======CHIESA S.M. DELLA CELLA  arcipretura di s.Martino====

 

 

Distinguiamo, nelle descrizioni, vari capitoli:

==preambolo

==la cappella di San Pietro, che poi diventerà di sant’Agostino (suddivisa in 1; 1A1B; 1C)

==storia della chiesa =pag.82 circa  (2, primitiva; -2A, rinnovo; -2B, secondo rinnovo; 

     2C, commenda; 2D, domenicani; 2E, benedettini; 2F,  agostiniani; 2G, sfratto; 2H, parrocchia).

==tradizioni, pag. 96 circa

==l’edificio  A=esterno=pag. 97 circa;      B=interno=pag.100 circa

 

 

PREAMBOLO  L’inizio della storia della chiesa  ha come necessario una premessa, col fine di una chiarificazione basale: i fatti descritti sotto, in parte sono solo presunti (e di per sé classificabili leggendari ma seguendo in concetto della logica analitica); in parte documentati (compreso quelli, dapprima presunti veri perché dimostrati da scritti poi però risultati falsi; ed in parte invece certi,  e provati definitivamente).

Che una notizia tramandata a voce, subisca delle trasformazioni ed addirittura sconvolgimenti, fa parte dello scontato nei trattati di storia e nella vita di tutti i giorni; così gli studiosi vogliono giustamente basarsi solo su dati di fatto dimostrati.

Ma tutta la storia, scritta dai tempi degli Assiri, degli Egizi, dei Romani (compresi i Vangeli ed i tanti apocrifi) fino a tutto il medioevo sono una mescolanza accettata di compromesso, tra dimostrato ed interpretato. Solo dopo l’anno mille, con gli scritti notarili e degli incunaboli dei frati, si inizia ad avere documenti scritti, ma – come detto - anche essi accettabili con le pinze. Infatti in relazione a quelli scritti nell’XI secolo, troppi - ed in particolare quelli riguardanti le carte dell’abbazia di S.Pietro in Ciel d’Oro e la storia pavese in genere, e quindi la storia della nostra origine - sono quelli risultati apocrifi. Al punto che, è stato scritto in merito: ogni documento di quella Abbazia “andrà indagato partendo dal presupposto che sia un falso”, ovvero stilato a posteriori con il truffaldino scopo di stabilire fatti, cessioni di beni, ricuperi o permute di terre e immobili avvenuti in precedenza e non vincolati da atto notarile o bolle nel tempo giusto, e quindi opportunamente ricostruiti a posteriori, quando si addivenne a superare una fase contrattuale con la semplice stretta di mano e dimostrarla con la presentazione del ‘carta canta’. Questo artificio messo in atto nei secoli dopo un avvenimento fu mirato, purtroppo quasi mai, a ridefinire una realtà storica, ma quasi sempre al solo fine di ingannare altri, e spesso il notaio stesso il quale in buona fede e fidandosi dell’impostore, avvallava con la sua firma l’autenticità a beneficio del committente, in genere un potente che cercava di provare delle proprietà contestate o giustificare dei diritti di fronte ad un non sempre provveduto interlocutore. 

Però anche i Vichinghi, i Celti, i Cinesi stessi  vivono di antiche tradizioni mai dimostrate, basate su qualche reperto vero, poi totalmente condito di leggende. E continuano a vivere queste fantasie imponendole a sé ed agli altri pur di glorificare un loro passato.

Scrive Grendi «Dal punto di vista dell’etnologia storica non si può negare l’importanza della tradizionale orale come fonte, ai fini della ricostituzione della cultura popolare...»

C.Ceschi, sulla base delle tradizioni e di alcuni documenti – i quali ultimi però poi risultarono falsi perché scritti dopo la data riportata - propose tutta una cronologica conseguenzialità, che nelle pagine seguenti tendo a riportare. Ma i testi degli studiosi attuali tendono a smentire o quantomeno a prenderne le distanze da tutto ciò che non è dimostrabile e smentiscono qualsiasi fantasia.

Ma – e qui sta l’orribile errore - nella loro rigida ricostruzione, per uno o due secoli di differenza relativi a mille anni fa, permettono di classificare queste ed altre vestigia come di “serie B”, e concedere quindi siano abbandonate a naturale deterioramento ed innaturale disinteresse.

Relativa alla chiesuola, Di Fabio scrive non voler aprioristicamente escludere la possibilità che una fondazione più antica sia esistita ed abbia accolto le reliquie; comunque dai dati alla mano non può retrocedere l’età del manufatto a prima dell’XI secolo. Con queste molto serie parole di studioso, offre però l’arma e la scusa ai signori governanti che decidono, altrettanto seri ma a mio avviso sciocchi autolesionisti; questi ultimi trovano bella e pronta la scusante - nell’amministrare i soldi a disposizione - del procedere ligi alla totale tangibilità storica, quasi godendo di poter dimostrare e smentire un qualsiasi afflato leggendario a questi manufatti di oltre mille anni fa. E quindi, se non è dimostrato un legame con Liutprando, è concesso che possa andare tutto a catafascio. Come sta andando. Assurdo.

 

 

 

 

1:   il  TEMPIO dedicato a  SAN PIETRO

                 L’ambientePrima di Cristo, i Romani erano in piena espansione di conquista ed assestamento del territorio: quindi – dopo la pianura Padana, arrivati alle Alpi, iniziano l’invasione della Gallia ed Ispania, fino all’Inghilterra. Ma, nel vasto territorio, rimaneva  ‘la mela marcia’ indomita al di qua dell’Appennino: la terra dei Liguri. Malgrado Roma avesse aperta la Postumia e poi l’Aurelia, le popolazioni dell’entroterra non si riuscivano a sottomettere perché favorite dall’impervietà dei monti e non accettavano la grande battaglia campale dove le legioni romane erano invincibili. Da qui la rabbia, il comportamento e il giudizio  tendenzialmente inesorabile e poco incline alla clemenza con i “barbari”, così chiamati come tutti i ribelli, quali descritti dagli storici romani - di parte quindi e dei quali pressoché nessuno mai venuto a vedere di persona ma basandosi solo sulle parole dei reduci (altro esempio di storicità ‘incontrollata’ ma servita per vera). Barbari, ma anche bugiardi, traditori, incivili, chiusi e poco socievoli nonché feroci perché capaci perfino di crudeli violenze.

La Liguria divenne la IX Regio, comprendente noi Genuensi, assieme ai Monachesi, ai Segesta (Chiavari) ed - a nord - agli Hasti (Asti) ed ai Derthonesi (Tortona) ed a numerose altre tribù, ma quasi tutte e slo rivierasche. Con le popolazioni dell’entroterra, le cose non erano pacifiche anche per chi viveva in Liguria.

Tipica la “Tavola di bronzo” di Pedemonte di Serra Riccò, del 117 aC, ad indicare la mentalità di allora e la necessità di sentenze ‘super partes’ anche per delimitare territori coltivi e pascoli, che i civilizzati genovesi  miravano a conquistare a scapito degli altri indomiti liguri stanziali e quindi delle irrequiete tribù distribuite nei territori dell’entroterra attorno a Genova, il cui avvicendarsi non poteva non interferire anche con chi abitava terre vicine alla riva del mare.

È presumibile che a quei tempi, pressoché nessuno abitasse già la nostra spiaggia. 

                  Viene definita ‘storia antica, o Paleocristiana’, il periodo dal I al IV secolo dopo Cristo, dei quali - i primi tre - complicati dalla prevalente permanenza della cultura (specie l’architettura) e fede pagana, e conseguenti persecuzioni, anche se qui mai messe in pratica.

Con la decadenza dell’impero romano, i tempi – già miseri di per se stessi – divennero ulteriormente molto tristi e bui. Per gli uomini semplici – se ce n’erano - la vita media naturale non superava i 40 anni, e quella altrui aveva ben poco valore, per non dire: nulla; mortalità puerperale alta, ed infantile al 50%; rispetto della vita, nessuno; scorrerie di predoni, barbari, saraceni; i ricchi e potenti a dettare la violenta legge del più forte e del branco.

In questo periodo, ci troviamo ad un punto ove ancora  nessun documento (né storico, né poetico, dice chiaramente quando, cosa, e come sia veramente successo in ambiente prettamente locale;  si devono dunque dedurre gli avvenimenti, elucubrando le grandi storie generali coinvolgenti il mondo di allora (invasioni, dominazioni, battaglie).

Di essi, i pochi reperti trovati relativi ai nostri eventi, ed anch’essi troppo spesso faziosi nel ricostruire il passato ed abbondantemente conditi con intuizione e fantasia, sono tutti posteriori al 1000. Quindi la fantasia  - è ovvio - lascia adito a tutti i se ed a tutti i ma di tutti, senza poter mai concludere. E nessuno concluderà. 

Pertanto, appare impossibile per me approfondire queste ricerche, né possiedo il materiale e cultura necessari; per cui ritengo opportuno citare tutte le fonti, e rimanere consapevole della loro possibile non veridicità, vieppiù deformata nei secoli – come avviene ancor oggi - quando un evento viene tramandato solo a voce o solo dal vincitore.

   Prima i Goti e poi via via barbari di tutte le razze portarono in crisi la società romana, producendo una qualità di vita a livello infimo, non solo di cultura ma anche di miseria morale, fisica e sociale. Esigue scoperte archeologiche nell’interno appenninico, e rare costruzioni di chiese dalle origini remote (scrive Traverso citando santo Stefano: “... costruzione dell’ XI secolo che recenti restauri hanno riportato all’antico splendore, è sorta su un preesistente tempio che si vuol far risalire al IV secolo...”  e poco dopo “...dalla città i monaci si trasferirono poi nelle campagne...”), rafforzano l’ipotesi di comportamenti orientati a costruire cappelle votive, quando contro la paura, la morte, la povertà, la fame, le malattie, l’analfabetismo e l’ignoranza,  (persino di coltivare fruttuosamente la terra) si contrapponeva solo la fede.  

Sappiamo che, definita la liturgia cristiana, nel II secolo, nacque l’esigenza di crearsi spazi adeguati; sia sfruttando i templi pagani, sia usufruendo di case (domus ecclesiae). I primi templi specifici nacquero nel IV secolo; e nel V secolo: le regole architettoniche appaiono già ampiamente consolidate (una o tre navate, abside rivolta ad est,  transetto a croce; sostegni a colonne, tetti a  cassettoni o capriata, finestre rettangolari o circolari).

Per le celebrazioni, è probabile si usufruisse del passaggio di sacerdoti da e per la riviera ponentina, sempre via mare, non giudicando potesse esservi fisso un prete essendo assai poche le anime qui viventi.  

Allora, come abbiamo reperti nell’entroterra, non è impossibile che i nostri progenitori abbiano eretto una primitiva cappella (o sfruttando un tempietto preesistente), per ovvietà poi dedicata a san Pietro?  Un  iniziale tempio in pietra, dedicato a san Pietro molto più semplice e rozzo, non quello di oggi ovviamente.

 

   L’apostolo  SAN PIETRO (vedi a San Pier d’Arena)

È assai fantastico il presupposto di S.Pietro che, in fuga da Roma, sostò e pernottò sulla spiaggia. Sicuro è solo che da Roma mandò discepoli per tutto il mondo perché piantassero il seme della nuova fede: e che Genova fu la prima nell’anno 68 dC ad accettare di ascoltare pubblicamente le prediche di Nazario, di liberamente convertirsi, trovando localmente governi che – seppur favorevoli a Roma - mai misero in atto le persecuzione ordinate nel territori dell’impero, per gli anni a seguire,  fino a Costantino.

Pertanto è probabilmente vero che solo qualcuno dei vari discepoli missionari, in transito negli anni dopo il  60 dC, portò la voce del nuovo Verbo a Genova ed in riviera diretti verso la Gallia.  Ci troviamo ad un punto ove nessun documento dirà mai chiaramente cosa, né come o quando veramente successe, trattandosi di un evento marginale alla grande storia. 

Possiamo pensare che - come altrove - la parola del Vangelo  lasciò una profonda e permanente traccia in quei pochi presenti (per lo più miseri contadini o rari e sparuti pescatori, abitanti in casupole di legno, mota argillosa e paglia impastata), in genere persone molto semplici, sensibili ad un credo soprannaturale (dal quale si prometteva un premio, corrispondente al gramo vivere quotidiano), abbandonati lontano anche dai riti pagani (per i quali la volontà dell’uomo era nulla: tutto deciso dagli dei e giustificato dalle loro travagliatissime vicende narrate a misura dei comodi dei sacerdoti).

E che crebbe in loro, e nei loro eredi  nel lento evolversi di oltre 500 anni, intuibile ma non dimostrabile,  il desiderio di realizzare sulla terra in prossimità della sabbia, un tempietto  - se non inizialmente con muri in pietra a secco -  quantomeno più duraturo delle loro stesse case, e dedicarlo a San Pietro (come detto altrove è storicamente accertato che quando Pietro fu in Antiochia, là per la prima volta fece edificare un tempio da dedicare alla preghiera e quale casa di Dio; l’idea piacque e la fece diffondere. Ovvio quindi che anche sulla nostra spiaggia lui, o un discepolo ma in base al suo insegnamento, fece costruire un tempio).

   s.Agostino, nato a Tagaste il 13 nov.354 (nella Numidia, regione nord-occidentale dell’Africa ove oggi è l’Algeria; anticamente abitata dai Berberi; nel III sec. aC re Massinissa era alleato di Roma la quale impedì a Giugurta di addivenire al potere ma nel 46 aC le ridusse il territorio a vantaggio della vicina Mauretania) da genitore patrizio, decurione pagano e da madre Monica, divenuta cristiana e poi santificata. Il nome in latino significa ‘piccolo venerabile’.

Vivace di carattere e di facile apprendimento nel 371 – diciassettenne - fu inviato a studiare a Cartagine (Tunisia) con l’aiuto di un protettore; qui si diede ad una vita sregolata alimentando superbia, inquietudine ed insoddisfazione, ricercando piaceri immediati, ozio, e ad accompagnarsi con una donna da cui ebbe un figlio chiamato Adeodato.

Ripresi e completati gli studi, fu attratto dalla lettera ‘de Ortensio’ di Cicerone, ragionando sulla vanità delle cose di fronte alla vera sapienza, che è da ricercare. Si affidò così alla filosofia manichea, dissertando di filosofia e  divenendo infine  professore di retorica per tredici anni nella città natale. La brillante carriera lo portò anche a viaggiare, affascinando dovunque il pubblico con le sue dissertazioni. Portandosi a Cartagine, poi a Roma ed infine a Milano su invito di Simmaco ad insegnarvi eloquenza. Qui, già insoddisfatto del manicheismo, fu colto da profondo turbamento frequentando il neoconvertito retore Vittorino ed ascoltando le prediche del vescovo Ambrogio dal quale trovò risposta a numerose sue intime e contrastanti domande: cosa scegliere tra il bisogno di pace e l’attrazione degli onori, tra successo denaro e sessualità e misticismo?  Con la madre, il figlio ed alcuni amici si ritirò a Cassiaco (30 km a nord di Milano) e nella notte di Pasqua (23 aprile 387) ricevette il battesimo - assieme al figlio - da Ambrogio stesso.

L’anno dopo si ritrovò in patria - anno 388 -; abbandonò la cattedra d’insegnamento e si dedicò allo studio ed alla pratica del cristianesimo; scrisse le ‘Confessioni’; vendette la proprietà paterna offrendo il ricavato ai poveri e si ritirò per tre anni a vita monastica fuori città, assieme a vari discepoli, tra i quali Alipio, Evodio, Adeodato. Per volere del vescovo Valerio di Ippona - città africana sul mediterraneo -  fu nominato sacerdote suo assistente, per la predicazione ed il servizio pastorale, e tale restò vivendo in forma monastica per cinque anni finché - morto il vescovo - gli successe nell’incarico pastorale.  Mentre predicava (abbiamo circa mille sue orazioni che dimostrano possedesse profondamente la religione cattolica e conoscesse i sacri testi), fu tenace  e vigoroso contraddittore dei primi dissidenti ed eretici (specie gli ariani Goti e Visigoti), amministrò giustizia, battezzò, assistette i poveri.

Da predicatore mobile e viaggiante, invecchiando divenne più sedentario, vivendo nella basilica  di Ippona chiamata  Pacis riuscendo così a scrivere ben 113 libri (‘Confessionum’ in 13 libri con la narrazione della sua gioventù disordinata; il ‘De civitate Dei’ in cui difese il cattolicesimo dall’accusa di aver sollevato il disprezzo degli dei e con esso le invasioni barbariche e le disgrazie dell’impero; le ‘Ritrattazioni’, i ‘Soliloqui’, ‘Della natura del bene e del male’, trattati sulla Grazia e sul Libero Arbitrio contro i donatisti e pelagiani’)  e 218 lettere trattando tutti i temi religiosi e contrastando i tentativi di scisma e di pelagianesimo. Divenne così la guida del clero africano ma soprattutto la coscienza teologica, il dottore di tutta la Chiesa. Favorì circondarsi da ecclesiasti che accettassero una  vita comunitaria con regole severe di povertà ed isolamento, mettendo le basi della vita monastica, non scritte e non ancora legate a  definita regola, ma che daranno alla chiesa ben tre papi con origini tunisine. Nel 411 fu protagonista del Concilio di Cartagine.

Morì il 28 agosto 426  (altri scrive 430) settantaseienne, nel terzo mese dell’assedio posto ad Ippona dai Vandali di Genserico pochi giorni prima della capitolazione. Era papa a Roma –dal 422- Celestino I (morto nel 432); imperatore romano d’Oriente  Teodosio II (401-450); e imperatore romano d’Occidente Valentiniano III (419-455-quello che -con il generale Ezio- sconfisse e fermò Attila).  Fu sepolto nella basilica di Ippona ove le sue spoglie  rimasero per oltre 56 anni.

Fu canonizzato da papa Bonifacio VIII (1235-1303)   

Reliquie del santo Dopo la caduta della città di Ippona, il corpo venne – non certo per timore di profanazione da parte dei Vandali (in quanto è accettato che questi non erano antireligiosi e che rispettavano i sacerdoti cattolici e la chiesa non fu distrutta; e quindi non si crede ovvio imputare ad essi la rimozione delle spoglie) quanto piuttosto dei musulmani – traslato a Cagliari, ricevuto da s.Fulgenzio (teologo e scrittore africano, nativo di Telepte - 468-533, fu vescovo di Ruspina o Ruspo – città africana -; il re dei vandali Trasimondo lo confinò in Sardegna).  Nella città sarda, rimase per due secoli.

Quando anche la zona cagliaritana fu conquistata dagli islamici, divenne motivo di ‘pacifica crociata’ ricuperarne le ceneri essendo divenuto noto l’accessibilità ad un riscatto, come poi avvenne.

Fu per questo che successivamente nel 722-725, per volere di Liutprando i resti furono trasportati a Pavia (eccetto l’omero sin – non si sa perché – dato agli inglesi) e gestiti da frati fedeli che così assunsero il nome di Agostiniani.     La chiesa divenne mèta di pellegrinaggi e devozione fin da quando ancora non era stato dichiarato santo.

Quando Pavia fu conquistata dai Carolingi, essendo loro devoti a san Benedetto, nella basilica di Ciel d’Oro fecero convivere nel tempio i due ordini contemporaneamente, con ovvi dissidi –essendo a volte anche commisti con un terzo, l’ ordine dei Canonici Lateranensi. Apparve di conseguenza che le spoglie ‘scomparvero’: o per protezione di uni o per prevaricazione degli altri. Cercate inutilmente per secoli, finché il Papa stesso proibì ulteriori scavi. Furono incidentalmente ritrovate nel cavo di una colonna, e riconosciute perché mancanti del braccio sinistro; lì lasciate anteponendo  solo una lapide, per decisione del  vescovo Bertusati (benedettino olivetano) ma su consenso del papa Benedetto.

La sua regola, nacque dall’interpretazione che il Santo –sulla base di una cultura neoplatonica- interpretò per la Chiesa occidentale che cercava nel dubbio e nel pensare le verità fondamentali (‘anima cercante’) da definire in dogmi. Per lui, queste verità, nascono nell’uomo non solo per sua necessità intima ma soprattutto perché  universali ovvero dettate o meglio illuminate da Dio. Poiché Dio è bene, la natura non può essere male, a meno che esso non sia voluto dall’uomo per libero arbitrio. Offerta a loro da Dio, è la dottrina della Grazia salvatrice (tramite Gesù)  che unisce in una città spirituale (civitas dei) tutti i liberati dal peccato. Questi concetti di illuminazione divina, di Grazia, e di fede con ragione assieme, sono i cardini della dottrina. alla quale ricorsero poi (sec. XI XII s.Anselmo, Ugo e Riccardo di s.Vittore, s.Bonaventura e s.Francesco stesso. 

La regola fu inizialmente prescritta dal Santo alle suore di Ippona in una lettera; i seguaci, da inizialmente eremiti mendicanti, nel VI secolo cercarono - in un sinodo fatto a Orange (529) - di riassumere i suoi insegnamenti in canoni, che furono approvati da papa Bonifacio II (tedesco, morì a Roma nel 532) e trovarono seguaci sia in Fulgenzio vescovo di Ruspa che in quello che poi divenne Gregorio I Magno. Ma riuscirono ad organizzarsi in un ordine solo dopo il concilio lateranense del 1059 ed esso fu costituito da papa Alessandro IV (morto  nel 1261; realizzando il desiderio del papa precedente Innocenzo IV, della fusione di tutte le congregazioni  similari = vita eremita associata alle regole del santo, per  un nuovo “ordine degli eremitani di s.Agostino” con alternanza di contemplazione e apostolato). Queste prerogative furono così adottate da molti altri ordini  religiosi (domenicani di s.Tomaso d’Acquino, canonici regolari, ...ecc. Continue le divergenze, le interpretazioni, le devianze: a congregazioni agostiniane appartennero Calvino e Lutero); ma i monaci si moltiplicarono e propagarono per tutta Europa, e poi nel mondo, annoverando persone di prim’ordine nella Chiesa ed università.

L’ordine fu definitivamente riconosciuto da Pio V nel 1567  ed ebbe da Innocenzo IX (1591- papa per soli due mesi) la regola definitiva

È protettore dei teologi, editori e tipografi.

A Genova, seguono la regola agostiniana i monaci della chiesa della Consolazione di via XX Settembre. A San Pier d’Arena furono agostiniani i monaci  della Cella e di Belvedere.

 

 

 

Dal V secolo al XV, è medio evo.  Ovvero, in genere si accettano questi limiti: dalla caduta dell’impero romano d’occidente (anno 476; Odoacre, re degli Eruli, quando depose l’imperatore Romolo Augustolo – dopo aver sconfitto Oreste, padre dell’imperatore stesso) fino alla scoperta dell’America (1492;  con la quale inizia il Rinascimento).

I trattati di storia, dividono questi mille anni in due parti: il primo, dal 476 fino al 1000, chiamato  alto medioevo (per distinguerlo – come ovvio - dal basso medioevo che va dal 1000 al 1492).

 

 

L’ALTO MEDIO EVO

Sono cinquecento24 anni. Non sono un momento!

Sono secoli dominati dalle generali condizioni di vita. Nella plebe dominano: violenza, ignoranza, povertà e concetto di valore zero della propria vita. Nella nobiltà, l’ignoranza ed il potere creano le fazioni, gli scalini sociali e la prevaricazione. 

Unico relativo equidistante - era la centralità della religione: i preti erano forti perché pressoché gli unici istruiti; ma anche perché a controbilanciare la superstizione c’era la ricerca della gratitudine divina che dettava totalmente il comportamento dei singoli; essa dava –ovviamente - molto spazio alla speranza dell’aldilà, visto che nel di qua era squallore totale. Quindi tutti i peccati umani (avarizia, invidia, lussuria, violenza, avidità, ignavia) richiedevano di essere scontati. A modello, santi e miracoli diventano punto di forza (venerati - non adorati, per non divenire idolatri - intercessori presso Dio perché sicuramente al suo fianco; le reliquie diventano la tangibile presenza di essi.  Saranno i religiosi quelli che, molto lentamente, tra uno-due secoli, lasceranno testimonianza scritta di operazioni economiche, testamentali, acquisti di terreni ecc. che ci permetteranno di meglio capire anche il tipo di vita, profondamente diversa dalla nostra: poche o niente le strade; settimane o mesi per raggiungere città da città;  territorio fittamente boscoso; se in pace, crescita demografica e conseguente carestia; concentrazione nelle campagne per sopravvivere con la natura (castagne, frutta, pastorizia). Le donne portavano il peso morale del peccato di Eva; quindi loro stesse, causa di peccato: erano solo mogli, non portavano armi, a poche era aperta la vita spirituale (solo le discendenti di sangue dinastico erano uniche detentrici di un certo potere politico). La nazionalità di uno Stato (re o imperatore) era frantumata nell’obbedienza al piccolo signore (guerre locali; violenza endemica, uso della forza per reati anche lievi, nessun valore della vita altrui).

   Dopo queste date, dai primitivi nuclei  di vita comunitaria, ma soprattutto dalla edificazione della  cappelletta,  la zona assunse riferimento topografico di “Sancto Petro Arenae”, riferito quindi al tempietto e non alla figura dell’Apostolo né al nucleo abitato, forse ancora in fase di formazione.

 

 

Al di là dell’Appennino, l’Impero romano era diviso in occidentale (Roma, Aquileia e Milano) ed orientale (Costantinopoli, Bisanzio, Ravenna), con rispettive capitali, sede di residenza dell’imperatore. Genova è compresa nel primo, ma è avulsa da esso per ragioni geografiche e stradali.

Furono tempi bui sia per gravi stravolgimenti sociali, sia per mancanza di notizie e reperti. Corrisposero ad un lento e progressivo  mutamento del potere politico centrale  (nascita di nuovi stati, imperi, monarchie, potere temporale della Chiesa; con i signori feudali nel territorio più piccolo,  con i comuni, e via via con maglie organizzative sempre più piccole e periferiche), mescolate a carestie, epidemie, invasioni – goti, visigoti, longobardi - guerre tra castellani.

Unico positivo oltre la religione, la lenta floridezza dell’emporio.

Nel caso di San Pier d’Arena, il problema è che allora la spiaggia – e quello che c’era di umano - era completamente fuori di ogni passaggio commerciale e culturale, quindi, se era arretrato il genovesato, qui era ancora peggio.

Difatti, nei trattati di storia, grandi o piccoli, gli avvenimenti di Genova e della Liguria, sono completamente saltati perché giudicati ininfluenti: Genova in quegli anni, contava meno di zero.

I Longobardi.

premessa - a) Dopo i Goti, e – per breve periodo prima, i greci –da circa dopo l’anno 600 dC, i Longobardi furono gli ultimi invasori dell’Italia e dominarono l’Italia per 200 anni circa (dal 568 al 744).

- b) - In contemporanea, l’Italia del nord occupata  territorialmente dai barbari, seppur venuti cercando inizialmente non tanto le nostre terre, quanto le ipotetiche ed ideali ricchezze (non solo oro ed oggettistica, ma anche agricoltura, clima, cultura e  saggezza politica). Si fermarono qui e vennero facilmente assimilati dalla popolazione stanziale.  Altro dato positivo a favore della popolazione invasa, fu la forza della religione cristiana che ormai era divenuta il credo indiscusso di base, e che aveva unificato anche le fazioni politicamente opposte e che favoriva l’assorbimento delle tribù invadenti.

- c) – in oriente, stava contemporaneamente nascendo e diffondendosi il credo maomettano (Mohammed figlio di Abdallah e di Amina era nato nell’anno 570) evidentemente molto più consono e in sintonia con le antiche abitudini e usuali necessità di quei popoli (il Corano, è il loro vangelo e di per sé è molto semplice e quindi anche comodo per quei popoli - non colti come quelli occidentali – ma con evidente bisogno di maggiore autonomia dalla loro chiesa e loro religiosi ma altrettanto bisognosi di una religione comune per formare uno Stato e portare avanti la jihad (la guerra santa) che li portò ad invadere tutto il nord Africa (si affacciarono all’Atlantico nel 711 ed invasero la Spagna dei Visigoti cristiani) e gli stati a nord come la Siria e Mesopotamia, entrando a diretto conflitto con i bizantini che vennero sconfitti ed invasi fino alla battaglia di Poitiers del 732 quando Carlo Martello li fermò, alle porte di Vienna, la spinta araba in terra; ma che continuò in mare.       

Divennero così tempi in cui i Saraceni dominavano il mare, con sedi fisse in Tunisia e Sardegna: assatanati di prede, specie schiavi, in mare erano giornalieri abbordaggi e catture; ed a terra, saccheggi, ostaggi, prigionieri per i remi, massacri. Ed interessarono ben oltre la costa perché si addentrarono nell’interno sino all’attuale basso Piemonte.

- d) – in Liguria dominavano i bizantini, più guerrieri terrestri che marittimi e quindi con eserciti spostati più nella pianura padana orientale, che qui  nella loro porzione di terra  più occidentale e quindi più indifesa. Di sicuro i genovesi - che tra loro si sgomitavano per acquisire sempre più potere locale – assieme ai paesi delle riviere vivevano incubi diuturni, compresa fame, malattie, povertà più per ragioni politiche interne che per quelle dei vari regni ed imperi. Anche per loro comunque, forse fu la religione che poteva far sopportare gli avvenimenti; e per qualcuno favorì che nella disperazione preferì vivere da solo fuori città, non protetto ma almeno con minori vessazioni se non le proprie della propria vita, andando a incrementare la vitalità delle zone fuori città.

                     

 

I Longobardi erano partiti dalla Pannonia nel 568 circa – terra della Germania, ma loro di stirpe asiatica -  avevano superato le alpi Giulie ed erano scesi in Friuli insediandosi nel Veneto; da lì si allargarono  velocissimamente a macchia d’olio e senza particolari resistenze, cacciando i romano-bizantini: da nord-sud, fino a Firenze, Arezzo; verso ovest, Padova, Mantova, Milano (3 settembre 569: prima del loro arrivo guidati da Alboino, il vescovo ed il clero si trasferirono a Genova accasandosi in un palazzo detto ‘di s. Ambrogio in Genova’), Pavia (fu assediata per tre anni), Acqui (569), e poco dopo Alba e Tortona.

Scelsero Pavia come punto stabile e centrale di dominio – militare, politico e religioso - di tutto quel vasto territorio chiamato ‘regnum longobardorum’.

Primo importante fu Rotari, che poco dopo il 635 da Pavia scese in Liguria passando ad est dell’Appennino, arrivando così a Luni. Dal confine sud della regione, risalì la costa (non è chiaro se esistesse (se mai è esistita) un reliquato dell’Aurelia); e quindi non è chiaro come e quando arrivò a Genova, ma si presume l’anno dopo, dopo aver svernato da qualche parte. Vi arrivò da feroce dominante e senza guerra specifica: ovvero quasi tutti i centri abitati si diedero spontaneamente alla monarchia barbarica, pagando gravosi tributi simili a saccheggio; solo pochi furono sottomessi militarmente. Nel 644 aveva sottomesso quasi tutta ‘la Marittima’, ovvero tutti i paesi costieri già appartenenti ai romani, compiendo stragi, incendi e rovine laddove trovava resistenza, da Luni a Ventimiglia; e non si hanno notizie dei ‘duchi e conti’ lasciati a dirigere le nostre città.

Da questa conquista, Genova ne acquisì insperato vantaggio: divenne terra di rifugio (i vescovi milanesi per primi) e nel contempo – frenati i traffici terrestri per tutte queste invasioni – aumentarono i traffici marittimi

Anche se l’organizzazione politica fu stravolta, altrettanto lo fu quella sociale.

Il capo era ‘il re’, ma senza corona e con una corte rappresentata solo dai più fidi guerrieri, tra i quali aveva un discreto potere il ‘gran porcajolo’ essendo quello l’animale base della loro alimentazione. In ogni grande città conquistata, lasciava un reggente col titolo di ‘duca’; se la città era piccola era o ‘conte’ o ‘podestà’: titoli senza il valore odierno perché ogni Longobardo si riteneva uomo libero, padrone, ed alla pari degli altri –mentre tutti i vinti erano schiavi e servi –e quindi mai ‘liberi’. Il colpevole di un delitto, pagava in soldi; se non li aveva veniva declassato a schiavo; altrettanto una longobarda se sposava un italiano. In genere avevano la barba lunga –da ciò il termine ‘barbari’-; l’ignoranza era totale quindi anche le leggi –dette ‘leges asinorum’- erano a discrezione; per nulla interessati a mantenere le strade libere, il commercio attivo, ponti e  palazzi eretti. Portarono l’usanza del duello e della vita oziosa; da loro ebbe nome la Lombardia).

Dopo questa guerra di invasione, ci fu un lungo periodo di transizione e di tregua seppur tutto rimanesse malsicuro ed incerto; il passaggio dai bizantini ai longobardi concomitò con un pesante calo demografico e non comportò stravolgente immigrazione e quindi cambiamento di costumi né mutamento di religione (se non una definitiva conversione del popolo al Cattolicesimo e conferma  del potere vescovile, in particolare il vescovo s. Giovanni Bono milanese e Giovanni I, il primo genovese, succeduto da Viatore sotto cui sarebbe avvenuto la traslazione di sant’Agostino)  né arresto del già naturale -per i Liguri- allargamento dei traffici via mare.

I barbari conquistarono militarmente buona parte d’Italia, ma a loro volta furono conquistati dalla cultura e tradizioni locali: nei secoli, ingentiliti, acculturati e religiosamente sensibilizzati, lasciarono insediamenti oltre Appennino di alta testimonianza artistica –specie architettonica e religiosa- essendo significativo l’appoggio dato dagli ultimi re ai grandi centri monastici ed ai loro vasti possedimenti. Questi poi trovarono straordinaria diffusione proprio per direttive regie,  quasi una ‘missione religiosa regia’.

 

Di più quindi, quando nel 712 gli succedette ed assunse il comando Liutprando (vedi sotto) il quale portò la potenza dei Longobardi al massimo livello.  Infatti, ad un certo punto della loro storia, i Longobardi si erano convertiti al cristianesimo, ma conservarono la loro grettezza, quindi tipica di quei tempi definiti ‘bui’: superstizioni profonde (streghe, vipere, amuleti, ecc.) e bisogno ossessivo di essere assistiti spiritualmente (per il quale furono loro ad iniziare l’uso della acquasantiere nelle chiese, per poter avere acqua benedetta a breve portata di mano; essere circondati da monaci e preti e favorirne la loro espansione e  benessere).

Quest’ultimo concetto è fondamentale per iniziare da allora la storia del nostro borgo e della nostra chiesa di s. Agostino. Anche in Liguria iniziarono ad erigersi numerose grandi fondazioni monastiche ed ospedali, in primis quella di Bobbio che a sua volta si diffuse ampiamente con ‘dipendenze’ per tutto l’Appennino alle spalle del genovesato.

Nel 725, l’episodio di Liutprando  e delle spoglie di s. Agostino. La prof. Praga, propone l’idea di posticipare, e che la dedica a Pietro sia avvenuta a fine millennio conseguente alla dipendenza dell’omonima basilica di Pavia. Non può essere: ha più logico che i monaci pavesi –come hanno fatto poi - a fine millennio avrebbero direttamente dato il nome di loro interesse a quella data: s. Agostino, e non Pietro. Quindi è più logico che il nome sia da riferirsi a prima di allora – e quindi perché non prima del 725 - quando s. Pietro in Ciel d’Oro era ancora in erezione e le spoglie del santo non erano ancora arrivate (ed allora, di conseguenza, si conferma anche la storia di Liutprando)?

Dopo appena 100 anni, anche questa stirpe si esaurì: si arrivò che Rachis che nel 744, dopo Ildebrando, fu duca del Friuli e poi re dei  Longobardi, convinto da papa Zaccaria, nel 749 abbandonò il trono a favore del fratellastro Astolfo; e si fece monaco fino alla morte nel 757 ca. (e fece prendere l'abito monastico (a Montecassino) a moglie e figli); (dovette ritornare in carica per la morte prematura di Astolfo, ma lasciò definitivamente l’impegno a Desiderio; questi fu ultimo re Longobardo: fu vinto da Carlo Magno e condotto prigioniero in Francia).

 

   in celeste, il territorio longobardo sotto Liutprando; in arancio il territorio della Chiesa e residuo dei Bizantini

 

    Se sotto i Longobardi i centri commerciali erano a Pavia (capitale, con popolazione prevalentemente militare), a Milano (centro di mercati), a Ravenna (centro di fattorie, culture di cereali, allevamenti di cavalli e maiali) ed a Venezia (commercio marino e sale), le ricchezze terriere e riserve auree erano concentrate nelle mani dei monaci priori (assai meno, in quelle degli arimanni): i monasteri divennero centri culturali (era lì che si imparava a leggere, scrivere e far da testimoni o da notaio)  economici di potere politico (rapporti col Papa o l’Imperatore), terrieri (donazioni e regalie di enormi appezzamenti, e con essi di boschi, tasse,  e tutte le culture relative).

A sottolineare questo comportamento, è comune conoscenza degli storici il frequente desiderio della nobiltà longobarda, in età matura dopo aver praticato il mestiere del guerriero con tutte le violenze tipiche delle battaglie all’arma bianca, di una vita giudicata ‘migliore’ col cambiamento radicale dell’entrata in un monastero: da soldati a monaci. Quanto meno con favorire l’apertura di monasteri e chiese ed affollarli di monaci che pregassero per lui. E poiché il fenomeno, è ampiamente conosciuto che interessò gli strati sociali più elevati, chiarisce le migliori e più elevate qualità culturali di molti dei frati di allora. In particolare, il lungo regno longobardo rappresenta un periodo splendido anche per lo stato pontificio che, con donazioni di intere città e vaste regioni, iniziò il così detto ‘potere temporale’ o stato pontificio.

 

Liutprando.   - figlio del re Ansprando. Cresciuto in ambente principalmente ariano, non ebbe all’inizio l’appoggio della Chiesa.

Poco si sa di lui come uomo e come famiglia. Paolo Diacono, nobile longobardo convertito e datosi alla vita monastica, scrisse una importante e di pochi anni posteriore Historia Longobardorum: in essa definisce il re ‘ignaro di lettere’ – e quindi analfabeta; ma intelligente per l’essersi saggiamente fatto affiancare da consiglieri ed amministratori di peso e rettitudine.

Come re, di tutti quelli della sua dinastia, egli rappresenta la figura più illustre.

                                             

corona regale ferrea, dei Longobardi                  monete – dette tremisse – di età liutprandea

                                                                            con la figura  dell’arcangelo Gabriele al posto delle                .                                                                            precedenti monete longobarde  con la ‘vittoria’

 

Compose la sua sovranità, dirimendo, naturalmente con metodi drastici tipici di allora, poco democratici ed anzi peggio che dittatoriali, sia problemi interni sociali e burocratico-amministrativi taluni incresciosi come l’adulterio e la bigamia, nonché vari comportamenti asociali - alcuni ridicoli tipo: non opportuno tirare sacchetti contenenti feci a degli sposi; o toccare le terga alle matrone nei bagni pubblici -, nonché – ben più importante - liti di potere, sia tra i nobili che  i vescovi, secondo principi civili di giustizia romana, ma allora assai largamente interpretati e generalmente disattesi; promuovendo leggi capaci di dare una stabilità ed ordine  a tutti gli strati sociali. E sia, arridendo ad un desiderio di un regno vasto ed unito, riunito sotto il dominio longobardo, ebbe ovviamente lunghe e complesse vicende politiche e militari con tutti gli stati confinanti. Principalmente con i Veneziani, e con  le varie città non alleate, soprattutto Roma (papi  Gregorio II e III) che assediò ma non occupò. Questa ultima scelta, sottolinea che era in atto una trasformazione o maturazione, prettamente di natura religiosa.

Infatti, non si sa come, né da chi in particolare, si convertì alla religione romana, divenendone fervente osservante e difensore. Sostenne che ogni sua decisione era dettata dalla volontà di Gesù.

Come di moda allora, il signore obbligò i sudditi ad osservarne le regole ed insegnamenti; volenti o nolenti tutti – dai più alti notabili al popolino – dovettero accettare questo credo (poca fatica, pensiamo noi, a livello di popolo già così indirizzato; sicuramente più ostico  con le classi dirigenti, professanti le idee ariane condannate dalla Chiesa romana a Nicea. Ma, a quei tempi, i dissidenti venivano eliminati senza tanti riguardi).

Lo stesso Paolo Diacono lo definisce «uomo di molta saggezza, accorto nel consiglio, di grande pietà ed amante della pace, fortissimo in guerra, clemente verso i colpevoli, casto, virtuoso, instancabile nel pregare, largo nelle elemosine, alquanto “litterarum quidem ignarus”, degno di essere paragonato ai filosofi, padre della nazione, legislatore». 

Divenuto così fervente religioso cattolico, favorì riforme delle leggi basandole sul diritto romano trascurato dal predecessore Rotari, e mirato - iniziando con l’unificazione religiosa (romani, bizantini, residui i barbari invasori, longobardi; da contrapporre all’invadenza dell’Islam, in quei tempi molto pericoloso vincitore ed invasore) – a proporre regole uguali onde evitare spinte secessionistiche e comunque indebolenti.  E naturalmente così ottenne un appoggio e consenso anche da Roma (ove però il Papa, insicuro e diffidente di questa trasformazione, leggendo dietro essa un prevalente motivo politico di potere imperiale, finì col chiamare in aiuto e sua difesa i Franchi, interrompendo il processo di modernizzazione che, almeno nelle sue fasi iniziali oggi appare più positivo di quanto non giudicarono i Papi allora).

Ultime diatribe con la Chiesa avvennero con la nomina a papa di Zaccaria: Liutprando ne cercò il consenso pontificio nel 743, incontrandolo a Terni e facendo rinuncia al possesso e donando al papa alcune città umbre occupate l’anno prima: Narni, Blera, Orte, Bomarzo e Terni.

La morte del re, avvenuta nell’anno 744 sbloccò spontaneamente questo braccio di ferro, e segnò l’inizio della fine del potere longobardo. Morì lasciando il suo regno al nipote Ildebrando. Fu sepolto a Pavia, dapprima nella basilica di S.Adriano, e poi nel XII secolo, traslato nella basilica di  S.Pietro, da lui fondata.      

Montanelli lo definisce cattolico sincero e saggio legislatore. 

