello di Parker, è significativo per la scoperta del nuovo ‘punto di vista’ inteso come circolarità della visione, che troverà poi esito nel diorama di Daguerre.
Nel 1828 (Praga scrive 1827; Alizeri a pag. 565 dice Giovanni Chiodo, e nel 1830) l’inizio lavori per apertura in Genova dell’attuale via Gramsci (1831) e le migliorie della strada a mare, nonché nuove e continue necessità militari richiesero la ristrutturazione della cerniera difensiva: una seconda porta fu ricostruita vari metri più a ponente, su disegno del generale del Genio Agostino Chiodo (1791-1861 ingegnere militare savonese, che ebbe brillante carriera militare e politica sino a divenire presidente del Consiglio dei Ministri) (Alizeri-pag.641 dice G.B.Chiodo, fratello di Agostino, ma sbaglia), in vivo macigno, con due aperture. nel Nel 1831 venne apposta nel centro un grosso stemma cittadino inquartato con quelli dei Savoia (vedi sotto).
Anche questa porta fu distrutta 50 anni dopo. Ma, ancor prima di procedere alla demolizione – che avvenne in forma completa nel 1935, furono risistemate alcune parti sul lato ovest del colle, in particolareil frontespizio con al centro lo stemma sabaudo variamente inquartato e con la lapide sottostante. Ulteriori restauri a tutta la zona, la resero visitabile dal 2001 (l’opera del Chiodo venne ricordata in una epigrafe incisa su una lapide murata all’esterno, dettata e tradotta da Marco Faustino Gagliuffi).
La targa recita « REX CAROLUS FELIX / CASTELLIS INSTAURATIS AUCTIS PORTU NOVIS MOLIBUS MUNITO / CLASSE INSTITUTA EMPORIO IMMUNI AMPLIATO URBE EXORNATA / HANC PORTAM ET MOENIA DE COLLE AD PHARUM EXTRUEBAT A. MDCCCXXXI / REX CAROLUS ALBERTUS PERFECIT». «Re Carlo Felice – restaurate e ampliate le fortificazioni – munito il porto di nuovi moli – creata una flotta – ingrandito il porto franco – abbellita la città – faceva costruire questa porta le mura dal colle al faro– il re Carlo Alberto nel 1831 la concluse ».
foto 1960 foto 1998
Henry Perlee Parker. Acquarello datato 1822 (partic.):
si vede la nostra strada in discesa, con il ponte levatoio.
porta di Agostino Chiodo - uscita da Genova, entrata da San Pier d’Arena
Fu chiamata “Porta Nuova”, posta al di qua a ponente della Lanterna a fronte della strada allargata (ovviamente non ancora lastricata, e quindi in terra battuta) avendo scavato la roccia scoscesa. Precedente la porta fu collocato anche un fosso, sormontato da un ponte levatoio le cui catene ruotavano su anelli di bronzo.
La strada di accesso da San Pier d’Arena, era protetta ai lati dalla scogliera e dal colle, ambedue a strapiombo, ma le frequenti mareggiate continuamente danneggiavano il muro di sostegno rendendone precaria la stabilità.
uscita da Genova 2010 attuale residuo
Datato 13 novembre 1839 si legge la relazione di un fatto avvenuto alle 20,30 del giorno prima: “rovina del muro che verso il mare sostiene la strada Reale di Genova dove, dal piano di San Pier d’Arena sale alla nuova porta della Lanterna”. Ben 119 metri di strada furono ingoiati dal mare. Ad esso seguì il riattamento dell’antica strada comunale tra la Crosa Larga e la Coscia lungo il tratto di strada Reale rovinato in parte dal mare.
Ancora nel 1846, la strada non era lastricata e ciò era di grande incomodità; eppure attraverso la porta, in quegli anni, è descritto passassero ogni giorno: “73 persone con carico di erbe in testa; 124 asini; 89 persone col latte; 73 carri con frutta e legumi provenienti principalmente dai fecondi orti di San Pier d’Arena e destinati ai mercati di piazza della Nunziata”. Molto del trasporto, avveniva ancora per via mare.
