via DASTE

2)  CASEGGIATI POSTI A MARE DELLA STRADA= civici pari

Via Palazzo della Fortezza – dove scorre la separazione tra UU 26 e UU 28

===I civv. 2Ar (assegnato nel 1953 a nuova apertura), 4r e 6r: furono soppressi nel 1982 per ristrutturazione dell’edificio.

===sulla facciata laterale del giardino, a parte le colonnine spaccate o mancanti, è ancora nel 2007 visibile la targa in cemento di dedica del tratto stradale a “ via Generale Cantore”.   Sulla facciata nord del palazzo invece,

(descritto in quella via), c’è da anni una abusiva lapide di tipo cimiteriale del ventenne Luca Nalbone, milite volontario della Croce d’Oro, deceduto il 21 lug.1991 nelle vicinanze, per tragico incidente;  e così ricordato dagli amici (cronologicamente è stata la seconda, dopo quella similare di via Buranello; nel 2004 è la quarta e altre; sono sempre state “tollerate” o ignorate dalle autorità competenti (via P.Reti, via Campi, piazzale cimitero, via Buranello,...). Mi appaiono discutibili per gusto e scelta; sono dell’idea che un “amico”  - ne ho avuto anch’io - si porta nel cuore e nella mente, non su una targhetta; tutta la città è fatta di singoli casi, a volte drammatici e sconfortanti; ma se in luogo adatto ha lo scopo di stimolare una memorizzazione (di stampo foscoliano, di  stimolo a valutare il poco che siamo),


e per chi crede, una preghiera; ma per la strada è solo ostentazione di un dolore personale a fronte di una risposta indifferente dei passanti perché non conoscono il fatto nonché deposito di fiori di plastica sporchi di smog. Questa targa fu oggetto di discussione sul Gazzettino ed anche in Consiglio di Circoscrizione nel 1991 con pareri altrettanto contrari ma inutili).


 

=== civ.2   è un palazzo di 6 piani del 1928, progettato dall’ing. L.Solari, eretto in cemento armato su un’area di 364 mq ( 24x15 m) dall’impresa ing.L.Botto per conto dello ICP di Genova con classificazione ‘economica’;   contiene 22 alloggi per un totale di 87 vani.

I civici rossi di questo edificio vanno dal 10r al 14r (manca quindi l’8r)

===civ 12 nel 1933 vi aveva sede il gruppo locale della ‘Società Superstiti Garibaldini’, aggregato alla Associazione garibaldina di MS di Genova. Negli stessi locali, forse, c’era anche la ‘Società reduci patrie battaglie’.

===civ. 16r e 18r. Lex civ. 4 (oggi tutte le porte della villa, poste sulla strada portano numeri civici rossi: il 16 con ABCD sul lato a levante della rientranza; e 18ABCD sul lato via Daste.

Per la Soprintendenza la sede delle società ospitate nel palazzo si aprono “in piazza Treponti al civ. 2 –ex via Daste civv.4 e 6”).

   Questo ex 4, posto a sinistra della strada procedendo verso ponente, corrisponde alla terza villa Grimaldi (-Rebora) (ricordando la prima in via Dottesio e la seconda nel Palazzo della Fortezza; una quarta al civ.24, dei Grimaldi di Gerace; una quinta dei Grimaldi-Carabinieri; demolite, la sesta  dei Salesiani e settima in via Rolando ex Cristofoli;  più altre  forse delle ben oltre 50 ville scomparse nei secoli).

        

                                                                                           1976

  Nata e progettata non si sa da chi, né quando; e neppure si sa, su ordinazione di chi della famiglia. Appare probabile sia stata eretta, sfruttando dei ruderi di una abbazia quattrocentesca  (di cui pure non si ha nessun accenno documentato, ma affermato, avendo gli esperti riscontrato la facciata a sud e relativa balconata in stile e modo più antichi del  rimanente, ed avendo una struttura tendenzialmente quadrata e massiccia in pietra, quando invece le nuove costruzioni già erano rettangolari e più snelle: nella pratica del vincolo originale, una nota sottolinea “Abbazia dei Grimaldi”  escludendo la Fortezza per concomitante attribuzione ad altri Grimaldi.

   Nel 1757, sulla carta del Vinzoni, appartenne al “magnifico Nicolò”; su essa si rileva sempre la forma quadrangolare con due ali laterali disposte verso  sud e la cui asimmetria avvalorerebbe l’ipotesi di una preesistente costruzione su cui fu giocoforza doversi adattare.