 

 

 

la facciata della basilica a Pavia                                       l’interno                        

 

      

l’arca che contiene le ceneri di s.Agostino         l’arca sotto la cupola rappresentante                  

                                                                            il Ciel d’Oro

 

 

 

                    

 

                

particolari dell’arca di s.Agostino (il Santo che ascolta la predica di s.Ambrogio - e la Speranza)

 

        

tomba di Liutprando alla base della colonna

 

E con i Longobardi già ampiamente dominanti, piace raccontarci la nostra storia relativa a Liutprando, re insediato a Pavia. La storia è mescolanza di dati certi, di congetture logiche, di fantasie; anche Martinoni (scrivendo però degli Imperiale) accetta che “in assenza di notizie più precise bisogna evidentemente restare nel campo delle congetture...”. 

 

 

 Nostro principale e determinante interesse sono, dell’uomo e del re, sia il carattere di base condiscendente, e sia la sua particolare attenzione verso il fervore religioso e missionario, esploso dopo la sua scelta mistica e da lui sostenuto: nella Storia, di lui si scrive poco e, quel poco non mira a tratteggiate le sue caratteristiche militari, quanto invece sono ripetutamente, e con tanti aggettivi, sottolineate le sue qualità religiose favorenti l’insegnamento del culto e l’indottrinamento del popolo. Forse anche bigotto; o, come concepito in tutta Europa a quei tempi vicini al fatidico anno mille, con una abbondante dose di fanatismo; o – come pensavano i papi – furbescamente mirato a suggestionare il popolo legando se stesso e le proprie leggi alla diretta volontà di Dio. Fatto è che sia il re che i ricchi e potenti signori della sua corte e addirittura di tutta Europa, davano alla religione ed al comportamento conseguente, una priorità assoluta e condivisa.

Se non si comprendono queste caratteristiche, diventa difficile accettare la successione degli eventi che accaddero a San Pier d’Arena. Infatti, non solo Liutprando facilitò l’apertura di nuovi monasteri, ed il ripristino di altri -tra cui l’aver fatto risorgere Montecassino- nonché aver fatto costruire l’insigne basilica a Pavia, chiamata S.Pietro in Ciel d’Oro nella quale, per renderla importante - seconda solo a s.Pietro di Roma - fece trasferire le ossa di S. Agostino mandando a ricuperarle a Cagliari (ove le aveva depositate s. Fulgenzio nell’anno 486), dopo aver pagato ai pagani invasori un fortissimo riscatto in oro, pari – si scrive - al peso delle reliquie. DeSimoni ha valutato pari a 60mila scudi d’oro) ma soprattutto a noi interessa la sua propensione a catechizzare nuove genti lasciando e diffondendo allo scopo, nel territorio, i numerosi monaci cresciuti nelle abbazie e resi pronti ad evangelizzare il suo regno.

 

Si scrivono fatti accertati, dicendo che  dal 712 al 744 regnò questo divenuto piissimo re dei longobardi.

Sulla nostra spiaggia, dal giorno sconosciuto delle prime baracche dei primi ‘pionieri’, arriviamo di colpo all’anno 726.

Partendo dal presupposto che  un fondamento iniziale veritiero ci deve essere se non vogliamo concedere che tutto sia nato dalla fantasia di poveri contadini seppur analfabeti e facilmente suggestionabili: la ideazione di tutta una non banale avventura, nella sua apparente semplicità di traslazione di reliquie, in realtà dovette essere assai complessa e multiproblematica, soprattutto considerato i tempi.

 

Però, prima di procedere nella descrizione storica dei fatti – veri o presunti - occorre – oltre quello già descritto sopra - anche considerare la vita e l’ambiente che si erano venuti a creare allora: innanzi tutto, il                       ( 1 ) monachesimo. Sotto i Longobardi, i sovrani e la loro nobiltà diedero pesante appoggio a formare i grandi centri monastici ed ai loro grandi possedimenti terrieri. Per noi,  importante è quello di Bobbio (PC), fondato nel 612 da san Colombano. Liutprando intese, sia dare prestigio a se stesso ed alla sua politica, e sia  riscattare il suo popolo dall’oscurità barbarica, concentrando nella fede –e per essa nel rinnovamento artistico delle chiese e monasteri- i centri educativi di base; allo scopo proseguì  a dare impulso ai centri monastici –ed in loro- alla regola benedettina (Benedetto da Norcia, 480-543; e san Gerolamo per lo sviluppo del monachesimo femminile), modello di armonia tra ascetismo e lavoro pratico.

Come già detto, i nobili longobardi educavano i giovani rampolli all’arte della guerra. Ma dopo battaglie, azioni cruente e sanguinolente durante le quali la vita –propria e degli altri- valeva nulla e facile era rimanere storpi, ad una certa età compariva prevalere il desiderio di una vita mistica e ricerca di pace e perdono. Così avveniva, o il diretto ricovero nei conventi, o favorire il numero dei frati che pregassero per lui. Per questo motivo (e per tutti gli altri motivi immaginabili, dai figli dati alla religione per non spartire gli averi temporali; dai singoli richiamati dall’istruzione, privilegi, personale spiritualità al limite dell’ossessione, nonché dare un senso al digiuno, alla sofferenza, all’impotenza, alla morte, alla povertà, ecc.) i frati, a partire dal V-VI secolo, aumentarono di numero a dismisura, e determinarono un forte movimento:

culturale = l’istruzione era appannaggio del solo ristretto numero delle famiglie aristocratiche o comunque ricche, destinate ad affrontare le necessità amministrative dello Stato. La Chiesa si rende protagonista di un insegnamento –chiamiamolo monastico- che partendo dalla necessaria e basale cultura religiosa (leggere e collezionare in biblioteca la Bibbia, i testi Sacri del Salterio, le Regole –per esempio quelle di san Benedetto da Norcia-), attraverso la riproduzione di codici arriverà (IX secolo) a produrre veri e propri libri (“De doctrina christiana” di sant’Agostino; il “De laudibus sanctæ Crucis” di Rabano Mauro).

spirituale = per le caratteristiche intrinseche del monachesimo e in parallelo per l’alto significato che assume la religione a tutti i livelli della vita pubblica (non solo conventuale quindi). L’evangelizzazione  è una specie di boom o miracolo religioso: il metodo è un originale e fertile motore per diffondere ed allargare la presenza della Chiesa ed il suo ‘sapere’ a livello popolare: ampie terre di convertiti che sentono un messaggio nuovo religioso che si inserisce scardinando il fantasioso credo pagano ma rispettante la cultura latina proveniente da Roma imperiale.

artigianale, essendo -rispetto i soldati e mercanti- maggiori padroni della cultura pratica, i loro spostamenti e missioni determinarono una altrettanto forte circolazione delle idee: agronomi, architetti (appunto in epoca longobarda si mossero i maestri comacini, padroni –per genialità tecnica ed organizzativa nell’ambito della Chiesa - ed anche di maestranze girovaghe al soldo dei potenti capaci di impostare grandi cantieri di costruzioni e decorazione imponendo, con l’XI secolo, lo stile romanico), scalpellini (per portali, capitelli, lastre), scrivani, notai, pittori (i primi affreschi sono longobardi del VII secolo, in val Venosta; con l’XI secolo l’arte sarà indissolubilmente legata alla fede religiosa).

( 2 ) Reliquie In seconda posizione di considerazione base, è la necessità -sentita allora come fondamentale- di possederne per onorare nel modo ideale una casa sacra. Forse meccanismo inventato dalla Chiesa per contrapporlo - e frenarne l’uso - agli amuleti dei pagani e dei fattucchieri. Nel medioevo i tempi erano molto lunghi; rispetto Liutprando, possiamo risalire di trecento anni all’aneddoto storico, protagonista Cacarìco - svevo, re in Spagna – che aveva ereditato da re Rechiaro (cattolico, sovrano dal 448 al 456) una religione ‘di stato’ la quale da cattolica stava decisamente diventando ariana; ritornò convertito alla religione cattolica quando suo figlio –gravemente ammalato- miracolosamente guarì entrando in contatto con reliquie di san Martino  inviategli specificatamente da Tours.

Il tema reliquia, è fondamentale per capire la mentalità e –di conseguenza-

certi enormi investimenti (più eclatanti poi, le Crociate), di iniziative, capitali economici ed opere di ampissimo respiro organizzativo, militare, architettonico e non ultimo artistico ed alla fine culturale. Ed ovviamente, più importante era stato il santo religioso, e maggiori potenzialità acquisiva il tempio. Esempio vicino è Genova stessa, partita alla ricerca delle reliquie di san Nicola e poi grandissimo tributo a quelle trovate al suo posto.

L’idea nasce già dai Vangeli quando è scritto che una misera esclamò “se toccherò il lembo della tua veste, sarò guarita”. La veste, l’ombra stessa di un santo, il corpo: divennero veicoli di grazia e di miracolo. La cosa fu ratificata nel Concilio di Trento che invitò alla venerazione delle reliquie per riceverne benefici da Dio (negato dai protestanti) in quanto partecipazione alla loro santità e grazia. san Basilio confermò l’idea che il Signore si serve del corpo per manifestare la santità raggiunta dall’anima. Anche gli atei cercano nel corpo dei grandi (vedi mausoleo di Lenin) la forza dello spirito. Pertanto, per la reliquia, si accetta che non sia l’oggetto in sé per sé che merita venerazione, ma per la relazione che ebbe con la santità della persona a cui appartenne.

Quindi, per consacrare un altare occorre vi siano reliquie di santi, a ricordo dei primi cristiani che celebrarono le messe nelle catacombe ed a memoria di una offerta a Dio che ha coronato quei martiri. Certamente non sempre è storicamente accertata l’autenticità della reliqia; la tradizione, l’antichità delle certificazioni  regolano  la conservazione; ricordando che non è elemento di fede l’oggetto, ma il significato (vale per la Sindone ed altri oggetti). Le prime reliquie determinanti si ottennero con le Crociate (la prima tra il 1096 e 1099): ricco bottino era trovarne di persone importamnti; seguirono le spogliazioni autorizzate dal papa delle catacombe nel XV e XVI secolo. Naturalmente ci fu chi ne fece commercio al punto di sancirne la scomunica.

( 3 )  Terza considerazione base –di cui ben pochi stranamente fanno cenno o prendono in considerazione- è che tutto il complesso viaggio, da Cagliari a Pavia, non fu lasciato ad improvvisazione, ma –si presume ovvia- fu necessaria una grande organizzazione (la storia normalmente dei numerosi eventi della vita descrive l’azione e l’esito di essa; quasi mai si sofferma sul particolare dell’organizzazione che è pur sempre indispensabile per la riuscita di un evento complesso (per esempio quando Annibale attraversò le alpi, tutti citano l’evento perché straordinario, ma nessuno descrive –perché senza documenti- quanto ci fu alla base organizzativa, sconosciuta ma intuibile solo tramite ragionamento analogico). Questa politica presuppone grossi mezzi (cifre di denaro, oro e preziosi), parecchio tempo, ambasciatori qualificati sia laici che sacerdoti, mezzi navali e terrestri, architetti ed operai per la basilica. Insomma, una grande cooperazione tra militari e religiosi, elmi e mitrie, spade ed incenso, tutti a disposizione per acquistare-ottenere e conservare terreni, reliquie importanti, potere.

   Solo nell’ottica di questi presupposti, possiamo capire il re longobardo che deve aver usato degli emissari plenipotenziari, i quali –a loro volta- debbono aver (1°) acquisito certezza della provenienza dell’ossario e della loro appartenenza al santo, per pagarlo in oro, così come avrà presupposto pure che la Cagliari cattolica si sarebbe ribellata alla vendita effettuata a loro danno; (2°) deve aver previsto pure che sia per mare che per terra, saraceni o predoni vari potevano tentare abbordaggi o un altro furto per ulteriore riscatto (3°) Formentini precisa che il trasporto delle reliquie non avvenne su navi regie, ma su navi private, commissionate da emissari dei re. Quindi le navi liguri, già facenti parte della potente flotta bizantina, e in particolare la marineria privata genovese, furono preferite, godendo di avviate tutele e sufficienti garanzie di esperienza e serietà.

Se il concetto di organizzazione, è chiaro per le trattative e la partenza nonché per l’arrivo ed il deposito a Pavia (ove, con enorme profusione economica nella città lombarda aveva iniziato a far costruire una sontuosa basilica, chiamata “San Pietro in Ciel d’Oro”  mirata a conservare in eterno in una specifica cella -detta “cella d’oro”-  le sante reliquie. La chiesa – rielaborata nel XII secolo in stile romanico - fu  consacrata nel 1132 (dell’originale si conservano solo  il bassorilievo composto di minuti intagli, sopra la porta d’ingresso; alcuni capitelli con raffigurati animali fantastici o mostruosi; ed un frammento di pavimento a mosaico nell’abside della navata destra). Questa fondazione di prestigio, sopra l’altare maggiore ha una arca marmorea contenente le ceneri di sant’Agostino (decorata con statue e bassorilievi; eseguita in stile gotico nel 1362 da scultori lombardi influenzati dall’arte toscana). Nella cripta dietro l’altare, in un  sarcofago sono le spoglie di Severino Boezio, filosofo romano consigliere di Teodorico e da questi fatto uccidere nel 524 sotto accusa di tradimento) dobbiamo  completarlo noi per le fasi intermedie, presupponendo (4°) una  eguale preparazione del luogo di arrivo dal mare e dell’itinerario via terra, visto i grossi pericoli in questo tragitto (predoni, banditi, vettovaglie, ricoveri, trasporto, ecc.) e la necessità di renderlo altrettanto sontuoso ma sicuro.

Al  proposito ed a sottolineare la munificenza elargita nell’operazione (sempre nell’ambito di leggende) nella valle Scrivia si narra che una tappa di sosta nel viaggio fu nei pressi del ponte di Savignone. Si aggiungono qui le righe scritte da Iacopo da Varagine: le reliquie, giunte a Genova, …”pesavano così tanto che in nessun modo i trasportatori riuscivano a sollevarle. Allora il re fece voto al beato Agostino che se avesse concesso che fossero sollevate e trasportate a Pavia avrebbe fatto costruire una chiesa in suo onore in quel posto di Genova dove si era fermato”. Sicuramente è altrettanta leggenda, ma nata per giustificare un fatto reale, ovvero l’erezione di una cappella più ben rifinita, che prese il  nome del santo dottore, ma soprattutto che determinò il fermarvi alcuni monaci: in questo caso partendo da zero; a maggior ragione sulla spiaggia ove già esisteva un tempietto.

   È quindi molto ben supponibile che durante e dopo il viaggio in mare, la teca avesse sufficiente difesa da non necessariamente dover usare il porto (che era ancora limitatissimo) e che sia stata invece direttamente sbarcata sulla spiaggia, non solo più vicina all’itinerario per l’entroterra (la via Postumia, attraverso Pontedecimo-Gavi-Tortona-Voghera-Pavia), ma soprattutto in seno ai suoi soldati accampati (non certo in città causa il numero; come presumibile invece la nobiltà e gli alti prelati) ma sulla spiaggia presso l’insenatura (in latino detta ‘cella’); e che qui abbiano fatto ospitare i sacri  resti nella cappelletta  preesistente riattata all’uopo (viene definita ‘arte cristiana primitiva’, di artigiani ‘a buon mercato’, dedicata a san Pietro, ma potrebbe essere stata anche una tomba di qualche missionario importante. L’iconografia e le dediche a Pietro, si fanno partire ufficialmente e prevalenti nell’ambito di Roma, in atto dal IV secolo).  Può essere altrettanto ovvio  a questo punto, che  nell’ambito delle spese affrontate (riscatto, trasporto, basilica), il re, arrivato e presumibilmente ospitato personalmente a Genova, sulla spiaggia d’arrivo non si accontentasse della misera e spoglia cappelletta trovata sulla riva, e  - nell’attesa delle navi - ordinasse delle maestranze per migliorarla e renderla più degna e decorosa, favorendo nella popolazione residente il concetto che  la cappella sarebbe divenuta un  punto preciso di riferimento per la fede religiosa del luogo.

   Conoscendo i sentimenti del re longobardo, religioso monarca, nel favorire la creazione di punti monastici, non stupisce pensare all’ovvietà che assieme alle dovute milizie avesse portato anche numerosi frati benedettini del monastero pavese di San Pietro, per preparare lo sbarco ed il successivo trasporto attraverso l’Appennino; ed in seguito, fa piacere pensare che, magari anche stimolato dai residenti, avesse ordinato o favorito un insediamento  dei monaci nel borgo, al fine di curare, custodire ed ingrandire il luogo di culto. Si presuppone sempre, ma con una certa ovvietà, che essi, inizialmente in attesa delle navi (la misura del tempo non è paragonabile all’attuale, basato sul ‘reale’; allora, il tempo, era molto lungo –mesi e forse anche anni per far coincidere l’imbarco, lo sbarco, il trasferimento) ma poi anche dovendo sostare qui, scelsero di compiere dei lavori e si siano costruiti una sede a fianco della cappelletta; inizialmente elementare, poi via via sempre più ben strutturata (a quei tempi le chiese monastiche minori, si chiamavano priorati, cioè subordinati alle maggiori e dirigenziali abbazie; e le celle in cui vivevano i singoli frati, possono aver dato - altra ipotesi - il nome alla zona). Da questa possibilità, nasce un’altra interpretazione del nome ‘Cella’: ovvero la nuova costruzione che fu eretta a fianco, vicino alla “Cella di s.Agostino”

  

   Al di là della leggenda, rimangono  le disquisizioni ed ancor oggi non composte diatribe; impossibile per me approfondirle con altre ricerche non possedendo il materiale necessario.  Così, nel passato si è discusso:

===sia sul luogo di sbarco delle sacre reliquie: perché fu scelta la libera spiaggia anziché il più sicuro porto genovese? a)—più  ovvio pensare che sulla spiaggia c’erano accampati i suoi non pochi soldati, frati e seguito minuto. ---b) ricordando come era Genova e soprattutto il suo porto: ancora limitata alla prima cinta, un oppido primitivo posto sul colle di Castello sovrastante la riva ma ancora senza un porto preciso con moli di difesa e di attracco, in quanto anche lui solo un attracco naturale, migliore e più protetto in caso di venti di mare ed acque agitate, ma eguale a quello nostro a mare piatto; c) il nostro lido già fosse attracco frequente di navi, dai tempi fenici, cartaginesi e romani, per trasportare merci nell’entroterra; e che presso la ‘Cella’ ci fosse un approdo ben strutturato ed usato, lo potrebbe testimoniare anche  il fatto che solo dopo qualche secolo, la località divenuta mèta di grossi afflussi di crociati provenienti dal nord Europa,  quando allo scopo fu scelta per costruirvi un’altra chiesa nell’attuale piazza del Monastero con funzioni di assistenza per il loro imbarco ma –interessa il nostro discorso- anche per il ritorno; altrimenti bastava quella già esistente di san Giovanni di Pré.    d) --come già fosse in linea con la via interna per l’Appennino, risalendo sino a Belvedere e procedere via Garbo;  e)--come non sempre il porto di Genova determinasse una scelta obbligata: si ricorda solo che anche i profughi tarragonesi guidati dal loro vescovo Prospero, nel 713 dC, preferirono la baia vicino a Portofino per traslarvi le reliquie di san Fruttuoso; ivi eressero il primo cenobio di Capodimonte, che poi tanta importanza ebbe nella storia del genovesato.

===sia quale chiesa fu scelta per depositare le spoglie del santo Agostino, prima di proseguire per Pavia, tramite Tortona: -il palazzo vescovile (allora era  vescovo Viatore, sesto in successione essendo stato eletto in carica nel 732; presso di lui fu ospitato re Liutprando, prima che proseguisse per Pavia. Se lo scopo del re era ricuperare le Reliquie, nell’attesa mi par ovvio abbia cercato contatti con l’autorità religiosa locale e che lui personalmente fosse ospitato lì); -o chiese genovesi (ovviamente anche loro senza prove dimostrabili. Nel ‘castrum’ o in Sarzano: si attribuirono questo privilegio la chiesa di san Tomaso oggi distrutta; di san Teodoro; e di san Silvestro -al Molo-, distrutta nei bombardamenti del 1940-44. Tutte erette dopo l’anno 1000.

 Unica rimane la nostra che visibilmente possiede l’età, lo stile architettonico ed il nome storico anche se le vestigia di quell’epoca sono minute rispetto quelle del 1200. Se anche le spoglie dalla nave fossero state sbarcate nel –chiamiamolo porto- di Genova, non è escluso che una seconda tappa via mare li portasse a S.P.d’Arena risparmiando 4-5 km di strada disagevole. 

===sia sulla data dell’avvenimento:

--viene generalmente accettata la data del 725, non essendoci univocità

--Beda, “il venerabile” (674-735) storico e scrittore della Chronaca ‘De sex aetatibus mundi’ (la fonte storica più antica), quando scrisse sui fatti di Liutprando dona certezza sulla traslazione, ma non descrive le fasi intermedie: non cita Genova ma allude alla commissione data dal re ai naviganti solo per il tratto via mare, sottintendendo che quindi il re accompagnò le spoglie solo nel tratto via terra, dalla costa a Pavia.  Secondo lui il fatto avvenne nell’anno nono di Leone III detto l’isaurico (imperatore bizantino del 680-741 che iniziò una dinastia nell’Isauria, antica regione montana dell’Asia Minore di fronte a Cipro; la sua popolazione, bellicosa e piratesca, nell’anno 474 era riuscita ad ottenere –in epoca bizantina- il titolo imperiale e conservarlo  finché Leone ne iniziò una dinastia familiare per 5 generazioni successive).

--nel XIII secolo Iacopo da Varagine, arcivescovo della diocesi (SPd’A era quindi sotto il suo controllo giurisdizionale), cronista agiografico (quindi studioso dei suoi tempi e tradizioni),  riferisce esservi già allora varie e contrastanti versioni, sia circa l’avvenimento, che il sito effettivo; e -seppur nel tempo l’arcivescovo fosse il più vicino ai fatti- rinuncia a chiarire e non riesce ad appurare il luogo di sbarco durante la traslazione delle spoglie di sant’Agostino; e che nel citare le chiese che si contendevano l’onore dell’accoglienza, non citi la nostra (questo appare oggi il fatto più ovvio: per lui storiografo e quindi ricercatore delle origini e storicità della città, come poteva non sapere di un fatto così importante riguardante una chiesa della sua diocesi?, come se neanche potesse essere presa in considerazione? È, che le spoglie non si trattennero in nessuna chiesa consacrata ed intesa tale -essendo la cappelletta non classificabile chiesa- e quindi nella storia dalla spiaggia viaggiarono direttamente verso l’interno) esplica che nessuna notizia gli era pervenuta neanche sotto forma di racconto (questo sottolinea la difficoltà di arrivare oggi ad una unicità di pareri). È ovvio quindi che non avendo trovato traccia alcuna sui fatti avvenuti, abbia soffermato di più l’attenzione  sull’anno in cui avvennero: arrivò alla  propensione che il corpo del Santo fu trasportato quando era vescovo Viatore, e quindi nell’anno 732 (e quindi era papa Gregorio III). Cervini prospetta di conseguenza, che la tradizione sampierdarenese sia nata dopo gli scritti del monaco varazzino; aggiunge che le reliquie provenivano dall’Africa via Sardegna, e non da Cagliari; e ripropone la leggenda che  le reliquie ‘siccome non volevano saperne di muoversi, il re longobardo Liutprando promise che avrebbe fondato sul posto una chiesa dedicata al vescovo di Ippona, e i sacri resti ripartirono felicemente’.

--Lo storico Sigiberto, lo pone come avvenuto nell’anno 721 (quindi con papa Gregorio II)

 

===I documenti scritti, relativi a quanto detto, sono di certezza

---nella Chronaca del monaco Beda

---in   una “lezione” del Breviario Romano, relativa al giorno dedicato alla commemorazione  della traslazione del corpo di S. Agostino, in cui si precisa che le spoglie furono depositate in “ecclesia Santi Petri De Arena”.

---in Paolo Diacono (720-799) il cui  vero nome fu p.Varnefrido, era nato nel 720 a Cividale del Friuli ; fu storico educato a Pavia e insegnante alla scuola palatina di Carlo Magno nel 782-6; monaco benedettino, si ritirò a Montecassino scrivendo la Historia romana ed una H.Longobardorum la quale ultima è la prima ma completa e profonda analisi della storia e civiltà di quel popolo.

---studiosi recenti come Agostino Schiaffino (carmelitano che lasciò scritti sulla storia di Genova e delle chiese locali) e Federico Federici che danno per certezza lo sbarco in San Pier d’Arena

==documenti invece riconosciuti falsi o apocrifi:

---un atto di donazione di Liutprando che riconoscerebbe il nostro sant’Agostino della Cella come la chiesa costruita per volere del re, e pubblicata nel Codex Diplomaticus Longobardiae. A parte il fatto che non esiste più,  da alcuni studiosi è stato catalogato tra i documenti dichiarati apocrifi, di dopo il XII secolo. Di Fabio segnala la scoperta di un altro documento datato 713 attribuito a Liutprando, ma anch’esso riscontrato falso.

---tre atti e diplomi di Ottone I: precisamente è dell’anno 962 una delle tre ’redazioni’ di atti dello stesso, ritenuta –forse- attendibile: vi è scritto il nuovo nome “ecclesiam unam in honore sancti Augustini iuxta civitatem Januam”.

Di Fabio scrive che tutti sono apocrifi, riferibili al secondo quarto del XII secolo. Unica nostra obiezione a questo giudizio, è: solo a partire da questi secoli avvenne la necessità di  fissare tutto nero su bianco e davanti ad un notaio, anche quanto sino a pochi anni prima bastava la parola insindacabile del ‘signore’ o più altolocato di turno; pertanto la necessità di fissare per iscritto anche quello patteggiato o stabilito secoli prima (evidentemente un po’ alla volta si accorsero che “verba volant” e che solo “scripta manent”).

---una ratifica di Ottone III (Ottone III= 980-1002, detto ‘Mirabilia Mundi’, eletto imperatore del sacro romano impero nel 996): altro documento, datato anno 996-8. Attesta che  fu fatta la donazione di una cappella al monastero pavese: mentre è riconosciuta autentica, Di Fabio precisa che però vi vengono citati solo possessi del monastero pavese in Tuscia, e non di SPd’A.

---Enrico III (nel 1041) non avrebbe fatto altro che dare conferma di queste concessioni.

 

Come in tutto il mondo conosciuto, l’arrivo dei monaci, determinò certamente una netta svolta sociale con incremento culturale, strutturale e di più coerente sfruttamento ambientale: essi si adoperarono per  portare la fede, ma anche  per allargare le vedute in genere da una critica limitatamente locale ad una più vasta (migliorare la struttura edilizia dando esempio con un vero e proprio monastero nonché risanando e ristrutturando la chiesuola, coinvolgendo la gente negli scambi commerciali con le località limitrofe, insegnare una coltivazione più organizzata (è noto come a quei tempi fosse ancora inadeguato l’uso dei mezzi agricoli meccanici -sia l’aratro che il molino-), dei concimi (visto che la terra già era avara e limitata al proprio sostentamento e quindi inadatta a grandi coltivazioni), dell’incrementare la pastorizia, diffondere la cultura di aggregazione attorno alla loro casa con fulcro nella casa del Signore,  in un modo di vivere un po' più civile ed organizzato, specie atto a difendersi dalle iniziate incursioni delle fazioni in belligeranza, dei mussulmani o comunque dei pirati.

   L’antica cappella dedicata a san Pietro potrebbe essere stata quindi affidata da Liutprando ai monaci di sant’Agostino; e -di tutte le chiese liguri- è la sola che accerti connessioni pratiche con l’espansione del monachesimo longobardo. O.Garbarino propone una diversa definizione storico-artistica a migliore collocazione cronologica: definisce la nostra cappella appartenere al ‘periodo di formazione dell’architettura medioevale ‘commacina’ avendo uno stile  -caratteristico dei pochi monumenti i più arcaici- antecedente l’VIII secolo (corrispondente al ‘primo lombardo’ classico; nome derivato da ‘i maestri commacini’ citati nell’editto di Rotari dell’anno 643, attivi in quella porzione di regno longobardo corrispondente alla Lombardia e Piemonte lungo le direttrici verso il mare ed il regno franco. Caratteristiche sono l’essere piccole basiliche ad aula unica con abside semicircolare, ed avere le finestre limitate ad anguste feritoie, ed i muri esterni arredati da archetti ciechi –singoli o accoppiati-).

 

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Immersi in questa nebbia storica, si arriva all’anno 1000, e con esso al “basso medioevo” =

L’inizio con l’anno 1000 è convenzionale. Ma per Genova esiste un evento che fa decisamente da forbice: un fine-chiudi-inizia significativo: nel 935 avvenne il saccheggio di Genova da parte dei Saraceni e l’azzeramento di tutte le iniziative,  dei commerci, della popolazione, degli edifici, dell’ordinamento sociale.

E dopo ciò, la ricostruzione; iniziare partendo praticamente da zero.

Per San Pier d’Arena, due le deduzioni: o non invaso – perché povero,  o anche perché allora separato nettamente dalla città da san Benigno; o anch’esso fu saccheggiato essendo troppo vicino a Genova, ma al contrario allora, perché già da allora presentava possibilità di preda e quindi di una certa agiatezza.

Probabilmente questo abitato non fu devastato; così che - al rientro dei fuggitivi dai monti - è possibile che molti abbiano preferito fermarsi fuori dal grosso pericolo del ricco centro portuale, dedicandosi così a colonizzare le falde che scendono dai colli. E la vita locale assunse consistenza. Generalmente, come in tutta la penisola, inizia a formarsi una identità religiosa molto forte: i mori (così erano chiamati) erano diventati troppo potenti, sul mare, in Spagna, nel MedioOriente: con la paura, iniziava a serpeggiare un desiderio di riscatto e liberazione.

   Come in tutti i paesi della riviera, da un primo nucleo di riferimento negli anni attorno al 1000 dC doveva già essersi formato un discreto aggruppamento di case: da quello nucleo  iniziale alla Coscia, a quello del Canto, reciprocamente epicentri del futuro borgo di San Pier d’Arena.

Ambedue le località favorite da una insenatura munita di roccia aggettante a fare da bacino.

In particolare, alla Cella c’era un micro promontorio di roccia affiorante, in corrispondenza della foce del torrente rio Belvedere (dal colle omonimo)- il quale in modo naturale  facilitava l’attracco, e relativo carico e scarico delle imbarcazioni che solcavano il mare, e che costituivano il più usato mezzo di collegamento col mondo attorno (in latino, una insenatura della spiaggia, si chiama “cella maris“: da qui una delle ipotesi dell’origine del nome del luogo e del monastero).

 

1A=====Il TEMPIO DI SANT’AGOSTINO

Dall’essere dedicato a san Pietro, cambia con Sant’Agostino.

   Quello che mi sembra ovvio accettare, che la chiesetta di oggi non è quella iniziale; riconoscendo che -negli anni- i solerti frati abbiano successivamente portato a rifacimento (per esempio dopo distruzione saracena del 935), migliorie, diversificazioni, ampliamenti e spostamenti, affiancamenti ed abbattimenti. Penso faccia parte di tutti i fabbricati vissuti e quotidianamente usati, da conservare nell’insieme ma da migliorare secondo le necessità del momento. E quindi, quello che oggi residua, che sia dell’VIII secolo o del XIII, ha poca importanza perché è il nucleo ed il significato dell’esserci,  che importa e che dà valore di antico ed originario.

Furono certamente i frati, che nel tempo favorirono il passaggio della dedica della cappella, da san Pietro a sant’Agostino (come han fatto i Salesiani, da san Giovanni e da san Gaetano, a don Bosco), avendo inizialmente chiamato la chiesetta “cella di sant’Agostino” (che determinò il nome popolare comune, “della Cella”). Saranno poi i Doria nella prima decade del 1200 a dedicarla alla Madonna, e con essa divenire “Santa Maria della Cella”.

L’ordine agostiniano non fu fondato direttamente ed istituzionalmente da sant’Agostino (354-430) che probabilmente  stabilì solo alcune regole basali per i suoi seguaci che desideravano solo vivere cenobiticamente (servizio parrocchiale, spartizione e comunità dei beni-cibo-lavoro, vita pastorale ed agreste, preghiera e meditazione. ‘kanòn in greco significa regola; da essa si chiamarono ‘canonici’ i monaci che scelsero di vivere secondo una regola, e di conseguenza ‘canonica’ la loro residenza. Nel tempo, ed a seconda dei temperamenti, si formarono quindi innumerevoli regole, da più severe e rigorose a più blande e permissive, e nell’ignoranza generale, gran confusione con concessioni al vitto, vestiario, concubinato, fino a deviazioni verso le pene corporali, la simonia, le nomine ed investiture locali. Il clero in genere era scaduto moralmente e di immagine collettiva, risultando troppo spesso inadeguato, pastoralmente inetto, culturalmente impreparato). Finché  dopo la dieta di Aquisgrana (816) Alamario di Metz elaborò una norma comune per tutti coloro che volevano vivere monasticamente, e  papa Alessandro IV  con una bolla riunì le diverse e sparse congregazioni di eremiti  dando loro le regole di sant’Agostino. 

   Il nuovo cammino non fu immediato e lineare ed alla Chiesa occorsero numerosi sinodi per regolarizzare il comportamento, specie tra i monaci ‘attivi’ che privilegiavano la vita parrocchiale e quelli ‘contemplativi’ che preferivano la scrupolosa osservanza della vita monastica il più possibile senza contatti col mondo esterno al convento, in una ideale spiritualità di solitudine ed organizzandosi in modo autonomo producendo tutto il singolo necessario (policoltura); il medioevo diviene il mondo del ferro (per le armi e gli attrezzi) ma soprattutto del legno (che diviene un bene prezioso quanto l’oro e  simbolo di ricchezza terriera più dell’orto coltivato –specie possedere fusti di grosse dimensioni).  Furono questi ultimi che nei secoli diedero vita ai ‘canonici regolari di sant’Agostino’ che rispolverando le regole iniziali del santo, accettarono -con liberatoria papale- nuove regole di adattamento ai tempi. Le case vennero chiamate Abbazie o Pievi ed il monaco direttore Priore. Tra le tante congregazioni riconosciute: Benedettini cassiensi e bobbiesi, Camaldolesi, Vallombrosani (S.B.d.Fossato e Promontorio), Cistercensi, Carmelitani, Domenicani.          .  Un certo Adamo dei marchesi del Bosco, a Mortara sulla strada verso Vercelli, scelse gli Agostiniani e munificamente mise a disposizione i terreni, eresse la chiesa ed aprì un monastero, ridando forza ai concetti di povertà, castità, distacco dai beni terreni ed onorificenze: il numero degli adepti crebbe a tal misura che si poté iniziare ad inviarli –spesso su richiesta- in missioni lontane.  E così  un abate e 12 monaci –come gli apostoli-  abbandonavano la casa madre e vennero ‘trasferiti’ in nuova sede: eccoli a Genova dagli anni vicino al 1100 (nel 1097 Genova ebbe arcivescovo il mortariense Airaldo Guanaco, già priore in Fassolo nella chiesa di san Teodoro; e numerose chiese di tutto il territorio furono rette dalla congregazione: in San Pier d’Arena sul finire di quel secolo, la chiesa di san Giovanni di Borbonoso –vedi-).

Nel 1442   circa, dopo anni di intensa e fattiva laboriosità,  la congregazione di Mortara si trova assottigliata nel numero di vocazioni. Solo nel 1448 a Tortona avverrà un capitolo generale, ed i Mortariensi, ridotti numericamente ed in via di disgregazione furono inglobati e fusi con i ‘cugini’ Canonici Regolari Lateranensi del SS.Salvatore, arrivando, nel 1473 alla formazione di una congregazione locale per opera di GB Poggi; presero possesso anche di san Teodoro trasmettendo nuova linfa anche ai centri femminili (canonichesse lateranensi). Anche loro però ben presto si trovarono in difficoltà numerica per diminuite vocazioni, e dovettero abbandonare le chiese o officiarvi solo periodicamente

I primi documenti accessibili, risalenti agli anni attorno al 1100, dimostrano una già ottima organizzazione del borgo, con dei consoli a dirigerlo, e servizi di guardia per difenderlo, il tutto dietro la reggenza della famiglia Doria, i quali da anni si concedevano proprietà dei luoghi e che per molti anni a posteriori, avranno  custodia e cura del tempio, classificato monastero medievale maschile caratterizzato da vita sia attiva che contemplativa, e che nel genovesato appare come il 32° costruito in ordine cronologico di fondazione.

   Tutto, ma soprattutto la mancanza di un qualsiasi documento dimostrativo, tende ad annullare qualsiasi riferimento storico tra la cappella di san Pietro anteriore all’anno 1000 e quella di sant’Agostino  le cui vestigia più antiche riscontrabili, risalgono all’XI-XII secolo (anch’essi discutibili, ma a questo punto più poco ci interessa, cento anni più, cento meno, perché aggravate da alcuni ma sostanziali interventi nei secoli dopo)

Rimane comunque che, tra le chiese minori del primo medioevo,  è questa la più remota; e della sua antichità  fan testo non solo le poche notizie trascritte, ma soprattutto i caratteri architettonici primitivi, di estrema povertà della muratura: un vano rettangolare, con abside a levante; all’occhio dell’esperto, è facile notare  confrontandola con le altre cappelle  liguri che -seppur conservato il sistema costruttivo “medievale”-quanto questo sia   più  rozzo e grossolano, non in pietra di Promontorio come tutte le altre (quindi prima dell’apertura delle cave, essendo stato più facile da raggiungerle), e quindi anteriore alle altre.

Come detto, ovviamente, nel tempo successivo, alla cappella dedicata a san Pietro (o migliorandola come edificio oppure affiancandovi quella attuale più grande: si può supporre dalla ancor ora presenza del marmo inciso, formante l’architrave di una porta murata, quale possibile accesso ad un locale affiancato), nel XIII secolo i monaci adottarono il loro protettore (come, più recentemente il salesiano don Bosco  ha ‘scalzato’ sia il primitivo san Giovanni Battista Decollato che san Gaetano), e ciò appare evidente dopo soli due secoli. Anche qui come sopra, le fonti appaiono di difficile valutazione storicamente veritiera, essendo come già detto la documentazione della abbazia pavese ricca di manomissioni, avendo la possibilità di far scrivere a posteriori dai propri frati fatti ed atti predatati, falsificando così a proprio tornaconto la verità, con lo scopo di avere documenti scritti utili a confermare possedimenti, proprietà e diritti. Il fatto però che –anche seppur tardivamente ed a posteriori- da Pavia si tentò di accorpare il possesso della Cella, esprime che una ben solida relazione ci era stata tra il monastero pavese ed il nostro; e che se non era stata ratificata al momento della nascita, si sentirono nella -onesta o disonesta?: la definirei disinvolta- necessità di ratificarlo dopo, quando le contingenze richiesero una dimostrazione scritta. Gli storici dovranno precisarci se questo comportamento è limitato ai documenti dell’abbazia pavese o se era divenuta usanza generale del tempo considerato a cavallo tra il documento non scritto, con quello notarile scritto e depositato.

--In due diplomi di Corrado II il Salico (già re d’Italia e poi incoronato imperatore a Roma da papa Giovanni XIX), elaborati dallo scriptorium del monastero pavese, datati 1027 e 1033 -quindi nel primo quarto del secolo XI-,  si parla di una chiesa dedicata a sant’Agostino: “Ecclesiam quae in honorem sancti Augustini non longe a Januensi civitate constructa est ad ipso Liutprando praedicti coenobi fundatore”.  Da essi si dedurrebbe che la nostra cappella era da molto tempo alle antiche dipendenze dell’abbazia pavese; e  che –con questo scritto - fosse in atto una donazione o sottomissione al monastero pavese. Ma è stato dimostrato che questi diplomi sono un falso perché scritti molto dopo, riferibili al secondo quarto del XII secolo. L’opuscololo della chiesa (Tosini?) dà per ‘certamente autentico’.

Sino all’anno mille circa, non era necessario avere documenti scritti attestanti le proprietà dei terreni, perché esse erano di pochi e vastissime, con limiti aleatori. Dopo allora, sia perché spesso sorgevano liti di proprietà (derivando da esse tributi   e onori), sia perché aumentava di numero chi poteva vantare spazi di proprietà (tutto l’apparato ecclesiastico più tutti i vari signori e signorotti, più i vari paesi e città, in genere a proprio arbitrio) divenne opportuno avere carta scritta. Così si iniziò a valorizzare scrivani e notai, con i quali si poterono determinare migliori e definitive delimitazioni dei propri possedimenti mettendo tutto per scritto. Da qui, se una terra o immobile era in possesso da molte generazioni, divenne necessario falsificare la data (chi avrebbe potuto contestare la parola di un nobile? forse neanche il notaio) quale scappatoia per attestarne il possesso in arretrato. Ma costituendo un falso, oggi sono spesso contestabili perché contenenti errori di date, di sigilli, di eventi concomitanti, di qualità della carta o inchiostro. Si possono porre però alcune obbiezioni. Anche se apocrifi  -perché non contemporanei- epperò sempre i più vicini ad affermare che –nel nostro caso- una cappella esisteva e non era collocata nella città di Genova (allora ancora delimitata dalla prima cinta di mura), ma in un più distaccato e lontano agglomerato di case, che però doveva avere già una discreta consistenza numerica da determinare degli interessi tali da costruire un falso di proprietà. Altra, è che se i documenti sono fasulli perché posticipati, non lo sono nel determinare falso anche quello che è scritto. E, se mirati a salvaguardare delle proprietà mentendo anche su esse, avrebbero avuto convenienza essere più e meglio precisi dove erano queste dipendenze, e quindi  non usare vaghi riferimenti tipo  ‘iuxta’ o ‘non longe’. Altra ancora è che nessuno ha contestato ufficialmente questi diritti.

 

1B=====il TEMPIO di SANT’ AGOSTINO

(dal 1000 al 1400 circa)

Nei secoli bui del medioevo, giorno per giorno le cose trovarono una dimensione sempre più ben definibile, che va dall’acquisto di territori locali da parte dei Doria e loro protettorato della chiesa, ad una migliore strutturazione dell’edificio e del tempietto ove nel 1206 furono apportate migliorie,  e nel 1292 gli affreschi raccontati sotto. Si sa infatti che le pareti furono affrescate secondo i modi di un pittore sconosciuto e chiamato quindi ‘maestro della Cella’ che già lavorava a Fassolo nella residenza dei Doria (leggi sotto).

 

Nella chiesuola, c’è una porta laterale -attualmente murata-, e sull’architrave marmorea è scritto il ricordo di una ‘riedificazione’ con la frase risalente al 1446: evidentemente un ramo dei Doria gestiva contemporaneamente sia la chiesa grande che la chiesuola.