Nell’insurrezione del 1848, Genova contro i Savoia, non è facile capire perché il Triunvirato che aveva preso il comando destituendo De Asarta, non pose fiera difesa alla porta: quando arrivò La Marmora, seguito sì da 30mila soldati, ma senza combattere la guardia qui posta fuggì lasciando libera la porta all’entrata del generale piemontese.
Nel 1873 iniziò il servizio di trasporto pubblico, affidato alla ‘Società Ligure di Trasporto’, con vetture a traino che passando attraverso la porta, arrivavano sino a San Pier d’Arena presso la stazione ferroviaria.
Tutto il complesso murario fu demolito nel 1877: per diminuite esigenze difensive e successive crescenti ragioni di urbanistica e di viabilità (si stava lavorando a traforare il colle, e si prevedeva che praticamente dalla porta sarebbero passati in pochi: solo rade carrozze private, rari muli e carri di contadini, pedoni e viaggiatori che alla via mare preferivano l’uso dell’“imperiale” così chiamate le diligenze in onore del Bonaparte, trainate da tre cavalli).
La prima e secentesca porta fu demolita nel maggio-giugno 1877 (completata il 14 giugno) per motivi urbanistici (versione storica) -o anticlericale (versione cattolica): una battaglia vera e propria con sbandieramento bilaterale del bene comune celante meschini e spregevoli sentimenti antireligiosi e storici (pare che il Segre l’abbia definita ‘goffo ammasso di pietre’).
Porta Lanterna fu prima a cadere (porta Pila seconda) malgrado 11mila firme che non volevano la distruzione, disposti a tassarsi per sostenere le spese di una variante o spostamento (come invece fu fatto per Porta Pila, ‘esiliata’ altrove). La Madonna scolpita da Bernardo Castello che sormontava la porta, nello stesso anno 1877, fu traslocata assieme alle due lapidi di corredo «posuerunt me custodem» e «Genova, città di Maria santissima», nell’Oratorio di s.Antonio di piazza Sarzano (il 20.6.1937 fu posta sul molo Giano)
Nel 1878 la Compagnia Generale Francese dei Tramways inaugurò i primi binari di un servizio ancora a traino ma con migliore rendimento: aprì in corrispondenza il primo tunnel - di 256 m. di lunghezza - per le sue vetture, che, da Genova, ancora nel 1933 – dopo aver percorso via Milano e prima che essa si biforcasse in via G.Fantuzzi e via alle Caserme di s.Benigno,deviava a ovest dentro il tunnel - passando sotto il colle sbucavano proprio in Largo Lanterna. Ai lati dell’uscita di San Pier d’Arena vennero eretti i casotti del dazio e - per carattere difensivo - davanti fu anche scavato un fossato sormontato da un ponte di legno e ferro: per i servizi pubblici venne così evitato il giro dalla Porta.
Nel 1902 appare sul lunario che nella via (per precisione,‘alla Lanterna’) si apriva una raffineria di strutto e grassi alimentari, margarine ed olio, di proprietà Davezan J, chiamata Vidal Engaurran Bmy.
una bolla del Dazio
In una discussione per la collocazione del dazio, circa i confini tra la città di Sampierdarena e quella di Genova, fu deciso la divisione lungo il centro di questa strada, che portava da Largo Lanterna alla Lanterna stessa, anche se Genova vantava alcune carte francesi che attestavano territorio genovese anche questo tratto di strada; mentre San Pier d’Arena proponeva le antiche leggi ed il ‘sasso del SS.Salvatore’ dipinto sul fianco a ponente, che fu destinato dal Senato a san Martino e non a san Teodoro. La diatriba morì da sola all’atto dell’immissione della città nella Grande Genova nel 1926.
Parti della seconda porta, quella del Chiodo, con la ristrutturazione della zona avvenuta nel 1930, furono spostate nella sede della vecchia, ove era la Tagliata e dove sono tutt’ora, messe a ricordo - ma non chiaramente utilizzabili - a ridosso delle mura della Lanterna.