   Successive modifiche fecero costruire parti aggiunte laterali che ne appesantirono non poco la snella struttura di base.

   Nel 1800 pare vi abbia abitato capitan G.Bavastro (vedi).

   Sempre dagli anni della prima metà dell’800, divenne proprietà di Andrea Rebora e figli (pastai divenuti famosi conduttori di un grosso opificio (vedi via Bricchetti), i quali fecero ospitare la Madonna della Guardia (ma è un errore: probabilmente quanti hanno scritto così, han fatto frettoloso riferimento al pastore ai piedi per noi tipico del nostro santuario; in realtà è una Madonna senza il Bambino, con le braccia aperte, e con ai piedi il beato Bosso, venerata a Savona)  nella nicchia sovrastante il portone quale ex-voto per una grazia ricevuta (la miracolosa guarigione di un nipotino) apponendo sulla base della statua posta nella nicchia sopra il portone la scritta “protexisti et protegeris”.


Se invece la nota storica è giusta, non so quando sia stata cambiata né da chi. I Rebora fecero erigere il loro grosso stabilimento distruggendo il bel giardino retrostante. Nel 1911-33 li ritroviamo sul Pagano (con l’allora titolazione di via sant’Antonio, poi via generale Cantore, 4) come pastificio, ed esercenti di un molino a vapore).


   Dal Pagano 1902 leggiamo che in questo edificio, che affiancava ‘via Goito’, gli succede tal Giordano Costatinoancora attivo nel 1912 fornitore di apparecchiature per molini (nel 1920 appare ancora presente, ma  scritto come costruttore edile,  tel 4204).

   Nel 1934, rinnovato nel 1955, l’edificio fu vincolato e tutelato dalla Sopraintendenza per i beni architettonici,  come monumento nazionale.

   Sulla facciata principale, rivolta su via Daste, la costruzione  appare a tre piani, mentre solo sui fianchi e sul retro sono visibili i finestrini degli ammezzati intermedi, nonché l’ampia loggia a 5 fornici con balaustra a pilastrini: questa è stato riconosciuto essere dell’ottocento, secondaria ad una ristrutturazione che cambiò l’uso dell’immobile da una conduzione unifamiliare, all’uso “produttivo” al piano terra e residenziale ai piani superiori.

  All’interno vengono ricordati affreschi alle volte del piano nobile e dell’atrio; e -nel salone principale- un inusuale divano seicentesco che ornava tutto il muro perimetrale.

   Nel 1976, il proprietario (la soc. Edilizia Palazzo Grimaldi) ottenuto l’annullamento del  vincolo monumentale causa i gravi danni subiti all’interno, fu autorizzata dalla Ripartizione edilizia comunale (pareva senza sottoporre il progetto al Consiglio di Circoscrizione ed alla Commissione urbanistica) a provvedere alla ristrutturazione della casa e ricostruirne l’interno ad appartamenti, (in conformità al progetto dell’arch. Francesco Elia e dell’ing. Elio Montaldo, lavori eseguiti dall’impresa Molfino di Camogli guidata dal capocantiere Aldo Siri), vincolando solo l’esterno a come era la villa originale nobiliare;  però ai lati, su due appendici già aggiunte molto tempo prima, per aumentare i vani abitativi furono apportate modifiche in larghezza da una parte ed in altezza dall’altra, modificando  l’estetica di base). (vedi sotto un commento, alla villa Lercari detta la “Semplicità”).

    

facciata a mare

 L’operazione fu oggetto di inutili ma vivaci critiche, interpellanze al sindaco, ed addirittura di sospettata speculazione edilizia. La risposta ufficiale fu che il parere favorevole ai lavori fu rilasciata dal Sindaco e dalla Soprintendenza ai monumenti della Liguria.

Il giardino, che verso sud era anche orto di prima qualità,  come appare nelle carte, era stretto e lungo ed arrivava fino al mare; dapprima fu la ferrovia -con la via G.Buranello affiancata (1850-4)- che ne tagliò trasversalmente il tratto distale; poi la ammassata edificazione,  completarono l’opera della totale scomparsa del verde e del senso di respiro, spogliando ed isolando la villa da farla apparire un normale palazzo.