Tosini individua un parte di questa famiglia che ha avuto particolari legami con questo più antico tempio,  tanto da essere da lui  distinti nel “ramo della chiese tta di s.Agostino (già di s.Pietro, detta ‘La Cella’)”:

 

            Lamba Doria_( vincitore di Curzola, 1298

           |                   |              

Andreolo              Opicino____________________

                             |                     |                           |

                      Brancaleone     Francesco           Bartolomeo (1)

                                                                                    |

                                                                             Giovanni (2)

                                                                                |

                                                                         D. Bartolomeo (3)

                                                                                                   |  |  |  |  |             |

                                                                                                                       Giovanni (4)

                                                                                             |    | | | | | | | | |

                                                                                          Nicola (5)

 

Questi ultimi  vissuto negli anni a cavallo tra 1300-1400, sono  i citati nell’iscrizione posta sull’architrave marmorea posizionata sopra una porta ora murata nella chiesuola. «IHS  ista capela Sancti Augustini est nobilium domini Joannis de Auria quondam domini Bartholomei et domini Bartholomei eius filij et eredum suorum redificata MCCCCXXXXVI die XXV martij».

 

Nell’incisione si comprendono tre generazioni:

1 - Bartolomeo Doria q Opicino;  vissuto alla fine del 1300; andò sposo a Clemenza Spinola qLuchesio, ebbero 2 figli: Eliana e Giovanni

2 - suo figlio Giovanni qBartolomeo; vissuto nella prima metà del 1400, andò sposo dapprima a Luigia Doria q.Giovanni e, in seconde nozze a Violante Grimaldi q.Niccolò. Con la prima moglie ebbe un figlio, terzo citato sull’iscrizione. Vedilo ancora all’anno 1425.

3 -DomenicoBartolomeo.  Andato sposo ad Isolta Negroni q.Bartolommeo, ebbero 6 figli Brigida, Niccolò, Giovanni (4), Agostino (che fu padre di GioBatta nato 1470, doge nel 1537), Peretta, Giacomo (a sua volta padre di altri due dogi Niccolò –nato 1525, doge 1579- ed Agostino nato 1540, doge 1601).  

4 – Giovanni  q Dom.Bartolomeo, vissuto nel 1466 c.a, sposò Luigia Doria q.Lazzaro ed ebbero10 figli tra i quali Nicola (5)  (Battilana scrive Niccolò)

5 – Nicola q.Giovanni.      Tosini ricorda che nel 1484 era Capitano a Roma al servizio di papa InnocenzoVIII; la sua capacità militare fu utile maestra ai giovani Filippo ed Andrea Doria, suoi allievi nella pratica delle armi. Da Niccolosia Fieschi ebbe sette figli tra i quali  Giacoba (6) e Domenico (7)

6 – Giacoba q.Nicola , vivente nel 1541,  viene citata nella lapide posta nel corridoio verso la Sacrestia. «Giacobineta comitissa uxor q.Filippi»: infatti era vedova di Filippo Doria q.Francesco il quale aveva ricevuto il titolo di conte di Sassocorvaro  (dai DellaRovere di Urbino) e di Castellamare (da Carlo V) con rendita annua di 3mila ducati d’oro; al comando della flotta genovese per conto di Andrea Doria –ancora al servizio di Francesco I- aveva vinto la battaglia di Capo d’Orso nel golfo di Salerno sbaragliando la flotta spagnola. Con Andrea ci fu una stretta collaborazione sino alla morte prematura avvenuta a metà gennaio 1531. Allora Giacoba fece testamento ed elesse due fidei commissari ai quali chiese espressamente che ponessero inciso su marmo le sue voilontà, e fossero poste nel coro della chiesa.

7 – Domenico q.Nicola. Fu commissario nella guerra di rappresaglia contro i Fieschi, arroccati nel castello di Montoggio. Sposò Maria Doria q.Francesco sorella di Giannettino dalla quale ebbe 11 figli, tra i quali: Niccolò (fondò a Genova il convento caremelitano di s.Anna), Camilla (sposò nel 1576 Giulio Pallavicino di Agostino autore del manoscritto “inventione di scriver...”, GioBatta (che sposò la figlia a Cesare Pavese nel 1594 –vedi via Daste-).   La sua tomba era nella chiesetta di s.Agostino e la lapide datata 1568 diceva «Dominicus DeAuria q.Domini Nicolai fecit hoc sepulcrum anno mdlxviii».

Tutto sino al progressivo ampliamento della chiesa, sempre sotto il giuspatronato dei Doria, e  la  contemporanea perdita funzionale del tempietto, al punto che lentamente passò nell’oblio.

 

1C======il TEMPIO di SAN AGOSTINO 

Infatti nella carta del Vinzoni del 1757, non è segnato: a nord della chiesa c’è il quadrato del chiostro e tre appezzamenti come ad orto; a levante ci sono i disegni di costruzioni ma non riportanti le misure della chiesuola.

Il 28 feb.1880, il giornale “Gazzetta di Sampierdarena” informa che l’ing. prof.  Ratto, avuto l’incarico di riformare e rendere simmetriche due cappelle laterali dell’altare maggiore della chiesa di S.M. Della Cella, nonché di trovare quanto dimostrabile della originaria chiesuola di san Pietro, accertò che - contro una tradizione tramandata sino ad allora che la voleva collocata in testa alle navate principali - nessuna di esse era per manufatto della data del 700 dC e che quindi, secondo lui,  non poteva essere lì che si fossero ospitate le spoglie del ‘santo Dottore Agostino’.

Però rinvenne - e lo storico don Luigi Tiscornia sottolineò in una richiesta di salvaguardia al Comune della città di San Pier d’Arena (il quale in data 16 febbraio 1881 girò l’invito al presidente dell’Accademia Ligustica affinché assieme ad altri esperti lo visitasse) un fabbricato ecclesiale primitivo e le sue pitture, che fu riportato alla luce e la cui struttura muraria poteva corrispondere alla data del re Liutprando (una “modesta chiesuola di pianta quadrilunga ad una sola navata con abside semicircolare avente la forma basilicale primitiva, lunga appena dieci metri, larga cinque…”), posta in corrispondenza dell’antico oratorio nei sotterranei del chiostro, un metro abbondante “sotto il livello stradale, rinchiuso da magazzini di bottai, conseguentemente in deplorevolissimo stato, corroso dall’umidità” ed  ignorato per secoli  (difficile che sia stata costruita sottolivellata: vien dunque da pensare che il terreno  sia stato alzato tutt’attorno nei periodi delle ristrutturazioni. Nel 1965, all’arrivo di don Ferrari, il terreno circostante favoriva le infiltrazioni d’acqua ed allagamenti interni, malgrado l’ intercapedine che però si presentava intasata di detriti e fogliame).

       

Facciata - ingresso, verso ovest                                abside nel retro, verso est

                            

facciata a mare                                           facciata a monte

Malgrado il rinvenimento, l’interno aveva continuato a subire stato di degrado: da abbandono, a ripostiglio di arredi sacri inutilizzati,  ad altri di culto; attrezzatura per riordino e pulizia dell’ambiente. 

La copertura attuale del tetto, fu riparata dalla Sovrintendenza alle Belle Arti  dopo il danno del 9 giu.1944; anche allora appariva successiva a quella che doveva essere in origine (lignea,  a capriata).

 

Tra le chiese minori del primo medioevo,  è questa la più remota; e della sua antichità  fan testo non solo le poche notizie trascritte, ma soprattutto i caratteri architettonici primitivi, di estrema povertà della muratura: un vano rettangolare, con abside a levante; all’occhio dell’esperto, è facile notare  confrontandola con le altre cappelle  liguri che - seppur conservato il sistema costruttivo “medievale”- quanto questo sia   più  rozzo e grossolano, non in pietra di Promontorio come tutte le altre (quindi prima dell’apertura delle cave, essendo stato più facile da raggiungerle), e quindi anteriore alle altre.

Un vano rettangolare,  di misura esterna m. 11,5x6,4, con abside a levante ed entrata a ponente, la cui facciata si è perduta, le cui pietre appaiono irregolari, e le lesene strette e snelle sia sui fianchi che nell’abside disegnano arcate ed arcatelle cieche, con stile  sicuramente di origine ravennate (là era in atto fin dal V secolo e rimane conservato solo nelle più antiche chiese medievali, non oltre l’ XI secolo).       Cervini scrive che “una partitura ad archetti pensili binati con lesene ne articola i fianchi, mentre le arcate cieche sono continue all’esterno dell’abside (e si ritrovano nel S.Paragorio di Novi, oltre che nel S.Vincenzo di Galliano e nel S.Pietro di Acqui)”. 

    

   

Numerosi altri piccoli segni, riscontrabili da competenti, valgono per dimostrare la vetustà del manufatto: dalla forma delle pietre, allo spessore dei piedi degli archi; alle finestrelle; ai tre diversi pavimenti sovrapposti (uno originale, in mattoni scuri di fattura antecedente il XIII secolo - il secondo in mattonelle di ceramica colorate  «bianche, verdi, brune; di 9cm. databili del XV secolo; quindi riferibili al restauro di riadattamento dei Doria del 1446» - il terzo, a quadretti di lavagna e marmo bianco, sopraelevato di 40 cm., forse del 1568 quando fu prospettata la possibilità di ospitarvi il sepolcro di Domenico Doria);

     

parete interna, a mare, con  lapidi          pavimento

alla volta a crociera, non originaria, e la divisione in due campate con semipilastri in laterizio che appartengono forse ad un riadattamento del XII secolo quando furono applicati gli affreschi.

   Nel secolo XV fu nuovamente ristrutturata ed inglobata nelle costruzioni conventuali, con l’altare posto nel centro dell’abside, perché destinata ad un primo sepolcro dei Doria.

       

incavo con mattonelle  - vano ampolle e libri sacri                           marmo con aquila dei D’Oria

 

   Una commissione di esperti, chiamata ad esprimersi nel 1880-8 (tra cui  tra cui  presidente il marchese Negrotto, e quindi:  Sante Varni, Alfredo D’Andrade che firmò la relazione, Nicolò Barabino, Tomaso Luxoro, GB Villa, Maurizio Dufour) notò che il manufatto raggiungeva esternamente m.11,5x6,4; aveva “importanti ed  interessanti elementi padani” (delle arcate cieche , degli archetti di coronamento scompartiti in coppie, delle alte e sottili lesene: tutti motivi ravennati propagatesi nelle architetture religiose longobardiche - come anche in santa Maria delle Cacce a Pavia); e sui cui muri - sotto tre centimetri di intonaco -erano affrescate antiche pitture (vedi “Museo”) risalenti  al 1300, e forse prima; quelli della parete sinistra si potevano staccare e salvare, quelli della parete destra e dell’abside furono trovati corrosi, lacunosi e giudicati perduti:  “in una parete laterale sotto l’ intonaco  si rinvenne un affresco rotondo - il che è già originale per l’epoca, raffigurante  una “coena Domini” (Cena del Signore),  una  Fuga in Egitto, ed una  Natività (quest’ultima posta nel presbiterio rimase purtroppo parzialmente ma ulteriormente erosa dall’umidità quando il tetto venne sconnesso dal bombardamento del 9 giu.1944),  nonché alcuni busti e figure di santi.

Da essi si è potuto risalire ad un periodo di ristrutturazione del primo manufatto e collocato nella transizione tra il romanico ed il gotico tipico dell’epoca subito dopo la metà del XII secolo, inizi del XIII.  (88.51). L’opera pittorica è troppo scarsa per poter stilare un qualsiasi valido giudizio di origine, quindi non è attribuibile se non come opera di un ignoto maestro, chiamato così “maestro della Cella” (o “maestro di San Pier d’Arena”), probabile allievo assai vicino a Manfredino D’Alberto (o ‘di Oberto’) da Pistoia, (nel primo medioevo, la Toscana è madre delle prime espressioni pittoriche, con Cimabue più capace di tutti.   Solo alla fine del XIII secolo, dalla Toscana sconfinano i primi discepoli stretti seguaci del maestro, di cui il più rinomato fu Manfredino, scolaro del Cimabue ad Assisi. Di lui solo due affreschi rimangono, staccati dalla demolenda chiesa di san Michele Arcangelo e datati 1292 (un “Arcangelo Michele” ed un “convito di Betania”, oggi ospitati a Palazzo Bianco. A Genova rimase senz’altro alcuni anni, lavorando anche in San Lorenzo, riuscendo a crearsi seguaci che lo copiarono senza raggiungere però la forza e la professionalità del maestro, che mantiene un tono superiore rispetto al Nostro: questi ha un tocco stilisticamente ed iconograficamente secondario, sia nel raffigurare l’Arcangelo annunciante che appare “copiato”, sia nel convito di Betania che appare una “ripetizione” di quello di Manfredino a Palazzo Bianco: particolari identici, nelle pieghe della tovaglia, nel dorso della Madonna china ai piedi del Cristo: quindi un allievo, maestro minore) rappresentante di una pittura romanica genovese che non è stata mai ben documentata e che viene definita ‘evanescente’, ma “che rivela le sue più genuine note poetiche nella timorosa semplicità delle figure, nel loro estatico e calmo atteggiamento quasi che l’azione si sia d’un tratto misteriosamente arrestata; ed è una stasi contemplativa di ricordo ancora paleocristiano”. 

Sono gli affreschi più antichi conosciuti in Liguria.

   Nel 1958 gli affreschi furono staccati e portati nel salone parrocchiale  ora adibito a Museo ma che fu refettorio del monastero agostiniano; in esso si conservano gli affreschi staccati, assieme ad altre opere; come detto, troppo scarsi per poter stilare un qualsiasi valido giudizio di origine.

    Così la descrive Di Fabio “..molto interrata, ha pianta ad aula rettangolare ed è conclusa da un’abside semicircolare che s’innesta sul corpo longitudinale per mezzo di due arconi quasi concentrici, formati da conci disposti radialmente. L’abside non presenta, all’interno, alcuna decorazione o scansione architettonica. La spazialità risulta modificata rispetto alla situazione originaria dall’inserimento, medievale, di una copertura a crociere (due) su pilastri addossati ai muri laterali. Il rimaneggiamento è stato fissato ad una data intorno al XII-XIII secolo (il XII secolo viene proposto dal Ceschi, il quale fonda questa datazione sul fatto che l’intonaco affrescato (del tardo Duecento) si sovrappone ai pilastri. Il D’Andrade...ritiene del XIII secolo i pilastri, con «le vôlte della navata e l’apertura di una porta a mano destra presso l’abside; del secolo XV le due colonne o pilastri incontro agli angoli del muro anteriore della Chiesuola e la porta a mano dritta, nella quale sta una iscrizione allusiva ai restauri fatti eseguire dal Doria». Nota poi i resti dei tre pavimenti successivi: «uno di essi in mattoni, di certo non posteriore al secolo XIII, altro in piccoli quadretti verniciati del secolo XV, ed un terzo più recente in lavagna e marmo bianco, pure a quadretti»). La copertura originale doveva certo essere a capriate lignee, impostate poco sopra il livello degli archetti pensili dei fianchi. La facciata doveva essere, quindi, forma a capanna, unicamente scandita da due larghe lesene agli spigoli e, forse, da una sorta di zoccolo nella zona inferiore, piuttosto basso, di cui si osserva qualche resto nel settore fra l’attuale ingresso e la lesena destra, la quale, anche, appare costituita (così come l’opposta) di muratura antica. Il tutto per l’altezza di circa una decina di corsi. Non del tutto perduta, dunque, la facciata, come invece ritiene il Ceschi. Non più originale, per contro, il portale, nelle forme attuali attribuibile al XVIII o al XIX secolo. (La porta d’ingresso doveva essere centinata, stando alla testimonianza del D’Andrade... che era in grado, allora, di scorgere «un resto del rispettivo vôltino» per un’altezza totale di m. 2,84). Il fianco sinistro è oggi  ricoperto da uno strato di intonaco cementizio; vi si aprono due larghe finestre seicentesche, ma la decorazione originaria ad archetti vi è totalmente perduta. È invece discretamente conservata nel lato opposto, scandito da un partito ad archetti binati su strette lesene, in cui si aprono due monofore originali. Vi si notano le tracce di archi, porte e finestre a sesto ribassato, della stessa epoca di quelle aperte a sinistra, ora richiuse per mezzo di inserti di mattoni. Della I, III, IV, V lesena restano solo le parti superiori. La zona più integra è quella absidale, percorsa da cinque arcata cieche su lesene che impostano su un alto zoccolo. Nella II e nella IV si aprono due larghe monofore. Il coronamento dell’abside è realizzato attraverso l’aggetto lievemente obliquo di un corso di conci appositamente scolpiti per questa funzione, su cui impostano ancora alcuni corsi di muratura, ma parecchio irregolare. Il paramento murario – come si può osservare nelle parti meno rimaneggiate – è costituito da grossolani conci, appena regolarizzati nelle murature di fondo, meglio squadrati col martello quelli impiegati con una precisa funzione architettonico-decorativa (arcate absidali, lesene, conci negli spazi di risulta fra due arcate). Caratteristica la loro disposizione nelle archeggiature absidali, non in senso radiale, ma orizzontale, accostati per il lato minore.

    

Da allora, della cappella calò il silenzio totale, fino all’anno 1880. Infatti lo stesso Alizeri nel descrivere minuziosamente la chiesa negli anni 1875, non ne fa cenno alcuno.

   Quindi, sulla base di storia, documenti e struttura architettonica, la chiesette appare successiva alle vicende di Liutprando.

   Da queste ultime, gli ultimi storici :

---prendono chiare distanze (considerato la loro non accertata veridicità e la loro induzione a facile fuorvianza verso un falso storicismo);

---accettano “delle ascendenze «ravennate» del partito architettonico (che ai loro occhi appaiono palesi e dimostrabilissime, sebbene tanto generiche da non poter assolutamente essere assunte come elemento decisivo per una sistemazione cronologica); ed i riferimenti precisi e diretti alle tipologie minori della zona comasca e alpina;

---al confronto con tutte le strutture esistenti e più chiaramente leggibili,  è databile fra fine X ed inizio XI secolo e poi rimaneggiata rispetto quella che doveva essere in origine.  Infatti  Cervini esclude tutto questo periodo relativo all’VIII secolo, e colloca  l’edificio ‘come rarissimo esempio di architettura del primo XI secolo in area genovese’; Di Fabio confermando la datazione dell’edificio all’XI secolo (perché ‘nessun dato documentario e archeologico può farci accettare una tale retrodatazione’), precisa che  nulla vieta pensare né ‘escludere aprioristicamente la possibilità che una fondazione più antica in quella zona sia esistita, e che possa anche avere accolto le reliquie...’

   Sui muri sono appesi alcuni marmi (su uno dei quali si segnala il rinnovamento dei Doria del 1446)   L’interno ha subito momenti di degrado quale ripostiglio di arredi sacri inutilizzati,  ad altri di culto rinnovato con riordino e pulizia dell’ambiente.

        

2===primitiva chiesa di N.S. DELLA CELLA==nascita.

Canonici Regolari della Congregazione di s.Maria di Crescenzago

STORIA 

Col feudalesimo, superate le scorrerie dei barbari e dei saraceni (ultima la distruzione di Genova nel 936) ebbe inizio una nuova era sociale di rinnovamento. Seppur sempre segnata da lotte acerrime tra i  vari feudatari con guelfi e ghibellini, laici e cristiani, civili e predoni; cresce in forma rutilante il monachesimo e nascono, localmente, i Comuni ambedue capaci di dare impulso, vigore e razionalità alla vita associativa e  religiosa.

Nelle terre già dei Doria, essi nei primi anni del 1200 decisero edificare un convento, munito di tempio più complesso e più consono alle necessità della famiglia Doria, che poneva relativo giuspatronato. Tosini distingue nella famiglia Doria tre rami, che si interessarono non tanto della chiesa in toto quanto: uno della chiesetta di s.Agostino; uno della cappella maggiore; uno della cappella di s.Nicola da Tolentino.

Il fatto che le terre appartenessero ai Doria  (come altri vasti appezzamenti nella Valpolcevera (cappelle a Certosa) ed a Cornigliano (s.Erasmo di Campi)), implica che vicino doveva esserci anche una loro villa o quantomeno una casa, estiva o agricola; ma non è dato sapere quale delle tante in sicuro possesso alla famiglia trecento anni dopo. È pensabile che sia quella detta anche Monticelli perché –pur abitando i Doria in città- quando pensarono opportuno erigere una chiesa per comodi propri, quindi ‘proprietà privata’, sicuramente la vollero vicina, al massimo cento metri  verso la marina dove già i monaci prestavano un servizio, ed anche per non dover  andare fino a San Martino  del Campasso, non solo per comodità ma soprattutto per la pericolosità di allontanarsi dalla villa, causa le sanguinose diatribe tra guelfi e ghibellini.

   Sul quotidiano ‘Il Cittadino’ si scrive: “ha il suo ricordo più antico in un documento del 1191”. Il Novella scrive “Dell’esistenza della chiesa ne abbiamo i primi ricordi nel 1206, ma non precisa quali ricordi.

Presumibilmente fu eretta nuova, a fianco della chiesuola preesistente di sant’Agostino (come già detto, per questo chiamata “Cella” sottintendendo quella ove furono depositate le reliquie del Santo), scegliendo che avesse già dall’ inizio le caratteristiche di una più grande chiesa ad uso familiare (visto che -per il popolo- era già eretta la parrocchia di san Martino nella strada per andare al Campasso, anche se laggiù era un pò decentrata, ma più sicura da incursioni dal mare).  Da loro, in questi anni, fu affidata (e resterà fino al 1427 con il card Fieschi) a dei canonici regolari Agostiniani, della Congregazione di santa Maria di Crescenzago, frazione di Milano (Alizeri aggiunge: introdotti da un certo Penoto).

    Risale al genn.1211 un primo documento testamentario stilato da un sacerdote chiamato Donadeo -canonico della Cattedrale genovese- che  cita come già esistente e funzionante “ecclesia sanctae Mariae de Cella” quale beneficiaria di una donazione di 5 soldi (invece 20 a s.Andrea di Sestri)

Altro testamento del 1212, 26 gennaio: «Disposizioni testamentarie di Simona Doria. Fra gli altri legati ”..., a S.ta Maria della Cella per un calice soldi 40,...quas mihi ordinavit archiepiscopus per penitentiam quod eis preberem. Fatto nella casa di Oberto Doria. Testimoni Pietro Doria e Nicoloso Doria il giovine”».

   Nel 1241, la chiesuola, che doveva essere molto semplice e poco strutturata, vicina al mare ma sperduta nella campagna, circondata da poche casupole fatte di terra e paglia, appare sempre gestita dagli stessi frati, di Crescenzago legati a Pavia;  il cui superiore  Ambrogio, aveva il titolo di prepositus (gli agostiniani si divisero poi in più gruppi; il principale riformato fu quello degli ‘eremitani scalzi’ nati nel 1385 sotto il pontificato di Urbano VI;  sopravvivono anche gli ‘eremitani calzati’’, la ‘compagnia della cintura’ e vari ordini di monache), ed il cui nome (con tale titolo) compare in un atto notarile datato 28 agosto 1241 in cui una certa Simona, moglie di Giovanni Fabro di Alba, gli vende un edificio in Fossatello.

 

 

2.A== chiesa di N.S. DELLA CELLA==primo  rinnovo

In quei tempi esistevano i signori, il clero ed i servi. Questi ultimi, migliorando le condizioni economiche formarono un altro ceto, la borghesia; che a sua volta divenne capace di aumentare la produzione agricola ed artigiana, facilitando la navigazione – e con esse il commercio ed i traffici.

   Fu nel 1253, che un Bartolomeo Doria provvide a pagare la edificazione di un convento e la ristrutturazione ex novo sia della chiesa (e forse anche della cappella di s.Agostino in quanto quest’ultima lo fu ma da un Bartolomeo di un secolo posteriore).

Ciliento accredita l’ipotesi  che il nome ‘Cella’ provenga dalla iniziale chiesuola di s. Agostino. La chiesa sarà eretta a croce latina, ad una navata, con la volta in legno e le crociere di pietra a cordonata (quelle ancora visibili in fondo alla navata sinistra), con lunghezza quindi praticamente identica a quella precedente, più corta di una campata; ed è incerto se - al posto della cupola - ci fosse un tiburio; il 21 ottobre di quell’anno (Regesto di vPloc.II.246), Adalasia de Guidone, volendo entrare in religione e farsi monaca, in una camera della chiesa fece testamento lasciando L.5 a sant’Andrea  e soldi 10 ai frati minori di Sestri.

   Risulta che nel 1274 ebbe a governo un priore chiamato Tomaso (“Presb.Thomas prepositus S.Marie de cella de Sancto Petro Arene”: dal Foliatium Notariorum vol VIII.27).

   Nel 1313 fu priore frate Gabriele; in presenza dei canonici (o fratelli) fa procuratore un certo Facino –prevosto della cattedrale di Tortona- per presentarsi in Curia a Roma sia per vertenze di liti che per impetrare dal Papa alcuni privilegi.

   Nel 1314 assieme ad altre chiese tra cui s. Bartolomeo della Costa, beneficiò del testamento di Stefano de Arena. Mentre il 3 luglio una certa Dirneta, moglie di Clavarino da Cornigliano, dinanzi al Vicario arcivescovile, accusa sia il prevosto frate Gabriele che frate Bertrame canonico per ingiurie contro essa: essendo morta Pasca madre dell’accusatrice, i due si erano rifiutati di seppellirla nel cimitero della chiesa adducendo essere di mattina ed in tempo di messe. Il Vicario, (tramite il notaio Leonardo di Garibaldo cancelliere arcivescovile)  mandò a chiamare i due che però non comparvero adducendo essere la Chiesa esente dalla giurisdizione del Vescovo ed immediatamente soggetta alla s.Sede (era un privilegio particolare, dimostrato con lettere apostoliche della dipendenza da Crescenzago). Il priore successivo Giorgio, assieme al canonico Guido, compare in altri due atti (del  notaio Antonio di Ottone del 15 giugno 1328, e del notaio Giorgio de Camulio del 9 settembre 1338)

Nel 1381  fu prevosto, un certo Giovanni, ricordato nel gennaio di quell’anno nel Foliatium Notariorum vol.III

È però di pochi mesi dopo che i Canonici di Crescenzago cessarono la reggenza della chiesa (sia perché il numero dei frati era gravemente scemato, sia per l’incendio e distruzione del monastero lombardo d’origine, coincidenze ambedue che determinarono il loro lento disciogliersi fino ad estinguersi). Con essi scompare il titolo di prepositus.

Un atto notarile del 28 luglio 1383 cita tutta una serie di priori, tra i quali “frater Jacobus de burgo bassignane prepositus ecclesie Sancte Marie de Cella de Sancto Petro arene canonici regulares Ordinis S.ti Augustini”.

 

2.B ====Chiesa N.S. della Cella====secondo rinnovo

   Sappiamo che nel 1385, i Doria – già da prima del 1200 possessori in zona di vasti appezzamenti di terre (compreso Borzoli, Sestri e Cornigliano ove fu ospitato quel Branca Doria ricordato da Dante Alighieri)- decisero di ingrandire ulteriormente la chiesa strutturandola a tre navate, con le volte a crociera, ovviamente più corta di una campata; e di ampliare l’annesso convento; i vecchi muri vennero gradatamente abbandonati o progressivamente inglobati nella nuova edificazione, al punto che tutto il precedente complesso scomparve all’osservazione diretta, rimanendo ignorato nei tempi. 

  Lo storico Schiaffini segnalò l’esistenza di una targa, murata su un angolo di una  casa adiacente, nella quale si faceva cenno a questa nuova erezione, e facendo supporre la precedente chiesuola.  Sarebbero stati Battistello Doria (sul Battilana non c’è) e  Giacomo di Borgo (“Jacobum de Burgo”: ovvero “del borgo”, di San Pietro d’Arena? Si presume lo stesso, frate,  citato 11 righe sotto) = «MCCCLXXXV die prima maii. Ad honorem Dei et B.Mariae de Cella et omnium sanctorum per nobiles et egregios viros dominos Baptistellum de Auria et Iacobum de Burgo tempore felicissimo fuit hoc opus tamquam patroni fundatores et edificatores ecclesie in remedio animarum suarum».

Appare chiaro che sono due uomini, e non – come cita Ciliento - solo Battistella Doria; ed anche  comunque non da porsi come costruttori del 1206.

 

2.C======Chiesa N.S. della Cella==== Commenda

L’anno dopo, 1386, venuto a cessare in forma completa l’impegno dei Canonici Agostiniani, i Doria concessero al cardinale di Genova, Ludovico Fieschi (al tempo di papa Urbano VI - 1381), di scegliere per sé o di dare l’incarico di amministrazione del complesso, divenuto Commenda; questi scelse il canonico fra Giacomo De Borgo (lo stesso del ‘Iacobum de Burgo’ della targa del 1385), della Congregazione dei Canonici Regolari di Mortara che col titolo di ‘conductor ecclesie S.Marie de Cella’ gestì, ma solo per pochi anni, il convento (il 13 marzo 1386 già compare col notaio Foglietta dare in locazione una terra della chiesa).

  Nel 1387 l’arcivescovo applicò una tassa straordinaria imposta dal papa Urbano VI (detta “Lodo per tasse”) al fine di ricuperare denaro speso in guerre e contro gli scismi; per il ‘Monasterium de Cella’ la  cifra fu di 10 ‘libre’ (o soldi, da pagarsi alla Camera Apostolica perché la Chiesa è “exempte” dalla giurisdizione dell’Arcivescovo).

   Nel 1389 appare come rettore-conductor l’arcidiacono della Cattedrale, Domenico Fieschi (egli, aderendo alle idee dell’antipapa Pietro di Luna, fu privato di poteri; ma ravvedutosi alla chiesa di Roma, fu reintegrato il 6 gennaio 1411, con atto del consiglio degli Anziani sottoscritto dal marchese di Monferrato); il tutto rimarrà immutato sino alla sua morte, avvenuta in Roma il 3 apr.1423.

   Sempre più la chiesa, lambita dalle onde sul fianco, in asse con la strada vicina, con vicino il castello e poco dopo il monastero del santo Sepolcro, coagulò attorno a sé -mantenendo le caratteristiche della chiesa di famiglia- il primo nucleo abitativo vicino al mare, sia popolare che poi aristocratico, seppur la spiaggia fosse più a rischio di attacco nemico –.

 

2.D=========Chiesa N.S. della Cella ===Domenicani  

Nel 1422, subentrano i frati predicatori Domenicani. Lo si dedurrebbe da uno scritto - segnalato dal Remondini - riguardo frate Paolo Vivaldi, genovese del convento di s.Agostino a cui il Generale dell’Ordine diede l’incarico di «poter accettare per la nostra religione la chiesa di s.Maria de Cellis, e di avere cura speciale di quella e di tutte le altre case ad essa spettanti». Venne così creato Vicario Generale, sia del convento di s.Agostino che della Riforma, da trapiantare nei conventi di Belvedere e della Cella. Ma l’incarico durò poco, sino al successivo passaggio di religiosi.

    Remondini riporta uno scritto relativo al 1425 in cui si segna che Giovanni Doria q.Bartolomeo fu mandato a Chiavari come capitano degli armati, e dopo altre notizie la lettera conclude che “esiste sua cappella nel claustro di s.Maria della Cella del 1446”: Remondini pensa che ‘claustro’ sia riferito all’antichissima chiesetta, e non ad un altare nella chiesa.

   Datata 10 febbraio 1427, Remondini riporta a pag. 36 una lettera in latino, dalla quale si legge che per aiutarli furono esentati dalla gabella –solita a pagarsi - di 15 misure di vino. A deciderlo erano stati “ Cardinalis -Ducalis Ianuensis gubernator - et Stectabile officium dominorum ancianorum - in totali et integro numero congregatum - presentibus etiam ac sedentibus et consultantibus IIII ex protectoribus Sancti Georgii et totidem Capituli”; a favore di “novos fratres predicatores de observantia”.

   In altro documento di quell’anno, si legge che cappellano era frate domenicano Cristoforo Spinola dell’ordine dei predicatori; e del patrono Ideto Lercari “ad quem ius patronatus spectat”: come dire che non era più dei Doria a meno che il Lercari non avesse sposato una Doria.

 

 2.E=======Chiesa N.S. della Cella======Benedettini

Ma nel 1436, dopo soli nove anni, su ordinanza del papa Eugenio IV (nel corso di una generale revisione ed organizzazione delle strutture ecclesiali liguri), questi lasciano la guida -sempre  provvisoriamente- ai Benedettini della badia di San Benigno, della congregazione della Cervara, che avevano preso le redini della badia di Capodifaro nel 1421 e che qui rimasero fino al 1440-1 (da Firenze, atto del 29 nov.1435, papa Eugenio IV diede mandato all’abate Domenico Vento del monastero di Capodimonte di procedere all’unione del priorato di S.M.della Cella al monastero di san Benigno.  Il commissario delegato del Papa, procedette all’unione in data 17 febb.1436 davanti al notaio Bartolomeo de Valarano).

 

2.F=======Chiesa N.S. della Cella =====Agostiniani

1441: finalmente in questo anno (per bolla emanata in Firenze sempre dallo stesso  papa Eugenio IV su istanza del p. Giovanni Rocco Ponzia,  pavese ed autore della riforma agostiniana lombarda, che sarà il nuovo priore del luogo, e che poi verrà beatificato),  subentrano in forma definitiva –ovvero sino al 1798- i padri Agostiniani Calzati, della congregazione di Lombardia (o Eremitani lombardi di sant’Agostino). Nella chiesa di SM della Cella in quell’anno sono numericamente il secondo approdo dopo quello di Milano, accompagnati da altrettanto nutrito e vigorosamente spirituale gruppo di monache;  costituiscono così una specie di testa di ponte per sviluppare nuovi fertili nuclei di religiosità e di civiltà.

  Questi manterranno l’amministrazione del complesso monastico per oltre tre secoli, fino al 1798 quando -per ordine del governo democratico-, dovranno abbandonare chiesa e convento.   

Sono rimasti famosi alcuni religiosi che vi abitarono:  da ricordare il  genovese Benigno Peri, dotto della chiesa del XV secolo, divenuto beato; e p. Battista Poggio, nobile genovese nativo di Rapallo, fondatore (anno 1450) di un’altra riforma agostiniana  (che, da lui ebbero il nome di Battistini, con chiesa e congregazione presso il Bisagno).

   Il 18 nov. 1442 il priorato di S.M.della Cella risulta debitore di 450 lire genovesi nei confronti di Raffaele Imperiale; questi cedette il credito nel 1455 a Francesco di Torriglia: pertanto Bartolomeo Doria figlio di Giacomo a nome del priorato della Cella si riconosce debitore a quest’ultimo. Infine però il debito viene ceduto (19.5.1455) a Paolo de Rocha priore di s.Benigno  Nella stessa data 18.11.1442 il priore Giovanni Rochus de Portiis di Pavia, donò al monastero di san Benigno sei luoghi delle compere di san Giorgio e l’atto di donazione fu ratificato pochi giorni dopo da Gerardo da Rimini, priore generale dell’ordine agostiniano.

É datata 1446 la lapide che si trova nella chiesuola di s.Agostino relativa ad una sua riedificazione (vedi a s.Agostino).

   Nel 1453, appena sistemato il chiostro  (le tracce appaiono su una parete, riferite ad una porta: i mattoni appaiono gli stessi della ristrutturazione della cappella di sant’Agostino fatta nel 1446; si suppone inglobasse la cappella stessa. Il chiostro andò parzialmente distrutto in un bombardamento nel 1944, liberando però la chiesetta di sant’Agostino rendendone leggibili le forme)Bartolomeo Doria q.Giacomo assunse il giuspatronato e volle adottare migliorie strutturali sovvenzionando vari interventi dei quali ben poco rimane ai giorni d’oggi: il chiostro, il campanile, la sacrestia ed alcuni locali adiacenti  hanno impostazione quattrocentesca; e nei sottotetti delle navate minori, la struttura degli alzati, sovrastanti le arcate fra i pilastri, è formata di conci di pietra di Promontorio perfettamente squadrati ed assemblati caratteristico delle maestranze antelamiche del XIII secolo (sappiamo che anche si costruì una cappella di famiglia (detta ‘cappella magna’); prolungò il coro (costruendolo come è ora, al posto dell’abside originaria) ed aggiunse due cappelle vicino all’ingresso).

 Era priore frate Giovanni Roceo e vi viveva assieme ad 11 frati. Furono ordinati far celebrare messa quotidiana e perpetua nella cappella, per l’anima del Doria.

La chiesa doveva essere a tre navate divise da quattro piloni per lato; lunga 61 metri (di cui 37 dalla porta alla balaustra, 17 da essa all’abside, e 7 il presbiterio e coro (Remondini, pag. 39)).

Questa data è fissata dall’Alizeri, mentre altri riportano il 1449)

  Il complesso monastico, vede nel 1464 la presenza di ben 12 frati, con priore p.Agostino da Crema, “aventi voce in capitolo” (da atto notarile)

   La cronologia continua, leggendo di ulteriori migliorie e momenti di vita particolari: quando:

- nel 1466   È di questa data – 17 marzo- la prima lapide del corridoiio della Sacrestia, con due stemmi familiari ai lati «+ Fratres . sancte . Marie //  de . Cella . pro.ter . multa // beneficia . acepta . obligarunt // se . ex . caritate . partecipes // facere . o . Lucianu . de . Grimaldis // et . Salvagiam . uxore . suam . oniv  // misar . officior . et . bonor . operum // m . perpetuu . conventus . istius // M . CCCCLXVI . die . XVII . marsii» (da tradurre*** e stemma***)

Lavorò nella chiesa il pittore Giovanni Mazone producendo per il terzo altare di destra, un cospicuo polittico dedicato a san Nicola

MAZONE= la famiglia Mazone, alessandrina,  è presente a Genova dal 1414 con Guirardo –padre- e Giacomo –zio-; proseguirà poi col figlio Giacomo, il nipote Giovanni ed i suoi figli fino al 500.  Notizie di Giovanni al massimo risalgono al 1453, quando era allora già pittore di certa fama; solo dieci anni dopo - nel 1463- gli venne ordinato un polittico per il Duomo (una Maestà; perduta) ;  lavorò poi in santa Maria di Castello (Annunciazione); per le più importanti famiglie, ed anche a Savona; nel 1481 è citato primo dell’elenco (‘matricola’) dei lavoratori dell’arte pittorica e scultoria.É considerato ‘la personalità più tipica dell’ambiente genovese nella seconda metà del Quattrocento...ove fu uno dei più reputati e influenti maestri’.  Quando compì l’opera era già famoso ma sono state ritrovate influenze d’oltreappennino –padovane- importate da artisti lombardi. Morì nel 1510 o 1512). 

Tosini scrive che si impegnò a produrre per ordinazione di Paolo Doria un polittico di s.Nicola da Tolentino (ne fa testo la descrizione sul libro datato 1644, di T. de Herrera, Alphabetum Augustinianum, edito a Madrid), oggi però disperso dopo la rimozione e smembramento avvenuti nel 1799; da e ricca di è la ricomposizione di questo polittico i cui singoli pezzi erano stati attribuiti ad altri: è accertato che si trovasse in chiesa alla data 1466 –quindi agli inizi della carriera-, e che avesse molte (si scrive dodici) immagini di beati.

S.NICOLA DA TOLENTINO= nato a sant’Angelo di Colle nel 1245;  visse,  e morì a Tolentino n comune di Macerata nel 1305. Vestì l’abito degli Eremiti di sant’Agostino e la sua vita fu tutta dedita alla carità, pietà cristiana, funzioni del ministero sacerdotale, contemplazione e predicazione. Fu canonizzato nel 1446 da papa Eugenio IV. É riproposto con alcuni attributi specifici: il saio da agostiniano; il sole nel petto;  un giglio nella destra; un crocificco ed un libro aperto nella sinistra (ove appare scritto “precepta // patris m//ei servav//i et ideo // maneo i//n eius dile//ctione).

IL QUADRO Stilisticamente viene giudicato di un pittore  ancora in fase di assimilazione di nuove correnti artistiche, lombarda, o padovana (squarcionesca in particolare), o Francia meridionale, o nuovi modelli liguri, essendo le figure in pose scultoree, segnati da sfondo a losanghe e con motivi vegetali e damascati). Caratteristici: gli angeli che suonano trombe con bandiera genovese stranamente bordata di blu

LA RICONGIUNZIONE è stata difficile, graduale e confusa, avendo avuto varie ipotesi da personali giudizi critici,  ed i singoli pezzi altrettante diverse attribuzioni. La progressiva ricostruzione prese l’avvio da episodi della vita di s.Nicola da T. Comunque, tutto è stato chiarito dall’Herrera che descrive essere stata una grossa composizione, di 2m,70x3m. I volti dei beati, quasi tutti rivolti a destra lasciano presupporre fossero incolonnati al lato sinistro; uno –quello di collezione svizzera- è con lo sgardo a sinistra e quindi faceva parte del pilastro opposto; anche san Nicola ha lo sguardo a sinistra.

In particolare, secondoZeri&DeMarchi (Dipinti, bibl.Gallino): 

= Al centro , tagliato in ovale per essere inserito in una cornice adeguata preesistente, e prima di un restauro, profondamente tagliato in due,  il Nicola in gloria o ‘l’apoteosi del Santo’ (l’ovale ritagliato, di cm. 97x52; conservato prima a Firenze in collezione privata e poi al Museo Collezione Civisa Amedeo Lia di LaSpezia fig.220 pag.237).

=Ai lati ,  figure di santi ed arcangeli, che sormontano riquadri più piccoli con dipinte storie della vita del santo Nicola; questi riquadri sottostanti non ci sono in alcuni

==a destra. sAgostino e arc.Michele (ambedue con sottoriquadro: ora propr.priv. milanese).

==a sin., erano s.GBattista (ora in pinacot Ambrosiana di Mi.) e l’arc Raffaele con Tobiolo (custoditi nei depositi del Kunsthaus di Zurigo).

=Alla base la canonizzazione di sNicoladT di 23,5x57,5 cm.ora in proprietà priv.

=Sui pilastri laterali del polittico, 12 tavole (sette note e 5 disperse) di vescovi e monaci agistiniani, beati, a mezza figura, disposti in verticale come pilastrini laterali del complesso. Tutti quelli con lo sguardo rivolto  a destra forse erano incolonnati a sinistra (beatoGuglielmo Da Cremona (Ambrosiana); b.Agostino da Roma (Ambrosiana); b.Giovanni Bono (Serrao, Mi.);  b.Giovanni da Rieti (coll..pri.v.); b. anonimo agostiniano (coll priv.)e viceversa, con lo sguardo a sinistra (b.anonimo (coll.priv Svizzera)).