Con l’apertura di via di Francia e poi di via A.Cantore, il giro dalla Lanterna divenne inutile cosicché nel 1934, con la gestione dell’ammir.march. Federico Negrotto Cambiaso, il CAP provvide all’isolamento della Lanterna inglobandola nell’area portuale e migliorò definitivamente la strada a nord di essa unicamente per collegare le calate del porto genovese col bacino di San Pier d’Arena; la facciata della porta fu ricostruita nella parte a ponente del muraglione della Lanterna.
Nel 1935 la seconda porta, quella del Chiodo, fu trasferita nel tratto della Tagliata rimasto, ove ancor ora se ne può leggere la presenza (i due fornici murati sormontati dalle teste della Medusa e con al centro lo stemma dei Savoia).
Nel 1976 il Gazzettino documentò campanilisticamente che Capo di Faro era, da sempre, in territorio sampierdarenese: ovvero sino all’anno 1630 quando Genova, unilateralmente decise di allargarsi elevando l’ultima cerchia muraria, e così – sempre unilateralmente - integrando a sé il colle di san Benigno ed il suo capo estremo. Si rinnova il ricordo del ‘decretum guardiae civitatis’ del 1128 in cui gli abitanti del borgo avevano degli obblighi di guardia e di spese per la torre (probabilmente già eretta dai tempi romani); e nel 1320 quando la gente di San Pier d’Arena doveva provvedere alle fascine (dette brische) da ardere sull’alto della torre; ed altre ordinanze di epoca napoleonica in cui si fa cenno a san Benigno e capo di Faro erano facenti parte del ‘capitaneato di Polcevera’ e quindi del borgo non della città.
Nel 2006 la strada, superata la zona dove era il ‘Largo Lanterna’ ha un brusco rialzo mirato a passare –sopra, come un ponte- la strada sottostante perpendicolare che, proveniente da via Pietro Chiesa va ad evitare la galleria Romairone. Dopo questo ponte, quella che saliva alla Lanterna ora, dopo trenta metri, si ferma e finisce in un vasto piazzale ‘privato’ ove possono fare manovra dei tir, posteggiare camions, fuoriuscire i mezzi dalla Nuova Darsena, usare capannoni per deposito merci.
E poiché la Lanterna fu costruita nel 1543 (dai genovesi, ma in territorio ben lungi dalle mura di allora, limitate alla zona attuale di Principe –porta san Tomaso: infatti i Padri del Comune, seguiti dai maestri d’antelamo, dovettero ‘cavalcare’ alla volta di Capo del Faro per studiare dove ‘ricostruire’ la torre già chiamata lanterna), se ne potrebbe concludere che l’alta torre rappresentativa della città, nei tempi antichi era in territorio del borgo. Ma considerata la sua necessità (il porto) e la sua manutenzione, appare – purtroppo per noi – di proprietà genovese.
Litogr. Lebreton – 360x600 – ed. Bulla Parigi – 1850-1854
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LA LANTERNA.
È il simbolo di Genova. Ha visto un millennio di storia.
Cronologicamente, ha vissuto tre fasi. Da semplice torre, a faro, alla lanterna classica. Inizialmente era:
==una torre - già dai tempi dell’occupazione romana, si presuppone esistesse un sistema di segnalazioni con falò (di erica (chiamata ‘brügo’) o ginestre (la ‘brisca’ erano i rami di quest’ultima raccolti in tutto il territorio: rimane nella valbisagno la località Briscata ed in una via di SestriPonente) essiccate e poi eventualmente bagnate per aumentare il fumo), accesi prima a terra e poi in ‘coffe di ferro’, queste ultime da potersi sollevare affinché - il fumo di giorno o il fuoco di notte - fossero visibili e l’immagine trasmissibile per tutte le riviere (e nell’entroterra; sta scritto che il servizio segnalazioni, di postazione in postazione, arrivava fino a Milano).