 

Via Albini

===civ. 22 ABC r. D’angolo con la strada c’è un terrazzo all’altezza del piano nobile della villa seguente, sotto cui ci sono dei negozi.

Nel corpo della villa, iniziano i negozi con il 24r e terminano con 26C;

 

===civ. 8 (già civ.24 di via del Mercato):  sempre sul lato mare, subito dopo appare la  villa Lercari (-Sauli)    detta comunemente  “ la Semplicità “.

 

  

dal giardino delle Franzoniane                  facciata a mare                     da Largo Gozzano

 

La paternità della villa è divisa tra due personaggi della vasta famiglia Lercari:

---la d.ssa P.Falzone, in “Le ville del Genovesato”,  scrive che “la villa è costruita per Giovanni Battista Lercari fu Stefano (1506-1592; vedi ↓ sotto; sarà doge 1563-5; e quindi, fu il nonno materno del GB Spinola-Lercari, che erediterà).

 

                                                                Stefano Lercari+Maria Giustiniani

                                                                                          |

              Luca Spinola di sLuca                               G.B. Lercari+Maria Imperiale

                                                           |                                        1506-1592-doge 1563    |            .            

                                                           |                                                         |                               |

                               GioMaria Spinola     +             Pellina                       G.Stefano                                                                                  

                                +1601                          |                                                  +decapitato

                                                          |

                                             GB Spinola (di sPietro→ Lercari)+Maria Spinola

 

---Invece, A.Dagnino in “Genova e l’Europa Mediterranea”, e Santamaria in “Luca Cambiaso” scrivono che la villa era stata costruita pochi anni prima da Franco Lercari (1523-1583; doge 1574):

                                                                                   Nicolò Lercari                                              

                                                    |                                                                       

                                                        Franco          +Antonia De Marini                       

                                                                                                                          1523-1583-doge1574

                                                                                                      |

                                                                                                                                          non eredi

 

Non trovati, nessuno dei due,  sul  Battilana

 

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Famiglia Lercari= 


 Anche loro, come gli Spinola, da poco tempo dopo le crociate di probabile origine viscontile e, divenendo ricchi di conseguenza, chiamati ad occuparsi anche nell’amministrazione cittadina seguendo la corrente guelfa dei Fieschi;  se pur - anche perché pochi -  preferendo dedicarsi ai commerci con le colonie e l’estero  ed alla navigazione. Di quei tempi più famoso è Ugo Lercari, ammiraglio della flotta del re francese Luigi IX.

Con la riforma doriana degli alberghi, del 1528, furono posti a capo di uno di essi: 


 

 

 

 

 

 

 

 

A conferma della presenza nel nostro borgo di questi ricchi mercanti anche da antica data, emergono degli atti notarili:

--il primo datato 16 dicembre 1288, su cui si legge che Costantino Lercari comperò a Sestri  “15 moggi di calcina per la sua casa di Sampierdarena”. 

--Nel  maggio 1396 Luciano Lercari era conduttore ed amministratore della chiesa di S.M. della Cella.

--Un altro atto notarile stilato nel borgo, dice che in SPd’Arena fa testamento il 24 luglio 1424 tal Selvagia qm Gottifredo Vivaldi e vedova di qm Paolo Lercaro.


 

---Giambattista Lercari, nato nell’anno 1506 circa da Stefano e da Maria Giustiniani di Giovanni, fu educato con severi studi divenendo uomo d’alto ingegno, al punto che la Repubblica appena 22enne lo inviò a cariche importanti (a Napoli, in Sicilia, in Spagna, in Francia da FrancescoI), e poi - come ambasciatore - a Bologna all’incoronazione di Carlo V (del quale era anche divenuto amico e che lo aveva nominato viceré; qui dovette usare la forza prendendo a schiaffi un senese per mantenere – come gli toccava - il posto vicino al trono: Genova da secoli stava per prima a fianco del regnante,  poi stavano i fiorentini, e dopo ancora i senesi).

In patria, divenne procuratore della Repubblica interessandosi di gravi problemi di stato e dell’applicazione della legge del Garibetto voluta da A. Doria dopo la congiura dei Fieschi.

Andò sposo a Maria Imperiale q.Michele dalla quale ebbe Gio Stefano, Gio Gerolamo (↓vedi sotto), Giulia e Pellina (quest’ultima, sposata a Gio.Maria Spinola nel 1571, aveva dato 6 figli (4 maschi; dei quali il primogenito G.B. poté usufruire del fidecommesso che il Lercari impose per i propri beni).