In altro testo (Algeri DeFloriani, il 400), non combaciano la posizione della ricostruzione:

==a dx arc Raffaele e Tobiolo (oggi a Zurigo, Kunsthaus, di cm.98,5x32,5, in precedenza assegnato a Bembo) + altri 2 mancanti

==a sin=  sAgo+arcMichele  e s.GBattista (cm.131x65; ora in una raccolta milanese; hanno alla base o predella due più piccoli riquadri descriventi 2 storie di s.Nicola fig. 217 presumibilmente presenti anche nelle altre immagini)

-nel 1469,  i Grimaldi  comprarono una propria cappella in cui tumularono due loro discendenti: Giacomo ed Agostino;

-nel 1471,  quando venne aperta una biblioteca;

-quando 1485 venne eretto il campanile più alto;

-quando, in un atto notarile (Baldassarre de Coronato), datato 25 marzo 1495 i frati  è scritto che fossero venti, con priore fra Benigno da Genova;  

-quando nel 1500 si  produssero per  cinquant’anni sempre con l’appoggio dei Doria, proficue migliorie strutturali -come la costruzione delle navate laterali, e fu sostituita la copertura lignea con un sistema analogo alle nuove navate,  in laterizio sostenuto da volte a crociera-.   Nel 1500, San Pier d’Arena è già un discreto borgo, con qualche villa patrizia, e terreni od orti che suscitano interesse dei nobili; aumentano le persone di ceto che usufruiscono della chiesa per continuare ad essere onorati anche dopo la morte;

--così il cardinale Gerolamo Doria, fu sepolto (senza epigrafe) nella cappella di san Nicola da Tolentino –cappella n° 8 navata destra (1558) assieme (1569) ad Antonio ed Ingone Doria; 

--la famiglia di Ceva Doria, che desiderò una cappella in proprio (quella di s.Nicolò);

--GioBattista Doria che scelse un sepolcreto personale; 

--1599 Lazzaro Grimaldi olim Cebà q. Domenico q Lazzaro: nobile del Portico di san Luca della vecchia nobiltà, difese il Garibetto contro i neo nobili; occupò l’Officio di Sanità ed il Magistrato della Misericordia negli anni della peste (1579-80); fu eletto  doge della Repubblica il 7 dic. 1597 fino al 15 febb.1599: per ragioni di salute, contro lo statuto dei dogi che proibiva  uscire di palazzo se non accompagnato comunque mai dormirne fuori, si permise a lui per la prima volta poter soggiornare per 12 giorni nella sua villa a San Pier d’Arena; benemerito per aver favorito la costruzione di una chiesa e convento agostiniani in Masone (feudo della Repubblica, quando Campoligure lo era ma dell’Impero) ove era signore e feudatario. Morì precocemente –si presume di infarto considerato il grosso dolore al petto, dopo aver subìto grave, clamorosa ed ingiusta umiliazione- il 16 febb.1599 (altri scrivono il 10 dic.1597 ma è la data di elezione a doge;  Roscelli dice il 7). Dopo solenni cerimonie durate alcuni giorni, venne sepolto in SM della Cella nella cappella di famiglia chiamata di sanPaolo,  il cui sepolcro è distinto da una epigrafe relativa al nonno omonimo “+ Jesus Maria 1506. Die 11 Genuariis Sepulcrhrum Nobilis Lazari de Grimaldis q. D.Dominici et haeredum suorum”;

--Filippo Doria, che aveva lasciato in dote annua lire 400 di cartularj;

--ed infine 1574-1604 i tre fratelli Ottaviano, Nicolò e Filippo Doria, q.GioGiacomo che eressero ciascuno un proprio sepolcro.

   Nell’anno 1582 mons. Bossio, quale visitatore apostolico, visitò anche la Cella includendola nei suoi decreti. Cita l’esistenza degli altari dedicati a s.Rocco ed a s.Paolo.

1584 É di questo anno una lapide posta nel corridoio della sacrestia.    Alizeri ricorda che nel 1596 Filippo Doria dotò la chiesa “d’annue lire 400 di cartularj, ed i...discendenti in più età l’arricchirono di monumenti marmorei, di pitture di plastiche e d’oro”.

Nel 1639 fu realizzata dagli Agostiniani la  cupola ellittica ben raccordata con il corpo delle navate (anche se il Remondini scrive che “vi sta a disagio, poiché basata sull’ultima arcata anziché sopra i soliti piloni, che formano crociera”); in contemporanea si effettuò la copertura con volta a botte della navata centrale in sostituzione delle crociere quattrocentesche.

Nel 1657 il 6 gennaio morì un figlio abortivo del nobile GioFilippo Spinola q. Bacchignone: due giorni dopo avvenne la sepoltura al Boschetto di Cornigliano. Il Parroco della Cella descrisse la cerimonia riferendo i complessi cerimoniali di quei tempi per nulla legati alla mesta situazione quanto ad un preciso e pignolo cerimoniale che prevedeva l’ordine dei presenti in base al censo: i seggi a sedere, il numero delle incensazioni, perfino quanti passi fare, diversi per ognuno a cui andare incontro per salutare; queste precedenze e regole erano fonte di ininterrotte liti -non sempre pacifiche- tra personaggi laici ma anche e spesso tra categorie di religiosi;  “...li preti di s.to Luca sono andati sotto la mia croce essendo stata la prima; il mio curato è andato a la mano dritta del curato di s.to Luca e io per cortesia mi sono compiaciuto di dar la mano dritta al sig. Prevosto di s.to Luca...”

Durante la peste del 1657, nel convento gestito dagli Agostiniani di Lombardia, vi furono 8 morti; dei tre sacerdoti andati a servire nel lazzaretto di S.Pier d’Arena aperto nel convento di s.Giovanni Battista (oggi s.Gaetano-Don Bosco) due morirono ‘per la carità’ ovvero per assistere il prossimo: furono i RR.PP. Pietro Canale e Gio.Agostino Mazzola. L’altro monaco, tal AntonioMaria Giudice riuscì invece a risanarsi e vi restò molti mesi a servizio.

Dal 1663 visse nella comunità agostiniana della Cella, Ludovico Della Casa, sacerdote letterato, scrittore, molto apprezzato come predicatore, disponibile ed alla mano, accreditato nelle alte sfere religiose, civiche e dalla povera gente. Morì –forse a Genova- nel 1693.  Alla stessa data, il 5 ottobre, il mag.co Giulio Levanso q. Ugone , prima di entrare nel monastero dei Padri Agostiniani della Cella, promette di pagare 400 £ di Ge., per i suoi alimenti e vesti durante il noviziato (Regesti di vP II.270).

Il 2 giu.1760 appare priore p. Felice Leonardo Chiappara.


Alla banca Carige è stata regalata una carta-progetto topografica dell’ing. Giacomo Brusco – del genio Militare della Repubblica, datata 1782, che sappiamo valente e preciso relatore di tante zone genovesi, nella quale si legge che davanti all’ingresso della chiesa della Cella, esisteva allora una cappella-oratorio, con abside verso levante, descritta sotto, quando la chiesa fu allungata.


Nel 1795 il convento alienò dei libri della biblioteca degli agostiniani scalzi che la gestivano; tramite il libraio P.P.Pizzorno 22 pezzi furono acquistati da Giacomo Filippo Durazzo pagandoli 240 lire genovesi (in altre pagine scrive ‘unico fortunato baratto col convento’; in altra pagina ’lire 240 pagate per due edizioni moderne prese in cambio’), quasi tutti i libri preziosamente rilegato in marocchino rosso da Carlo Zehe. Tra essi, tre manoscritti; venti incunaboli; la ‘Polyanthea’ savonese del 1503; edizioni moderne delle opere di sant’Agostino; la ‘Summa casuum conscientiae’ di Baptista de Salis, necessari allo studioso per rintracciare le origini della stampa a Genova; una ‘summa theologica’ di s.Antonino del XV secolo anch’essa rilegata in marocchino rosso dallo Zehe che attribuì l’opera a s:Tommaso, su cui fu scritto una annotazione di possesso “ S.Mariae de Cella extra Ianuam ad usum fratris Cypriani de Ianua. Frater Paolus (Olmi) de Bergomo vicarius g(eneralis) manu propria”; un volume stampato a Genova nel 1474; altro con due scritte ‘ad usum fratris Io. Marie Bog. (Boggio?) de Taurino’  (vissuto nel XV-XVI sec) e ‘ad usum fratris Basili de (?)’.

 

2.G======CHIESA n.s. DELLA Cella===========sfratto

Nel 1798, per ordine governativo (4 ottobre), vengono allontanati i religiosi, alcuni licenziandoli dalle funzioni ma i più sfrattandoli (a spese del Comune) e concentrandoli in pochi conventi (nel 1795 in Francia si formò il Direttorio, consiglio esecutivo composto dai cinque membri giacobini più estremisti e che ebbe vita fino al 1800 quando rientrato Bonaparte dall’Egitto non tolse loro l’autorità. Pertanto, nel marzo 1799 venivano espulsi i Carmelitani dagli Angeli, i Benedettini di san Romualdo da Certosa ed i Benedettini da s.Nicolò del Boschetto; e nell’ottobre il governo giacobino democratico autorizzò ad incamerare i beni conventuali evacuati.

Concentrata così la funzionalità religiosa, il Municipio locale ne reintegrò la pratica, esponendo una petizione (ininfluente il parere della Curia) per convertire in parrocchia la chiesa della Cella al posto di san Martino (che era l’ultima Plebania della valle di Polcevera).

In data 13 marzo 1799 fu ottenuta l’autorizzazione dal Consiglio dei Sessanta, firmato Torre.

 

2.H =======Chiesa N.N. della Cella=== parrocchia

Il  5 aprile 1799 un ordine comunale nominò la Cella parrocchia del borgo (essendo SanPierd’Arena sede di governo = è l’ anno in cui Massena inizierà ad essere assediato in Genova), trasferendole – anch’essa a spese della comunità sampierdarenese - il titolo e gli arredamenti da SanMartino, divenuta scomoda per i fedeli ed in abbandono progressivo.

Tutto il trasloco fu compiuto nel breve tempo di 23 giorni, dal 13 marzo al 5 aprile. Furono ricuperati il masso del SS Salvatore –che fu posto nel secondo altare destro-, il quadro di s.Bernardo del Grechetto, un quadro di s.Pietro ed una statua in legno del SS.Rosario); i locali dei frati saranno convertiti in abitazione per il nuovo parroco; per scuola, causa l’occupazione delle case da parte delle truppe francesi, mancavano sedi di scuole: per cui alcuni maestri avevano chiesto alle autorità “una stanza nel convento della Cella per esercitarvi le loro funzioni e i ragazzi non rimangano così privi di tanto bene”; magazzini sequestrati, esclusi quattro vani a piano terra  posti ‘vicino alla casa detta del forno’.

Fu poi insignita anche del riconoscimento di pieve ed arcipretura (il suo arciprete diviene anche Vicario Foraneo avendo a suffragio altre parrocchie (san Gaetano, Grazie, nonché a Cornigliano San Giacomo, S.M.di Lourdes (a Campi), e San Michele a Coronata). 

Malgrado questi riconoscimenti ed apparente libertà, il regime francese napoleonico manteneva un atteggiamento ambiguo: concedere la funzionalità religiosa ma limitata e controllata politicamente, mentre in realtà alle chiese erano stati appena  sequestrati tutti i beni preziosi in dotazione: denaro, oro, monili ed argenti: il ‘Commune’ (scritto alla francese) – per ordine del Commissario del Governo della Polcevera da cui dipendeva San Pier d’Arena - aveva provveduto a registrare i preziosi voce per voce ed insaccarli, per inviarli al ‘cittadino Ministro delle Finanze’ che li prendeva in carico in nome della Nazione (lo scopo era pagare i soldati  il materiale bellico e tutte le miriadi di spese necessarie all’alleato della Repubblica. Non è dato sapere che fine fecero: Massobrio dice che nel 1804 Napoleone stesso fece restituire a mons. Spina l’argenteria prelevata dal governo democratico (a parte il catino del Santo Graal ‘arraffato’ dai francesi quando abbandonarono la città, e restituito poi dai soldati russi, però sbrecciato).

Alla Cella erano stati ritirati valori preziosi per la somma di lire 6.048, più lire 159 alla Compagnia del Rosario (tra cui due pendenti d’oro). Girava allora un canto popolare di protesta, in trallalero con una voce maschile in falsetto (pubblicato anche su “La Gazzetta nazionale della Liguria” il 30 maggio 1801), che diceva “tanti ôri e tanti argenti – ch’eran drento e nostre Gëxe – e che tutti a nostre speise – eran staeti fabbrichæ! – prima i çinque, poi i trenta – tutti unïi coi sciuscianta – se n’ân ben impîo a pança, - ma ghe i faiêmo vomitâ!” ; significativa l’allusione al Consiglio dei Sessanta.

1802  (17 giu) per il giorno del Corpus Domini, in un tentativo di rinormalizzare i rapporti con la Chiesa assecondando i desideri del popolo, fu concessa una solenne processione. Dopo pranzo, una infinità di persone, donne con fiaccole, sacerdoti, confraternite, truppa francese e banda, concorse a riempire le strade del giro: iniziato dalla porta laterale si avviò verso il palazzo del Vento. Facendo varie pose in altari preparati all’uopo; in questa prima posa, sulla marina; una seconda in una cappella privata sulla stessa crosa; una terza in un altare preparato ai piedi del ponte di Cornigliano; quarto, tragitto di ritorno fino all’Oratorio dei Morti; poi altro fino alla chiesa delle suore Terziarie; poi al piccolo oratorio in testa alla crosa Larga; poi altro fino al cancello del palazzo DeFranchi alla Coscia; da qui ad altro altare ai piedi della crosa Larga; e rientro in chiesa.

Il 14 maggio 1804 il “Magistrato dell’Interno” stilò “l’elenco delle  parrocchie comprese nel territorio della Repubblica Ligure, al tempo della sua aggregazione all’Impero Francese”; nel ‘quarto Cantone, di Rivarolo’ al ‘n° 2 ci sono SPier d’Arena e Promontorio’

Nel 1807 Napoleone tentò colpire l’Inghilterra imponendo la chiusura al commercio inglese nei porti europei. Papa PioVII rifiutò per Ancona e Civitavecchia; cosicché il francese incaricò il re di Napoli Gioacchino Murat- di occupare Roma, detronizzare il Papa, prenderlo prigioniero e cercare di sollevare il popolo contro di lui; egli obbedì, sino alla sua misera morte a Pizzo Calabro due mesi dopo. Intanto, essendo stato deciso di esiliare il Papa, fu inviato a Savona. La feluca prima di arrivare a destinazione sbarcò in gran segreto il S.Padre sulla spiaggia di SPd’Arena.

Alla riva già l’attendeva in gran segreto una carrozza con la quale  fu trasferito dapprima a Campomorone da dove poi, via terra e sempre in incognito, fu avviato a Savona). Abdicato Napoleone il 6 apr.1814 il Papa tornò a Roma.

Pio VII venne di nuovo a Genova nel mag.1815. In occasione ripassando per SPd’A si fermò alla Cella visitando la nostra  chiesa (il fatto viene ricordato in una lapide -dapprima affissa sul frontespizio, poi all’interno, subito a lato dell’entrata-). Ripercorse il tragitto fino a Campomorone in un tripudio di folla, 53 colpi di cannone, soldati in parata, fiori e drappi alle finestre.

   Nel 1818 nelle sale del convento venne aperta una ‘scuola di carità’ , su invito del sindaco rivolto a ‘ecclesiasti che sentissero lo zelo abbastanza per esibirsi a fare insegnamento gratis’…’e, se abili, ne sarà fatta menzione onorevole al processo verbale del Consiglio come benemeriti della scuola e della Comunità ‘.

Viene scelto il maestro Giuseppe Comandi, già agostiniano a Bossana, di anni 62, che inizierà il 26 aprile ed al quale verrà corrisposto un onorario diescluso giovedi £.400 trimestrali  anticipati; dovrà dire messa tutti i giorni. Altre somme sono stabilite per libri, quaderni, cancelleria e premi agli studenti più diligenti e savi.

   Carlo Felice scese a Genova nel 1822 in occasione della celebrazione del centenario della traslazione dell’effige del ss.Salvatore, dalla Lanterna a san Martino. Il Salvatore fu riconosciuto patrono del borgo scalzando il titolare san Pietro (ancora riconosciuto titolare e onomastico della città, da mons. Olcese nel 1913).

   Il 2 marzo 1825 il municipio stanzia £. 1000 per l’acquisto di un orologio per la chiesa. 

   Nel 1826 morì il parroco arciprete Giovanno Luxoro, e fu sostituito in luglio da don Giuseppe Dova. Il consiglio comunale accettò delle modifiche alla canonica, affinché divenisse più decente, dopo la perizia fatta dall’arch. Scaniglia, per £. 4371,42.

   Nel’anno 1828 avvenne un terremoto che fece crollare la guglia del campanile. Esso fu riparato nel 1896 innalzandolo fino a 45m.

  Nel 1836 divenne arciprete don GB Antola, qui trasferito dalla cura di sanMartino dove operava dal 1800. Rimase in carica sino al 1843 quando subentrò per solo tre anni don Angelo Boccardo. Fu in quest’ultimo anno di transizione che dagli impresari Nicolò Scaniglia e Domenico Fossa furono appianati i livelli del pavimento, delle mense agli altari ed altri lavori; arcivescovo era mons. Tadini scomparso nel 1847.

Nel 1843, dagli impresari Nicolò Scaniglia e Domenico Fossa furono appianati i livelli del pavimento, delle mense agli altari ed altri lavori.

Si iniziò un nuovo progetto – affidato all’architetto sampierdarenese Angelo Scaniglia – di allungamento della navata, da migliorarsi con rifacimenti e decorazioni barocche  (che praticamente prevalgono ancor oggi, e formano un’insieme architettonico più ricco) lasciando intatta però la struttura del XIII secolo, in particolare rimettere in evidenza la volta a crociera nella navata davanti alla porta della sacrestia

Negli anni attorno al 1860 venne aperta la attuale via Giovanetti, cercando di favorire la confluenza verso la chiesa; anche se costruirono case in ogni angolo di orto disponibile e lasciare le vecchie troppo gravemente a ridosso della facciata 

  Dal 1846 fu arciprete il genovese don Stefano Parodi, già arciprete di Sori (che lasciò l’incarico nel 1862 per divenire canonico o magiscola della Metropolitana di s.Lorenzo; morì  il 30.12.1891). Nell’agosto 1847 propose un “invito alla popolazione” per il ristoro della chiesa parrocchiale; nella lunga lettera, lamenta gli scarsi introiti che impediscono le migliorie (per es. l’organo, il coro, la cupola, il prolungamento). Propone istituire una ‘Pia Opera dedicata a Maria Santissima sotto il titolo del Carmine’ mirata ad accrescere la devozione e ad essere da Essa protetti; per partecipare si verseranno 5 cent./settimana (di più, i facoltosi). Quando nel 1853 il Comune deliberò di aprire una biblioteca pubblica comunale, il parroco fu tra i primi a collaborare regalando 200 libri (che furono accettati dal Consiglio ‘unanime e con senso di gratitudine’; un resoconto molto distante nel tempo (1929) stilato dal bibliotecario, precisa 162 volumi).

   Fu sostituito da don Michele DeCavi, da Voltaggio, che rimase in carica fino al 1874; poi dal chiavarese don Stefano Daneri fino al 13 giugno1883; da don GioLuca Pizzorno  da san Biagio Rossiglione,  sotto cui il territorio di SPdA venne diviso in tre parrocchie (questa con 14mila parrocchiani) e  fino al 1891 quando anche lui fu eletto canonico della Metropolitana.

   Nel 1850 si realizzò il progetto dell’architetto Angelo Scaniglia: l’allungamento della navata,  alcuni rifacimenti e decorazioni barocche  (che praticamente prevalgono ancor oggi, e formano un’insieme architettonico più ricco) lasciando intatta la struttura della volta a crociera del XIII secolo davanti la porta della sacrestia.


Datato giugno 1853 un disegno di Angelo Scaniglia riproducente la pianta della chiesa allungata, il cui estremo a nord andava a lambire una casa – di proprietà Samengo - la cui entrata era in via della Cella:


evidentemente –per aprire via Giovanetti- la casa fu tagliata per quanto necessario ed ora rimane la facciata -ovviamente senza portone- con due sole entrate per negozio, corrispondente ai civv. 14 e 16rosso, ad un solo piano. Ricordiamo, riferendosi a questa casa, che nella carta topografca del G.Brusco del 1782, appare evidente che l’edificio, in quegli anni, era una chiesina della quale nessuno parla. Si ragiona descrivendo essere stato un oratorio confraternale collegato alla chiesa; il quale, nell’allungamento, fu  parzialmente inglobato nella chiesa in modo tale che -appare evidente-  la prima cappella attuale, ha una sua autonomia architettonica rispetto la controlaterale. L’altra parte di quell’oratorio dimezzato, rimase - all’inizio - con la stessa funzione di  oratorio divenendo –a metà del 1800- quel vano a monte della facciata, occupato oggi dalla sez. sportiva calcio Cella.

 

Nello stesso disegno dello Scaniglia,  il palazzo più a nord – attuale civ.2 - apparteneva ad Arnaldi così come quello di fronte che risulta il civ.2 di via F.Aporti, il quale di fronte – sul fianco della chiesa - non aveva la bassa costruzione nella quale ora ha sede il Cella calcio              

La facciata sarà completata nel 1896

Venne comperato ed installato l’organo Amati.

I due altari di fondo, che erano inizialmente rivolti verso il coro, furono lateralizzati ed in loro corrispondenza furono aperte le porte laterali.

  Negli anni attorno al 1860 venne aperta la attuale via A.Doria (oggi G.Giovanetti), cercando di favorire la confluenza verso la chiesa; anche se costruirono case in ogni angolo di orto disponibile e lasciare le vecchie troppo gravemente a ridosso della facciata.

2.I   Nel 1861 monsignor Magnasco  aprì per ‘dismembrationem a parochiali ecclesia matrice” due nuove parrocchie ‘paroecia nova sanctae Mariae Gratiarum” e quella “sancti Cajetani”, stabilendone i relativi confini (a ponente “viae Bovorum (nello stesso testo è chiamato anche ‘viae Bovum’ e ‘viculo Bovum’) ad occursum viae sancti Antonii (nunc via Mercato)...usque ad viam ascendentem ad colles (via dei Colli); ad oriente  littore maris cum recta linea per viam largam (via Larga).

   Nel 1876 la parrocchia conta 17mila anime.

   Si arriva a  quando nel 1881 vengono aperte le cappelle quadrangolari ai lati del presbiterio; ed a quando il territorio pastorale - della ormai divenuta città (1865) -  La chiesa viene intitolata a San Martino vescovo,  ed a santa Maria della Cella quale contitolare; mentre il Santissimo Salvatore, San Giovanni Battista ed san  Pietro apostolo, sono i Patroni.

Completando gli arredamenti ed abbellimenti interni.

   L’anno dopo, 1882, l’archeologo A.D’Andrade fu chiamato a controllare il ritrovamento di antiche mura, risultanti l’antica ‘cella di sant’Agostino’.

  Nel 1884 la parrocchia conta 23 mila abitanti (si sono aggiunti moltissimi operai immigrati per lavorare nelle officine metallurgiche). Il 16 lug.1884 l’arcivescovo mons. Saporiti divide il territorio in tre parrocchie (S.M.delle Grazie ad est;  S.Gaetano a nord-ovest); la Cella in centro, col titolo di arcipretura ed una presenza di 14 mila  fedeli.

   Nel 1885 furono aperte al culto le cappelle di NS dell’Olivo e di s.Pietro.

   Nel 1889 divenne parroco don Olcese Francesco da Cornigliano fu G.B., decimo arciprete della parrocchia e rimase in carica fino al 1915 quando se ne andò perché promosso abate di NS del Rimedio.

Egli nel 1896 rinnovò ed innalzò il campanile a 45m, arricchendolo di un concerto di sei campane. Scrisse e pubblicò un opuscolo sulla storia del SS Salvatore. Nel 1907  subì la spiacevole situazione di veder arrestare il fratello, don AngeloGiuseppe di 62 anni e coabitante nella casa canonica, accusato dopo severa inchiesta di “fatti nefandi e inenarrabili di cui furono vittime alcuni ragazzi minori di 10 anni, abitanti nella nostra città”. Questo turpe avvenimento di luglio si sommò a concomitanti accuse riguardanti i salesiani di Varazze (accuse rivelatesi poi infondate e false) ed un assalto  di ‘teppaglia’ al don Bosco di San Pier d’Arena ed a san Lorenzo di Genova.

 Nel 1896 il nuovo ed attuale campanile, arricchito di un concerto di sei campane è stato rinnovato ed innalzato sul troncone del primitivo   quattrocentesco.

Il giornale ‘la Settimana Religiosa’ del marzo 1896 annuncia  per le ore 5½ l’esposizione della reliquia della S.Croce.

   Negli anni 1896-8  l’architetto Scaniglia (secondo Novella e Tuvo; mentre Guida Sagep dice nel 1850)  completò la nuova facciata in stile classicheggiante, pur senza però un rigido rigore stilistico; comunque non ripeté il barocco anche esternamente;  fece dirigere il lavoro dall’ing. Nicolò Bruno (che si firmava “Niccolò”).

1909. il presidente della fabbriceria Felice Liberti, in memoria del suocero Raffaele Morando, fa restaurare - e con ciò definisce il vano da destinare al Battistero - gli stucchi della cappella Salvago, per opera degli artisti Piotti Carlo (stuccatore-confermato in tutte le ricerche); Rossi Angelo (non confermato nell’opuscolo Fides Nostra) e Ortelli Federico (marmista, citato nell’opuscolo di cui prima; e Pasciutti (per i bassorilievi in gesso ed i bronzi - idem precedente).

   Nell’anno 1913 si festeggia il SS Salvatore. Nell’opuscolo dell’ arciprete mons. Olcese Francesco si legge ricorrere la ‘festa XVIcentenaria costantiniana’ in memoria dell’editto di Pace e libertà della Chiesa emanato da Costantino nel marzo del 313 a seguito della vittoria ottenuta il 28 ottobre dell’anno prima su Massenzio (figlio di Massimiano) a Ponte Milvio. Ad esso conseguì il concilio di Nicea nel 325. Era anche ricorrenza nella nascita di Federico Ozanan (23.4.1813 a Milano, da genitori francesi, fondatore a Parigi della “Conferenza di s.Vincenzo de’ Paoli”). Ricorreva anche il 25° del dono della Madonna dell’Olivo (detta anche della Pace). In particolare -in quest’anno- fa rifare il tetto della cupola con aggiunta del lanternino.

   Nel 1915 la pieve è curata da don Giovanni Bozzano da Coronata.

Curò da subito i lavori dell’interno della cupola, affidando la direzione dei lavori coordinati dall’ing. Pietro Sirtori (che faceva parte della fabbriceria), aiutato da ampia squadra: dal prof genovese Carlo Dellepiane per i disegni ornamentali e tinteggiature; e pure per la copertina dell’opuscolo Fides Nostra; da Luigi Boni modellatpore di stucchi; da Teobaldo Pinto, scultore, autore delle 4 statue poste nelle nicchie; dalla ditta genovese Novarina per  i vetri delle finestre (su disegno del Sirtori); da Angelo Carpi, indoratore; dal pittore GB Moltedo (ritoccatura dei peducci e ripulitura delle pitture delle mezzelune); e sia dal pf A.Vernazza (affresco dei putti nelle cartelle delle arcate che reggono la cupola).

   Nel 1921, in preparazione del 2° centenario (1922) del ricupero dell’immagine del SS Salvatore, tutta la chiesa proseguì a sottoporsi al restauro; così in particolare vennero ad essere messi in atto: il tetto ed il frontone laterale a mare (affidati alla ditta Bartolomreo Rebosio); la cupola (esternamente da ultimarsi con lanternino ed -internamente- con stucchi indorature marmi e pitture=in particolare, mirando a far gravare il peso degli stucchi non sul canniccio della volta ma verso i lati: furono artisti in questo i giovani Mario Fornoi; Paolo Balocco; Umberto Colò modellista); cornicione; la volta della navata centrale (da ultimare e ‘scoprire’); ed i muri della stessa navata (nel settore soprastante le arcate, essendo artisticamente lavorati: si prevede la indoratura e pittura); fare per il SS Salvatore un apposito tempietto da porre a fianco del Battistero. Le navate laterali che non erano coperte dal finanziamento pubblico, trovarono la vil moneta tramite fiere con lotteria di oggetti regalati, iniziative di volontari e quindi venivano affidate alla volontà di singoli privati. 

   A don Giovanni seguì dal 1925 il nostro concittadino  arciprete Raffetto GB Emanuele, che nel 1933 appare avesse come curati don Luigi Adrianopoli e don Camillo Cavo; con l’incarico di gestire anche la prevostura di NS della Sapienza delle madri pie Franzoniane il cui prevosto era don Giovanni Schiappacasse. 

   L’anno 1929 vede l’apertura della specifica ‘cappella del ss.Salvatore’.

   Nel 1934, quale beni culturali, l’intero immobile, il chiostro ed il ‘battistero sporgente c/o Chiesa S.Maria della Cella’  furono separatamente vincolati e tutelati dalla Soprintendenza per i Beni architettonici; assieme poi, dal 1942 alla Cappella e Oratorio di s.Agostino.

   Nulla di rilevante successe, fino al 9 giu.1944 quando una bomba danneggiò il tetto permettendo infiltrazioni di umidità che erosero parte della Natività del Fiasella; devastò l’antico chiostro che andrà parzialmente perduto; venne danneggiata anche la chiesupola di San Pietro-Sant’Agostino, che nel frattempo era dimenticata, sommersa  da altre costruzioni che interamente la occultavano.

La Soprintendenza ai monumenti provvide allo sgombero delle macerie irrecuperabili; alla ricostruzione e restauro (un muro, una parte della volta); allo scavo tutt’intorno di una intercapedine atta ad evitarne ulteriore rovina; ed a traslocare le pitture.

   Nel 1950 era ancora arciprete vic. foraneo il sac. Raffetto GB Emanuele, e la pieve, arcipretura,  si chiama “S.Martino e S.Maria Assunta”.

    Parroco dal 1926, morì il 20 maggio 1957 don Emanuele Raffetto. Venne sostituito dal 28 giugno da don Bartolomeo Ferrari  (nativo a Sestri Pon., il 15 agosto -giorno dell’Assunta - del 1911, da genitori entrambi operai al tabacchificio nezionale. A dodici anni entrò in seminario a genova, divenendo sacerdote  il 15.6.35 (ordinato dall’arc. Minoretti) prestando servizio come coadiuvatore del parroco ab. Cavassa a sMartino d’Albaro e poi dal 1938 alla parrocchia NS. (Madonna) della Neve a Bolzaneto dove divenne parroco nel 1943. Durante il conflitto, con l’autorizzazione dell’arc. Boetto, la parrocchia divenne centro di raccolta per aiuti ai partigiani; nel 44, alla quale seguì –essendo ricecato dalla questura fascista- la via della montagna assieme ai partigiani,  divenendo “don Berto” il prete cappellano della Mingo. Nel 1947 fu inviato a ventimiglia, nella cosidetta ‘colonia degli sciuscià’: un edificio già appartenente alla Gioventù Littoria e ospitante i tanti orfani della guerra.

Nel sett.1954, richiamato dal card. Siri, divenne coadiutore del parroco (don Raffetto) della Cella; e nel 1959 Arciprete e Vicario foraneo (sino al 20 sett. 1991 quando nominato monsignore fu mandato in pensione). Non era solo un opttimo predicatore con alto carisma, ma anche infaticabile missionario locale, sicuramente vantaggiato dal suo precedente di partigiano ma anche per un carattere deciso e decisivo, forte specialmente per l’interesse al modo del lavoro. L’arciv. Siri se lo portò in un viaggio in Russia nel 1975. Era presidente della Croce d’Oro; della cooperativa il Giglio; delle prime associazioni rappruppanti gli handicappati. Scrisse alcuni libri della sua vita ‘in montagna’ (“Sulla montagna con i paertigiani”, “Prete partigiano” e “il Ribelle”). Mai mancò agli appntamernti di commenorazione dei fucilati alla Benedicta e dei monti liguri.


Grande amico della famiglia Mantovani (presidente della Sampdoria) fu chiamato a celebrare le nozze della figlia. Morì all’ospedale Villa Scassi, a 95 anni, il 21  aprile 2007).


   Al ‘vecchio’ e glorioso parroco mons. Ferrari, uscente per motivi di età, nel 1991 subentrò nell’incarico don Alessandro Tomaso Ghigliotti, che morì prematuramente per neoplasia all’inizio di novembre 2000; (Era arrivato alla Cella nel 1960, con funzioni di vice parroco, sino al 1973, tornando dopo una breve parentesi a Fontanegli; e come parroco, al pensionamento di mons-Ferrari.


Memorabile l’accoratoappello per la salvaguardia della chiesuola, lanciato il 18 marzo 1998; al quale seguì -l’11 aprile- l’ annuncio dell’ interessamento alla ristrutturazione da parte della Provincia, di Italia Nostra, dei Beni Ambientali della Regione, del Fondo per l’Ambiente Italiano: non sappiamo come sia finita ma…forse s’era vicini a qualche elezione?…

Nel novembre di quell’anno un concerto della ‘Poliphonia consort’ suonò per iniziare i festeggiamenti del duecentesimo compleanno della parrocchia.


Furono conclusi alla successiva  sagra del SS.Salvatore con bancarelle su tutto il percorso del carro col sacro Sasso, accompagnato dai fedeli, da bande musicali (la Risorgimento locale e la Filarmonica sestrese), da un corteo della Croce d’Oro; ed infine un concerto al Modena con il coro C.Monteverdi. Il 29 mag.1999 fu lanciato «l’invito a conoscere…» con visita guidata e tavola rotonda sul tema, presenti la Circoscrizione, il Comune e la Sovrintendenza ai beni ambientali ed architettonici nonché il Conservatore della Galleria di palazzo Bianco.

Nel nov-1999 fu riannunciato un restauro sia della chiesetta di sant’Agostino che del chiostro e dell’impianto elettrico.

Dal 4 mar.2001 divenne arciprete, con funzione ministeriale  di parroco (fu spostato da Busalla) don Carlo Canepa: egli è anche uno dei cinque Vicari del ponente, presidente del Consiglio Pastorale vicariale di San Pier d’Arena (il Vicariato locale, con (nel 2002) solo 19 sacerdoti e due diaconi copre una superficie di 3,2 km. con una popolazione di 45.054 distribuita in 9 parrocchie; tramite incaricati, gestisce un Centro di ascolto (in Cso Martinetti, 12/14r), la Charitas, Catechesi, Evangelizzazione; Giovani e Famiglia); ha come vice parroco don Migliori Carlo ed aiuto pastorale mons. Ferrari Bartolomeo (deceduto nel 2007).

Nel dicembre 2001 si ripartì con l’iniziativa degli ‘itinerari guidati’ compiuti da persone ultrabenigne e volenterose, nel tentativo di far scoprire l’opera d’arte locale mentre tutto intorno si sta avverando la desertificazione delle attività commerciali ed artigianali. Nel 2002 si parlò di ‘rinascita del centro storico’ con un finanziamento di tre miliardi (pavimentazione, illuminazione, zona pedonale). Ma ormai di promesse politiche...forse, non serve cambiare colore basta iscriversi al partito giusto).

Nel 2007 si sono concretizzate sia  la pulizia dei marmi della facciata (da quando -1850- era  stata progettata nuova da Angelo Scaniglia) e sia la restituzione del grosso quadro di GBCarlone, restaurato, di san Francesco Borgia.

Nel territorio parrocchiale ci sono circa 10mila anime; e come strutture religiose ci sono le M.Pie Franzoniane (con la Chiesa di NS della Sapienza e l’Istituto).

 

TRADIZIONI parrocchiali:

==viene descritto che – non specificato quando ma considerato la qualità dell’espressione, si presume già nel XIV o XV secolo -  nel giorno del Giovedì Santo si esponevano alcuni fantocci vestiti come i personaggi della Passione; e in tale circostanza venivano eseguite dalle Confraternite  le ‘Cantëgoe de Canandò’ (nenie, cantilene) ossia i canti della ‘coena Domini’ (il pasto comune con i poveri, simbolo dell’ultima cena, spesso preceduto dalla lavanda dei piedi). 

==La chiesa ha ospitato la ‘Confraternita di Morte e Orazione’. Disciolta con la distruzione nel 1935 dell’omonima chiesuola in fondo a via NDaste per far transito a via ACantore.  Tuvo segnala la presenza, nel 1826. di una Confraternita della Misercordia, che si era incaricata di somministrare razioni di pane, minestra e paglia ai detenuti nelle carceri comunali (il pane=2/3 di frumento, 1/3 segala-la razione/die 28 once (=750 gr.); (la minestra= per tre giorni- 125g. riso o pasta di frumento, 2 once di legumi secchi (o 4 verdi), condita con sale, lardo, butirro o olio).  

   Anche la ‘Confraternita di Orazione e Morte’.

Non è stato legalmente possibile acquisire il vecchio nome “di san Martino” perché quando disciolta con la distruzione dell’Oratorio omonimo (vedi vico Cicala-via A.Caveri), fu smembrata ed i suoi beni in buona parte venduti ad altre confraternite. Riattivata per sacrificio e tenacia di alcuni fedeli (alcuni parrocchiani, guidati e sponsorizzati dai fratelli Bisio gestori del negozio di sanitari e figli del farmacista Aristide), costituirono il ‘Gruppo spontaneo del SS.Crocifisso’; riuscendo infine a battezzarsi con il definitivo nome di quella confraternita che era propria nel territorio della Cella. Dopo svariate avversità e numerose difficoltà, riuscirono a rifar fare il Cristo da processione (dallo scultore rapallino Osvaldo Cipolla che rispettò antiche tecniche di costruzione locali gelosamente custodite, usando il legno di un albero secolare di alloro dovuto abbattersi nel cortile della Croce d’Oro. Sono 115 chili  trasportati dai cristezanti o ‘portôuei’ ed aiutati dai tramutatori ‘stramûôei’, dovendo sfidare il peso sulle vertebre, la gravità, il vento, le fronde degli alberi, i fili tesi in alto, la fatica della camminata non sempre ritmica. Le grandi croci possiedono vistose ‘appendici’ decorative staccabili realizzate in lamierino argentato finemente lavorato a fiori ed immagini, rappresentazioni artistiche e simboliche dei doni e delle offerte dei fedeli. Ovvia una assicurazione per danni agli altri, anche se  mai utilizzata).

E con l’effige, rifare anche le vesti, ricuperare il gonfalone, mantenere e conservare alcuni  riti e tradizioni dell’antica confraternita.

 

     

confraternita s.Martino

confraternita pugliese                   

 

Seppur separate di fatto, ampia è la collaborazione con l’altra Confraternita sampierdarenese, quella di Promontorio anche se a livello pratico rimangono - tra le società del territorio ligure - frequenti contrasti e divergenze (per la storia della Confraternita di san Martino, vedi a vico Cicala).

Per tutte le Confraternite liguri, gestite da un priorato comune – che vede elette anche delle signore - in carica biennale, il 10 aprile è il giorno comune di inizio dell’anno sociale coincidendo con la festa di NS della Misericordia.

Nel 2003 i vescovi liguri hanno emanato una nota pastorale, bocciando nelle processioni certe musiche e le scenografie di forza e destrezza, onde favorire negli astanti il senso della pietà, del raccoglimento e meditazione specie quando in processione per strada; invitando i parroci a far sì che nei singoli oratori si faccia preghiera comunitaria ed esercizi di carità, catechesi ed istruzione

== La festa del SS Salvatore, è descritta nel testo

==La festa dei santi Cosma e Damiano, particolarmente ossequiati dalla confraternita della comunità pugliese, è anch’essa descritta nel testo.

 

==L’U.S.Cella, che nel 2001 milita a mezza classifica, in 2a categoria girone C . Fondata nel 1960, fa parte della FIGC; ha i colori sociali giallo blu e campo sportivo usato è quello del Mauro Morgavi a Belvedere.

==Viene descritto che nel 1924 esisteva un ‘circolo Giosué Borsi(nativo di Livorno il 10 giugno 1888, fu scrittore autore di opere narrative e saggistiche, pubblicate postume, testimonianti una sofferta conversione religiosa. Ricordate “Testamento spirituale” del 1915, “Colloqui” del 1916, “Confessioni a Giulia” del 1920. Morì a Gorizia il 10 novembre 1915).  L’occasione è legata alla devastazione della sede da parte di prepotenti fascisti, che nel caos oltraggiarono pure l’ immagine del Sacro Cuore.

 

                   L’EDIFICIO 

per mia comodità ed usando una piantina tratta dall’opuscolo della chiesa, ho suddiviso in:

Chiesa ==Esterno==confini, campanile, facciata, cupola, chiostro

                Interni==cripta, pavimento, volta, cupola, cantoria, controfacciata, navate

sAgostino == sAgo....

 

ESTERNO  :

===I confini: Nella carta del Vinzoni i confini parrochiali sono ben definiti: a mare (tutta una serie di case di proprietà privata, due delle quali dei RRPP della Cella, altre dei Crosa, Nicolò Pittaluga, Magistrato della Misericordia, Camillo Costantini); a ponente (la crosa della Cella), a nord, di proprietà e sopra la chiesa, il chiostro e tre spiazzi ad orto (confinanti con gli appezzamenti dei Grimaldi Gerace, Ambrogio Doria, march.Giuseppe Serra); a levante (la proprietà dei fratelli Mongiardini che la separava da quella dei Cambiasio (sic)).

     

 confine di levante: -a sin. esterno della proprietà (a cui si accede da via San Pier d’Arena, con scala e  porticina che apriva al piano superiore del chiostro); -a destra lo stesso muro con contrafforti e strano semicerchio (per sorreggere il peso o antica porta?)

Attualmente, rispetto al Vinzoni, manca lo spazio occupato dalle case di via G.Giovanetti poste a levante; il rimanente appare invariato: a ponente ed a mare confina con la strada comunale e le case; a nord è conservato il terreno da via F.Aporti all’antico muro limitante a levante.

La strada. Aperta ex novo nel 1860, più larga della antica crosa della Cella non modificabile, fu  dapprima chiamata via Andrea Doria.

Nel 2003  la strada - di discreto traffico - a diretto contatto con l’entrata, pone difficoltà per le cerimonie, specie le auto nei matrimoni e l’auto funebre nei funerali, che possono sostare solo occupando i marciapiedi. In quell’anno dall’Aster fu rifatta la pavimentazione antistante ricuperando tutti gli spazi attorno, dei micro-slarghi esistenti.