È dibattuto campanilisticamente, se i custodi fossero abitanti del nostro borgo, considerata la vicinanza di esso rispetto la distanza della città racchiusa nelle prime mura. La prof. Corinna Praga dà per sicuro che l’approvvigionamento fu messo a carico dei cittadini sampierdarenesi.
Questi falò non funzionarono però nell’anno 935 dC., quando la città fu espugnata, saccheggiata e distrutta da 60 navi saracene arrivate all’improvviso. Organizzare il servizio significò – forse dopo questa terribile esperienza - far dare dei significati ai fuochi visibili anche da dentro città: si chiamò così “fuoco netto” (dalla luce netta e chiara) l’avvistamento di nave amica, dal “fuoco brutto” (dalla fiamma di legna fumosa) per le navi sospette o nemiche; e tanti fuochi = tante navi in arrivo.
Si hanno notizie più certe di una torre, di avvistamento ed allarme dal 1128, quando nascono i primi manoscritti. Il Cintraco era la figura plurifunzionale predisposta dai Consoli per bandire le leggi, per fissare l’ora delle varie funzioni come lo scarico della ‘rumenta’, ed anche ad organizzare e distribuire lungo le spiagge i servizi di guardia. Altrettanto precisi erano già i regolamenti, sia per l’esercizio del fuoco, già prodotto con l’uso dell’olio (alcuni centri più abitati (Rivarolo, Torbella, Granarolo, Porcile, Sosenedo) dovevano fornire i turni di guardia, probabilmente alternandosi sulla torre di avvistamento (le torri saracene sampierdarenesi possono dare una idea di come poteva essere)), la fornitura del materiale combustibile (alcuni centri, come Promontorio e Basali (la vallata di san Bartolomeo), nonché le navi in arrivo dovevano fornire dell’olio o un ‘diritto’ per alimentare e mantenere una fiamma: ‘pro igne faciendo in capite fari’). Evidentemente le guardie (dette “turrexani”) avevano a disposizione una fiamma perenne ad olio, atta ad innescare il fuoco agli sterpi in caso di necessità, mentre avevano l’incarico di tenere tutto il necessario sia per il fuoco, sia per la nitidezza della fiamma (pulizia dei vetri, con spugne, panni di cotonina o orbascio e bianco d’uovo).
Sono circa di quest’epoca editti mirati alle varie funzioni del porto, come anche proibire di disfarsi in vicinanza e dentro esso, di “zettum et romenta”.
Anche la schiuma di pece, e forse il catrame o il petrolio, furono combustibili usati, ma di minor uso per scarso approvvigionamento. Ma poiché non mancavano i senza scrupoli che soffocavano i fuochi per favorire lo “ius naufragi”, il Comune provvide a strutturare militarmente la zona; Mannoni propone - già in epoca di Guglielmo Boccanegra e l’erezione del Palazzo del Mare (san Giorgio), ovvero nel 1260 - che «venne costruito sul promontorio di ponente il primo faro, chiamato Lanterna perché la luce era prodotta sulla sommità della torre da più di cinquanta lampade ad olio protette da una gabbia piramidale di vetri piombati».
Tra i numerosi focolai di lotta tra guelfi e ghibellini (allora chiamati ‘Rampini’ e ‘Mascherati’ (o Mascarati)) anche il faro fu punto di scontro: si ricorda nel 1318 un vero assedio, con i ‘guelfi rampini’ dentro, che resistettero a sassate lanciate usando una specie di catapulta chiamata ‘trabocco’ e rifornendosi con fune tesa ad una galea ormeggiata vicino, attraverso la quale in una cesta far passare vettovaglie, armi e rincalzi; il 18 giugno dovettero arrendersi alla minaccia di demolizione della base (l’annalista Stella scrive “fecero sotto di lei, dalla parte di occidente e infrangendo la roccia, certe escavazioni e fosse mirabili”). La storia dice che su sette soldati arresi, la vendetta fu atroce perché furono uccisi ed i corpi catapultati sulle rocce sottostanti usando gli stessi trabocchi posti in porta san Tomaso e in Santo Stefano.