Fu in questi anni che ordinò la villa in San Pier d’Arena (Lercari a pag. 149 scrive che ‘a Sampierdarena aveva inoltre costruito due residenze di villeggiatura’).

Il 7 ottobre 1563 fu eletto Doge biennale. Dopo la sua nomina, maturarono alcuni problemi: di fronte alla sua integrità, caritatevolezza e benevolenza ma altrettanta decisionalità ed alterigia, nacquero le accuse di eccesso di potere al punto di renderlo odioso a molti nobili. Cosicché quando finì l’incarico di doge, per tre voti contrari su cinque non fu ascritto tra i Procuratori Perpetui, come era uso. Si ritirò nella sua casa di campagna, ma solo per pochi giorni perché ribellandosi alla decisione del Sindacato dei Supremi, si fece appoggiare dalla monarchia straniera peggiorando la sua situazione in un clima di voluta totale libertà della Repubblica a decidere.

Tale fu il suo sdegno e smania, che il figlio 27enne GianStefano decise di vendicarlo attentando all’ex doge Luca Spinola entrato in carica prima del padre e che, con severità, aveva avallato le decisioni avverse al genitore. L’attentato commesso da un sicario, non colpì la persona giusta, ma portò a morte un accompagnatore dell’ex doge. Risaliti al colpevole, fu condannato alla forca, e nulla poterono gli strazianti tentativi del padre se non a trasformare la condanna ignominiosa in una morte per decapitazione da eseguirsi non in pubblico ma nella torre Grimaldina.

Dopo un viaggio in Tunisia (prima del 1570 quando la Tunisia fu conquistata agli spagnoli dai turchi; la battaglia di Lepanto avvenne nel 1571) ove rifiutò importanti cariche, preferì tornare nella casa di campagna. Ma i tempi mutarono: i nobili di casate antiche che detenevano le redini del potere in virtù della legge del Garibetto voluta da A.Doria, perdevano potere sotto la pressione dei nobili di estrazione popolare e quindi favorevoli al popolo, ed il Senato ritenne opportuno  richiamarlo alla sua direzione per riportare equilibrio, nuove leggi e rappacificazione. Gli fu proposta la revisione della sua bocciatura a Procuratore e di riconoscere i propri torti, ma lui rifiutò, apprestandosi a servire la Repubblica nella veste di magistrato.

Nel contempo nel 1584 scrisse un libro con lo pseudonimo di DeBenedetti Stefano, dato alle stampe in Milano, con cui offrì fiele al Senato che nulla poté se non cercare di accaparrare il maggior numero di copie per distruggerle.

Di cuore generoso, ebbe a arricchirsi con complesse operazioni finanziarie, sia in Genova che all’estero,  distribuire molti beni, in grano e soldi a strutture benefiche ottenendo per riconoscenza una grossa statua posta a lato della porta alla sala del Gran Consiglio nel Banco di s.Giorgio.

La mancanza di una discendenza diretta maschile, né da parte del maschio (che tra l’altro gli premorì nel 1588) che dalle due femmine (visto che anche sua figlia  Pellina aveva dato due nipoti femmine). costrinse il nostro GB a prestare attenzione ai numerosi (ben 15) figli del consuocero GB Spinola ed a maturare l’idea di una eredità sotto impegno di una vincolante fidecommissione.

Fidecommesso = l’11 dic. 1592 l’86enne Lercari stilò l’ultimo testamento precisando le volontà in modo molto articolato. Parte del patrimonio veniva vincolato dal fidecommisso; parte invece era fuori di esso (come i cospicui capitali investiti all’estero: Messina, Milano, Napoli, Spagna) e veniva destinato a Pellina purché distribuisse parti di esso alla madre, ai suoi altri figli, ecc.