===Il campanile fu eretto nel 1485. Nel terremoto del 1828, subì una frattura alla guglia, che fu rifatta a cupola. Le campane furono installate nel 1896. Allora sino al cornicione di coronamento, era alto 30,1 m. a partire dal pavimento (corrispondente a m.20,65 a partire dalla volta), diviso in 4 piani raggiungibili con scala in muratura; aveva un perimetro di 5,4m e dimensioni interne di 4x4m, con muri spessi 070m di pietre dure da taglio; fu calcolato un peso totale di 600t.

Nel  giu.1877  fu fatta una prima perizia da parte dell’ing. Carpineto, della Curia arcivescovile. Nell’ott.1893 l’ing. Virginio Garneri  di San Pier d’Arena, consultato in proposito, aveva rinunciato alla proposta di riparare, giudicando la sua stabilità un miracolo perché ‘fuori della logica ingegneristica costruttiva, e propose rifarlo tutto nuovo’.

L’ing. Carpineto ripeté un controllo nel 1895 valutando un progetto redatto dall’ing. Ratto mirato ad ampliare e regolarizzare le due cappelle con possibile compromissione della stabilità del campanile.  Nell’ago. 1895 si iniziò uno studio più approfondito col fine di innalzarlo e munirlo di campane (da posizionarsi sopra le case circostanti. Grave apparve subito -per la stabilità- il problema della loro oscillazione funzionale nella parte apicale): essendo parroco l’arciprete Francesco Olcese, dal fabbriciere Francesco Dall’Orso furono separatamente incaricati dei rilievi l’ing. Sirtori Pietro e poi (lug.’96) anche Niccolò Bruno. Il primo, rilevò che le condizioni di stabilità e struttura erano ottimali e che i lavori si potevano fare pur di non aumentare il peso, perché mentre la parte nord poggia sul muro perimetrale, quelle a sud, levante e ponente sono sorrette dismetricamente dalla volta a crociera della navata laterale (dello spessore di 35 cm)  e –a sua volta- impostata su archi (presso l’entrata della sacrestia; una volta uno dei bracci del transetto dell’antica chiesa, ad una sola navata); propose demolire la cupola e le pesanti scale, costruire in alto una nuova gabbia fenestrata e leggera per le campane e fare in maniera che esse poggiassero su armature gravanti sul pavimento e non sulle pareti come precedentemente. La commissione edilizia comunale, interessata dal presidente della Fabbriceria ed assessore comunale cav Gherardi Carlo, e sulla base della relazione Bruno, nell’agosto 1896 accordò il benestare quando già alcuni lavori (abbattimento della scala interna) erano stati eseguiti. L’opera fu commissionata alla ditta Grosso & C, anche per l’innalzamento delle 5 campane; essa si avvalse nel 1897 del fabbro ferraio Antonio Storace (‘costruzioni in ferro’, residente in piazza XX Settembre; responsabile della fabbricazione su misura degli arnesi necessari: chiavi, inferriate, balconiere, ossatura della cupola e croce, innumerevoli ferri specifici, bulloni e quant’altro necessario; fu pagato in 7 rate mensili senza interessi aggiunti per la cifra totale di 2100 lire; e si firmò rinunciante a qualsiasi azione civile e giudiziaria rimettendo l’adempimento dei reciproci doveri alla onestà delle parti).

  

 

campana posta a levante          a nord-ovest

 

     

campana a sud                  a nord est                           panorama dal campanile, verso ovest

 

==La facciata

La facciata. 1850: “su progetto di Angelo Scaniglia (1791-1870, sampierdarenese, allievo di Carlo Barabino), si allunga l’edificio e si rifà la facciata con stile neoclassico”, con tre grossi portoni di ingresso, tutti praticamente delle stesse dimensioni e tutti e tre di eguale fattura. Tutta l’intera facciata è divisa in tre parti rettangolari corrispondenti alle tre porte, coperte ciascuna da tre tetti spioventi, eguali, anche se ovviamente a due altezze diverse. Le due parti laterali sono eguali tra loro e più basse; la centrale è sopraelevata, in basso da un  timpano basale (nel quale c’è la sola scritta IHS con croce sovrastante la H) e sopra da due piani soprastanti nei quali, in quello superiore c’è un lunotto semiocircolare.

 

Alizeri -1875- segnalando oltre al ‘novello prospetto ed il nobile ingresso’, anche la ‘fresca giunta fatta alla chiesa per il suo lungo’, e  che ‘sulla quale per mano dello Storace è un dipinto che allude all’antico ed al nuovo titolo’.

 


 

 

 

Il Remondini ripete pari le stesse parole aggiungendo che «sopra il dipinto c’è un marmetto ove leggesi un’epigrafe, che si crede di Sebastiano Canale:  D.O.M. ET AD COMMEMORATIONEM AVSPICATISSIMI DIEI  -  XV MAII MDCCCXV  -  DVM ISTAS  -  PIVS VII PONT. MAX.  -  INNVMERIS CVM CLERO GESTIENTIBUS POPVILIS  -  AD HOC IN ARENARIO  -   ILLECTIS  -  SACRAS INGREDIEBATVR AEDES  -  TVNC TEMPORIS CVRATORES  -  HOC PRO AETERNIS POSUERUNT. E quei buoni marinai questo avvenimento tramandano di padre in figlio.»).


I marmi  nei lunotti raffigurano i due titolari ed il patrono.

 

           

 

a) la facciata centrale.

Circondata da quattro colonne con capitello  sorreggenti una travatuta senza decorazioni ma di poco più avanzata delle laterali.  Nel lunotto sopra la porta, in altorilievo sono raffigurati -in forma sfumata- delle figure di vescovi del Concilio; ai lati dei due  santi, esistono due tondi di difficile lettura:  a sinistra forse dell’ archiepiscopis ed a destra del parroco(?); ed al centro tre figure ben rilevate i cui nomi sono scritti sul sottostante capitello sovrastante la porta stessa: «SS Salvatore (al centro) con ai lati s.Giovanni Battista e s Pietro apostolo – patroni».

== la porta in bronzo fu scolpita da G.B.Airaldi (1914-1998) e fusa nel 1967: bassorilievi con immagini caratteristicamente  stilizzate, abituale forma espressiva dello scultore. Le foto sotto, in ordine dal basso:

porta centrale- metà sinistra=p.t (decollazione di san Giovanni Battista) -2° (Concilio Ecumenico con il nostro vescovo di allora, mons. Siri) -3° (battesimo di Gesù) – 4° (Gesù e due apostoli).

 

   

decollazione s.GB     Concilio Ecumenico     battesimo                     Gesù e due apostoli

 

porta centrale-metà destra=riquadro di piano terra (martirio di s.Pietro), 2° (i due papi del Concilio Vaticano II: Giovanni XXIII e dal 1963 Paolo VI) -3° (resurrezione di Gesù) -4° (consegna delle chiavi a Pietro);

 

   

Martirio sPietro         concilioVaticano II      resurrezione                   consegna chiavi a Pietro

                                   I due papi

 

                                  

b) Quella laterale a monte, inquadrata tra due colonne piatte con capitello all’apice, mostra nel lunotto marmoreo la Madonna circondata da due angeli alati inginocchiati in evidenza e due appiattiti dietro; la scritta sotto specifica «Santa Maria della Cella- contitolare». La porta anch’essa fusa nel 1967 è dedicata alla vita della Madonna di G.B.Semino (1912-87);

porta a monte -metà sinistra = (la successione storica è descritta dall’alto del 5° riquadro al basso e, prima sinistra e poi destra): 5° p., annunciazione;  4° p., visita di Maria;  3° p., nascita di Gesù; 2° p., fuga in Egitto; 1° p.terra,  i re Magi o circoncisione(? dovrebbe essere prima della fuga).

 

                

 

porta a monte-metà destra = 5° p. Gesù dodicenne, disputa con i dottori; 4° p. le nozze di Cana e mutazione dell’acqua in vino; 3° p. salita al Golgota; 2° p. deposizione di Gesù;  p.t (Madonna tra alcuni apostoli, dei quali quello a sin. è il ritratto di mons. Ferrari).

 

               

Madonna con apostoli

 

 

c) quella laterale a mare ha nel lunotto  l’altorilievo di san Martino nell’atto di donare la metà del mantello. La scritta sotto infatti specifica  «San Martino vescovo – titolare».

La porta ==di  Valdieri Pestelli (1925-  ), fusa nel 1967, è la porta a destra con scene della vita di san Martino vescovo divenuto titolare quando la chiesa assunse la funzione parrocchiale trasferitale dalla vecchia abbazia omonima in abbandono.

metà sinistra =

   

Porta a mare – metà a destra =

   

 

  

d) Infine, la porta laterale aperta sull’arenile -oggi su via San Pier d’Arena- presumibilmente è la stessa, antichissima presente dai tempi dell’erezione della chiesa.

nel timpano  sotto la protezione di Gesù e della Madonna, una barca traghetta marinai e donne in difficoltà.

Sottostante, c’è un lunotto semicircolare vetrato

Nel sovraporta rettangolare una chiesa in centro  ha in basso come un porto con tante barche, a fianco una riga di case ed alle spalle sulle colline ville turrite = non è certo riprodotta sPdArena perché non aveva un porto allargato, né la chiesa che ha una sola entrata; forse riproduce la Chiesa in genere. In basso a destra si può leggere il palazzo della Fortezza, quadrato e massiccio, con a fianco una torre saracena.

La porta le ante furono inaugurate nel 1986; sempre opera di V. Pestelli. I soggetti erano stati modellati in cera e fusi presso le fonderie d’arte ‘Battaglia’ di Milano. Sponsorizzata dalla Carige,  fu benedetta dall’arcivescovo Siri il 5 magg.1988; raffigura storie e tradizioni locali, religiose o marinare nel  medioevo: 

=a sinistra ‘i contadini che difendono dai saraceni il frutto del lavoro’; ‘guerrieri medievali in lotta’; ‘re Liutprando che riceve le reliquie di sant’Agostino’; ‘la costruzione della chiesa’; ‘la funzione religiosa dell’opera’.

=a destra  dal basso = la scritta “Donati dalla cassa di Risparmio di Genova”;  1° ‘la flotta spiegata, pronta a partire‘; 2° ‘

 ‘un calzonaio ed un fabbro testimoni della primitiva organizzazione del borgo’; ‘i fedeli festanti al rito’; ‘le donne offrono all’altare di san Pietro i doni della terra e del lavoro’; ‘nei cantieri si costruiscono le navi per le crociate’;.

 

 

 

 

 

Tutti e tre i portali in bronzo dei tre ingressi principali,  ed anche quello del laterale in via San Pier d’Arena, furono fusi favoriti dall’instancabile opera del parroco don Berto Ferrari, figura cardine della città per due lustri nel dopoguerra.

===La cupola Alizeri ha ‘salde notizie’ per confermare che l’opera fu eretta nel 1639 per desiderio degli Agostiniani. Prima di allora, già dal 1200, si scrive ci fosse un tiburio (che è una struttura nel rivestimento esterno di un edificio, a tipo cupola, a spicchi, su pianta poligonale – la più elementare è la piramide; già usato nell’architettura romanica e gotica ma poi soprattutto in quella lombarda; in genere veniva sormontato da un’altra struttura  detta lanterna). Nel 1639 fu definitivamente fatta a forma ellittica; e poi rifatta o aggiustata nel 1913 e 1921. Vedi dopo, a interno→cupola la descrizione della struttura e decorazione interna.

===il chiostro    come tutti i conventi, il chiostro era l’elemento centrale del complesso, per la meditazione, per la preghiera, per l’aggregazione. Ed il nostro monastero non era da meno. Adesso è praticamente distrutto, e quindi bisogna lavorare di fantasia per ricostruirne la struttura. Rimangono:

---il corridoio che dalla chiesa porta alla sagrestia, è una parte del vecchio chiostro, opportunamente tamponato da farlo comparire come un corridoio. I pilastri che lo delimitano, restano a testimonianza di come erano.

---il camminamento doveva essere a due piani: quello sopra coperto e quello sotto aperto al centro

---tracce e segni sulle pareti esterne, ne segnano l’altezza e la dimensione.

   

dopo il bombardamento

    

dopo il bombardamento

 

A sin- il piazzale corrisponde all’area interna del chiostro le cui arcate si leggono anche nei palazzi attorno

colonna-capitello nel corridoio

verso la sacrestia

INTERNI  

  Ripetiamo  la successione==cripta, pavimento, volta - cupola, cantoria, controfacciata, navate

  Raggiunge i 60 m di lunghezza; a tre navate, divise da due fila di colonne, come in tutte le basiliche. 

  Ebbe un allungamento nel 1850, quando -per mettere in asse la facciata con la strada testè aperta al traffico, quando allora si chiamava via Andrea Doria- si provvide a coprire dall’ultimo pilastro al frontespizio e rifare la facciata esterna  (favorevole e propugnatore dell’ampliamento, fu anche un ventiduenne zelante membro della Fabbriceria della parrocchia, che si chiamava  Daste Nicolò, non ancora sacerdote).

  Consta di 11 cappelle.

 

===CRIPTA. È collocata sotto l’altare maggiore. Sino al 1798 circa, i defunti venivano sepolti in chiesa (ci sarà un ossario comune?); in quell’anno il parroco don Giuseppe Luxoro, fa denuncia alla Municipalità perché a sua insaputa e quindi senza il suo consenso, il Priore del convento aveva fatto controlegge seppellire nella chiesa dei cittadini defunti. Ancora nel tardo 1800 vi fuorono  sepolti componenti della famiglia Rolla, grandi imprenditori locali di tessuti e munifici benefattori della chiesa.

 

=====PAVIMENTO  fu posizionato con lastre marmoree nel 1960 su disegno dell’ing Strura Piero (lavoro eseguito dalla ditta Henraux di Querceta di Serravezza in quel di Pietrasanta). 

Sul quotidiano locale del marzo 1990, venne pubblicata la notizia relativa a questo rifacimento, specie nella parte che si apre al sagrato verso il mare: due operai, scavando, trovarono un profondo ossario con teschi, tibie, ecc. che li costrinse a fermarsi: una necropoli, sia con ossa sparse e sia di altre in ‘caselle sistemate una di fianco all’altra’; già don Berto ne era a conoscenza da vent’anni prima; adesso, settantanovenne, è scritto abbia riconosciuto, nei resti, i sepolti in chiesa di come era consuetudine sino all’editto napoleonico: “gente che ha voluto essere sepolta qui”; e di conseguenza che ha detto agli operai “femmo fîto altrimenti qui non ci fanno finire”: il tutto fu coperto da uno strato di cemento con soletta sopra l’ossario, e poi sopra i marmi. Don Berto aveva già constatato che alcune tombe, decorate con stemmi, erano state profanate: il sospetto che la soldataglia francese fosse andata alla ricerca di preziosi non era stato escluso a priori.

 

===== VOLTA:  Navata Centrale:

 

F=   soprastanti l’orchestra (cantoria ed organo), area ricuperata con il


prolungamento ottocentesco, opera di Luigi Gainotti (1859-1940) sono gli “Angeli cantorisorreggenti un grosso libro musicale.

Egli dipinse anche le figure dei Profeti che fiancheggiano in alto la navata centrale.


Nei dieci medaglioni, vi sono figure rappresentanti ‘i dieci Comandamenti’,

disegnati da allievi del Barbino: uno affrescato di A.Vernazza (1869-1937) gli altri nove su altrettanti pannelli, di GB Semino (1912-1987; dipinti negli anni 1960).

 

 Seguono gli affreschi più datati, allusivi alla vita di san Martino, racchiusi ed ornati da ricche decorazioni di stucco dorato sullo stile barocco:   

E=  san Martino iniziato alla fede da s. Ilario di Poitiers  di Nicolò Barabino (1832-1891), affrescato nel 1864 (nell’opuscolo della chiesa si scrive 1871) per 1000 lire (altri, compreso Tosini, scrivono nel ’71; comunque in piena maturità e formazione accademica, legata ai moduli classici). L’immagine propone il santo inginocchiato ai piedi del sacerdote, sant’Ilario di Poitiers, ed attorno della folla. Sono descritti come  in una stanza, con loggia ad arco, aperta su un paesaggio

D= la  Visione del Santo Martino, di Giuseppe Passano (1786-1849 prolificissimo affrescatore); assieme a C= e  B= preesisteva ad E=. Descrive il Santo con  la metà mantello dopo averla donata ad un povero; egli è a terra, o perché ridestato da un sonno o perché da cavallo ha ricevuto l’apparizione del Redentore, come in un sogno. Accanto,  tramite cartiglio, si spiega: “Martinus catecumenus hac me veste convexit” 

C= il  Miracolo del vino al banchetto, di  Giovanni Fontana (1795-1845; alunno dell’accademia Ligustica di Genova), espose in maniera tradizionale  neoclassica la cena: per alcuni è quella delle nozze di Cana ove, alla tavola la folla in varie espressioni assiste alla trasformazione dell’acqua in vino. Per Tosini invece  è un banchetto dell’imperatore Massimo ove il Santo porge la prima coppa al suo presbitero riconoscendogli dignità superiore.

B= Valentiniano sbigottito  dalle fiamme miracolose, di Luigi Morasso  (sampierdarenese, 1797-1872, di scuola barabiniana fu definito da Alizeri ‘pittore oscuro e vissuto gran tempo lontano dalla nativa San Pier d’Arena), rappresenta in modo tradizionale ed -anche lui- accademico, la storia di sanMartino: già vescovo di Tours fu rifiutato dall’imperatore Valentiniano; però  penetrò egualmente nel palazzo di Treviri ed al suo ingresso il trono prese fuoco. Una figura in alto, con spada, simboleggia la giustizia. 

 

A=CUPOLA    nei lunettoni  (o arco di imposta)   sottostanti la cupola,

===a destra =sud) un olio su tela formato a lunetta, raffigurante l’elemosina del santo vescovo Agostino, ad un gruppo di poveri che gli stanno attorno (Tosini scrive che è s.Tommaso da Villanova che porge l’elemosina. La tela è attribuita ‘forse a GB Carlone (1603-1684)’; prima era di ignoto pittore seicentesco.

===a sinistra  =nord) olio su tela formato a lunetta, di Orazio De Ferrari (1606-1657), descrivente sant’Agostino che lava i piedi a Gesù in veste di pellegrino con i piedi immersi in un catino. A sinistra un gruppo di angioletti sono intenti a scrivere; a destra il santo è in preghiera davanti ad un libro aperto. Il dipinto è una delle opere meno conosciute e descritte del grande pittore. Alizeri ricorda che eguale soggetto, ma con sceneggiatura diversa usò per un’altra tela commissionatagli dagli Agostiniani che possedevano l’abbazia della Crocetta di promontorio e che adesso è all’Accademia Ligustica

                                 Pennacchi della volta  descrivono le 4 virtù= 1)  le figure affrescate della  Giustizia (con manto rosso, spada e bilancia) e della  Prudenza (figura sdraiata che sorregge uno specchio), sono dovute a Giovanni  Fontana. Vi lavorò nella seconda metà del XIX secolo,  in stile accademico.

                                                                            2)   mentre gli affreschi rappresentanti la  Fortezza (figura femminile in armatura) e la Temperanza (giovane fanciulla che sorregge un ramo di ulivo), sono   produzione di  Giuseppe Passano.

                                 Vetta della Cupola === ai quattro estremi dell’ovale sono poste altrettante statue in stucco degli Evangelisti,  rispettivamente di s.Giovanni,  (con in mano la penna e nella sinistra  sul fianco, il Vangelo, ai piedi l’aquila), di  Luca (con la destra sul petto, a sinistra il Vangelo, ai piedi il bue), di  Matteo (con la mano destra alzata e l’indice rivolto verso il cielo; in basso un angioletto), di   Marco (con il Vangelo aperto nella sinistra ed una penna nella destra, ed un leone ai piedi).  Tutte opere in stucco di fine 1800, di  Teobaldo Pinti (1878-sec.XX-Tosini scrive Pinto).

 

Sono di A.Vernazza (1869-1937) ed allievi, i “medaglioni con Angeli” ***controllare dove sono

 

===== Nella parte centrale della CANTORIA, ampliata in un restauro del 1920, fu ricollocato un mastodontico organo, costruito nel 1940 dalla ditta Parodi&Marin di Bolzaneto. Le lapidi sotto descritte, fanno risalire ad un primo strumento, e ad una data di primo secolo non specificata.

 

=====CONTROFACCIATA INTERNA

Tre porte (una centrale più grossa e quotidianamente chiusa e due laterali più piccole) dividono la parete della controfacciata in sei parti.

=====Solo su queste ultime sono poste  sei lapidi di inizio secolo 1900, e ricordano:

=1- porta lat. a monte - entrando, a sin.: «D.O.M. IOSEPH DALL’ORSO D.SEBASTIANI (1852-191-) HUIUS TEMPLI DECUS / PRAE  PRIMOS / OPE DILEXIT».

(questo Sebastiano Dall’Orso lo ritroviamo –sestogenito- in via Gioberti quale grossista in olio; e in lapide nell’atrio del palazzo Serra-d’Oria-Masnata quale donatore per l’ospedale. Suo padre Francesco era fabbriciere nella Cella e si interessò – vedi - della stabilità del campanile dopo il terremoto del 1828).

1-   2-

=2- porta lat. a monte - entrando, a dx.:  «D.O.M. / FRANCISCO OLCESE / PROT. AP. AD. INSTAR / HUIUS PARRAECIAE ANN. 1887-1911 / ARCHIPRESBITER V.F. / TEMPLI DECUS ERGA SS. SALVATOREM / PIETATEM ANIMARUNQUE SALUTEM / ZELAVIT»  (in memoria dell’arciprete della parrocchia, che in quegli anni, ebbe cura della chiesa e delle anime).

=3- porta lat a mare  - entrando, a sin -sopra = seconda lapide ricordo di alcuni donatori dell’organo «D.O.M./ BENEFATTORI INSIGNI / DEL NUOVO ORGANO / COMM.i  ETTORE TITO ALFREDO / F.lli NASTURZIO /  CESARE MURATORI / S.A. DUFOUR LE PETIT».

=4-                                                        -sotto = dedicata a memoria della visita di PioVII nel 1815 (D.O.M. / ET / AD COMMEMORATIONEM AUSPICATISSIÆ DIVI / XV MAI MDCCCXV / DUM ISTAS / PIUS VII PONT. MAX. / INNUMERIS CUM CLERO GESTIENTIBUS POPULIS / AD HOC IN ARENARIO / ILLECTIS / SACRAS INGREDIEBATUR ÆDES / TUNC TEMPORIS CURATORE / HOC / PRO ETERNIS / POSUERUNT)».

3- 4-  5-

 

=5- porta lat. A mare – entrando a dx. –sopra= seconda lapide a ricordo dei «benefattori emeriti del nuovo organo...    segue elenco»

=5- porta lat. a mare - entrando, a dx. –sotto:  = lapide a ricordo visita di Paolo P.P. V

= porta lat. a mare entrando, a dx., nell’angolo, un crocifisso (in data 14.9.08) completamente fasciato

===== sotto la cantoria, attorno alla porta principale centrale,

=una serie di bassorilievi raffiguranti i vari Misteri del s.Rosario, (oppure una via Crucis***) sono opera del Pestelli del 1990.

=una lapide con «5° centenario dell’apparizione della Madonna della Guardia sul monte Figogna, La comunità parrocchiale della Cella. Testimonia la sua fede e devozione. – seguono nomi-.»

 

(N.B. Non i soffitti, ovviamente, ma gli altari delle navate, tutte, nell’arco dei secoli sono stati spesso spostati o rinnovati o dedicati ad altri santi; tutte modifiche che rendono difficile descriverli con correttezza, potendo essere stati nel frattempo cambiati. Così è stato a lungo appoggiato alla parete, prima del primo altare di sin., un marmo di S.Rita da Cascia, 1,50x1, scolpito (negli anni recenti attorno al 1990) da V.Pestelli con stile moderno, liscio, con appena segnati i lineamenti dell’abito. Nel 2003 fu riposto nel museo). 

 

 

 

===                          NAVATE                                                               ===                                                                            

 

=====SINISTRA:

 

1ª) cappella:  si presenta, quale solo sotto-navata.

Nel 1888 era l’ultimo altare in marmo, con una ancona dell’Annunziata definita “meschino lavoro dei Semino”.

===la volta è a bombée (foto sotto), affrescata  come  una falsa cupola al cui  centro –immersa in una esplosione di luce raggiata- è dipinta la Sacra Colomba dello Spirito Santo.   

 volta      L.Cambiaso                                         

===Altare marmoreo, posto su un palco alto due scalini, direttamente appoggiato alla parete nord

=l’altare è sormontato – racchiusa da due colonne nere marmorizzate, laterali- da una grande tempera su tavola, di 244x130 (foto sopra); è la Madonna col Bambino e san GiovanniBattistaAngeli e DioPadre, del 1562-5. Dipinta da uno dei grandi: Luca Cambiaso (Moneglia 1527- Escorial di Madrid 1585 – detto Luchetto o Luchino da Genova; introdotto nell’arte –lavorando assieme- dal padre Giovanni il quale ovviamente si esprimeva nel modo tradizionale tardo400. Si perfezionò a Firenze ed apprese i grandi esempi dell’arte veneziana; focoso di temperamento, era velocissimo nel lavorare essendo ambidestro. Rimasto vedovo, andò a lavorare in Spagna col figlio Orazio, alla corte di Filippo II decorando il palazzo- convento dell’Escurial –vicino a Madrid-. È considerato il ‘rinnovatore della pittura genovese del cinquecento’).

Rappresenta Dio in alto tra le nubi, pregato dai Santi, Angeli e dalla sacra Famiglia. Il dipinto ricevette gli elogi di tutti i critici, e citato in tutte le fonti: l’Alizeri, lo definì  come “la più bella opera “ del monegliese, ed il Ratti  lo giudicò “uno delle più singolari”; l’artista interpreta con particolare raffinatezza e sull’esempio della dominante pittura veneta, la dolce vivacità del colore, e la distribuzione tridimensionale ed espressiva dei soggetti. Tosini conferma essere “tipico esempio della produzione dell’artista, del periodo migliore, di massima originalità ed autonomia”.

Tosini scrive che la  tavola fu commissionata dai Salvago per la cappella di famiglia (divenuta poi Battistero) e quivi era venerata come ‘Madonna della Neve’ fino al 1822.

In “La pittura a Ge. e Liguria”.vol.I-pag.239 + Tuvo.Campagnol-pag.142, chiamano il quadro con il diminutivo “san Battistino e Angeli”.

=sopra l’icona, l’altare termina con una struttura ad apice piramidale sormontata da una croce e confinante con un lunotto vetrato a semicerchio posto sulla parete in alto.

= a coprire un segno sulla parete, a volte, c’é collocato il piccolo quadro della Madonna della Salute (riproduzione di quella di Promontorio) in


cornice lignea, in alto aggettante con una corona sorretta da angeli; ed in basso una cassetta   delle elemosine con scritto “SALUS INFIRMORUM”. A lungo ha soggiornato anche nella cappella di s.Agostino e nel Museo.

   


=Sotto questo quadro, c’è una porta che dà accesso ad una stanza laterale, usato quale saletta confessionale

 

        

2ª cappella:

anch’essa sottonavata; possiede una retrostanza, oggi adibita a battesimale.

Dipinti laterali, Ai lati, due dipinti ad olio su tela di autore ignoto del XVIII secolo ma poi attribuita a Aurelio Lomi (pittore pisano, 1556-1622 nipote e discepolo di Baccio; Lomi fu il soprannone del pisano Gentileschi Orazio, presente con opere nella villa Doria di salita Belvedere; sue opere oltre a Pisa, a Firenze, Roma, Lucca, Bologna): -a destra  135x89, raffigurante  santa Caterina da Siena (rappresenta la Santa in abito domenicano, col rosario nella mano destra e lo sguardo al cielo. In basso sono rappresentati i suoi simboli:  il giglio ed un libro);      -a sinistra il santo Vincenzo Ferrer (con penna, libro e giglio. Dapprima si credeva che rappresentasse san Domenico).

                                                            

                                                                                s. Vincenzo Ferrer

 

-Altare,  direttamente appoggiato alla parete, nell’insieme è somigliante al primo: due colonne laterali sormontate da elegante struttura architettonica piramidale.

Sul lato destro dell’altare sta inciso: CONGREG.SS ROSARI B.V. ERECTA 1587-1897 (è presumibile che precedentemente la statua fosse collocata nel quarto altare e fosse originariamente dedicata alla Madonna della Cintura o altri dice del Carmelo, poi riadattata alle necessità della Congregazione).


-Statua, Al centro, l’altare è

 

 

 

 

 

 

 

sormontato da un marmo raffigurante la Madonna del Rosario, della prima metà del XVII secolo, prodotta da ignoto scultore (Tosini la attribuisce a Tomaso Orsolino (1587-1675)). Inizialmente questa statua seicentesca era una ‘Madonna del Carmine (altri scrivono ‘del Carmelo’)’ venerata a san Martino ove ornava il non altare dedicato al Rosario; fu trasferita alla Cella e posizionata nel quarto altare della stessa navata. Nel desiderio di cambiare l’altare, anche la statua fu modificata adattandola al culto quale ‘Madonna del Rosario’ ed ivi trasferita. Sorregge a sinistra il Bambino, mentre con la destra offre il Rosario. Di cm.163x68x46,  è posta su un doppio basamento  (sul primo dei quali è scritto “qui me invenerit invenist vitam. prov. 8” = chi trova me, trova la vita: dai proverbi, 8).

 


-Arco, La statua è circondata da una colorata architrave fatta ad arco, sulla cui facciata sono visibili – inseriti in cornici mistilinee - una serie di quindici quadretti ad olio su tavola, formato 26,5 x17,5.  Raffigurano scene della vita di Maria e di Gesù, detti ‘Misteri del santo Rosario’, oppure ‘fatti della Madonna’ dipinti pochi anni prima del  1650 da Domenico  Fiasella   (Sarzana 12 ago.1589-1669;  studiò  a Roma e si stabilì a Genova nel 1617, con feconda e vastissima produzione artistica). Comprendono “Nascita di Maria; visita dell’Angelo; Annunciazione; Spirito Santo; presentazione al tempio; Maria sale verso il Golgota; ascesa al cielo di Maria; Maria incoronata regina; Gesù disputa con i savi; Angelo all’ultima cena; ultima cena; Gesù incacerato; Gesù flagellato; Gesù crocefisso; Gesù ascende al cielo.

 

   

annunciazione                 ascesa al cielo                 Gesù incarcerato            Angelo all’ultima cena  

-Volta,

c’è un’ opera  (giudicata di “minore impegno”; Remondini invece la giudica “fra i più diligenti lavori”) in più medaglioni (uno centrale quadrato, con quattro ottagonali ai lati) affrescati da  Bernardo Castello (1557-1629) raffiguranti scene di vita di Maria (nel riquadro centrale, la nascita; nei quattro  attorno ci sono l’Adorazione, la Presentazione al tempio, l’ Annunciazione, l’Assunzione). Risale al periodo relativo ai primi anni del 1600,  in cui il pittore era celebratissimo e molto presente anche con gli affreschi nelle ville vicine (72.I.316).   

-Retrostanza

Raggiungibile attraverso due porte, poste rispettivamente sotto i due dipinti laterali (s VFerrer e sCaterina) sopra descritti. Infatti, dietro la cappella, si apre un vano raggiungibile attraverso due distinti cancelli oggi detto del Battistero.che vi fu posto nel 1835.

Ma inizialmente questa era la Cappella Salvago. Con atto notarile del 16 marzo 1602, la cappella fu data in concessione a Nicolò Piccamiglio, che volle regalarla alla figlia Battina andata sposa a Castellino Pinelli (nello stesso scritto si precisa che la cappella retrostante appartiene al mag.co Stefano Salvago, e che alla sua destra esiste un’altra cappella (oggi trasformata, ma nella quale allora era sepolto dal 1599 il ser.mo doge della Repubblica Lazzaro Grimaldi Cebà). Da Castellino Pinelli (altri,  riferendosi però alla terza cappella, lo chiama Pirullo. I Pinello nel 1414 formarono un Albergo detto De Scipionibus, formato da più famiglie come gli Ardimenti, i Luciani, un ramo dei Cebà, i Conforti ed altri. Su tutte i Pinello ebbero maggioranza., e di loro –ambedue Agostino- divennero doge di Genova nel 1555 e nel 1609) per conto della moglie Battina, fu commissionata il 24 apr. 1602  (altri scrivono nel 1606; un primo opuscolo della chiesa, poi corretto, scriveva 1608) agli scultori di origine lombardo-ticinese Alessandro  Ferrandino (attivo a Genova nel  periodo 1600-22, nel commercio e lavorazione del marmo; divenne consigliere  nella Società d’ Arte degli scultori e lapicidi di nazione lombarda; spesso associato al nome del Paracca, in società, nella committenza di cappelle ed altari) ed a Santino Paracca (da Valsoldo, noto dal 1562. Così lo elenca l’Enciclopedia Sonzogno; Tosini: scrive Parraca;  Bartoletti scrive Paraca. Vedi di “GioGiacomo Paracca”, alla tomba di Ceva Doria).  Quietanzata nel giu.1603 ed in parte poi modificata,  con l’impegno scritto di usare dei marmi, come nell’uso di allora, del “mischio di Polcevera ed altri mischi, in modo ben lavorato, lustri e ben accomodati“; l’alternativa,  non usata qui, era il marmo bianco. Il committente però non la vide ultimata, e quindi il lavoro fu pagato dal figlio Paride.

(N.B.= molti gli arredi che furono collocati in secondi tempi, rispetto l’età della cappella stessa).

Remondini segnala che la cappella già dapprima del 1799 era titolata a Maria Lauretana (o di Loreto) per una tavola di Bernardo Castello, oggi nel Museo. E già prima del 1888 aveva l’altare in marmo, fiancheggiato da colonne. Dopo quella data, l’altare fu dedicato al santo Rosario. E ancora, Remondini scrive  che la stanza è “...un grazioso santuario, avanzo del vecchio edifizio e raccommodato nel nuovo Battezzatoio: elegante di una gentil cupolina, messa tutta a rilievi lacunari e rosoni...più tardi restauri lo deturparono in parte e una tela che vi è del Battesimo di GianLorenzo Bertolotto o del Paggi che sia, mal risponde allo stile dell’opere.”.

Come detto, anticamente, sino ancora con parroco l’arciprete Luxoro era una cappella di giuspatronato Salvago, dedicata alla ‘Madonna della Neve’ (pala che, come già detto, oggi è collocata sul primo altare di sinistra, ma che ha lasciato la geometria semicircolare nella parete di frontale. Tosini informa di un probabile equivoco perdurato fino al 1822: la tavola di Luca Cambiaso raffigurante la Vergine, il Bimbo e san GB, era venerata in questo locale e pertanto ritenuta essere lei l’immagine della Madonna della Neve; questa ‘antica collocazione è riconoscibile nella geometria semicircolare dell’imposta che appare nella parete frontale contornata da raffinati rilievi plastici’.

Ratti descrive l’ambiente ancora cinquecentesco, con queste parole “di bellissima architettura tonda con istucchi di ottimo gusto e si crede opera del Bergamasco”.    Anche Alizeri “elegante di una gentil cupolina, tutta messa a rilievi di lacunari e rosoni, e incrostata per forma di zoccolo di quadri invetriati a colori”.

Si crede sia stata architettata e prodotta -compresi gli stucchi- da G.B. Castello (proveniente da Gandino (Bergamo), nella zona della val Seriana, e pertanto detto ‘il Bergamasco’; per distinguerlo dall’omonimo nato a Genova (“il Genovese”, specializzato in miniature); nato negli anni 1500-9circa, e m.1569; in quegli anni il pittore era in attività nelle vicine ville Imperiale e Centurione. Dal maestro Busso fu accompagnato a Genova, presentandolo al nobile Tobia Pallavicini che lo inviò a Roma a perfezionarsi ed al cui rientro affrescò la sua chiesa di s.Marcellino. Acquisita reputazione, fu assunto dal duca Grimaldi per il suo palazzo alla Nunziata; dai Doria per s.Matteo, dagli Imperiale per la casa in Campetto. Si trasferì poi in Spagna, alla corte reale ).

Stanza quadrata di circa 6mx6, ha pareti che fino ad una altezza di 180 cm sono piastrellate a mattonelle multicolori, di ignoto ceramista ispano-moresco; ciascuna di circa 15cm x15. Formano dei più larghi quadrati policromi (di lato eguale all’altezza), ciascuno in stile diverso ispano-arabeggiante, come un unico disegno floreale racchiuso dentro una cornice poligonale  (queste piastrelle policrome sono molto probabilmente manufatti del XVI secolo, o genovesi o importati dalla Spagna.

 

 

      

Storicamente la piastrella -che in  arabo si chiama “al zuleija”-, è perciò spagnolescamente detta “azulejos” si diffuse in Liguria come rivestimento dalla metà del 400 alla fine del 500, generalmente importate dalla Spagna che a sua volta le ereditava dalla sottomissione araba, la quale ultima può esprimere la sua arte non riproducendo figure di viventi ma solo attraverso “codici geometrici”: se la stella è il motivo dominante e ricorrente della decorazione,  nella religione, filosofia e nell’arte islamica profondo significato sino alla venerazione ha la perfezione delle forme, della luminosità e delle proporzioni geometriche che assumono per loro vari e precisi  valori. Dopo il 500 le piastrelle iniziarono ad essere prodotte localmente, assumendo il nome  di  ‘laggioni’; rappresentano quindi una tappa molto importante nella storia della ceramica locale e quali ‘segni di prestigio e ricchezza’ specie dei Doria che adornarono anche il loro palazzo di san Matteo 17 con azuejas spagnole appunto del XV-XVI secolo).  Nel bordo in alto, fu inciso la frase «AEDIT SACELL MDL» e sul lato opposto - sopra una porticina poco visibile tra le mattonelle - «RESTAUR.SACELL.MCMXIII».

Tutto l’ambiente ha subito trasformazioni a fine 800-primi 900.

Stucchi. Sopra le piastrelle, le pareti sono decorate da grandi ornati a  stucco, con figure in altorilievo ed affreschi riproducenti scene tratte dal Vangelo: opere del 1913 dello scultore simbolista-liberty Giacinto Pasciuti (1876-1941); esse rappresentano “il battesimo”, “i discepoli ad Emmaus”, “l’Angelo sul sepolcro di Gesù risorto”, “La Maddalena ai piedi del Risuscitato”, “La samaritana convertita da Gesù”.

   

battesimo                                     Maddalena                                 donne al sepolcro

Due altorilevi più piccoli, semicircolari, sono anche sopra le due porte, rappresentanti uno, un angelo con bimbo e l’altro un angelo con una pecorella.

-Volta è dipinta a decorazioni lacunari quadrate, con rosoni,  in stile cinquecentesco; risalente quindi al XVI secolo.

 

 

-Interno     vi sono –a volte- custoditi:


A)= il  Gonfalone                                    

 

Nicolò Barabino dipinse su stoffa,  nel 1854, “La Madonna del gonfalone del S.Rosario“, riproducente la Madonna col Bambino, tra s.Caterina e s.Domenico,  per uso della Compagnia omonima -fu prodotto quando era ancora ventiduenne, da poco all’ esordio pubblico; l’accoglienza a questo suo primo prodotto fu tale che si commenta avrebbe potuto stimolare vanto o superbia: invece il giovane proseguì umilmente la scuola, con impegno e modestia.


B)=  un crocifisso scolpito da Oneto, artigiano di Rapallo, e che è posto sopra un robusto reggicristo la cui targa ricorda essere stato donato dalla Confraternita di sant’Erasmo di Voltri ai Cristezzanti di Sampierdarena A.D.1995. Ha come caratteristica il perizoma color crema, avvolto sui fianchi, decorato da una striscia arancione, visibile a tratti.

 


 

C)= la fonte battesimale in marmo, a forma di edificio ecclesiastico per contenere due tabernacoli; sebbene riutilizzi materiali seicenteschi provenienti dalla chiesa di san Martino, è opera di più recente fattura


essendo stato così composto nel 1913: sul lato è inciso EXCIT FONS BAPTESIM. MCMXIII. Ai lati due finestrelle con vetri a piombo colorati ad immagini, e piccole opere in bronzo siglate dallo stesso Pasciuti: due statuine di Adamo ed Eva, l’ostiolo dell’Acqua battesimale


raffigurante il Battesimo di Gesù, e l’ostiolo dei ss. olii con Mosè ed il serpente biblico.

Sulla porticina centrale è inciso «qui percussus aspexerit eum vivet».


 

  

 

D)= due vetrate recenti, regalate dai parrocchiani all’arciprete don Ferrari il 15 giugno 1960 in occasione del 25° anno di sacerdozio. Riproducono rispettivamente il Battista e Gesù immersi nel fiume per il battesimo.

 

la  3ª cappella, come le altre sottonavata, ma si sviluppa in profondità - laterale verso nord - rispetto la facciata della navata sin. Fu completata, con gli attuali arredi, nel 1929, in stile ottocentesco.

=un sacello, opera di Angelo Scaniglia q.Francesco.

 


La cappella sormonta l’altare, e racchiude nell’interno - in una elegante cappella di stile ottocentesco - il masso sulla cui roccia fu affrescata su calce (intonaco di muro chiamato l’”arriccio”, di 71x59) l’immagine raffigurante il SS.Salvatore, ovvero Cristo coronato di spine, che porta croce. Relativo a quando Gesù   salì il Calvario portando il legno.   Questa opera, disegnata sopra un grezzo intonaco apposto su di un pezzo levigato dei dirupi scoscesi di san Benigno, era stato dipinto vicino al ponte levatoio  dove era il corpo di guardia, dalla parte ad ovest della porta Lanterna e del colle. Si ritiene sia stato fatto a cavallo tra fine XVI e  primi anni del XVII secolo, da un soldato (unico, che ‘doveva’ stare lì) fiammingo o comunque oltralpe arruolato dalla Repubblica


 (Che esistessero questi mercenari, lo attesta un regolamento in uso per le ‘soldatesche’ del 1710; in esso c’è un articolo che minaccia ‘tre anni di galera a chi ruberà biancheria, galline ed altro bestiame o tenderà lacci ai gatti. Non tutti pittori quindi, tra i mercenari; ma almeno uno ha lasciato una traccia di sé molto più  profonda che nobilita la massa degli altri  ‘rubagalline’).Poiché la Porta era nel territorio parrocchiale di s.Teodoro, ricerche nei suoi archivi parrocchiali (già mons. Francesco Olcese, nel suo opuscolo sul Centenario del SS Salvatore/ed.1913 lo segnalava definendolo soldato fiammingo o dei ‘sgrizzardi o tudeschi a far servizio alle porte della Lanterna tra 1500-1700’) hanno fatto trovare da A.Remedi l’esistenza nel 1630  di un soldato fiammingo, leggibile in Heinrich Stokman. Allargando le ricerche, sul dizionario francese dei pittori, disegnatori, ecc., di Benezit, ha trovato citato un David Henricsz Stokman che fu “à La Haye de 1627 à 1632” – ed anche un altro o lo stesso- “Stockman(s)  paysagiste à Harlem, mort le 9 juillet 1670 il etait en 1637 dans la gilde”.