Da allora, non necessariamente secondario all’episodio sopra narrato, divenne luogo di esecuzioni capitali, tramite impiccagione (in genere i corpi venivano lasciati appesi, a monito dei passanti, fino alla spontanea caduta in mare dopo il tempo richiesto dalla corrosione e dagli animali; se si voleva perdurarne l’esposizione sempre a fine di monito, si spalmava il cadavere di pece.
==un faro - Nel 1326, fu abbandonato il sistema con i fuochi, per usare sempre quello a olio d’oliva ma con varianti sulla qualità dei vetri (di Masone o Altare; poi di Pisa, fino - molto tempo dopo - dei veneti) capaci di rendere la fiamma molto più vivace e visibile da lontano e di rompersi con minore facilità causa il calore, fulmini e deformazione dei montanti di ferro (questa, legato alle oscillazioni).
Ovviamente cambiarono pure gli stoppini ed il numero delle lampade, per contenere i consumi ma arrivare al massimo rendimento. Da dopo allora, la zona poté chiamarsi Capo di Faro. Sul portolano “Conpasso da navigare”, del XIII secolo, si descrive l’arrivo al porto: «Genova è porto facto de molo et ha uno capo da ponente che se clama capo de Faro, en lo quale ha una torre blanca et alta, en la quale se fa la notte gran fano».
È possibile che già da allora si ponesse una cupola a vetri di protezione.
Durante il giorno, complessa e con differenti significati era la segnaletica attuabile mediante esposizione -su antenne- di vele (inveuggiâ) e coffini (nome ereditato dalle coffe del fuoco, erano cerchi di legno di varia forma a seconda del tipo di nave: l’importante era distinguere il pericolo; le parole sono quelle antiche dei fuochi, con ‘brutto’ per l’allarme e con ‘netto’ per il normale commercio); dopo il 1400 si aggiunsero segnalazioni con bandiere in tessuto a vari colori. Tutte queste variazioni erano oggetto di ampie discussioni, pareri, chiasso popolare riguardante la pulizia dei vetri,la qualità degli stoppini, l’attendibilità dei custodi (chiamati ‘nuntii’ cioè che fornivano notizie- Palma li chiama ‘nuncii’).
Nel 1371 fu usato a prigione del re di Cipro Giacomo di Lusingano e di sua moglie Carlotta, che nel periodo di cattività partorì il figlio, futuro re di Cipro, chiamato Giano forse per lusingarsi i Senatori. Nel 1372 lo zio – Pietro Lusignani - fu nominato re di Cipro. In occasione dell’incoronazione nel suo palazzo di Famagosta, si dice sobillato dai veneziani o comunque da concorrenti che lo avevano avvertito di una congiura genovese, uccise defenestrando tutta la rappresentativa della nostra città recatasi alla cerimonia sia come rappresentanti sia messaggeri di tutela dei propri traffici e colonie. La notizia arrivò a Genova e scattò la vendetta: galee al comando di Fregoso, saccheggiarono i paesi dell’isola ed infine conquistando la città, che da allora rimase colonia genovese, mentre l’intera isola fu restituita a re Pietro a cui sottrassero una sessantina di nobili tra cui il nipote. Questi poté tornare in patria dopo una decina d’anni di prigionia, liberato dal doge Leonardo Montaldo; Famagosta rimase genovese ancora a lungo.
Nei turni di guardia al faro, negli anni successivi, partecipò Antonio Colombo zio di Cristoforo (vissuto attorno al 1450). Tra essi si distinguevano i ‘turrexani’ dai ‘custodes’ ed ormai erano parte integrante del sistema difensivo portuale
Nel 1481 una saetta ferì i tre figli del Torrexiano; la torre fu colpita anche nel 1675; e relative riparazioni dovute al ‘tuono’ avvennero nel 1702, 1713-14-15, 1731-32, 1758, 1761, 1778 (quest’ultimo con la morte di un nipote del custode).