Rispetto un precedente testamento del 1589, tolse alcuni obblighi la cui non osservanza, prima avrebbe comportato la perdita del fidecommesso: e cioè = *che gli eredi, oltre il proprio cognome naturale assumessero anche il nome Lercari; *di avere il consenso dei genitori per sposarsi; *di abitare a Genova una volta raggiunta l’età di 54 anni; *le vertenze relative a queste imposizioni avrebbero avuto come arbitro l’arcivescovo di Genova (o suo vicario) con Ufficiali della Misericordia e Protettori dell’Ospedale di Pammatone

Confermò invece: ***affidarlo al nipote GB Spinola quando avrebbe compiuto i 30anni di età – e da lui ai suoi eredi primogeniti maschi (in caso di estinzione di questa linea, privilegiati divenivano prima eventuali primogeniti maschi degli altri figli di Pellina o delle figlie di Pellina; poi i maschi altrogeniti sempre di Pellina;  ***essere sepolto - in una cassa coperta di telo (bajeta) nero con croce bianca -  in san Nicolò del Boschetto nella cappella di santa Maria;  ***vari vitalizi (alla moglie – con restituzione della dote e usufrutto della villa sampierdarenese (che poi passò alla figlia Pellina)-; alle figlie Giulia e Pellina; quale dote, una somma alle donne del casato; alle Vigne; ecc.; ***immobili (tra cui la ‘domus magna’ sampierdarenese nel cui terreno aveva una villetta non soggetta al fidecommesso); ***  cospicue somme in elemosine.

Morì nel 1592, a 85 anni.

Fu sepolto nella chiesa di san Nicolò al Boschetto nella quale aveva acquistato la cappella dedicata ala Vergine.  Sua moglie lo seguì nel gennaio 1593,  lasciando tutto a Pellina.

GB Lercari nel palazzo sGiorgio

 

-Il mag.co Franco Lercari q. Nicolò e Lucietta Imperiale q.Michele, nacque il 16.3.1523 e morì sessantenne a fine febbraio del 1583; rimasto precocemente orfano, fu affidato allo zio Andrea Imperiale che lo crebbe assieme a suo figlio Davide.

Crebbe seguendo tutta la trafila degli impegni e responsabilità civili tipiche: esponente di spicco della vecchia nobiltà locale, ricco finanziere con notevoli solvibilità nei più svariati traffici con la Spagna; proprietario di saline, di terreni nel napoletano nell’ovadese.

Era quindi di un altro ramo dei Lercari e comunemente era conosciuto come “il ricco”.

Fu un politicamente impegnato, già Deputato alla Fabbrica del Ducale; a 42 anni (1565) Membro dei Padri del Comune, senatore (1574 e 1577); protagonista della guerra civile  (1575-6) guidando il rientro in città dei nobili fuggiaschi e dopo la pace di Casale prendendo in mano le redini della città; conservatore dei regi sigilli del regno di Napoli (carica che amministrava da Genova, per incarico del re di Spagna) ; esponente dei nobili ‘vecchi’.

Sposò Antonia DeMarini Castagna (mentre il cugino Davide Imperiale sposò la sorella di Antonia, Aurelia; ambedue imparentate con Urbano VII GBCastagna, papa per 13 gg,). dalla quale non ebbe eredi diretti.  

Come collezionista   raccolse libri; argenti (famosi quelli commissionati al portoghese Antonio DeCastro –un bacile ed una stagnara- con imprese di Megollo Lercari; oggi in collez.Cini a Venezia. Nel bacile sono evidenziate le allegorie della Prudenza, con specchio; Fortezza, appoggiata a colonna-; Giustizia con spada e bilancia; Temperanza che travasa da un’anfora all’altra; Fede con mani giunte; Speranza con suardo al cielo); quadri del Cambiaso (molti), Semino, Andrea del Sarto, Tintoretto, Passano, Anguisola (già attribuito al Cambiaso)); arazzi

Tra i possibili eredi, scelse –in primis- un cugino GioGiacomo Imperiale q. David (che non erediterà); ed in secundis di un lungo elenco di possibilità successive, Gio.Carlo, figlio del cugino Davide Imperiale (alla cui famiglia si sentiva molto riconoscente). E Santamaria scrive che fu lui ad avere il doppio cognome Imperiale-Lercari, suffragando la tesi con i nomi degli eredi dei vari fedecommessi lasciati da Franco GiannAgostino I-L; e FrancescoMaria I-L (doge; quello del ‘mi chi’ a Versailles).

Da altri invece si scrive diverso (basandosi anche sulle decorazioni interne):  non Imperiale-Lercari, ma Spinola-Lercari): era in nota anche il lontano parente figlio di Pellina Lercari (vedi schema sopra): G.B. Spinola = quello che diverrà Lercari e che poi decorerà la vicina villa Spinola sampierdarenese; figlio di GioMaria Spinola q. Luca (+ 1601) di s.Luca e di Pellina Lercari figlia del doge GBatta Lercari q. Stefano (costruttore del palazzo di via Orefici 7 ).