   Il dipinto, evidentemente ben riuscito, dapprima attrasse l’attenzione,  poi la devozione, dei pochi passanti. Ma via via la voce si sparse ed aumentò la frequentazione dei fedeli, prevalentemente donne di minolli e di pescatori della Coscia sottostante,  per cui fu giudicato infine opportuno proteggerlo, dapprima racchiudendolo in una cappella locale eventualmente con moccolo d’olio acceso, ed affidandone la cura ai frati del sovrastante convento di san Benigno. Ben presto divenne sempre più frequentato, luogo di incontro e preghiera, di far voti o ringraziamenti, quindi – per i militari attesi alla porta - troppo affollato.

   L’8-12 agosto 1718 inizia la storia documentabile, perché, questo progressivo aumentare dei fedeli pose il Magistrato degli Inquisitori nel dover chiedere un ‘opportuno riflettere’:  se era ragionevole un tale afflusso di pellegrini in una zona di alto interesse nevralgico militare per le difese della città, costantemente ‘studiate’ da emissari al soldo dei piemontesi e comunque dei nemici della Repubblica.

   Così l’ill.mo Magistrato di Guerra, e per lui l’illustre ‘Sargente Generale’,  come dettato ed ordinato dal Senato che usasse mezzi efficaci e pressanti, dispose di vietare che si entrasse ‘ne siti delle fortificazioni e Porta lanterna ove è situata detta Cappelletta, ovvero –dove “esservi la Santa Immagine in picciol nichio di pilastro, situato al di sopra la tagliata della lanterna...(ove è) il corpo di guardia...ch’è la prima venendo da San Pier d’Arena”-. Quindi proibito l’accesso ai fedeli, sia in Compagnie di oratori ‘in cappa’, che in folla di persone, o comunque “che non eccedessero in   un tempo il numero di due sino in tre...”.

 L’ordine dapprima non fu considerato, anche se reiterato e sempre più minaccioso (bontà della fede e delle ‘bustarelle’ alle guardie); ma l’aumento della severità militare  generò la popolare richiesta di trasloco, in sede più idonea ad una manifestazione di fede.

   Al Senato della Repubblica era intanto giunta una lettera anonima e senza data (si presume sia stato il parroco di san Martino, valutando che era l’unico a trarre beneficio da una simile operazione) che diceva «Cristo al Rastello della Lanterna merita un tempio, ma se non si può fare per il luogo dove è, si faccia almeno trasportare nel suo altare del Salvatore (e l’unico altare già dedicato era a san Martino). Si trasportano i marmi, si può trasportare Cristo sul muro, basta farlo con divozione, ed applicare le elemosine raccolte e da raccogliersi per il fondo di cappellania al detto altare. Cristo merita tutto il culto: per ora si deliberi, questa pia deliberazione può darci la pioggia. Amen».

    Nell’autunno 1718, a risolvere il problema subentrarono i progetti della Giunta militare, quando nel contempo essa espose la decisione di ristrutturazioni locali che avrebbero intaccato quel lato del monte, con necessità di rimuovere il dipinto o doverlo distruggere.

   Nacque allora un altro contenzioso, tra i parrocchiani di san Teodoro e quelli di San Pier d’Arena per il possesso della santa effige: così la Giunta dapprima dovette interpellare (5 dicembre 1718) il vicario della Curia, il quale (già sollecitato dal volere popolare che aveva dettato una supplica al Doge ed al cardinale arcivescovo Lorenzo Fieschi), diede parere favorevole per san Martino, ritenendo che la zona era in suo territorio parrocchiale  (negativa per san Teodoro. Ignorato Promontorio; e se non lo sapeva lui come erano distribuiti i territori delle chiese...  Indicò nelle persone FrancescoMaria Clavesana e GioBattista Raggio gli incaricati ad usare il denaro raccolto dai fedeli -equivalente a lire 2837-  per l’adornamento della cappella, per delle messe da dirsi in essa e per girare il rimanente in uno dei cartolari del Banco di san Giorgio).

   Nella primavera 1719 fu bandito il bando di concorso per la rimozione: lo vinse il ‘capo d’opra’ (architetto) Domenico Orsolino (un altro maestro, tal Cipriano Lagomarsino -altrove è chiamato Lagomaggiore- aveva preventivato l’8 marzo 1719 una spesa di 76 lire contro le 85 dell’Orsolino; ma la tecnica, le garanzie di sicurezza  proposte da quest’ultimo lo fecero prevalere; un terzo, GB Richieri aveva rinunciato).

   I lavori, iniziati il 28 mag.1719 (effettuati con relazione dettagliata delle spese fatte: per tre giornate lavorative per il distacco, ed altre  tre –giorno e notte- per imbragare e trasportare il masso. Controllarono i lavori GiovanniGiacinto Tavarone, arcipreste di s.Martino; Lorenzo Fieschi arcivescovo (1705-26) di Genova, anche a nome di papa Clemente XI (1700-21) ed il Doge Benedetto Viale (1717-9) e Ambrogio Imperiale (1719-21). Collaborarono come primo maestro GB Pozzo, i maestri GB Pichetto e Francesco Orsolino, e (presumo operai) Cristoforo Ferrari, Simone Ragio, Angelo Cavalieri, un bancalaro per far la cassa, e tal Paolo Magio e lavoranti; furono necessari 11 rubi di gesso, 200 mattoni ferioli, tavole, ciape, tella cottone, 200 chiodi da dinari 4, taglie,corda, stopa, 2 torchie e cavi; nonché ‘per beveraggio della notte alla gente’) si conclusero felicemente il 4 giugno.   Il masso staccato è alto m.1,4, largo …il GazzettinoSamperdarenese dice m. 20,95?!, spesso m.0,95, e pesante 70 quintali.

      Come atto finale –così avrebbe dovuto essere- il Senato decretò e diede le disposizioni il 4 giugno 1719 per il trasporto verso l’abbazia parrocchiale di san Martino. (La leggenda ha colorato l’evento, raccontando che i due buoi al traino, furono pungolati ma lasciati liberi di decidere da che parte andare, visto la controversia tra genovesi e san pier d’arenesi;  sottintendendo un ‘volere divino’, si diressero verso ponente).

   Il 10 giu.1719, il vicario della Curia arcivescovile genovese Salvatore Castellini, a nome dell’arcivescovo card. Lorenzo Fieschi, concesse al rev.Gio Giacomo Tavarone, arciprete di san Martino “loci Sancti Petri Arenae, recipiendi titulo deposito Imaginem Santissimi Salvatoris depictam in muro trasportandam a loco ubi dicitur ‘al posto della Lanterna’ sub finibus dictae parochiae et collocandam in una ex Capellis… et a dicta ecclesia removendam ad beneplacitum Serenissorum Collegiorum…”(i quali ultimi si tennero liberi di ergersi arbitri di decidere se eventualmente trasferirlo altrove qualora non fosse trattato al meglio e circa l’impiego del denaro raccolto).

   Una nota del 12 agosto 1719 si conclude con un decreto di pagamento da parte dei mag.ci Deputati della Giunta Giuridiszionale di lire 250 al maestro Orsolino.

    Alla traslazione, il masso fu trasportato in gran processione nella chiesa parrocchiale di san Martino: nell’avvio alla nuova sede, questa sacra immagine fu oggetto di così particolare e profonda devozione popolare, essendo la pupilla di tutte le opere sacre esistenti nella città; al punto che per volere generale, sottoscritto poi dalle autorità civili e religiose, il SS.Salvatore fu dichiarato “patrono di San Pier d’Arena”. E non potendo stabilirne la giornata festiva nel giorno proprio dell’Ascensione, fu spostata al  giorno dopo, il 3 maggio.

Nel 1722 l’immagine fu ufficialmente riconosciuta di proprietà della parrocchia sampierdarenese ove rimase fino al 1799.

Lo storico mons. Francesco Olcese scrive due cose: sull’opuscolo/1913 che «il titolare e onomastico della città era san Pietro» e che il Salvatore è stato riconosciuto patrono del borgo «la festa del SS Salvatore è patronale per tutta la Città e Pieve di S.Pier d’Arena. -D’antico, allo 3 Maggio, ora da quasi un secolo si celebra la domenica tra l’ottava di S.Croce. -E’ preceduta da solenne novena e seguita da triduo.».. scalzando

   Dall’abbazia di san Martino del Campasso, il sacro macigno fu trasferito, assieme al titolo di parrocchia,  alla Cella il 2 maggio 1799 (qualcuno -erroneamente- ha scritto nel 1759), il giorno della festa dell’Ascensione. Qui fu collocato nel primo altare, che poi per allungamento della chiesa divenne il secondo; ed infine trasferito definitivamente nel terzo quando nel 1929 fu completato l’arredamento.   

  

Il giorno di S.Salvatore è divenuto festa sacra principale locale, civile e religiosa, sotto forma di vera e propria sagra: in ricorrenza della traslazione dalle pareti vicino alla Lanterna,  la celebrazione viene effettuata solennemente con riti,    festeggiamenti popolari, e portata in processione.

   Già nel 1899, in occasione del centenario del trasloco alla Cella, la laicissima giunta comunale governata dal sindaco Federico Malfettani dispose erogare al comitato festeggiamenti la somma di 5mila lire, imbandieramento ed illuminazione del Palazzo ed altri immobili comunali, mobilizzazione dei VVUU , dei VVFF, e della Banda musicale civica,  e presenza per venerazione in chiesa.

   La folla partecipava in massa ed i viciniori  imbandieravano e drappeggiavano le finestre.

   Furono attribuite alla sacra immagine provvidenziali interventi in due guarigioni miracolose registrate nel 1722 e 1799 (nella chiesa sono conservati due ex voto dipinti su legno); nella fede e speranza apportata ai fedeli  durante l’assedio del 1800 ; nel maremoto del 1821; nel terremoto del 1828 ed in riviera del 23 feb.1887; nelle epidemie che flagellarono il borgo dal 1835 al 1886.

Numerose sono a tutt’oggi le donazioni, i ringraziamenti di grazie ricevute, tovaglie d’altare, epigrafi di avvenimenti solenni

   Fu onorata la presenza per pregare, del papa Pio VII nel 1915 (vedi epigrafe murata nella controfacciata; altri papi hanno riconosciuto la devozione all’immagine: Benedetto XIV, Clemente XV, Pio IX, Leone XIII), e dei reali (s.m.il re d’Italia Carlo Felice e consorte, il 3 maggio 1822,  parteciparono alla processione in occasione del primo centenario; la cappella fu decorata di affreschi dal Passano, ed alla cerimonia intervenne anche l’arcivescovo Lambruschini. 

    La sagra del SS.Salvatore, dal 1981 si arricchì della concomitante mostra dell’artigianato, in genere ospitata nel palazzo del Centro civico,  e molte altre attività di cornice. In quest’anno fu ripresa la processione per le strade della parrocchia, che era stata sospesa – non so quando né perché -.

     A questo punto emergono alcuni dubbi:

---uno  riguardante il lungo arco di tempo -tra il 4 giugno 1719 quando fu dato il via al trasporto, ed il 10 giugno 1722 quando arrivò a san Martino. Si formulano così due ipotesi, ambedue con  alcuna prova a carico:

1a- il masso, in attesa della soluzione dei vari problemi (soprattutto attrito tra s.Martino e s.Teodoro sulla proprietà) fu collocato ‘in attesa’ alla Coscia in casa del Console dei Minolli, e trasportato poi alla chiesa nel 1722: le cerimonie centenarie della traslazione datano infatti 1822 e 1922. L’Olcese scrive che il masso appena staccato fu calato su una barca che lo portò sino alla spiaggia “di S.Maria del 1° Quartiere. Qui fu deposto provvisoriamente presso un buon popolano”; e che alla chiesa  fu portato  “l’anno 1722 (com’è tradizione), ed alli 3 maggio, festa della Esaltazione di S.Croce, Domenica IV post Pascha”; in altre righe spiega che la controversia con san Teodoro aveva differito di  quei tre anni la legalizzazione del possesso dell’Immagine durante i quali essa era rimasta ‘a noi in deposito’

1b- Il masso fu portato direttamente alla chiesa nel 1719, ma la processione fu organizzata tre anni dopo

 ---l’altro è  la diatriba sollevata molto dopo, nel 1916, da don Brizzolara, parroco di Promontorio. Per lui, tra le due chiese pretendenti, è mancato porre attenzione alla parrocchia con maggiori presupposti legali di proprietà: l’abbazia di Promontorio. Motivò scrivendo che a) essa, ai tempi del masso rimosso dalla Lanterna, aveva competenza parrocchiale della zona della Lanterna, ed è lassù che doveva finire il masso distaccato. b) per suggellare questo, il sacerdote si appella ad un particolare legale: il sasso era lungo una strada di proprietà della città di Genova e non di SanPier d’Arena, e Promontorio (che come parrocchia era allora estesa anche dentro le mura quasi sino a Granarolo) era quindi il vero ‘suburbio’ occidentale di Genova, mentre san Martino era una parrocchia  che faceva parte della ‘plebania della val Polcevera’; c) L’abbazia di Promontorio non si era proposta come candidata principale, solo perché il titolare ecclesiastico, il cardinale Carlo De Marini (abate dal 1700-1747), risiedeva a Roma (e seppur lasciando la cura abbaziale a don Girolamo Bacigalupo, questi non si prese cura né cuore non solo dell’avvenimento ma lasciando la parrocchia in uno stato di ‘quasi abbandono’); d) c’era stata infine anche la furbizia dell’arciprete di san Martino, don GioGiacomo Tavarone (parroco da ben 32 anni, conosceva bene la zona e compì un ‘furto sacro’ giocando sull’inerzia di Promontorio, scrivendo al Senato quella lettera anonima e senza data: lo stile colto, il contenuto, l’accenno del trasporto ‘nel suo altare’; considerato che solo a san Martino c’era già un apposito altare dedicato al ss.mo Crocifisso).

ALTRE TRE COSE DA CHIARIRE. 1) TOSINI SCRIVE CHE DAL 1719 AL 1722 STETTE IN CASA DEL MINOLLO; 2) NEL 1981 FU RIPRESA LA PROCESSIONE MA NON DICE QUANDO FU SOSPESA  3) I CROCEFISSI DI CHI SONO.

      

la volta                                                                     

   

lunette 

 

==Cupola sopra il terzo altare

=Alla base, nei pennacchi laterali, immagini di santi; ai lati, posti reciprocamente di fronte, due affreschi a lunetta, raffigurano.

--uno, il paesaggio della Coscia, con in primo piano un cavaliere in atto di devozione o addirittura il pittore; dietro, lo scoglio col dipinto; e poco discosta la Lanterna.

--l’altro, il carro con i buoi che trasporta – senza la guida di alcuno - la sacra effige verso la pieve di san Martino e non verso san Teodoro,  dalla Porta Lanterna alla chiesa, contornata da sacerdoti e folla in preghiera: una specie di segnale divino circa l’appartenenza del sasso-.  Ambedue opere del 1929, attribuite al nostro pittore Giovanni Bottai (1909-1978. Tosini scrive nato 1904). Da alcuni storici ambedue le lunette erano state attribuite ad Ernesto Massiglio (1895-1974, già direttore dell’istituto delle Belle Arti ed artefice di altri restauri nella chiesa. Quest’ultimo, dal 1938 membro di merito dell’Accademia Ligustica di BA, seguendo i corsi di Tullio Quinzio, praticò diversi generi di pittura: paesaggi da cavalletto, da ponteggio (decorazione di edifici sacri) e cartellonistica (per il Comune e libri). Espose alla Biennale di Venezia, e Quadriennale di Roma; nonché ricevette vari Premi nazionali e internazioneli (America Latina)).  

=Sulla volta, affresco (dei primi anni del 1800), raffigurante la ‘gloria del santo Nome di Gesù’, con angeli e putti racchiusi in un tondo centrale e sorreggenti corona floreale, fiori e turibolo e posti sotto la Colomba dello Spirito Santo ed intorno il monogramma IHS; opera di Giuseppe Passano che volle riproporre i temi del dipinto genovese del 600.  

  

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la 4ª cappella       Come a 1, è solo sottonavata        

Tosini scrive che la ‘cappella è di ‘fondazione agostiniana’, e che è ‘attualmente (2006) dedicata a san Giuseppe, ma era - un tempo - della Madonna della Cintura’.

Prima del 1888 aveva l’altare in calce; e cinquant’anni prima ancora, era dedicato a s.Anna. Poi fu dedicato a N.S.della Neve per il quadro che - dopo il 1888 - fu posto nel battistero: la più bella opera di Luca Cambiaso, squisitamente capace di raffigurare poeticamente Maria durante una sosta nel viaggio in Egitto, con il Bambino, gli Angeli, ed il Precursore in adorazione.

 

===ad un lato, un dipinto (225x86) del XVIII secolo (nell’opuscolo della chiesa riporta ‘seicentesco’), di ignoto autore (Tosini scrive che questo e quello seguente sono attribuibili alla bottega Borzone, come anche la tela di s. Monica), raffigurante sant’Agostino   che  tiene in mano un cuore fiammeggiante e lo sguardo rivolto in alto verso lo Spirito Santo. In basso sono rappresentati gli attributi vescovili.

===dall’altro, una tela con santa Monica (madre di sant’Agostino) della stessa epoca; un olio su tela (225x86) di ignoto autore del XVIII secolo,  raffigurante la santa in estasi, circondata da cherubini e dall’alone di luce proveniente dallo Spirito Santo

===altareanticamente l’altare era dedicato alla Madonna della Cintura, fu poi dedicato alla Madonna del Carmine: infatti  sul lato c’è inciso “CONGREG. B.V. CARMELI ERECTA 1600-1897”.  Sopra l’altare c’era   una figura in marmo della Madonna ora posta sul secondo altare, verso cui volgevano il capo i due santi posti ai lati, sant’Agostino e santa Monica.  Per un lasso di tempo degli anni 2000, è stato dedicato al ‘sacro cuore di Gesù’, con moderna statua in marmo bianco scolpita da Valdieri Pestelli, ora portata nel museo.

Oggi, sopra l’altare c’è una sacra effige di san Giuseppe.

La costruzione dell’altare marmoreo è opera di Domenico Parraca per committenza di Benigno Drago, priore del monastero degli Eremitani nel 1621. Il paliotto a sarcofago, è fatto di marmo detto ‘mischio’ (bianco e rosso), raccordato alla mensa da una testa di angelo, ed è decorato da due festoni floreali che si uniscono al cartiglio centrale, sormontato dalla mitria episcopale di s.Agostino, ed ove si legge il monogramma SMC (sancta Maria Cinturae).

====la volta  con affreschi multipli: il centrale è racchiuso in un ottagono (rappresenta la Madonna della Cintura: ‘Maria seduta su una nuvola, circondata da angeli, mentre dona uno scapolare a santa Monica’); questo è  attorniato da quattro riquadri (con Annunciazione, visita ad Elisabetta, Nascita di Gesù, fuga in Egitto) e quattro tondi (con figure di santi),  il tutto si presume dipinto da  Bernardo Castello: incertezza dovuta alla profonda rielaborazione negli anni 1925 da Ernesto Massiglio.

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Vano n° 12  (rimane sotto la navata, ma non è una cappella: - al posto degli altari - ha la porta verso la Sacrestia.)                          

   Sopra la porta di accesso alla Sacrestia,  un grande (430 x 271)  olio su  tela  di G.B.Carlone (16.2.1603-1684. Figlio di Taddeo, scultore artefice dei monumenti dei Doria retrostanti l’altare, e fratello minore di Giovanni; anch’egli valentissimo decoratore contemporaneo a B.Strozzi,  A.Semino, B.Castello, L.Cambiaso, L.Tavarone, A.Ansaldo, che decorarono numerose ville sampierdarenesi, ancor oggi apprezzabili), risalente alla seconda metà del XVII secolo, proveniente (come anche l’altra tela rappresentante Ignazio e Francesco Saverio) dalla chiesa-convento di San Pietro in Vincoli di salita Belvedere  nella quale prima officiavano i gesuiti, seguaci –come il santo rappresentato- di sant’Ignazio di Loyola (eretta nel 1630 da MarcoAntonio Doria su suoi terreni, e regalata ai Gesuiti; oggi delle suore Pietrine.  Nel 1773 i Gesuiti  -causa i torbidi politici legati alla rivoluzione francese- dovettero abbandonare la nostra chiesa che già usavano poco,  solo nei periodo estivi. Contemporaneamente, la municipalità napoleonica allontanava tutte le varie corporazioni religiose lasciando l’incarico di assistenza religiosa, per tutto il borgo, alla chiesa di  S.Maria della Cella  facendola nominare parrocchia. In essa, furono trasferiti molti beni materiali già appartenenti alle chiese sconsacrate. Infine, nel 1799 il Consiglio dei Sessanta confiscò tutto il complesso, donandolo alla Repubblica Ligure, che utilizzò l’edificio ad uso commerciale o militare; e tale restò fino alla Restaurazione).


 Raffigura san Françisco Borjia (Francesco Borgia) in preghiera che mentre circondato da fedeli si tiene avvinghiato al Crocifisso, quale atto di amore alla missione sacerdotale, secondo i dettami del fondatore della Compagnia dei Gesuiti. Mentre col braccio sinistro rifiuta le armi,  uno scudo con insegna araldica ed il grosso galero (cappello cardinalizio, sorretto da un giovane paggio).

Il Borgia fu santo spagnolo; nato a Gandia il 28 ott. 1510, dal duca Giovanni e da Giovanna d’Aragona primo di venti figli e quindi col  titolo di quarto duca di Gandia; poi divenne barone (di vaste tenute e di numerosi castelli), Grande di Spagna di prima classe, cavaliere di Santiago, commendatore e cavallerizzo privilegiato della regina e della provincia di Leon,  ecc.

Pronipote di papa Alessandro VI (un Borgia) e del re Ferdinando II, studiò appassionatamente lettere e filosofia e contemporaneamente l’arte della guerra. Per volere del re CarloV dovette sposarsi  con la portoghese Eleonora de Castro ricevendo il titolo di 


marchese e di vicerè di Catalogna. Ebbero otto figli. La morte improvvisa della consorte nel 1546, lo portò ad una profonda meditazione che si concluse scegliendo la vocazione religiosa nella Compagnia del Gesù e lasciando ai figli i beni e titoli. (Suo figlio primogenito Carlo, quinto duca di Gandia, fu ambasciatore del re spagnolo a Genova. Il nipote, settimo duca di Gandia, Carlo Francesco Borgia Centellas y de Velasco nel 1593 sposò a Madrid Artemisia Doria delCarretto figlia del principe GianAndrea Doria –quello della battaglia di Lepanto-; i loro dodici figli ebbero il doppio cognome Borja y Doria). La predilezione dei gesuiti genovesi fu sicuramente dovuta al legame di sangue tra le due famiglia, oltre che alla stima personale ed ai legami con la corte spagnola: molti dei Doria entrarono a far parte dei Gesuiti in quel periodo: tra essi Marc’Antonio (nato a Ge il 6 ott.1596 e morto il 26 ago 1676)  che fu il committente dell’icona a Carlone ispirandosi alle frequenti fondazioni di conventi e collegi che il futuro santo fece in vita e quindi ideale tema da proporre per l’istituzione collegiale educativa creata dalla Compagnia a SanPierd’Arena. La chiesa del Gesù a Genova, dedicata al nostro santo,  ha un grosso quadro di Andrea Pozzo (1642-1709), fratello laico della Compagnia, che lo dipinse in occasione dellla canonizzazione: in esso la scena descritta è similare a quella sampierdarenese.

Così a 41 anni Francesco fu nominato sacerdote rivelandosi ottimo predicatore ed organizzatore, al punto che ben presto fu promosso commissario generale dei Gesuiti di Spagna. Scrisse opere teologiche di grande peso ma che - per l’acutezza del pensiero – non furono capite ed andarono perfino sotto l’attenzione dell’Inquisizione, la quale prudenzialmente le mise all’indice. L’imbarazzo fu tolto da PioIV, il quale lo chiamò a Roma e lo nominò direttore generale dell’Ordine. Con questo incarico, dimostrò vieppiù le capacità organizzative e di riordino, dando grande impulso e potere –spirituale ed  economico- alla Compagnia. Ebbe anche funzione di ambasciatore presso i turchi.

Morì giovane, a 62 anni,  a Roma nel 1572;  fu traslato a Madrid nella chiesa dei Gesuiti. Fu canonizzato da ClementeX  nel 1671.

 Nel mese di giugno 2007 - da parte del soprinendente ai Beni artistici della Liguria (dr Zanelli GLuca; restauratori c/o laboratorio di Aramengo, presso Asti ) - è avvenuta la restituzione - dopo averlo ripulito, restaurato ed incorniciat - e la ricollocazione sopra l’ingresso alla sacrestia

     

===nel 1880 veniva definita dal Remondini “altare del Carmine, in marmo con ancona e statua pure in marmo; è ricco di ori e di pitture. Prima era l’altare della Cintura.


 

===la volta  appare a lastroni di pietra scura, grezza, senza stucchi, come era  in origine, senza intonaco.  Fungono da base di scarico del campanile.                       Infatti, all’estremità della navata sinistra, sono visibili le uniche componenti medievali rimaste dopo le ristrutturazioni: una volta a crociera, formata da un costolone di grosse pietre nere regolarmente squadrate, come era


in uso presso i maestri antelami dei muri (‘fabri murariii antelami’): questa disposizione -presente anche in san B.d.Fossato- ha dato credito all’ipotesi di un’antica primitiva pianta a TAU greca, avene il transetto combaciante con le attuali campate di test delle navate minori, ed esteso (oblungum) per tre campate, verso ponente; ciò, anche considerato che nel territorio della Repubblica numerosi furono nel XII secolo gli edifici ecclesiastici eretti in questo stile; il Novella invece scrive sicuro che la chiesa iniziale del 1253 era a croce latina), sorreggente la parte inferiore del campanile (anch’essa medievale; poi innalzato dopo); mentre, come già detto, il corpo lungo si sviluppava nell’identica

 

direzione per una profondità corrispondente a  tre arcate (la quarta-di fondo-fu aggiunta dallo Scaniglia a metà 1800; un’antica parete fu ritrovata nel sottotetto della navata a sud , sopra le arcate, occultata sotto i più moderni stucchi: furono distinte le tracce di cinque monofore strombate, quattro archi corrispondenti a quattro volte di cui la prima, più spessa delle altre costituiva il braccio a sud del transetto).

Sulla base di questi rilievi, l’unica ipotesi - e tutt’oggi valida interpretazione - sulla struttura primitiva, fu stilata alla fine del 1800 da prof. Pietro Sirtori incaricato del progetto di restauro: propose l’antica e primitiva chiesa ad una navata (detta oblungum, e corrispondente alla centrale odierna), che terminava con un transetto sporgente (che dal lato nord corrisponderebbe alla volta costonata su descritta e dal lato sud all’apice di quel tratto di parete dell’oblungum); il tetto doveva essere in legno nell’oblungum ed in muratura nel transetto ed abside.

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5ª  cappella

ottocentesca, posta nell’abside di sinistra,  oggi è detta dell’ Olivo.

Prima del 1880, c’era un altare in ...« marmo ornato di due colonne...e dall’ancona scorgesi intitolato alla Natività di Maria, ma che il popolo chiamava dell’Annunziata. Questa tela, dice Alizeri, robusta e varia alle tinte, spedita e fiera all’esecuzione, briosa e lieta nel suo complesso, rivela il magistrale pennello del voltrese Andrea Ansaldo. Ciò malgrado nel 1887, ristorata la Cappella, con graziose e ricche decorazioni e affreschi del Gainotti e del De-Lorenzi, le fu mutata l’ancona e sostituita con altra, che compete per bellezza...traslocata quella dell’Ansaldo nella Cappella interna, detta di san Giuseppe». (Remondini)

Sistemata nel 1887 (4.22 dice nell’82 su disegno dall’ing. Giuseppe Ratto e con l’opera di Gainotti e Delorenzo), vede (in più parte intaccati dalle muffe di infiltrazione acquea) .

=== sulla volta, ricchi affreschi con pitture ornamentali e decorative,  racchiusi nei tondi posti all’imposta dell’arco e nella cupola (con angeli, cherubini e putti); e nei quattro pennacchi, le immagini dei profeti; opere di Luigi Gainotti (1859-1940),  e di  Francesco DeLorenzi (1830-1900), entrambi allievi e collaboratori del Barabino.

===a destra un olio su tela (186 x 139) raffigurante la Natività di Maria; la tradizionale attribuzione ad  A.Ansaldoè stata ritratta. Oggi è ritenuta copia seicentesca di autore ignoto genovese, da analogo soggetto  del  Morazzone (pittore lombardo il cui vero nome è Pier Francesco Mazzucchelli =1571-1626; nel 1617 venne a Genova, e non è chiarito se produsse la tela,  o è una copia (oggi è la tesi più accreditata);  comunque lasciando una traccia profondissima della maniera lombarda che sarà  poi

adottata da tutti i pittori genovesi): in alto è rappresentata la nascita; ed in basso la cura e fasciatura della neonata affidata alle  donne. L’opera, prima del 1887 era posta centralmente sopra l’altare, poi fu trasferita nella cappella di san Giuseppe, ed infine ricollocata nella cappella, nel fianco.

                     

parete sinistra : natività di Maria                             parete destra : tela di Domenico Piola

===sull’altare la Madonna con Bambino detta dell’Olivo, di Nicolò Barabino ( 1832-1891) ( grande tela di 200 x 103, fu prodotta nel 1887).       

Il pittore  in questa chiesa, ricevette il battesimo, essendo nato il 13 giugno al civ. 77 di via C.Colombo, oggi il 99 di via San Pier d’Arena.Si descrive che per fare ossequio alla volontà materna, il Barabino compose  un primo dipinto con l’immagine della Madonna,  con l’intento di farne dono alla parrocchia,  dedicandola a N.S. dell’Olivo (o come lui stesso amava definirla “ quasi oliva speciosa in campis” su ispirazione di un versetto biblico dell’ Ecclesiastico e come fu scritto in un cartiglio sulla cornice alla base - o, alla Cella, posto in alto del riquadro-.

  

    Nella Bibbia, nel capitolo “Encomio della Sapienza”, al 24.19 - tra altre caratteristiche che essa Sapienza possiede - è citato che anche è “…come bell’ulivo nei campi”. Nell’interpretazione ebraica, la Sapienza ha messo radici nel popolo ebraico. L’interpretazione cristiana della Sapienza è Maria: san Bonaventura insegna che Maria è misericordiosa; anche san Bernardo raccomanda rivolgersi a Maria quale nostro avvocato perché dolce, benigna, uliva (dall’oliva esce l’olio, simbolo di pietà). Quindi dalle Sue mani escono grazie e misericordie che Ella dispensa come nostro avvocato. L’olivo è anche pianta-simbolo della nostra regione, specie del ponente, per la resistenza e tenacia con cui sopravvive; del legame familiare e generazionale per la longevità; della religiosità perché rappresenta la pace; del lavoro, per la lunga preparazione al prodotto finito ‘lentissimo a crescere, tardissimo a dare’).

 

Questa tela, concepita per la chiesa della Cella e nata - come bozzetto - col titolo ’Madonna della primavera’, fu esposta alla mostra nazionale di Belle Arti nel 1887 a Venezia; veduta dalla regina Margherita di Savoia fu da lei acquistata per metterla a capo del proprio letto, poi fu posta nel Castello di Racconigi ed infine fu donata ad un dignitario di corte che – scrive Gilardi - lo rivendette ad un certo Julius Schmidt); questo fatto creò notevole pubblicità all’artista: rapidamente l’immagine divenne la “madonna degli italiani”;  riprodotta in mille modi, ebbe diffusione presso molte famiglie per essere collocata nelle camere da letto. Dopo Venezia, fu esposta all’Esposizione Internazionale di Berlino suscitando altrettanta altissima ammirazione.

Così nel 1888 al Barabino toccò, per soddisfare la madre e l’impegno preso,  produrre una nuova tela non meno meravigliosa della prima (si differenzia anche perché nella prima, in basso sotto i rami di ulivo, ci sono delle arance, mentre non ci sono i  variopinti fiori di campo, e perché il Bambino ed il trono hanno posizione diversa. Un’alta copia del primo, ridotta, fu prodotta dall’artista per un privato genovese di nome Rossi. Precedenti di ben sei lustri, altre due Madonne ma “consolatrix afflictorum” hanno stessa posa ed indumenti, quasi ad essere una preparazione a quanto voleva la sua mamma, committente dell’opera; invece più vecchia di una dozzina d’anni, una “Madonna del Rosario” ove appare più palese la maturità artistica). Il quadro donato alla chiesa venne collocato dagli allievi nel centro dell’altare, nel corso di una cerimonia il 21 ott. 1888, quando predicò un noto oratore barnabita (r.p. Francesco M.Parisi).

La critica, fu trionfalistica nel pubblico e nella maggior parte dei critici  (solo qualcuno ravvide un abuso di colori) vede nel volto un’estrema soavità, uno sguardo insieme supplicante e di tenerezza; nella posa un atteggiamento regale, maestoso ma  anche  molto semplice; nelle vesti che ombreggiano la fronte ed impaludano il corpo, un disegno altrettanto delicato e trasparente; il tutto, molto terreno e molto divino.

DeLandolina ravvede nei tre dipinti similari dallo stesso titolo il messaggio di aver voluto raffigurare una semplicissima “donna fra le donne, madre tra le madri” senza segni evidenti di divinità escluso l’aureola, espressa con perfetta naturalezza ed esprimendola nella compostezza abituale, nell’attimo del riposo e del raccoglimento: il simbolo più caro all’umanità.

Una mostra sul Barabino, a Genova, nel 1990, non ebbe il quadro in esposizione, non si sa perché . =41A.                                                                                        

==a destra,  un  San Francesco Saverio e santo Ignazio di Loyola, di incerta attribuzione  seppur nell’ambito o bottega di Domenico Piola (4.23 lo attribuisce decisamente al Piola). L’olio su tela di 194 x 155, di forma ovale, vedi foto sopra, dipinto nel periodo a cavallo tra XVII e XVIII secolo, raffigura i due santi, il primo con le braccia aperte, il secondo con la destra sul petto, che guardano estasiati in alto la colomba dello Spirito Santo. In basso un gruppo di  angioletti che  sorreggono un libro (dove è scritto “Maiorem Dei gloriam”), ed un bastone da pellegrino, attributo del primo santo. Anch’esso (come quello di s.Francesco Borgia) proviene dalla chiesa in salita Belvedere, già dei gesuiti e dedicata a san Pietro in Vincoli

 

6 =====CAPPELLA CENTRALE, PRESBITERIO

Nel 1453 Bartolomeo Doria, titolare del giuspatronato della cappella maggiore, ampliò e fece rifare il coro; tutta la zona, fu poi arricchita e fastosamente trasformata in un solenne sacrario familiare, nei secoli seguenti dai discendenti. Il sottosuolo di questa parte della chiesa era adibito a cripta sepolcrale nella quale sono le tombe di tre esponenti della famiglia Rolla (Francesco ed i suoi figli Costantino e Giuseppe, industriali con opificio in zona Fiumara, grandi imprenditori e benefattori della chiesa: a loro è legata la statua dell’Immacolata, attualmente nel museo).

È stata restaurata nel 2003.

=== l’altare maggiore, settecentesco,

                                                                   

con statua marmorea felicissima rappresentante la  Madonna Assunta, ambedue di Pasquale Bocciardo   1705circa-1790-1;   scultore; allievo di Filippo Parodi e di G.Antonio Ponsonelli; divenuto accademico di merito e direttore della scuola di scultura dell’Accademia Ligustica dal 1763 al 1788); prodotti nel 1740; la statua è alta 280 cm., con 120 x 100 di dimensione; raffigura con chiari riferimenti alla struttura architettonica decorativa suggerita dai due maestri, la Vergine ritta su una nuvola con angeli in atto di condurla nell’Ascensione, in gesto estasico di braccia aperte e sguardo verso l’alto.

   

Nel 1975, con la presenza del cardinale Siri, fu consacrato il nuovo altare  costruito secondo le nuove norme liturgiche: oltre a candelieri e fioraie offerti da fedeli operatori economici locali, ha sigillata nel manufatto una  teca  porta reliquie, regalata dall’orefice Salvemini (Remondini scrive «Invano cercheresti adesso la reliquia del braccio di san pantaleone, di cui parla il Giscardi, e quella del braccio di S.Martino. Ora trovasi soltanto la reliquia del dito di S.Ferrando»). L’inserimento del nuovo altare richiese l’opportuno arretramento del ‘vecchio’ di qualche metro, onde permettere la migliore conservazione della funzionalità e conservazione dell’estetica artistica (questa operazione determinò pure ritocchi alle tombe retrostanti dei Doria, che furono compiuti con il consenso dell’attuale governatore discendente della famiglia)

===Al lato dell’altare, a lungo è stato il Crocifisso del Ciurlo, ora nel 10° altare.

===alle pareti  del presbiterio, fanno da cornice cinque sepolcri, di cinque fratelli Doria la cui origine è unica con il ramo dei Doria che curò la cappella di sAgostino e la cappella di s.Nicola da Tolentino. Infatti tutti provengono da Cesare, figlio di Lamba Doria.

Cesare↓, vivente nel 1334, ebbe quattro figli: Giovanni, Argenta, Opicino (che darà origine ai due rami suddetti) e Andreolo↓(che originerà il ramo della “cappella magna” ovvero dei mausolei .

Andreolo, vivente nel 1350, da Margheritta XYX (non conosciuto il cognome) ebbe dieci figli vissuti alla fine del 1300: Filippo; Alaone; Pietro; Giacomo↓; Maria; Simone; Pietra; Franca; Benedetto; una morta giovane dopo le nozze, della quale non è segnato il nome; Giacomo.

Giacomo, sposato con Ginevra Doria qNicolò e –in seconde nozze- con Novella Fieschi de Caneto,  avrà sette figli: Isabella, Paolo, Maria, Lamba, Pietro, Oberto e Bartolomeo

-Bartolomeo (quindi nipote di Andreolo) nel 1453 ottenne dal priore dei monaci Agostiniani la concessione del giuspatronato sulla cappella maggiore, come da marmo affisso  nel corridoio «nomine suo proprio et nomine et vice aliorum nobilium De Auria et successorum suorum...et quoniam dicta ecclesia fuit per spectabiles et egregios dominos DeAuria jam ducentis et pluribus annis transactis constituta et aedificata, qui capitulari specialiter deputata anno nativitae Domini MCCCCLIII». Bartolomeo –sposato con Gironima Doria qCeva avrà 10 figli tra i quali Ceva↓.

-Ceva, sposando Peretta Doria q.Filippo avrà tre femmine e Gio Giacomo↓ vissuto nei primi del 1500

-GioGiacomo (Battilana 61)↓ sposato con Cattarina Doria qGiovanni, ebbe 9 figli vissuti a metà del 1500: Paolo, Bianca, Minetta, Maria; fanno parte del complesso monumentario gli altri cinque:   Ceva, Filippo, Ottaviano, Nicolò, GioBattista.

Dei figli maschi, manca quindi il monumento di Paolo; forse morì giovane, di lui si sa poco o nulla.   Il loro ossario -secondo un inventario effettuato nel 1908- si trova in una stanza di 2m.x7 posta sotto il pavimento del Sancta Sanctorum

 

 

Tutti inseriti in una ampia arcata, hanno la stessa  dimensione (2,30 x 4,20) e struttura:  in basso un grosso basamento rettangolare, con targa e scritta dedicatoria personale;  sopra, il sarcofago decorato da due aquile dei Doria poste agli estremi; sopra ancora, appoggiate a due volute, due figure allegoriche fanno cornice  al busto del defunto posto al centro dentro una nicchia;  il tutto è sovrastato da una edicola architravata, in cui è posta una personalizzata figura sacra sotto la cui protezione fu posto il compianto.

In tutti, le aquile che ornano le tombe, ebbero gli artigli smussati negli anni 1797 quando il borgo era in mano francese con la neonata Repubblica Ligure: il  gesto voleva simboleggiare l’aver bloccato l’avidità e l’arricchimento ai danni del popolo, dei nobili aristocratici in genere, dei Doria in particolare.

Il complesso è testimonianza di piena adesione sia alla cultura artistica dell’epoca (epoca della controriforma; primo esempio di celebrazione funebre monumentale conforme ai dettami del Concilio Tridentino), sia alla funzione sepolcrale delle chiese –ed in particolare di quelle familiari o sotto giureconsulto (come lo erano tutte, escluse le parrocchiali).

I primi due monumenti furono commissionati a Taddeo Carlone, quando già maturo per il primo e vecchio per il secondo. Appare ovvio che gli altri furono commissionati ai figli ed alla bottega dello scultore.

 (La famiglia dei Carlone vede, per primo

== GIOVANNI da Rovio, detto “il vecchio”, scultore–o scopelino- di marmi, specie di arabeschi e fogliami (Rovio è un nucleo antichissimo, sede parrocchiale autonoma dal 1238; in Ticino, alle pendici del m.Generoso, sulla sponda sin. del lago di Lugano). L’emigrazione iniziò sia per espansione demografica, sia per le periodiche minacce di epidemie, in coincidenza di un aumento di richiesta e committenza in tutta l’Europa. Caratteristica il ritorno al paese dalle mogli e figli per il giorno di s.Andrea –30novembre-, e ripartenza per carnevale. Era a Genova  dal 1555; morì tra il 1574-6.