Nel 1498 fu visitata da Ludovico il Moro, accompagnato da Leonardo da Vinci e da altri studiosi, in valutazione delle fortificazioni in atto.
Nel 1507 Luigi XII occupò Genova e ordinò di demolire il faro, ed al suo posto erigere la Briglia (vedi a san Benigno-colle) che il re invece inizialmente aveva chiamato “Mauvoisine” ovvero ‘cattiva vicina’; una fortezza difficilmente aggredibile sia da terra che dal mare, capace di ‘imbrigliare’ il porto e quindi la città riottosa al suo volere. L’ordine comprendeva l’abbattimento del faro, ma quest’ultima imposizione fu evitata ‘dietro cospicuo dono o bustarella -si scrive cento (o duecento) scudi d’oro- all’ingegnere del re Paolo Beusseraille d’Espy, che progettò inglobarlo nelle mura della fortezza.
La breve resistenza di Paolo Da Novi non salvaguardò il governo della Repubblica Popolare, né la tassa di 60mila scudi necessari per la costruzione del forte, né la liberazione dei nobili.
Ovviamente la presenza del forte fece spostare la sede delle esecuzioni (fu portata alla bastia del monte Peralto, detta Castellaccio, a 362 m/slm: la salita da allora fu detta “a montâ de l’agonìa”).
Nel 1512 la città si ribellò, aiutata dagli spagnoli, e durante la battaglia conseguente, navale e terrestre, il faro fu gravemente danneggiato ed inusabile. Tre anni di assedio furono necessari per vincere le truppe francesi asserragliate: solo l’impresa del marinaio Emanuele Cavallo bloccò i rifornimenti che pervenivano via mare, così che il doge Ottaviano Fregoso dal 26 agosto 1514 poté ordinare –pare a proprie spese- la demolizione di tutto il forte e del moncone rimasto. Tanta era stata la rabbia, da indurre tutti a questa distruzione; ché a mente fredda, il forte poteva essere usato meglio a difesa -e non solo- ché così dal 1507 al 1544 non ci furono segnalazioni marinare, se non quelle da una piccola torre già da secoli eretta prudentemente sul molo quale succursale.
==la lanterna Infatti, solo dopo trent’anni dall’episodio, finanziata dai magnifici del Banco di san Giorgio e per volere del doge Andrea Centurione da Pietrasanta, dal marzo 1543 al luglio 1544 fu eretta l’attuale Lanterna (Dolcino scrive nel 1549), alta 127 metri (76 di torre con 375 gradini, e 51 di roccia), tutta di pietre riquadrate a scalpello e mattoni: un marmo posto nell’interno, ricorda il finanziamento necessario. Il progetto è attribuito a GioMaria Olgiato (altri dicono Olgiati, realizzatore della cinta muraria del 500) e la direzione dei lavori affidata al maestro d’antelamo Francesco da Mandria (altri dicono da Gandria) (la leggenda (che ha scarso valore, ritrovando l’aneddoto eguale per numerose altre costruzioni in Italia) volendo sottolineare l’esclusività dell’idea, racconta che l’architetto fu precipitato dall’alto della Lanterna stessa, affinché non costruisse opera eguale altrove).
Occorsero 2mila quintali di calce, 120mila mattoni, 160m² di pietre squadrate provenienti dalla cava di Carignano. La pietra di Finale fu usata per le balaustre che sostituirono le merlature ghibelline. Si presume che in contemporanea furono fatte le scale fisse in muratura – con 175 scalini - in sostituzione di quelle mobili – di legno e corde - atte agli assedi; e fu dipinto un primo stemma della città.
Unico inconveniente risultarono i fulmini, che più volte si scaricarono sulla cupola danneggiandola, obbligando la cittadinanza a tridui di preghiere a protezione, ripetuti fino all’invenzione di Franklin.
Nel 1632 divenne punto di riferimento per l’ultima cerchia di mura – le Mura Nuove - estese sia verso il porto che verso san Benigno.