==CARLONE GIUSEPPE scultore, figlio di Giovanni. Sposò la sorella della cognata

==CARLONE TADDEO  1543-1613  scultore figlio di Giovanni, nato a Rovio, imparò l’arte nella bottega del padre, e la perfezionò recandosi a Roma in soggiorno. Si dice a Genova 17enne; è sicura la sua presenza dal 1571, quando lavorò col padre. Venuto alle dipendenze dei Doria dal 1574, eseguì il monumento funebre per Gio Battista nel 1576-7, divenendo lo scultore dalla personalità più rappresentativa del momento, e tale da essere presente nelle più qualificate produzioni e progettazioni  nella città di Genova. Sposò  a 40anni, nel 1583, Geronima figlia di Pantaleo Verro da Voltaggio una genovese abitante in s.Sabina. Nel 1585 rischiò il carcere per debiti, non essendo in grado di restituire 25 scudi d’oro prestati da Giovanni Spinola di Nicola: fu salvato da un amico conterraneo. Suoi figli sono:-

=CARLONE GIOVANNI omonimo del nonno, primogenito figlio di Taddeo, pittore, formatosi –con B.Strozzi- alla scuola del senese P.Sorri; poi andò a Fiurenze, Roma; sposò il 223.1609 Ersilia, figlia di Bernardo Castello. Ebbe figli Taddeo, Bernardo, AnnaMaria. Tenuto d’occhio dal padre e dal suocero, autorevoli ed autoritari,

=CARLONE GIOVANNI BATTISTA pittore –secondogenito figlio di Taddeo (battezzato 16 feb.1603-1677 oppure 160_?).  Studiò a Roma e Firenze, ma svolse tutta la sua attività a Genova e Liguria (con brevi puntate a Milano, Nizza e Pavia).  Molto ampia la produzione di affreschi  in città ed a Busalla, Sassello, Lerici, Rapallo. Sposò Nicoletta Scorza di Voltaggio, da cui ebbe un figlio poi pittore pure lui, GiovanniAndrea. Durante le epidemie, si rifugiava con la famiglia a Voltaggio ove aveva proprietà.

=ed anche TOMMASO, battezzato 11.8.1586; LUCIA, battezzata il 12.5.1598; FRANCESCO divenuto sacerdote).

  

==1° da sinistra) per Giovanni Battista Doria (divenuto sacerdote); datato 1577 (altri scrivono erroneamente 1576), fu il secondo ad essere collocato nella chiesa, di fronte al primo, lateralmente all’altare maggiore. Dopo disegno preparatorio (recentemente ritrovato e pare studiato con il Cambiaso), l’opera marmorea, sovrastata dalla statua di san GiovanniBattista, è di  Taddeo Carlone.

         

La scritta recita “D. O. M. - IOANNI BAPTISTÆ DORIA IO. IAC.F. PONTIFICIJ CÆSAR /  EIQ. IVRIS CONSVLTISSIMO : VTRIVSQ. SIGNATVRÆ / REFRENDARIO : APOSTOLICI DECEM VIRALIS MAGISTRATVS / DIGNITATE INSIGNITO : LATIJ , VMBRIÆ , ÆMILIÆQ. PROVINCIÆ / NEC NON BONONIÆ SUB SVMMIS PONTIFICIB, PRÆFECTVRA /  PERFUNCTO HOC EX TESTAMENTO MOESTISIMI FRATRES / MONVMENTV POSVERE AN.DNI MDLXXVII OBIIT AVTE / ROMÆ PRID.NON.JAN. AN.MDLXXIII ÆT VERO SUÆ LVII“.

L’opera fu commissionata da Nicolò e da Ottaviano Doria, per la cifra di 1600 lire più altre cento in dono, nel 1577. Novella dice 1576, ma non corrisponde con la scritta latina.                    

==2°) per  Nicolò Doria (sposato con Nicoletta Gentile q.Paride, ebbero  sette figli),  il monumento è datato 1604 e fu commissionato dai figli a Taddeo Carlone ormai vecchio (quindi come il 3° e 4° appaiono essere più opera della sua bottega); e l’Alizeri lo sottolinea affermando «Nè fa mestieri di troppa acutezza a conoscere che in linea di diligenza, se pur non vogliamo di virtù e di dottrina, queste (le prime due, ndr) due sepolture prevalgono alle tre altre..»). Alla sommità c’è l’immagine di san Pietro.

 

La scritta dice: “D.O.M. NICOLAO DORIAE PARIDIS, IO.IAC.US, CEVA, / PHILIPPUS ET IO.BAPTA FILY POST ERECTAQ / PATRIUS  MONUMta . PATRIS TITULOS SILERI / IMPIUM RATI HOC PIETATIS OPUS / PIJSSIMO VIRO DICAVERE / ANNO DOMINI MDCIV / PRID. NON. MAY“. Questo sepolcro, assieme ai due successivi, furono collocati nell’abside, non appena ultimata la ristrutturazione, negli ultimi anni del secolo.

==3°) per Filippo Doria   è anch’esso del 1604, della bottega del Carlone;  in alto sovrasta l’immagine di Cristo risorto.

 

L’iscrizione dice : “D.O.M. PHILIPPO DORIAE IO. IAC. FILIO DE UNIVERSA FAMILIA  / AMPLISSIMIS LEGATIS OPTIME MERITO AD / TESTANDAM VIRI PIETATEM AC MUNIFICENTIA / POSTERISQ. INSIGNE IMITATIONIS EXEMPLU / PROPONENDUM EADEM FAMIGLIA GRATI ANIMI / ERGO, HOC EX S. CON. EREXIT MONUMENTUM, / ANNO DOMINI MDCIV .PRID. NON. MAY. “      

==4°)  Il sepolcro di Ottaviano Doria   ordinato nel 1604 a Taddeo Carlone ma lavorato prevalentemente dalla sua bottega;  vede nell’edicola architravata alla sommità, l’immagine di san Giovanni Evangelista (la critica vede una copia dal Francavilla).

 

La scritta recita “D.O.M. OCTAVIANO DORIAE OMNIBUS FERE REIPca / MUNERIBUS INTEGRE PRUDENTERQ / PERFUNCTO PARIDIS IO. IACOBI, CEVÆ / PHILIPPI ET IO. BAPTAE EX NICOLAO  / FRATRE NEPOTUM PIA CURA / HOC MARMOR ERECTUM EST  / ANNO DOMINI MDCIV / .PRID.NON.MAY. “

==5°) per Ceva Doria, il più antico  perché eseguito tra il 1574 ed il 76, è pure di migliore qualità,  e dovuto anch’esso  al trentunenne Taddeo Carlone agli inizi dell’attività genovese, con l’aiuto del socio di bottega Bernardino di Novo e Gian Giacomo Paracca (Tosini scrive sempre Parraca; fu Antonio, nato circa nel 1525 e detto Valsoldo perché proveniente dalla vallata Valsolda di Como; Taddeo, due anni dopo ‘scalzò’ le commissioni del Valsoldo entrando con lui in vertenze e vincendole ma producendo figure di qualità inferiore), costato alla famiglia 500 scudi,  sovrastato dall’immagine della Madonna col Bambino. La tomba, segue lo schema di una edicola con timpano sovrapposto al sarcofago dal profilo svasato posto su un basamento e sovrapposto dalla mezza figura del defunto seduto al centro ed affiancato da due putti.

Reca la scritta: “D.O.M. CEVA DORIA JOANNIS IAC.P. IN GERENDA REPca./  IUSTITIAQ. TUEDA MAIOR VESTIGIA SEQUUTO OCTAVIANUS FR. POSUIT. //  OBIJT ANNU AGENS SEXAGESIMU SEPTIMU XIIIJ FEB. / ANO SALUTIS NRÆ MDLXXIIIJ .”

Il monumento venne poi arricchito da piedini a zampa di leone a sostegno del sarcofago, quando fu rielaborato l’ambiente del presbiterio.  Questo schema di monumento funebre, fu  ampiamente copiato e divenne repertorio riproposto da varie altre botteghe.

 

 

 

 

===sulla volta del presbiterio, gli affreschi di Domenico Fiasella detto il

Sarzana (1589-1669), commissionati dagli Agostiniani intorno al 1650 (=Gavazza; 63.242 dice del ’20; un opuscolo della chiesa dice ‘35-45): il soggetto, caro all’Ordine committente, esalta la figura della madre di Cristo focalizzando dieci episodi della sua vita (tratti dai Vangeli o dalla tradizione, significativamente esclusi gli episodi direttamente connessi alla presenza del Figlio) narra in dieci medaglioni, la vita di Maria’ e per questo è descritto come  “I Misteri di Maria” o “le storie della Vergine” o “la vita della Madonna”: un’opera certamente e vistosamente grandiosa, arricchita dalle decorazioni barocche che accrescono il senso di importanza ai dipinti anche se sono -per la critica- di stile manierato sia perché opera del pittore in età avanzata, sia perché in parte dovuta agli allievi purtroppo assai meno capaci del maestro, sia perché soggetti a ritocchi post deterioramento. Vi sono figure di Santi e Profeti, stagliati su un cielo dipinto da Domenico Fiasella  programmato ad esaltare i sottodescritti riquadri della Madonna

Inquadrati da 10 grosse cornici di stucco dorato, descrivono gli episodi determinanti della vita di Maria, sia tratti dai Vangeli che dalla tradizione o addirittura leggendari ma comunque e significativamente in nessuno è segnata la presenza di Gesù. Sono: l’annunciazione a Gioacchino (secondo il racconto fatto nel protovangelo di Giacomo, scritto nel 150 dC. ma risultato apocrifo –ovvero poco affidabile come lo sono altri 20 testi scritti a eccessiva distanza dagli eventi-: il nunzio celeste –l’arcangelo Gabriele presumibilmente- annuncia la gravidanza della moglie Anna; Gioacchino sacrificherà dieci agnelli senza macchia a Dio, dodici vitelli per i sacerdoti ed il consiglio degli anziani, e cento capretti per il popolo); natività di Maria; presentazione al tempio; annunciazione dell’Angelo; sposalizio;  visitazione;   morte (o transito o ‘dormitio’: nel riquadro Maria giace supina su un letto a baldacchino –introdotto originalmente nella pittura in quei tempi- con le mani conserte sul ventre; Pietro la abbraccia¸gli altri apostoli sono attorno, e tra loro due donne piangenti,vedove ed  amiche, alle quali Maria ha lasciato i suoi vestiti);  funerali (o esequie. Come descritto nella Legenda Aurea di Iacopo da Varagine, Maria è stesa su una portantina sorretta a spalle da Pietro e ?Paolo affiancati davanti; preceduti da un giovane –forse Giovanni- e da un sacerdote con tipico copricapo; attorno gli altri apostoli); assunzione in cielo; incoronazione. 

 

=====NAVATA  DESTRA

 

         7ª cappella, posta nell’abside, a destra  “di san Pietro”: 

==Nella cappella === un olio su  tela di 213 x 151, con  San Pietro, sant’Ugo e san Carlo  di  Gian Lorenzo Bertolotto  (1640-1721-educato alla pittura dal padre, crebbe sotto la guida del Castiglione ; lavorò a Genova ed in Liguria : il suo stile viene definito ‘facile e discontinuo’ nel senso di facile influenzabilità da parte di altri, giudicabili maestri per lui). La tela è proveniente dalla chiesa di san Martino ove era nella cappella della Compagnia dei Pescatori  “distrutta;  altare e cappella fu ben preparata dall’Arciprete Stefano Daneri” (Remondini). Un capitolo dello statuto della ‘Societas piscatorum loci Sancti Petri Arenae’, fondata nel 1615 prescriveva che le spese di mantenimento della cappella fossero sostenute con parte del ricavo del pescato dei giorni festivi. La scena  descrive la carità dei santi  verso dei poveri (un uomo ed una donna sdraiati in basso); nello sfondo un volto barbuto (sant’Ugo);  a destra un avambraccio che regge un calice; in alto teste di cherubini.

=== un olio su tela (176 x 124) di ignoto pittore della fine del XVII secolo  raffigurante una  Santa in estasi (probabilmente s.Rita) con braccia aperte, di fronte alla sacra Famiglia (Madonna  Bambino e san Giuseppe seduti sopra una nuvola, tra angioletti); in basso un libro.

===un olio su tela ( 173 x 124) di ignoto autore del XVIII secolo, raffigurante la beata Veronica da Binasco  (figura mistica  agostiniana del XV secolo straordinariamente nota in quel tempo), precisata da un cartiglio in basso, che riceve l’Eucarestia direttamente da Gesù sporgente da una nuvola. 

===Il paliotto dell’altare, come nell’11°, è di falso marmo: una lastra di scagliola dipinta a riprodurre preziosi intarsi marmorei. Tipico esempio di ‘arte povera’ dell’epoca precedente l’800 e della sistemazione degli altari.

 

         8ª cappella  (quarta da destra)  “di san Bernardo.

Precedentemente e storicamente era dedicata a ‘san Nicola da Tolentino’agostiniano canonizzato nel 1446, esistendovi anticamente un polittico (vedi nella cronologia, all’anno 1466), che nel 1799 fu sostituito con la grande tela del Grechetto perché durante la repressione, il polittico fu smembrato e dopo, alla restaurazione, in parte risultò disperso.

La primitiva dedica a san Nicola, è testimoniata nei cartolari P, di san Giorgio, nella colonna di Brancaleone Doria 1485.

La cappella fu curata, fin da prima del 1485, da un ramo dei Doria individuato dall’ing. Tosini nella sottodescritta discendenza (quelli che hanno una dimostrazione di rapporto con la cappella dedicata a s.Nicola da Tolantino, sono evidenziati in rosso):

1 - Lamba Doria, figlio di Pietro,  capitano di Genova, vincitore della battaglia contro i Veneziani a Curzola nel 1297 (quando fu fatto prigioniero Marco Polo). Ebbe 6 figli Zenoardo, Alberto, Tedisio, Maria, Lambino e Cesare=2.

2 - Cesare Doria, vissuto a cavallo tra 1200 e 1300. Nel 1334 sposo con Franca Giudice; ebbe tre figli, Argenta,  Opicino=3 ed Andreolo 3A.

3 - Opicino Doria vissuto nella seconda metà del 1300, è conosciuto per un lascito testamentario rogato a Chio, datato 19 ago.1435 -che forse non riguarda la nostra chiesa,  sottoscritto dal notaio Lazarini q.Nicolai de Rapallo).

Ebbe sette figli: Cattarina, Francesco, Chiara, Leonardo,  Androlo, Brancaleone=4A, Bartolomeo=4B.

3A – Andreolo diede origine ad una discendenza che dopo 6 generazioni sarà protagonista con i monumenti funebri  dell’abside, dove verranno descritti

4A – Brancaleone Doria qOpicino; lasciò alla chiesa il provento di 15 ‘luoghi’,  per una messa quotidiana da farsi all’altare di s.Nicola da Tolentino, ed officio annuo per sé ed i suoi avi (cartulario di s.Giorgio, P c 32, del 1485). Sposo di MariaDoria q.Ceva q Antonio, ebbe 4 figli: Maria, Ginevra, Battista=5A1 e Ceva=5A2.

4B –Bartolomeo Doria q.Opicino; citato nell’iscrizione sull’architrave nella cappella di s.Agostino, dove viene descritto

5A1 Battista q.Brancaleone vissuto nel 1420; sposo con Chiara De Marini q.Cattaneo, ebbe un solo figlio Brancaleone=6A1

5A2 Ceva qBrancaleone;  vissuto nel 1420, andò sposo  a Selvagia Spinola q.Luciano con la quale ebbe due figli: Gironima e Paolo=6A2

6A1 Brancaleone qBattista, vissuto negli anni 1441 (anche lui degno di statua in piedi nella sala delle Compere innalzata nel 1574). Sposo con Bartolommea XY e –in seconde nozze- con Pellegra Lomellini q. Raffaele, ebbe tre figli: Tommasina, Francesca e Agostino=7A1

6A2 Paolo qCeva vissuto nel 1469; il quale -scrive Tosini- fu il committente del polittico di san Nicola da Tolentino, ordinato all’alessandrino Mazone Giovanni nel 1466; i suoi meriti gli furono riconosciuti con l’innalzamento (1668) di una statua in piedi in palazzo san Giorgio nella sala delle Compere con la scritta “Paulo Doria Cevæ ad vectigalia minuenda locorum mille multiplici perpetuo largitori MDCLXVIII”;  e luogo di sepoltura -1474- scelse san Nicolò del Boschetto.Andato sposo a Maria Vivaldi q.Ottaviano, ebbe 5 figlie femmine.

7A1 Agostino q. Brancaleone; nato dalla prima moglie del padre; vissuto 1496. Nel suo testamento del 30 giugno 1499 chiese essere sepolto nella cappella di san Nicola di Santæ Mariæ de Cella –notaio Franco Camogli-ASC. Sposo di Pellegra Doria q. Paolo q.Ceva, ebbe 5 figli vissuti a fine 1400 Gironima, Bartolommea,  Paolo, Girolamo 8A1  e GioBatta=8A2

8A1 Girolamo q.Agostino; Fu nominato -alla fine della vita- cardinale, diacono e vescovo di Tarragona, riformatore di leggi nel 1528; Andrea Doria gli affidò l’incarico di sollecitare Baccio Bandinelli perché finisse una sua statua; mentre il pontefice lo incaricò di risolvere una controversia tra Agostiniani e le monache di sant’Andrea riguardo i beni del monastero del s.Sepolcro in SPd’Arena.  Fu “sepelito nella cappella di s.Nicolò fabricata da Brancaleone Doria...senza epitaffio e senza altra insegna”. Sposo di Luigia Spinola q.Battista, suo figlio Nicolò=9A1

8A2GioBatta, q.Agostino,  sposo con Maria Lomellini q.Agostino, ebbe 5 figli  vissuti nella prima metà del 1500: Bartolommea, Pellina, Brancaleone, Paolo=9A2, Agostino=9A3

9A1 Nicolò q.Girolamo, sposo di Camilla Fieschi –sorella di GLuigi- si fece coinvolgere nella congiura del 1547.

9A2 Paolo q.GB; il nome è scritto nella lapide del corridoio, del 1603 e legata ad un lascito per l’altare di s.Nicola «pro anima quondam Thomasina de Auria ac quondam Pauli sui viri».. Fu un grande benefattore dei Gesuiti, riconosciuto dalla congrregazione quale fondatore del ‘collegio genovese’. Ebbe tre figli: Gerolamo, Ambrogio (nato 1550, doge nel 1621) e Stefano=10A.

9A3 – Agostino  qGB. Sposando Maria Spinola qFrancesco, ebbe 8 figli: Giulio, Paola, Claudia, Marc’antonio, Cesare, GB, Cristofaro e  Francesco. Quest’ultimo, a sua volta, sposando Livia Cibo qFrancesco, ebbe 9 figli: Ansaldo, Agostino, Ippolita,  Marc’Antonio, Agostino, Catetta, Brancaleone, Paolo e Pagano=11A.

10A – Stefano qPaolo, sposa in seconde nozze Virginia Doria q. Agostino. Divenne patrone della Cappella al Gesù.

11A – Pagano q Francesco. Ebbe cura della sistemazione dell’altare di s.Nicola da Tolentino.  Infatti oggi, sotto il grande quadro è un marmo dell’altare, che porta una scritta  rivelante che la pietra fu scolpita nel 1667,  per commissione di Pagano Doria, al fine di dedicarlo a san Nicola da Tolentino (“maximo Tolentino taumaturgo ne temporum iniuria desint obsequia hoc marmore aeternari voluit Paganus Doria q. Francisci maiorum suorum Pauli ac Brancaleonis fratris amatiss. Beatricis filiae et suorum non immemor - anno d.ni mdclxvii”=1667). Il polittico andato perduto, sarà poi sostituito nel 1799 con la pala di s.Bernardo dipinta dal Grechetto.

          

altare                                                          volta

==sopra il marmoreo altare, c’è un grosso olio su tela (305 x 222= La scheda fornisce misure lievemente più piccole 301x214) raffigurante  la visione mistica di San Bernardo abate di Chiaravalle, messo  in preghiera davanti al Crocifisso  di  Gio.Benedetto Castiglione detto il Grechetto (1610-1665 (Tosini anticipa ambedue le date di un anno); nacque a Genova ove si formò alla scuola del Paggi; si trasferì a Roma ventiduenne ove divenne anche accademico e formò famiglia con Maddalena Cotuzia. Tornò nel 1645 -per un anno o due-, e nel  1659 e nel 1661 (Zanelli precisa: nato 23 marzo 1609, a Genova dal febb.1639 al 1647 e sicuri dal 1650 per 6 anni); a Venezia nel 1660 e Mantova l’anno dopo; da Napoli dovette fuggire per rissa e processo; a Mantova fu alla corte dei Gonzaga e vi morì (Zanelli: il 5 maggio 1664).


 

   Il quadro proviene dalla abbazia (ex plebania) di San Martino commissionato per un apposito altare nell’anno 1642 dal sampierdarenese Sebastiano Bocconelli -personaggio mai conosciuto in altre occasioni-; e trasferito alla Cella alla chiusura della parrocchia per ordine della Repubblica Ligure.


   Delle opere dell’artista –qualificato a livello nazionale come massimo artista del seicento-, questa  viene considerata una “delle bellissime e delle più spiritose che egli mai lavorasse”.

   Delle poche sue prodotte utili come pale d’altare (come quella  in san Luca ed altra in san Giacomo della Marina), in questa descrive il santo inginocchiato ed a braccia larghe, vestito della tonaca della congregazione dei frati riformati detti Foglianti (cocolla con cappuccio che copre l’intera schiena, e cintola) che beve il sangue spremuto dalla mano destra del Cristo e sprizzante dal costato ferito dalla lancia. Il Crocifisso come staccatosi dalla croce con gli arti superiori, tiene invece la mano sinistra appoggiata sulla spalla come per attirarlo. Il  cartiglio dell’ INRI è scritto in esteso ma con lettere ebraiche. Intorno, tre figure di serafini (uno che bacia i piedi del Cristo ancora inchiodati e sanguinanti e che tiene il pastorale; gli altri due che contemplando, reggono la mitria, (ambedue simboli di dignità vescovile, ma che il santo avrebbe rifiutato per umiltà) ed un libro (simbolo dell’appartenenza ai Dottori della Chiesa) e di tre angeli in adorazione; dal più basso all’estrema destra fuoriesce  un cartiglio con la scritta “non obliviscar tui” (passo tratto da una lettera scritta nel 1133 dal santo ai genovesi (Grumo scrive nel 1311 precisando “ep.129 in P.L.182, coll.283-285). Tosini scrive che il Santo venne a Genova nel 1132 e successivamente scrisse la lettera: il ché spiega il senso del cartiglio ‘non obliviscar tui’). In basso -ai piedi della croce- il teschio di Adamo ed  il demonio riverso e tenuto a terra dal piede del santo; nello sfondo a sinistra il panorama di San Pier d’Arena con la Lanterna, simbolo della città di Genova che lo aveva  da poco  proclamato  copatrono della Repubblica.

   La tela segue il culto del santo che riaveva avuto un certo fervore, quando nel 1625 Carlo Emanuele di Savoia aveva mosso guerra alla Repubblica: nella mobilitazione di difesa, il padre cappuccino Cirillo Mazza auspicò la protezione delle truppe da parte del santo, sulla scia della lettera da lui scritta appunto quattrocento anni prima. L’idea fu accettata dal Senato e fu poi ratificata dal Papa,  col voto di stabilire come festa di precetto locale il giorno dedicato al santo; e con l’impegno di costruire una chiesa a lui dedicata, usando denaro pubblico.

   Il tipo di immagine, definito ‘Amplexus’, ebbe larga  diffusione nel periodo barocco spagnolo, per soddisfare l’interesse della Chiesa verso le immagini  di santi in estasi e del sangue di Cristo simbolo per eccellenza del sacramento eucaristico.

   Trae origine da una delle leggende fiorite dopo la morte del santo e mirate a descrivere le sue qualità vicine al soprannaturale ed al narrato suo frequente contatto fisico e spirituale con Gesù: il santo è conscio delle sofferenze della Passione e si immedesima nel tormento che servirà a schiacciare sia il demonio che il peccato originale(il teschio di Adamo); Dapprima  Menardo, abate dell’abbazia di Mores narrò che  il santo passava  molto tempo prostrato davanti al crocifisso in mistica comunione e che lui stesso vide la scena descritta nel quadro; poi il frate domenicano Felix Faber scrisse nel 1480-4 nel suo ‘Evagatorium in Terrae Sanctae’ che un giorno Bernardo quando era in preghiera era come se accostasse le labbra al costato di Gesù e succhiasse le nozioni di dottrina (‘melliflua doctrinarum’). Da un fatto simbolico al racconto testimoniato il passo fu breve, e tal Corrado di Eberbach riunì tutte queste leggende in un libro ‘Exordium Magnum cistercense Liber miraculorum’ .

   Tutta la scena vuol sottolineare il legame tra il sangue di Cristo versato sulla Croce e  la ripetizione del sacrificio eucaristico all’offertorio di  ogni messa: questo  parallelismo fondamentale nella cultura religiosa, il  Grechetto lo descrive con personale interpretazione del soggetto sacro (il Cristo che usa gli ultimi aneliti della sua vita, staccandosi dalla croce, per abbracciare il santo e parlargli, accordandogli un privilegio unico e miracoloso); in più aggiunge la continuità del concetto protettivo: da dio al santo intermediario, e da lui sia al borgo di San Pier d’Arena ( committente), che la città di Genova rappresentata dalla Lanterna.

   La pala, per chi ha cultura in merito, fa intravedere delle ascendenze pittoriche lombarde miste alle grandi novità romane di ascendenza berniniana;  alcuni altri leggono una forte influenza stilistica di Van Dick. Comunque concordi che rappresenta un punto fermo innovatore di un’evoluzione pittorica, sul cui cammino maturerà un seguito di artisti (tra cui Domenico Piola) sempre più bravi interpreti  e capaci. Due disegni dello stesso autore, conservati  a Roma (Istituto Nazionale per la Grafica) ed a San Francisco(Achenbach Foundation) in parte nell’uno ed in toto nell’altro, riproducono  le figure del quadro. Quest’ultimo fu restaurato nel 1990 in occasione della mostra svoltasi a Genova dedicata all’autore (durante esso, fu possibile leggere la sottostante traccia grafica preparatoria stesa dall’autore, con uno stile tutto suo personale)

   Forse vi esisteva una cappella dedicata a san Nicolò- nella quale 41.146 segnala furono sepolti nel 1558 e 1569 rispettivamente il card. Gerolamo Doria (uno dei dodici riformatori delle leggi del 1528), di Antonio Doria ed Ingone Doria.

   Remondini segnala che “sui gradini stanno due marmorei fregi, già sepolcrali”

==Sulla volta, opera affrescata da Giuseppe Passano (1786-1849), raffigurante la  gloria di san Bernardo: questi, vestito di tunica bianca è portato in cielo da due angeli ; in basso altri due angeli, posti sopra una nuvola, sorreggono i simboli vescovili della tiara e del bastone pastorale . Lo stesso tema è espresso in maniera stilisticamente migliore su una tela del Grechetto.

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         9ª cappella  (terza, da destra) “del Sacro Cuore”

==sull’altare (che nel 1880 era “in calce, ed è sacro a s.Martino: il popolo, da un sottoquadro, lo dice l’altare di N.S. del buon Consiglio.”) c’è stato un dipinto (tecnica mista) su legno di 200x140, raffigurante san Martino che dona il mantello al povero e proveniente dal coro della pieve di San Martino. Prodotto da ignoto pittore del XVI secolo, rappresenta la classica scena del taglio del mantello, in un ambiente all’aperto con sfondo campestre. La parte superiore del legno è centinata. Recentemente restaurato, è stato posto nell’11° altare .

 

 

L’ovale con il Sacro Cuore è una delle opere di Giuseppe Passano (1786-1849) eseguita nel 1820; la corona di angioletti, che lo circonda, appare retrodatata, dell’ottocento, e probabilmente circondava un altro quadro.

==Vi era stata anteposta una statua modernamente scolpita in marmo, raffigurante san Martino di Tours, opera di V.Pestelli, ora al museo.

==Sulla volta c’è affrescato al centro il simbolo dello Spirito Santo; intorno appare circondato da stucchi a  volute floreali allargate; opera di scarso impegno artistico.

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         10ª cappella  (seconda, da destra) “del Crocifisso”

==Ai due lati dell’altare, due grandi figure femminili disegnate sull’intonaco,  raffigurano le sibille Eritrea e Frisia, ambedue con cartiglio scritto in latino: in quella a sinistra è scritto «Jesus Christus Filius Dei Servator»; in quella a destra lo scritto appare illeggibile.

Sotto esse, rispettivamente sono due lapidi. In quella a sinistra appare scritto «ANNO . M.D.CCC.XC.III . NONIS .  MARS / THOMAS . REGGIUS . MARCH . ARCHIEP . N . / ALFONSUS . MINSTRANGELUS . EPISC . APUANORUM /       FIDELIS . ABBATIUS . EPISC . DIOCLETIANOPOLITANUS / SACRO . SOLEMN . PERACTO / SERVATOREM . JESUM / ANTE . IMAGINEM . QUAE . TUTAMEN . NOSTRUM . EST / SUPPLICES . APPOSUERUNT /». In quella a destra si legge «HIERONIMUS THOME DE SYLVA / SANCTI SERVATORIS IN BAHIA ARCHIEPISCOPUS / BRASILAE PRIMAS / LIMINA APOSTOLICA ADITURUS / HIC LIBENS CONATITIT / PRIDIE NON MAI MDCCCXCV / DIE FESTO SANCTISSIMI SERVATORIS».

           

==sulla volta, affreschi (dal Remondini giudicati «moderni affreschi non trascurati») di  Giuseppe Passano  raffiguranti, nel tondo centrale l’immagine di Dio con la colomba dello Spirito Santo ed un angelo sorreggente il calice -simbolo dell’eucarestia-; nei peduncoli più in basso, varie immagini di profeti e sibille che si alternano a scene della Passione di Cristo (= nell’orto di Getsemani - crocifissione - sepoltura - risurrezione)                           

==l’altare. La prima alzata, sopra il piano dell’altare, è composta da due teche rettangolari, contenenti reliquie. Sopra essa, la parete del muro è coperto da una tela.; in questo vano –nell’ott.2000- è posto il Cristo del Ciurlo con ai piedi le due statue lignee tedesche, che sono descritte nel museo.

Infatti, da recente (maggio 2004), è divenuta cappella del Crocifisso perché ospita opera lignea del secolo XVIII di  Pier Maria Ciurlo (1679-17__?=XVIII sec),. Storia= Era stato attribuito a  Gerolamo Pittaluga (attribuzione fatta da O.Grosso nel 1939, ma recentemente riattribuito. Prima del restauro era collocato davanti al pilastro di destra, appena entrati: fu spostato perché il tempo, il contatto dei fedeli, il fumo dei ceri, faceva consumare alcune parti ed addirittura staccarle. Nel 2004, si completò il restauro sponsorizzato da un Lions Club Ge.EUR, approvato e con la supervisione dalla Soprintendenza ed eseguito nel laboratorio «Marchi Restauri» di Nerio Marchi ed Angela Mambelli.

Il legno= di grosse dimensioni (205 x 100 x 26,5 – altrove vengono riportate altre dimensioni 310 x 120 x 30), in alto il cartiglio con la scritta INRI;  dall’incrocio dei legni scuri, si allarga posteriormente una raggiera; alla sommità dei bracci vi sono dei capicroce dorati. Il corpo del Cristo è abbandonato, col capo reclinato sulla spalla destra. Le dita della mano destra hanno indice e medio in estensione, le altre dita in flessione: nella mano sinistra sono tutte in flessione. Il ginocchio destro è davanti a quello sinistro mentre è invertita la posizione per i piedi. Mostra da parte dell’incisore una particolare cura nello studio dell’anatomia e della posizione del corpo, con raffinata attenzione nell’intaglio delle pieghe del panneggio, dei fili della barba e dei capelli.

 

Le estremità dei legni, sono prive di  capicroce  (ci sono o no?) (reclinato a dx o sin?).

 

== Inizialmente, vi fu ospitato –fino al 1929- il masso con l’affresco del SS.Salvatore; allora aveva un altare in marmo, a due colonne.

Poi  ospitò sia l’Annunciazione (ora trasferita al museo), che la tavola ora all’altare  seguente; in seguito venne detta Cappella di san Giuseppe, per la presenza di una   statua lignea del Santo.   

==Ha pure ospitato anche i santi Cosma e Damiano: oggi (2008) installati all’entrata centrale. Fortemente desiderati dalla comunità pugliese, sono rappresentati da due statue lignee di fattura recente (1960), con vesti arabescate. Dapprima furono posti dentro una grossa teca di vetro sostenuta da una intelaiatura di alluminio che mal si addiceva allo stile generale della chiesa. Tolta l’invasatura, troneggiano presso l’ingresso principale. I PUGLIESI  Tradizione in Puglia celebrare solennemente i due santi medici, patroni di quelle terre, come per noi genovesi san Giovanni Battista. Riccamente venerati a Bitonto (festa la terza domenica di ottobre; e da questo centro, a Ruvo di Puglia), Oria (nel santuario di s.Cosma alla Macchia, si troverebbero reliquie dei 5 fratelli), Alberobello (dal 1635 è festa il 26 settembre). Tradizione per i pugliesi sparsi nell’ Italia, specie Milano Torino e Genova,  sobbarcarsi un lungo viaggio per  andare e partecipare. I SANTI  Poco o  nulla si sa di certo. Una ricostruzione tarda dell’antica “passio” offre spunti di conoscenza, soffermandosi su “antichi atti processuali per beatificazione” riguardanti quindi una ricostruzione dei momenti di vita e delle eroiche virtù che sottolinearono col martirio la fede incrollabile in Gesù. La fantasia successiva portò perfino a doppiare con personaggi omonimi, a mutare località o date di nascita e di martirio, a volte in maniera nettamente contraddicentesi.

Cosma e Damiano furono due fratelli (forse gemelli) arabi, nati da Teodata (o Teodora; viene ricordata solo la madre, convertita cristiana; come spesso succede quando il padre moriva prematuramente); in terra Egea; nel  III secolo.

Divenuti medici in Siria; esercitarono la professione a Egea (in Cilicia. Qui era una scuola di medicina, seconda solo a quelle più famose di Epidauro e di Pergamo. Si distingueva per la gratuità –caratteristica dei precetti e Esculapio ed ampiamente confacente con i dettami della dottrina cattolica-  a favore dei poveri –ed in seguito alla conversione- nel nome del Dio cristiano); divenendo famosi per cultura, bravura (guarivano molti) e grandi esempi di carità (al punto che già nel V-VI secolo furono ritenuti senza dubbi essere comandati dallo Spirito Santo a loro apparso in sogno e nelle icone spesso raffigurato come colomba emanante raggi ed aleggiante sul loro capo).

Cresciuti nella religione di Cristo, oltre che medici anargiri (ovvero senza argento cioè non pagati), divennero -per l’apostolato compiuto- diaconi e predicatori.     Si può presumere avessero carattere mite, dolce, aperto e disponibile, di facile presa sulla povera gente.

Fanno parte  della primitiva Chiesa Ortodossa d’Oriente, dalla quale poi quella di Occidente attinse tradizioni, liturgia e ordine giuridico.

Il martirio:  si pensa avvenne a Ciro in Siria, presso Antiochia; oppure in Egea stessa, comandata allora dal prefetto Lisia  -governatore della Cilicia durante Diocleziano, quindi nel 287 o 303 dopo Cristo  (altri scrive vissuti nella seconda metà del terzo secolo; altri  addirittura nel V secolo)-.

 La “passio” araba, riporta come tradizionale la martorizzazione assieme ad altri compagni tra cui assieme anche altri tre fratelli di nome Antimo, Leonzio ed Euprepio, tutti commemorati nella stessa data del 17 ottobre). La procedura allora prevedeva una prima fase determinata al tentativo di far abiurare tramite anche tortura reiterata applicando pene e tormenti vari: flagellando i corpi appesi; gettandoli legati tra i flutti del mare – e quindi la leggenda li vuole sospinti a riva ancor vivi, dalle correnti-; bruciando con ferri roventi –dai quali ovviamente restarono illesi-; bersagliando con frecce o sassi; mutilando. A seguito, si procedeva alla sentenza di morte vera e propria tramite decapitazione (come nel caso nostro, il 27 settembre) ma anche con crocifissione o lapidazione.

Dopo la morte, i corpi –ricuperati dai fedeli- furono sepolti fuori delle mura della città. Le spoglie vennero poi trovate a Kyros (Ciro), sepolte nell’interno di un santuario. Nel VI secolo Costantino ampliò ed arricchì la chiesa in ringraziamento dell’evento sottodescritto.

La santificazione: a Roma, con la presenza del papa di allora Felice III (526-530, malgrado affiancati da leggende e contrastanti testimonianze, come spesso accade nell’ambito medico), vennero santificati (non tanto per le guarigioni miracolose ma solo perché riconosciuti che lavoravano disinteressatamente e seppero indirizzare al vero Dio i malati, specie quelli senza speranza), e fu da Felice IV (526-530) a loro dedicata una nuova basilica (trasformando un tempio sulla via Sacra, eretto da Massenzio in memoria del figlio Romolo; ma già un tempi erano stati dedicati a loro a Costantinopoli (abbellito da Costantino nel VI secolo ché, portatovi moribondo, dopo preghiere ne uscì guarito), e già erano venerati a Gerusalemme, Edessa, e Perna in Egitto).

Le loro spoglie-reliquie  si dice furono traslate da s.Alfredo nel duomo di Hildesheim nella Ruhr; da qui altre le trasferirono a Brema e poi a Bamberga sino al XVI secolo quando MassimilianoII le portò nella chiesa di s.Michele a Monaco di Baviera. Altri scrive diverso e le fa traslate da Ciro –di tutti e 5 i fratelli- nella chiesa eretta in Roma -sub altare maius-, per volere di papa Gregorio Magno (590-604). Si venerano reliquie anche a Lusarches (Parigi), a Chartres, Venezia, di nuovo a Roma in san Marcello. Ed infine, del capo di Damiano , nella chiesa omonima di Genova.

Iconograficamente sono ritratti giovanissimi, somiglianti come gemelli con nella mano destra una palma (simbolo del martirio) e nella mano sinistra una cassetta (contenente gli attrezzi del mestiere, dagli unguenti ai ferri)

 Sono considerati patroni della  Boemia, di alcune terre della Puglia (a  Bari venerano san Nicola) e  di tutti coloro che esercitano le arti sanitarie (facoltà di medicina, farmacisti, medici chirurghi e malati; essi sono in genere effigiati con in mano attrezzature sanitarie come cassetta di medicinali, spatola per unguenti, ferri chirurgici).

Bibliograficamente, ricca di particolari –vita e miracoli dei due santi- è la “Legenda Aurea” di Jacopo a Varagine (1226 c.a.-1298), ai tempi il libro più letto dopo la Bibbia. Sul libro: ---è confermata nella loro deposizione a Lisia (nomi di tutti i fratelli, la provenienza araba, la loro povertà); ---viene descritta Palladia, una donna guarita che volle concretizzare a Damiano la sua guarigione con un dono non rifiutato non per cupidigia ma per soddisfare la donna,  mettendo però così in disaccordo i due fratelli. al punto che Cosma ordinò essere sepolto separato dal fratello. Cosa che poi non avvenne interpretando che il Signore avesse scusato i due giudizi. ---un contadino che recatosi dai santi per forti coliche, fece uscire dalla bocca una serpe entrata –si pensa- mentre dormiva nel campo da falciare; ---una donna che falsamente ingannata dal demonio e messasi in viaggio per raggiungere il marito, quando aggredita si appellò ai due santi che intervennero essendosi ella fidata del loro aiuto,  cacciando e mettendo in fuga l’attentatore ; ---il guardiano della chiesa dedicata ai due santi e fatta erigere in Roma da papa Felice aveva una cancrena ad una gamba; invocati i due, si svegliò con la gamba guarita ma di altro colore: nella notte i due santi avevano preso una gamba sana ad un etiope morto recente ed avevano sostituito i due arti: un controllo nella fossa del morto confermò la gamba malata fissata al negro.

A Genova l’abbazia millenaria a loro dedicata sorge sovrastante i ruderi del palazzo di Agrippa in piazza Cavour. Pare che già nel VII-VIII secolo vi fosse una cappella dedicata a san Damiano; la notizia certa è del 21 aprile 1049 per una donazione, quando quindi era già eretta. Ben presto la leggiamo che fu eletta a Collegiata, con possibilità nel 1163 di partecipare alla nomina dell’arcivescovo. Il titolo di abbazia fu concesso nel 1798 per interessamento della marchesa AnnaMaria Grimaldi. La chiesa, posta in piazza san Cosimo, è in stile romanico; fu colpita dal bombardamento di Luigi XIV che distrusse la cupola bizantina ed il tetto a capriata. Fu ritoccata (la facciata) nel seicento. conserva il quadro dei due santi, di Giacchino Assereto (1600-1649) ed altri quadri di GA Ferrari; forse un Bernardo Castello. Anche in san Donato si celebrano i due santi; in genere si eseguono concerti di musica classica e visite guidate della chiesa romanica. 

A San Pier d’Arena la comunità si costituì in confraternita negli anni ’70; con quella genovese, ritrpovandosi composti da oltre due decine di migliaia di conterranei, decise commemorare qui la tradizionale festa: dapprima nella chiesa di san Giuseppe a SestriPonente; dal 1981 nella chiesa della Cella di San Pier d’Arena, legalmente riconosciuta dal 2001, con proprio stendardo e medaglione da portare al collo. Presidente è stato Rocco DeVenuto; oggi è il sarto  Aldo Sorice, con vice Giuseppe Avella. Negli anni, diverse celebrazioni  (ultima domenica di settembre) hanno solennizzato la festa: dapprima venerazione dell’effige dei due medici riprodotta in un quadro; essa nel 1959-60 fu sostituita dalle  due statue fatta venire dalle terre di Puglia (Bitonto o Bari); a seguito anche tridui, conferenze, vespri, ed infine processione con suoni della banda locale “Risorgimento” e della  “Filarmonica Sestrese”; i Carabinieri in divisa solenne; lancio di palloncini. La  SAGRA ligure  Un santuario ligure è a loro dedicato a Gavenola in zona di Pieve di Teco. A San Pier d’Arena, alla fine di settembre, si dà il via ad una sagra che dura alcuni giorni e che si conclude religiosamente il giorno festivo con la s.Messa solenne celebrata dal parroco; con canti  (ultimamente della Corale Shalom);  la Processione con le statue poste vicine, su unica cassa portata a spalle e normalmente giacente all’ingresso della chiesa; accompagnati da altre Confraternite, con i nostri tradizionali Cristi,  in prima fila quella ‘padrona di casa’ di san Martino Morte e Adorazione;  la -o le- bande;  la Croce d’Oro che presta servizi sanitari gratuiti; le strade invase dalle bancarelle degli ambulanti.

 Sono previsti arrivi da tutto il nordovest italiano: tanti dei 25-30mila pugliesi, ‘invaderanno’ la città per partecipare

 

 

 

 

        

11ª cappella  (prima da destra ) 

Remondini segnala che il primo altare destro “spetta ai Doria”

==all’altare, una tempera su tavola di 277 x 198,  con  San Francesco d’Assisi, stimmatizzato  di ancora ignoto pittore di scuola lombarda del XVI secolo e che prima era ubicata nella cappella a fianco.


Recentemente restaurata, la cornice appare datata 1540 -in alto nella grande ed imponente cornice dorata-. In precedenza ebbe varie attribuzioni, tutte risultate erronee malgrado la data di riferimento (tra essi, anche di Agostino Bombelli o della sua scuola (Remondini e 72.I.174) o di un fiammingo (Ratti). Raffigura il santo che mostra le stigmate ad un monaco, sotto la protezione del Cristo in Croce avvolto in un manto rosso di spicco nel cielo azzurro intenso,  


 


in un ambiente all’aperto (villaggio alberi, rocce, fiume, colline).


Fu un dono  ragguardevole alla chiesa, forse –alla luce di alcuni documenti testamentari- è più associabile alla famiglia Grimaldi che da parte della famiglia Doria (Nicolò Grimaldi, detto ‘il monarca’, aveva nella chiesa una cappella dedicata a san Francesco).

Il sottostante paliotto è pregevole esempio di ‘arte povera’, di scuola lombardo-emiliana: fu infatti realizzato usando una base di gesso (scagliola) pigmentata a riprodurre un prezioso marmo; ed ha una origine presumibilmente anteriore all’800.

     Nel 2010, il quadro di san Francesco è stato sostituito con quello di recente restauro di San Martino e il povero, attribuito a Lazzaro Calvi (nato 1518 ca ; mentre il Soprani lo fa erroneamente nascere nel 1502)  con interventi della bottega, come del nipote Marco Antonio, viste le non poche imprecisioni che fanno presupporre una ‘committenza provinciale, o secondaria’ essendo in quegli anni impegnato a lavorare decorando la casa di Fassolo per  Giovanni Andrea Doria e la consorte Zenobia del Carretto ed in cui aveva ricevuto numerose commissioni di altre pale. Lazzaro aveva iniziato ad evidenziarsi al declinare dei più grandi Semino, Cambiaso, ecc., e dipinse questa tavola nel momento migliore e maturo della sua carriera alla fine della 2° metà del XVI secolo: una scritta sul retro della tavola traversa ottocentesca, non originale perché aggiunta in un successivo restauro, riferisce “1584”; confermata da altra scritta ritrovata sul legno originale -sotto questa tavola- con identica data in cifre romane “MDLXXXII” ;).

La tavola, alta 227 cm e larga 160; costituita da 4 tavole assemblate verticalmente e centinate, a detta dei fratelli Remondini (1897), era nel coro (definito ‘assai angusto’) della parrocchia di san Martino prima che nel 1799 l’edificio finisse completamente distrutto; e del dipinto se ne persero le tracce, essendo stata fortemente ridipinta (fuorvianti) in epoche successive specie ottocentesche e riscoperta con le nuove tecniche di indagine in modo da poterla attribuire con sicurezza a Lazzaro Calvi.

Portata a restauro, dopo 5 anni - nel magg.2009, e dopo è rimasta esposta al Museo Diocesano – infine è stata restituita alla Cella (Laborio Rest Reg.Lig.; sotto la direzione scientifica della Soprint. Per Beni Storici Artistici e Etnoantropologici+Univ di Ge. – Con l’uso dell’infrarosso, sotto il colore si possono individuare la struttura ed i disegni preliminari: a livello delle gambe del povero emerse l’ipotesi di essere opera di Perin del Vaga il quale alleggeriva le forme rendendole più brillanti, ottenendo effetti di migliore decorazione e di più accentuata funzione simbolica).

Evidente il significato anche storico: quando la tavola fu trasferita dalla Palmetta, la Cella non solo assunse il nome aggiunto del santo, ma anche decorò specificatamente una cappella (si scrive, ‘la terza’ della navata destra) con le vicende salienti della storia di Martino, accertata dalla Legenda Aurea di Jacopo da Varagine

 

==sulla volta  appaiono degli affreschi di ignoto della seconda metà del XIX secolo, (dopo che nel 1850 la chiesa fu allungata, aggiungendo quest’ultimo spazio : appaiono opera non di rilievo artistico) raffigurante putti e cherubini, inclusi in medaglioni separati tra loro da intrecci floreali che dipartono da erme poste ai quattro angoli

======PULPITO  datato 1926, di Giacinto Pasciuti (1876-1941) e allievi. Con la scritta AD MAIOREM DEI GLORIAM ANNO D.M. MCMXXVI.   

Ai lati due piccoli bassorilievi (in bronzo) di s.G.Battista-visione di s.Caterina Fieschi-Cristo nel Sinedrio-s.Francesco.

Precedente a quella data, c’era un altro pulpito marmoreo, dei frati, ove sotto la coppa era scolpito «Piovrum et Conv.Sumptibus Erectum.Anno 1616» ed -aggiunto dopo- «S.P.Arenae

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===== Corridoio agli UFFICI PARROCCHIALI   

 


 

 

 

 

Superata la porta, lungo un corridoio chiuso, che un tempo corrispondeva a una parte del loggiato del chiostro (quadrangolare, a due piani) andato distrutto col bombardamento del  giu. 44; vi sono (e già vi erano anticamente) alcune

lapidi (dette ‘carte lapidarie’, in uso nelle città d’arte per ricordare, in forma più duratura e leggibile da tanti, un evento o un messaggio diverso dal cartaceo; ed allo scopo da applicare nelle chiese o nei palazzi), datate:


-1466 (lapide corredata da due stemmi, dei Grimaldi a sinistra e degli Usodimare a destra) «+Fratres Sancte Marie / de Cella proter multa / beneficia  adepta obligarunt / se ex caritate partecipes / facere  d Lucianu de Grimaldis / et Salvagiam uxore suam oniu / misar officior et bonor operum / m perpetuu conventus istius / m cccc lxvi die xvii marsii»  (sottolineate le parole incomprensibili; le tre r finali sono seguite da un segno trasversale sconosciuto)

 

(accenna alla fondazione di una cappella fatta da Agostino Negrone); 

-1446 (Giovanni Doria è citato su una iscrizione nell’architrave del tempietto di s.Agostino:–il cui figlio Nicola –sposo di una Fieschi-. Nel 1484 risulta presente a Roma come Capitano al servizio di InnocenzoVIII e nell’occasione introduce alla pratica delle armi i giovani Andrea e Filippo Doria); -

-1452 (di Giacomina, figlia di Nicola Doria  e di una Fieschi, e sorella di Domenico (anche lui legato alla chiesa della Cella e sepolto nella chiesuola di s.Agostino): «Giacobineta comitissa uxor q.Filippi...» era vedova di Filippo ---(cognome?) («comes», morto a metà gennaio 1531; a sua volta conte di Sassocorvaro (titolo ricevuto dai DellaRovere di Urbino) e di Castellamare (titolo ricevuto da CarloV); aveva una rendita annuale di 3mila ducati d’oro; fu vincitore sulla flotta spagnola della battaglia di Capo d’Orso a Salerno nel 1528 per conto di Andrea Doria di cui era stretto collaboratore, ed al servizio di FrancescoI. Giacomina nel testamento elesse come esecutori sia il GB (il creatore della villa Doria oggi delle Franzoniane); sia un altro nipote Ottaviano (figlio di GioGiacomo e di cui esiste il grosso monumento funebre nel presbiterio della chiesa della Cella) dai quali volle questa lapide di marmo (‘carta lapidaria’), con le sue volontà, e da porre nel coro della chiesa; aveva avuto due figli GioTommaso e Filippo  (come il padre;  sposò Peretta Doria di Tommaso –sorella di Giannettino-, rimasta vedova di Giulio Cibo);

    

1466 - medievale                         1584                                             1603

     

stemma Grimaldi                  DeMarini Usodimare

-1469 (copriva il sepolcro che Nicolò Oderico ergeva al benefattore Giacomo Grimaldo);   ------1603 «libras centum decem fructus annui pro anima quondam Thomasina De Auria ac quondam Pauli sui viri» (di Paolo Doria di GB. Per un legato (dire delle messe) all’altare di san Nicola per l’anima della moglie defunta Tomasina D’Oria”: Paolo fu anche grande benefattore della Compagnia di Gesù ed è riconosciuto quale fondatore del ‘collegio genovese’),

-XVIII  secolo, riguardanti personaggi i famiglie illustri con i loro stemmi, come i Doria, i DeMarini, i Grimaldi, i Gentile. Alcune scalpellature sugli stemmi ricordano le ordinanze  francesi del 1797, contro la nobiltà.

    In un angolo a sinistra dell’entrata, un’altra lapide, già posta nell’interno del campanile al primo piano ad ascendere. Nel 1999 il parroco saggiamente la fece spostare e pulire: ora è da tutti visibile nel corridoio; vi è incisa una lunga poesia in genovese, datata 1896 e firmata P.L.R., in cui il campanile racconta la sua storia :


                       O CAMPANIN DA CELLA

   GOTICO SON NASCIUO MILL’ANNI FA

   SOLO ERTO OTTANTA PARMI E LARGO VINTI

   AIVA QUATTR’EUGGI LARGHI CH’EAN BINELLI

   QUAND’EO ZA VEGIO D’ANNI QUATTRO - CENTO

   HO AZUNTI A-A MAE STATUA QUARANTA PARMI

   I EUGGI CH’EAN VEGNUI DE VISTA CURTA

   PE-E CASE CHE M’AVEIVAN FAETO ATTORNO

   I MASSACHEN DO TUTTO M’HAN TAPPOU

   FACENDOMEI CIU IN SCIU CIU GRENDI E NEUVI

   E IN SCIA TESTA M’HAN MISSO UN BERETTIN

   MA SON TORNA INVEGIO CAZZEIVO A TOCCHI

   E PAEIVA A-A- GENTE FUISE ANCON PICCIN

   E VISTI I FONDAMENTI CHE SCROLLAVAN

   ME DIVAN POVEO DIAO TI L’E IN T’UN PE

   QUATTRO CAMPANN-E DE DUXENTO RUBBI

   CIU VINTIQUATTRO CHE STAVAN CON MI

   FIN DA-O MILL’EUTTO CENTO SEI SCAPPAE

   SON DA-I BARCOIN E SOLO M’HAN LASCIOU

   MA O SCIO BACCICCIU PIN DE COMPASCION

   O M’HA LEVOU DA DOSSO O GRAN VEGGIUMME

   DA-I PE O M’HA RECASOU CIU GRANDE E BELLO

   O M’HA FAETO E RIAVERTI I EUGGI ANTIGHI

   O I HA BEN AGGAIBAE E O ME N’HA AZUNTO

   DI ATRI NEUVI DO TUTTO ED AGRAZIAE _

   E UN ERMO DE METALLO IN CIMMA A-A TESTA

   QUARANTACINQUE METRI AOA SON GRANDE

   E SEI CAMPANN-E CHE SON BELLE NEUVE

   DE QUATTROCENTO E CIU SCIUSCIANTA RUBBI

   STAN DENTRO IN CASA E NON CIU IN SCIO BARCON

  

   OH SAMPEDENN-A CAA TUTTA TE VEDDO

   E TE SALUO DE SEIA E DE MATTIN

   E A MEZOGIORNO CO-O SON DE MAE CAMPANN-E

   EVVIVA CENTENA DE SAN MARTIN

                                         1896   _                          P.L.R.


Il campanile della Cella  -  sono nato gotico mille anni fa, alto solo ottanta palmi (=20m. - 1 p=25cm) e largo venti (=5m) avevo quattro occhi che eran gemelli. – Quando ero ormai vecchio di 400 anni ho aggiunto alla mia statura 40 palmi (10m). Gli occhi, che erano diventati di vista corta per le case costruite attorno a me, i muratori del tutto mi hanno chiuso costruendomeli più in alto grandi e nuovi e sulla testa mi han messo un berrettino. -Ma sono nuovamente invecchiato, cadevo a pezzi ed alla gente sembravo ancora piccolo e, visto che le fondamenta traballavano mi si diceva “povero diavolo, ce l’hai in un piede”.-Quattro campane di 200 rubbi (1600 kg. -1 r =8 kg) più ventiquattro che erano con me fino dal1806 sono scappate dalle finestre e mi hanno lasciato solo.- Ma il signor Baciccia, pieno di compassione  mi ha tolto di dosso il gran vecchiume mi ha restaurato dai piedi, più grande e bello mi ha fatto e riaperti gli occhi antichi, li ha ben ornati e me ne ha aggiunti altri del tutto nuovi e graziosi con un elmo di metallo sulla testa. –Ora sono alto 45 metri e sei campane che sono belle nuove, di 460 rubbi (3680 kg.) sono dentro casa e non più sul balcone. –Oh Sampierdarena cara, ti vedo e ti saluto di sera e di mattino e a mezzogiorno con il suono delle mie campane! – Evviva il centenario di san Martino.

Dal corridoio si accede,  sia al cortile ove trovasi l’antica cappella di Sant’Agostino; sia, in fondo, all’ufficio e –a destra- alla vera

 

=====SACRESTIA , ambiente seicentesco , addobbato con vari dipinti  e con  massicci e possenti mobili ( armadio e due casettoni della fine del XVII secolo).

    

parete a destra                                                                   parete di sinistra

 

 

(1)                                   (10)                                (11)

Per chi entra dagli uffici, vede

--sulla parete di fronte: 2 porte (quella a destra serve per l’ingresso verso l’altare maggiore), ed  i quadri 10 e 14 ;

--sulla parete a destra   sopra il cassone in legno, i quadri  8-9-15-16-17 ;

--sulla parete sinistra, due porte, un crocifisso (attualmente è sull’altare,  ed è stato sostituito con uno più piccolo del XVIII secolo) ed i quadri 12-13 ;

--sulla parete alle spalle, un cassettone, con sopra  i quadri 1-11-18

 

Quadri : (1) olio su tela di 139 x 111, raffigurante la  Madonna con Bambino e san Giovannino, attribuito con sostanziale sicurezza a  G.B. Paggi (1554-1627, allievo di Luca Cambiaso, influenzato da conoscenze toscane) e databile dei primi decenni del XVII sec.; lo stesso tema trattato in un’altra tela posta nel museo-vedi 5,  vede la Madonna con Bambino in braccio che gioca  col santo; a sinistra san Giuseppe addormentato; a destra un angelo; sullo sfondo un paesaggio campestre interrotto a sinistra da un drappo dipinto di rosso.

(8) un dipinto ovale di s.Luigi Gonzaga di autore ignoto del XVIII secolo;

Olio su tela, di 78 x 59, rappresenta il santo in abito di novizio gesuita, che si sorregge meditabondo, con la mano sinistra ad un crocefisso; sul tavolo sono dipinti i simboli attribuitigli : una corona ed un giglio

(9) un dipinto ad olio su tela, di 98 x 74,  raffigurante la  Madonna del Rosario di ignoto autore del XVII secolo, forse addirittura di Domenico Fiasella; propone la Madonna vestita di rosso e con manto blu, che sorregge sulle ginocchia il Bambino mentre più in basso san Domenico e santa Caterina sorreggono le estremità di un rosario; in alto due angeli sorreggono una corona sul capo della Vergine.

(10) un dipinto ad olio, su tela di 224 x 137, raffigurante  La Madonna e Santi  di ignoto pittore, della seconda metà del XVIII secolo, raffigurante  san Giovanni Nepomuceno, santa Caterina Fieschi- canonizzata nel 1737- ed altri santi, ai piedi della Madonna con Bambino e della colomba  dello Spirito Santo attorniati da cherubini festanti.

(11) un dipinto raffigurante l’ Adorazione dei pastori  di ignoto autore del XVIII sec.. È un olio su tela di 146 x 97, ed evidenzia la capanna in legno, avvolta da cherubini festanti, con la mangiatoia entro cui è posto il Bambino, mostrato dalla Madonna ai pastori in adorazione;

 (12) dipinto raffigurante  Lo sposalizio della Vergine di pittore ignoto del XVIII secolo; olio su tela di 68 x 96, ricorda la cerimonia degli sposi, circondati da quattro testimoni

(13) un dipinto olio su tela ( 68 x 96) de  La fuga in Egitto, di ignoto autore del XVIII secolo.

(14) un  Battesimo di Cristo  di  G.Lorenzo Bertolotto (1640-1721) che era nel battistero; molti critici lo attribuiscono a Pietro Paolo Raggi (1646-1724). Olio su tela, di 222 x 165, con la parte superore centinata,  raffigura il Battista versante l’acqua sul capo di Gesù che è chino di fronte; mentre il alto risplende lo Spirito Santo e poco sotto un angelo è pronto per asciugare il capo bagnato.  

( ) il  Crocefisso del XVIII secolo; di Gerolamo Pittaluga (1691-1743), posto abitualmente  nella nicchia sotto il finestrone sulla parete di fondo;

( ) un antico sacrario in marmo del 1400

(15) un dipinto  olio su tela, di 74 x 61 raffigurante l’  Ecce Homo, di ignoto del XVII secolo, col Cristo avvolto in un drappo rosso, su sfondo nero.

(16) una  Ricognizione delle reliquie di san Nicola da Tolentino, di ignoto autore della fine del XIX secolo, già attribuito a Luca Cambiaso, oggi è stato attribuito a GB Resoaggi (1662-1732). È un olio su tela di 132 x 181 raffigurante vari frati che considerano le reliquie del santo, steso sul fondo.

(17) un dipinto di  sant’Erasmo, di pittore ignoto seicentesco (forse G.B.Carlone), in olio su tela di 200 x 121  raffigurante  il santo, patrono dei marinai, in abito vescovile che ha in basso, una caravella (simbolo iconografico), in alto un angioletto che sorregge un cartiglio con la scritta  “S.te Erasmo ora pro nobis” e, in basso, un secondo cartiglio illeggibile.

(18) una  Adorazione dei Magi di pittore ignoto del XVIII secolo. Anch’esso olio su tela di 146 x 97  presenta la Madonna seduta che porge il Bambino all’adorazione di uno dei re Magi chino davanti a lei in atto di pregare; dietro gli altri due re ed una folla di  figure secondarie fino a degli angioletti in alto.

 

======al primo piano superiore, (ove si aprono le porte per il campanile ***, del museo e di una segreteria), in una nicchia c’è il busto di Salvatore Pittaluga. La lapide sotto spiega  “COMM. SALVATORE PITTALUGA CAV. DELL’ORDINE EQUESTRE DI S.MARIA DI BETHLEMME NELL’ANNO DEL SIGNORE 1964 CON  GESTO MUNIFICO E DELICATO ABBELLI LA SUA CHIESA PARROCCHIALE DI ARTISTICO E PREZIOSO PAVIMENTO E LA RESE PIU’ CONFORTEVOLE  CON UN’ATTREZZATURA DI EFFICIENTE RISCALDAMENTO”.  Nato nel 1899, morì per cause cardiocircolatore nel 1963; da garzonetto (o ‘bocia’) di scagno di importatori di carbone, divenne presidente di una fiorente società di navigazione ed infine (1930) autonomo imprenditore di importazione di carbone (quando il petrolio ancora non aveva totalmente  invaso il campo di produzione di energia). Volontario nella guerra del 15-18,  comprò una prima nave per il trasporto del materiale fossile: assieme ai Bertorello fece crescere l’impresa sino a possedere una flotta di  navi (tutte con nomi ‘nostrani’ tipo Righi, Grifone, san Giuliano, Carignano, san Nazaro) e,  nel 1947 dirigere la soc. di Navigazione Ligure-Toscana funzionante anche con  navi a noleggio. Nel 1959 si ritirò in pensione, mantenendo contatti con l’ambiente portuale ed  elargendo da anonimo benefattore buona parte delle sue risorse economiche (tra cui la Croce d’Oro e la chiesa della Cella) .

 

======SALONI PARROCCHIALI

A)  In una sala al 2° piano superiore, è riposto l’archivio: antichi registri, anche della antica parrocchia di s.Martino, con atti di nascita, morte e matrimonio risalenti dall’anno 1543. 

Con paziente ricerca, sono stati ritrovati gli atti di nascita di Gio Vincenzo Imperiale (vedi alla via titolata alla famiglia), degli scultori Pier Maria Ciurlo e Gerolamo Pittraluga (vedi alla via a lui dedicata), dell’architetto Angelo Scaniglia (vedi), dei pittori GB Monti e N.Barabino (vedi), di capitan Bavastro (vedi), di don Daste (vedi), del figlio di Salgari, dell’ing. Nicolò Bruno (vedi), del gen. Antonio Cantore (vedi)

C’è un grosso quadro di A.Vernazza riproducente a mezzo busto un sacerdote in abiti solenni.

B)  al 1° piano superiore (MUSEO, o antica SALA CAPITOLARE); era una volta il salone refettorio del convento agostiniano. É posta sopra la 3ª cappella della navata sinistra.

Remondini precisa «attiguo alla chiesa, entro una sala del soppresso convento o per meglio dire nell’antico refettorio, un locale dei padri agostiniani, nel 1799 trasformato in “oratorio dedicato a san Giuseppe”». Nulla si sa da prima quella data, ma già doveva essere in attività perché la trasformazione fu conseguenza del passaggio delle opere religiosa da s.Martino, tra cui un quadro rappresentante il “S.Patriarca”. Riferisce esservi un solo altare con appunto il quadro del santo, le statue in legno del Crocifisso, della Vergine e san Giovanni, un quadro di Andrea Ansaldo del XVI secolo raffigurante la Natività. Infine ricorda che ‘questo oratorio ebbe una cappellania Franzone (per una messa festiva), perduta né tempi recenti’. Il gonfalone dipinto dal Barabino con la ‘Madonna del Rosario’, era per la confraternita ospitata nell’oratorio.

Il Novella, più recente, negli anni 1900-30 descrive solo che esiste, nell’antico convento di s.Maria della Cella.

 

 

    Attualmente qui sono state raccolte varie opere d’arte 

(in rosso, quelle confermate dall’elenco di Tosini. Mancano la (9 da controllare) e (11-12 che sappiamo esistere); nell’elenco Tosini ci sono in più a)- una tela con ‘sant’Antonio Pierozzi, vescovo domenicano di Firenze, di autore ignoto; e b)-lungo la parete est due sculture lignee di ‘san Carlo’ e di un ‘monaco in estasi’).  


 

 

(1) la lapide, è a memoria di

 

 

 


Urbano Rela; essa ricorda: «D.O.M. – Prestantiss. viro Vrbano Rella navalis disciplinae -undequoq. sollertissimo qui

(ser.mo domino Ioanne austriaco - totam classem tum Pii V Pont. Max. tum Philippi - hispaniorum regis atq. Rei publicae Venetae  in


-  unum connexam – contra turcas gubernante) tanta – in ordinandis triremibus collocandis – que falangibus in illo conflictu in oris Lepanti – habito proelioq. committendo est usus prudentia – navalisque militiae peritia ut maximum sibi ho – norem patriaeq. suae laudem ac omnibus christianis – devictis ac undique confractis hostibus – victoriam immensamq. laetitiam attulerit. Qui – tandem senio confectus hunc lapidem ad perpetuam rei memoriam celo iam fruens sibi posterisque suis – poni iussit anno Domini MDLXXII».

“URBANO RELA, UOMO CAPACISSIMO NELLA DISCIPLINA NAVALE E SOLERTISSIMO, CHE (SOTTO IL COMANDO SUPREMO DI GIOVANNI D’AUSTRIA – TUTTA LA FLOTTA ASSIEME – DI PIO V PONTEFICE MASSIMO E DI FILIPPO RE DI SPAGNA E DELLA REPUBBLICA DI VENEZIA – UNITI – CONTRO I GOVERNATORI TURCHI) – NELLO SCHIERAMENTO DELLE TRIREMI ORDINATE DA FORMARE UNA FALANGE IN QUELò CONFLITTO PRESSO LA BOCCA DI LEPANTO – USANDO COME SIA ABITUDINE PRUDENZA ED ESPERIENZA MILITARE DA APPORTARE MASSIMA PER Sé, PER LA PATRIA, PER TUTTI I CRISTIANI IL MASSIMO DELLA LODE – VINTI E DISTRUTTI I NEMICI – IMMENSA VITTORIA E LETIZIA. QUI AD ETERNA MEMORIA DEL FATTO, VIENE POSTA QUESTA LAPIDE  PER GLORIA SUA E DEI SUOI POSTERI, NELL’ANNO DEL SIGNORE 1572»

(FRATELLO DI FILIPPO II DI SPAGNA E COMANDANTE SUPREMO DELLA FLOTTA CRISTIANA) E IL PONTEFICE PIO V  E  FILIPPO II  RE DEGLI SPAGNOLI E LA REPUBBLICA DI VENEZIA IN UNA UNICA CONTESA CON I GOVERNATORI TURCHI”.

In origine apparteneva ad un monumento tombale dello stesso, che era stato posto nel chiostro del convento.

Remondini dice che ve ne era una datata 1572 e «proveniente da stranio luogo e qui fermata nel muro»:

Alla battaglia di Lepanto,1571, c’erano anche i genovesi, guidati da Gian Andrea Doria: tra la nutrita flotta, c’era anche la trireme comandata da Urbano Rela, con 150 uomini, quasi tutti sampierdarenesi come il capo. Ma tutta la flottiglia  genovese non partecipò allo scontro diretto perché mai ricevette l’ordine di intervenire: malgrado la vittoria della flotta cristiana, questo comportamento inattivo dell’ammiraglio  G.Andrea Doria (nipote del famoso A.Doria) suscitò un vespaio di sospetti,  gravi illazioni, pesanti accuse.    (vedi a U.Rela)

(2) un Ecce Homo, dipinto ad olio su tela (200 x 156), di autore ignoto del XVII o XIX secolo, di buona fattura; raffigurante il  Cristo, avvolto in un telo rosso, col capo chino e coronato con spine.

(3) una tela, la Flagellazione  dipinto attribuito a L.Borzone, o altro allievo del Cambiaso; del XVII secolo. È un olio su tela, di 124 x 94, raffigurante Gesù coronato di spine ed esausto, con alla sua sinistra un giovane in atto di coprirlo con un manto rosso, ed alla destra un soldato con la verga.

                   

Gesù flagellato               Madonna di Loreto        Annunciazione

(4) un dipinto della bottega del Semino, del XVI secolo, raffigurante l’ Annunciazione; più volte spostato: una volta presente dietro il battistero, poi sul terzo (la scheda dice 1°) altare sinistro;  giudicato negativamente da alcuni critici; è un’olio su tela di 271 x 163, che  evidenzia la Madonna a sinistra, inginocchiata davanti all’ Angelo che le annuncia il messaggio; in alto l’immagine di Dio, della colomba , di putti.

(5)  un dipinto della  Madonna col Bambino e san Giovannino, dipinto da allievo del Cambiaso nel XVI-XVII secolo (probabilmente GB Paggi); è un olio su tela di 117 x 94, con la Madonna che tiene il Bambino sulle ginocchia ed -destra- il santo ; a sinistra un uomo i penombra è atteso a leggere (san Giuseppe); in alto un drappo scuro mette in risalto la veste rossa ed il manto blu della Vergine.

(6) un olio su tela di  Bernardo Castello (Genova, 1557-1629; precocissimo allievo del Semino e del Cambiaso, a dieci anni già era padrone di tecniche segrete della professione, da produrre opere attribuite ai maestri. Ammalatosi, iniziò a viaggiare nella vana speranza di trovare il medico guaritore. Morì al ritorno, sepolto in una tomba che lui stesso si era fatto costruire in s.Martino) intitolato  Madonna di Loreto del 1606 circa, quando fu edificata la cappella della famiglia Piccamiglio-Pinelli ed ove fu collocato (vedi Battistero), corrispondente al secondo altare sinistro (altare precedentemente intitolato a S.M.Lauretana e poi sostituito –prima, nel 1799 - da una statua lignea definita ‘di scarso valore ed attribuita ad Agostino Storace; e poi, da quella in marmo di Tomaso Orsolino). È un olio su tela, di 246 x 151, raffigurante gli angeli che sollevano la casa, la Madonna ed il Bambino; in basso sono due scene della vita nella casa, subito prima dell’impresa.

(7) parte di un affresco -di pittore ignoto, di scuola lombarda- che già era in quella sede dal quattrocento (Guida Sagep.13 conferma genericamente del XV); già all’origine applicato in questo locale, adibito a refettorio, sulla parete nord; fu rinvenuto durante un restauro nel 1965-6. Il punto più ben conservato presenta la scena dell’ Ultima Cena, tipico soggetto dei refettori conventuali; si  vedono in alto anche dei tondi, raffiguranti  i monaci agostiniani e - sulla destra - un monaco con cesta di pane in figura intera, ed una tavola bandita con dei coltelli.

 (7-11-)

Risale all’epoca del 1442 quando papa Erasmo IV affidò  il complesso conventuale ai frati agostiniani lombardi (ai quali rimase fino al 1797).

(8) sulla parete a sud, sono resti di affresco, fatto a ferro di cavallo (attorno ad una porta). In origine era sulla parete sinistra, tra il secondo pilastro e l’abside. Doveva essere più vasto, prima che la finestra –aperta nel centro della parete in epoca assai più recente- non ne distruggesse il centro.

 

affresco d’insieme                     annunciazione

 

   natività                                                                   cena in casa di Simone fariseo

                                                                                              

Quello su una delle due volte a crociera (le figure dei quattro Evangelisti e di due Santi (quasi sovrapposti), collegate da una cornice, la quale lascia presupporreche fosse distesa per tutta l’arcata e comprendente numerose altre figure: il Dandrade nel 1888 eseguì un acquarello riproducente un santo che è ancora esistente ed un altro scomparso), fu lasciato in sito, perché ormai illeggibile e di scarso valore artistico;

L’umidità ha fatto il resto, considerato che ai tempi della prima descrizione del Dandrade del 1882, erano più leggibili di quando se ne decise il distacco. Il quale fu eseguito sotto la direzione della Soprintendenza ligure,  nel 1958 con modalità più idonee per ragioni conservative essendo gli affreschi  più antichi della  regione Liguria.

L’affresco fu eseguito quindi da mano di un ignoto artista  genericamente chiamato ‘maestro della Cella’ che  decorò la chiesetta di sant’Agostino nel periodo tra il  XII e XIII secolo (la datazione è varia secondo i critici: va dai primi anni del XII sec. (Toesca P. nel 1906; e van Marle nel 1923) a passaggio tra XII e XIII (Ceschi, 1954), a fine XIII (Procacci, 1961); dopo il 1291 (G.Terminiello Rotondi, 1966)).

Si tratta di frammenti, di affresco rudimentale, prodotto da un artista alle prime armi, che ripetè -senza personale ispirazione- immagini facenti patrte dello stereotipo del tempo: stilizzate e piatte sul piano prospettico, con colori forti (azzurro, verde, giallo)  poco distribuiti mentre sono troppo evidenti le striature che appaiono intensamente colorate (bianche, rosse). I tratti pittorici, rispetto ad altri della stessa epoca, sono tendenzialmente primitivi e con affinità alla tradizione bizantina (che precede le novità del Cimabue ed allievi), attribuibili o ad un giovane alle prime armi o ad un artista con poca ispirazione.

Alla fine del duecento, Genova aveva migliorato i rapporti commerciali con Pisa e numerosi furono i toscani che vennero da quelle terre; tra essi Manfredino, al quale alcuni critici hanno fatto riferimento  (Manfredinouesti fu DQ d’Alberto, da Pistoia, q.Alberto fu seguace di Cimabue con cui lavorò nel 1272 in Assisi;  documentato in Genova negli anni 1292-3 impegnato in s.Michele di Fassolo (oggi nella Galleria di Palazzo Bianco; quindi forte di una decisa esperienza che non traspare nel Nostro della Cella): la “cena”, rappresentata in ambedue gli affreschi, ha molte affinità che permetterebbero una singola attribuzione o quantomeno la copiatura (un allievo?) ma con notevole discapito per il nostro affresco, specie nella lettura degli spazi, la plasticità ed il disegno delle figure. Quindi il Nostro riprese i tratti iconografici e stilistici di Manfredino ma in modo più grezzo rispetto alla seppur ancora semplice ed iniziale raffinatezza del maestro.

In definitiva il nostro affresco va letto quale testimonianza di presenze sacerdotali di diversa cultura -o perché provenienti da diverse regioni o anche spontaneamente ricche di esperienze diverse, anche pittoriche.

I vari riquadri raffigurano ciascuno momenti della vita di Gesù: si riconoscono con certezza,

====sulla lunetta una figura indistinta che è stato identificata come  l’immagine di s.Giovanni Battista in quanto il cartiglio posto sotto di essa porta la scritta “Ecce” (Ecce agnus Dei).

====a sinistra e dall’alto

a)    L’angelo Gabriele della Annunciazione. Ben conservato l’arcangelo, meno la Vergine. É una scena cassica negli affreschi medioevali. Il Dandrade descrive tra le due figure un pilastrino a separazione, non più leggibile.

b)    Subito sotto, la scena della Natività. Questo presepio, è pittoricamente appiattito con sullo stesso piano s.Giuseppe in meditazione, pastori, pecore e l’asino. Già posto nel presbiterio della chiesetta; inizialmente vieppiù eroso dall’umidità penetrata dopo la distruzione parziale della copertura, ad opera del bombardamento del 9 giu.1944.

c)    la fuga in Egitto si intravvedono le figure della Madonna e del Bambino quasi uscenti dali limiti del riquadro; scomparso l’asino.

d)    L’ultimo in basso fu interpretato dal Dandrade, che ancora lo distingueva, comeritorno dalla fuga in Egitto”. Oggi è ormai illeggibile.

====a destra e dall’alto

a)       il  convito di Betania o cena in casa di Simone il fariseo (cita di una peccatrice che unse con unguenti preziosi i piedi di Gesù ; Luca 7,36-50). É la scena meglio conservata essendo andata perduta solo la figura di Cristo che –secondo Dandrade- era seduto su uno sgabello all’estremo sinistro del riquadro.

b)       Il battesimo di Gesù. C’è rimasta solo la sinopia, che è una delle più antiche e rare della Liguria. L’evento bellico fece sgretolare l’intonaco lasciando visibile solo traccia, che prima di allora ovviamente non era conosciuta. Sono disegnati due angeli chini su una figura centrale.

 (9)  un dipinto della Madonna con Santi di ignoto autore del XIX secolo, in olio su tela di 179 x 136 cm., regalo di una  famiglia genovese all’arciprete; rappresenta la Madonna -circondata da una raggiera luminosa e da due cherubini-a braccia aperte benedicente san Giovanni Battista e santa Caterina, circondata da cherubini.

 (10)  (12)

(10)  una  scultura marmorea dellImmacolata Concezione  dovuta a  Filippo Parodi  (1630-1702) ai suoi esordi di artista (diverrà il maggiore scultore genovese del seicento), seppur già influenzato dallo stile del romano Bernini (soggiornò a Roma per due volte); databile quindi anno 1670 circa, di cm.106 x 50:  su un piedistallo di nuvole, in cui volteggiano chiome di cherubini, la Madonna ha le vesti come spinte a lato dal vento, il ginocchio lievemente flesso le mani sul petto, il volto lievemente reclinato verso destra; il tutto in forme morbide e molto aggraziate; il marmo pulito e lucente come una porcellana sembra sciogliersi nel fluido sventolare del manto.    Proviene dall’Oratorio della Morte, distrutto nel 1938 per aprire via Cantore (al quale era stata donata dalla famiglia Rolla -sepolti nella cripta- (in SPd’A dal 1825, il capostipite morì nel 1860 dedito prima al commercio e lavorazione della seta, poi del cotone) che l’aveva acquistata per una cappella personale di famiglia nella casa posta nella Fiumara e costretta alla distruzione per l’industrializzazione della zona);  non si hanno documenti più precisi  ma i critici la definiscono di ‘assoluta raffinatezza formale’ perché vi leggono i segni stilistici del passaggio (iniziato dagli scultori genovesi a fine del 1600) dallo stile romano (tendenzialmente rigido) ad uno più sciolto, capace di interpretare un movimento  naturale del corpo; nel caso specifico una tendenza alla torsione del tronco per atteggiare le braccia al petto a due altezze diverse, quasi ad adattarsi al vento che sventola il mantello verso il lato sinistro della Madonna; quindi una materia più fluida, a modello di Pierre Puget; un critico la definisce “immagine tipica da devozione privata”, secondaria ad una committenza che desiderava un “decoro” tipo aristocratico. A sua volta l’immagine divenne scuola per splendide rielaborazioni di altri scultori (Ponsonelli per es.). 

(11-12) due sculture lignee processionali, dipinte con sgargianti colori rosso e blu, invertiti (lui con veste blu e manto rosso; lei con veste rossa e manto blu) e sotto i quali a tratti emergono tracce di doratura applicata a missione.  La segnalazione più antica della loro presenza risale al 1837 quando sono descritte essere conservate in sacrestia assieme ai Cristi del Pittaluga e del Ciurlo. Facevano parte di una Crocefissione, di scultore ignoto: dapprima definito di scuola tedesca -come scritto su un inventario del 1909, ipotizzando Giusto di Ravensburg, pittore-scultore presente in S.M.di Castello; poi invece, per somma di caratteristiche, di scuola fiamminga, in particolare di artisti di metà 1400 delle terre meridionali dei Paesi Bassi, in particolare la città di Tournai. Sono comunque uno dei pochi lavori d’oltralpe dell’epoca, presenti a Genova. 

 

Nessuna notizia della parte centrale, ovviamente un crocefisso o comunque la figura di Cristo, forse commissionate da qualche ricco commerciante locale, trafficante nelle terre dell’alta Francia –Borgogna- o dell’Olanda –Bruges, Anversa- (ove molto spesso veniva usato un legname di quercia similare, detta ‘del Baltico’), con  con l’intenzione di ornare una cappella: in San Martino esisteva un altare dedicato al Crocifisso, ed è forse così che si giustifica da dove provengono; e se così fosse, il crocifisso del Pittaluga avrebbe potuto sostituire la figura centrale già mancante.

Una raffigurante san Giovanni Evangelista, abito dipinto di azzurro, manto di rosso, piedi nudi; con la sinistra sorregge un libro chiuso, con la destra in atto bendicente; capigliatura lunga oltre le spalle; di 146 x 50x 29,

L’altra statua anch’essa dipinta, della  Madonna dolente,  di 147 x 50 x 29, facente parte dello stesso gruppo della precedente statua. L’atteggiamento è di attesa, con una mano tiene un lembo del manto azzurro,  la sinistra è poggiata sul grembo, sopra l’abito rosso fluente a coprire anche i piedi.

(13) È probabile per entrambi la funzione primitiva di chiave di volta. Sono due “tondi” prodotti da ignoto autore: uno, del diametro di 38 cm, del XVI secolo che lavorando la nera pietra di Promontorio, in una cornice a tortiglione ha riprodotto un busto  vescovile con mitra e pastorale: si attribuisce l’immagine di sant’Antonino Pierozzi, vescovo domenicano di Firenze; nell’altro del XVII secolo, di 36 cm di diametro, su marmo bianco, propone un volto anch’esso vescovile riferibile a san Giovanni Battista con due vescovi santi (inconsueta la presenza del libro) 

 (13)  

 (14) due tabernacoli (o sacrari) marmorei di ignoto scultore del XV secolo; forse utilizzati per contenere l’olio santo.

                                                 (14)

=== uno in marmo (che nel 1888 era nel chiostro), più piccolo (128 x 62) porta la data 1468 ed in centro una iscrizione in carattere gotico “RAPHAEL DE CORONATA LUCHINUS DE CANALI MINISTRARII MCCCCLXVIII“: i due uomini ai lati dello scritto e scolpiti in bassorilievo, vestiti con cappa in atteggiamento di preghiera dovevano essere ‘ministrarji’, cioè amministratori (o preposti o confratelli) dell’ospizio-convento-chiesa di san Giovanni Borbonoso (da salita san Barborino, incorporato in Pammatone  -con bolla di Sisto IV nel 1741- assieme agli ospizi di Rivarolo e di MongalloPaganetti scrisse averlo visto nella parrocchiale di san Martino). Questo sacrario, nel XVI secolo fu posto sopra un basamento avanzo di una ricca sepoltura, munito di volute barocche sui due lati.

In un arco ogivale in alto, l’immagine di Gesù che risorge dal sepolcro;  sotto, una cornice con bassorilievi  a volute vegetali e simboli eucaristici; agli angoli i simboli degli evangelisti; nel fondo l’iscrizione tra due uomini preganti .

=== l’altro  in marmo, ferro e legno, di 190 x 170, intagliato nel 1400 da artista ligure, ha anch’esso in alto il Cristo risorgente; al centro una porticina in ferro battuto con lo stemma dei Doria: un’aquila coronata ed attorniata da cherubini e festoni; in basso un festone rotondo con uno stemma abraso ed illeggibile, sostenuto da un cherubino

(15) proveniente dalla chiesa di san Martino, e prima collocata sul secondo altare della chiesa, parte di una ‘cassa processionale’, statua lignea dipinta, di ignoto scultore del XVIII secolo vicino al Maragliano, raffigurante la  Madonna del Rosario alta 167  x 90 x 92; la Vergine, col manto azzurro e la veste rossa, damascati in oro, siede su una nuvola circondata da angeli, e sostiene con la destra sul ginocchio il Bambino in piedi, ed entrambi porgono un rosario.

 

(16) la riproduzione dell’effige del SS.Salvatore, necessaria ed utilizzata per il trasporto in processione durante la festa. In legno di balsa, con le identiche caratteristiche di forma e dimensioni, fu elaborata dallo scultore pittore Gianni Clerici nel 1980; il carro fu fornito da un privato (fam Bisio di via san B.d.Fossato), fatto in noce con bronzi e ferri battuti; i buoi sono forniti da comuni limitrofi (nel ’81, Savignone).

(17) due gonfaloni processuali, uno quello della Compagnia del ss.Nome di Gesù dipinto su damasco e probabilmente della bottega del Piola (Tosini scrive ‘di Storace’) del XVIII secolo; rappresenta la ‘circoncisione’.

l’altro della Compagnia del s.Rosario dipinto su tela da N.Barabino nel 1852, ornato di preziosi ricami con la Madonna, Bambino, s.Caterina e s.Domenico. Spesso è riposto nel battistero (e là è descritto).

(18) alcune statue marmoree contemporanee, scolpite da Valdieri Pestelli, di ‘Santa Rita da Cascia’, e del ‘Sacro Cuore di Gesù’ ed un ‘san Martino di Tours’, albergate dapprima in chiesa negli anni 2004, e poi trasferite al museo.

(19) mobile-armadio da coro, con badatone: veniva utilizzato dai monaci per esporre i grandi libri corali ed antifonari, durante le recite comunitarie dell’Ufficio.

 

 

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