Si ricorda nel 1634 l’esibizione di un funambolo che – seguito da un’enorme folla e con la partecipazione di oltre trecento navigli - scese dalla torre tramite un cavo teso con un barcone posto nel centro del porto.
L’esibizione fu seguita da oltre 50mila spettatori. Identica esibizione, notturna stavolta, avvenne nel 1749 ad opera di due ballerini del teatro di sant’Agostino.
La Lanterna dal mare - da una stampa del 1636 – coll. Dodero
Solo negli 11 giorni di bombardamento francese del 1684 la cupola fu colpita;la flotta di Luigi XIV, detto Re Sole, sparò 13mila proiettili dalle navi, ma evidentemente non mirò alla Lanterna se non occasionalmente. Così alla fine della ‘punizione’, si provvide alla riparazione della cupola, al miglioramento del riparo dal vento, alla ritintura dello stemma.
Dopo, a parte i fulmini, nessun altro evento danneggiò la struttura; comunque nel 1711 essa venne ‘incatenata’ a messo di chiavarde e di tiranti (ancora visibili all’interno).
Nel 1778 venne dotata di impianto parafulmine (realizzato dal fisico padre Glicero Sanxais; Dolcino scrive nel 1783). E nel 1791 si effettuarono alla base lavori di consolidamento al fine di renderla sempre più stabile.
Nel 1805 ai suoi piedi passò Napoleone Buonaparte: alla porta sottostante gli furono consegnate, da parte del ‘maire’ o sindaco (non più doge) Michelangelo Cambiaso, le chiavi della città (nobilmente rifiutate) atto ed abbraccio finale e mortale tra la Repubblica Ligure e l’impero francese (la politica della Repubblica genovese era sempre stata per secoli improntata alla neutralità; quando fu deciso schierarsi, pesantissimo e distruttivo dell’autonomia fu il prezzo a pagarsi).
Dopo il 1815 i Savoia fecero erigere lavori di fortificazione sotto il faro dando la definitiva fisionomia a quanto in parte vediamo oggi
Iniziante a funzionare il 15 gennaio1841, regnanti i Savoia, una lampada a petrolio a cui fu applicato dal prof. Piana un nuovo sistema di lenti capace di ruotare. Inventato dal francese Fresnel, alla sommità -avente un diametro di 4 metri- fu data forma dodecagonale, fu fornita di quattro ordini di cristalli piani, e fu aperta verso il mare mentre oscurata a monte (nell’arco tra i 110° e 290° con lamiere di rame: questo permetteva già allora un fascio di luce bianca visibile a 15 miglia, con un momento di massima intensità visibile a 20 miglia).
Da allora in successione, ricordiamo il 1898 quando viene usato come combustibile il gas di acetilene fino al 1905 quando fu sostituito da petrolio pressurizzato e nel 1913 a gas vapore di petrolio (fu cambiata pure, su idea francese, la componente ottica ottagonale di schermi e lenti, galleggiante su mercurio e mossa da un congegno a orologeria che la faceva ruotare) e nel 1936 da una apposita lampadina ad incandescenza.
Ulteriori notizie comprendono lievi danni durante il periodo bellico ma più seria minaccia a seguito del grave evento della galleria di san Benigno; l’inserimento dell’ascensore dal 1957; la decisione del Ministero della Marina Italiana che nel 1963 decise sopprimere i servizi semaforici essendo le navi dotate di radar: la giurisdizione fu affidata alla Amministrazione militare di Spezia quale competente della ‘zona fari’ locale; l’Autorità portuale istituì un corpo di operatori specifico cui spetta ancora l’obbligo della conferma visiva dell’avvistamento radar delle navi, e la manutenzione del faro girevole. Un ultimo restauro fu nel 1967.70 ed il riaffresco dello stemma nel 1991.
2005 Oggi è localizzata in piazzale Giaccone. Sul Secolo XIX si precisa l’indirizzo giusto essere “rampa della Lanterna” che in Porto, dal Passo Nuovo sale al faro. CAP= 16126. Tutta la rocca che circonda la Lanterna, è stata restaurata ed aperta al pubblico, che può accedere tramite passeggiata-passerella ad un’area museale ubicata nelle fortificazioni sabaude che sono ai suoi piedi.
Dalle iconografie della città è sempre effigiata in primo piano: da allora – ovvero dalla fine del 1400 - è quindi divenuta il simbolo della città di Genova, il monumento che identifica nel mondo l’intera Liguria. Non a caso, visto che da essa e verso essa una enorme quantità di umanità ha viaggiato navigando, recependola rispettivamente come elemento di nostalgia per i partenti e di sicurezza per chi arriva.
Appare composta di due blocchi a parallelepipedo ad angoli retti: uno basale, con base nettamente più larga di quello superiore.
Due lati sono l’osservazione più frequente; ma in alcuni punti da cui la si guarda, se ne vedono tre: questa caratteristica è rammentata in una poesiola di autore ignoto, divenuta canto popolare e nenia, riferita forse ad una contadina che nelle prime ore portava la verdura al mercato:
«I TREI CANTI DA LANTERNA DE ZENA : “Lanterna de Zena – l l’è faeta a trei canti – Maria co-i guanti – lasciæla passâ. - A trae öe de neutte, - e tutti l’han vista, - a fava provvista – vestia da mainâ. - Cattaeghe ‘na roba, - metteighe un frexetto, - çerchaeghe ‘n ometto – pe fala ballâ. -»
Il parallelepipedo inferiore ha, sulla facciata a nord un grosso affresco con dipinto lo stemma crociato della città sormontato dalla corona ---***; asimmetriche rispetto il dipinto, due finestre, diverse per numero sulle varie facce; tra il dipinto e le mensole un lungo marmo orizzontale riporta la data “ V MDXLIII REST I “; culmina con otto mensole su due ordini, a loro volta sormontate da un muretto con tre buchi rettangolari. Quello superiore ha sempre sulla facciata a nord due marmi, uno alla base rettangolare piccolo, altro al sommo rettangolare largo e lungo, su cui non so cosa sia scritto; anch’esso culmina con sei mensole disposte in due ordini, sormontate da una terrazza delimitata da un parapetto a balaustra; le finestre sono distribuite diverse sulle quattro facce ed asimmetricamente. In vetta c’è la cupola rotonda del faro la cui luce copre un raggio di 36 miglia.
Alla base e non facenti parte del monumento, varie casette di forma e foggia diversa ospitano i guardiani che sono alle dipendenze della Marina Militare essendo tutto l’edificio non di proprietà comunale ma del Demanio
I dati relativi alla Lanterna, dicono:
-coordinate geografiche: 44°, 24’,20”latitudine nord + 8° 54’ 20” longitudine est.
-altezza slm = 117 m. in tutto. In particolare: lo scoglio (è di 40m.). Il tronco di base (é alto 36m.; 9m. di lato; mura spesse 2,6m). Il tronco superiore (é alto 33,95m.; lato 7m.). La cupola (è alta 7,05m. di cui 3,44 in vetro; diametro 4m.). L’ottica rotante interna (alta 1,85, larga 1,78; i cristalli sono spessi 700mm; la lampada ha potenza di 700w).
-fascio di luce= portata luminosa: 33 miglia marine; geograficamente arriva a 27 miglia. =ritmo rotatorio di 20” suddiviso in due lampi di 0,2” di luce intervallati da due diverse pause, una di 4,8” ed altra di 14,8”.
-il bacino di mare è ampio 25°, aperto a sud-ovest al libeccio, ed a sud-est allo scirocco.
-Alizeri F.-Guida illustrativa per la città di Ge.-Sambolino.1875-p.565.639
-Annuario sig.Regina-1902-pag.581
-Archivio Storico Comunale - Toponomastica, scheda 2340
-A sconosc.-Guida del porto di Genova-Pagano xCAP.1954-pag 41
-A.sconosc.-Storia del trasporto pubblico a Genova-Sagep.1980-18-27.fot/’02
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