Comunque il consistente testamento, stilato il 27.2.1583 (in assenza di eredi diretti, presso il  notaio Leonardo Chiavari  stilò un testamento comprendente la volontà che la villa di SPd’A detta la Semplicità’; ed istituì un  fidecommesso (vincolo che –come istituzione- verrà soppresso il 26 marzo 1799 dal Consiglio dei Seniores della Regione Ligure)  mirato a salvaguardare la continuità della sua casata,  obbligando l’erede ad assumere anche il cognome di Lercari. Lasciava una somma di 200mila lire da far fruttare (con il multiplico) fino ad arrivare a 2milioni; una volta raggiunta la cifra, sarebbe stata ripartita in parte in reinvestimenti ed in parte in elargizioni benefiche.

Franco fu –come tanti altri- affetto dal male dell’epoca detto ‘della pietra’ ovvero spesa di ingenti somme per opere pubbliche  (tappezzamento pareti dei due più importanti saloni del Ducale (sala del Maggior Consiglio e del Senato); nonché le ville padronali (la nostra “Semplicità” extra moenia, che poi verrà acquistata dai Grimaldi e da loro ristrutturata nel 1559-60;  e dopo, 1571,  anche la dimora in Strada Nuova –con gli affreschi di Megollo- e che appartiene ai Rolli).  

Fu anche uno dei maggiori committenti d’arte del Cinquecento: ebbe a contratto i migliori artisti locali del tempo (GB Castello detto il Bergamasco; Luca Cambiaso (protagonista); Ottavio ed Andrea Semino; la famiglia Calvi; Taddeo Carlone; Rocco Orsolino. Ricuperò la storia di un suo avo Megollo (ne fece incidere undici scene su un piatto d’argento (l’argentiere richiese 14 mesi di tempo per inciderlo), altre quattro dipingerle su una brocca, ed altre nel suo palazzo in strada Nuova (via Garibaldi;  da Luca Cambiaso) e sulle erme del portale (da Taddeo Carlone);

Con i suoi beni contribuì a abbellire delle chiese: comprò una cappella della Vergine, nel duomo di s.Lorenzo (lato sin., della quale tenne il patronato) e l’abside maggiore col coro della chiesa della Maddalena; fece erigere la sala del capitolo di s. Francesco di Castelletto, 2 ospedali, parte del molo, dell’arsenale, dell’acquedotto e delle mura.

Gio Geronimo – secondogenito di GB, dopo la morte del fratello Stefano divenne erede delle fortune del padre, il quale concentrò su di lui le attenzioni e privilegi. Sposò nel 1574 Marietta Pallavicino (di Antoniotto e della principessina Lucrezia Grimaldi). Ma non ebbero prole.

 

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Il committente, nel 1559-60 fece aprire il cantiere di palazzo a SPdA che, nel 1565 sarà già abitato

 

Villa=   I due ricercatori su detti, convengono che la villa fu costruita nel periodo tra il 1558-1563.  Sorse su disegni dell’architetto Bernardino  Cantone da Cabio (sicuramente attivo nel 1560) e da Bernardo Spazio  (presente nel 1561-2),  ambedue seguaci dei dettami architettonici dell’ Alessi (all’Alessi  stesso fu inizialmente attribuita da Gauthier e dall’Alizeri).

   Nel 1598 venne qui ospitata Margherita d’Austria. Quattordicenne, passò per Genova con ampio seguito, da dove imbarcarsi per la Spagna a sposarsi (1599).

La storia ha origine nel programma dei monarchi di favorire con i matrimoni le relazioni tra Spagna ed Impero austro-germanico degli Asburgo; e Genova era la cerniera in questi rapporti anche se finiti i tempi aurei di A.Doria, ora era succube e vessata dalla prepotenza spagnola.

Il re spagnolo Filippo II  accettò imparentare i suoi due figli (IsabellaClara e Filippo) con la casa dell’imperatore d’Austria, concedendo la figlia infanta al cugino l’arciduca Alberto fratello di Margherita d’Austria ed acquisendo quest’ultima per il futuro Filippo III .

 

  Carlo (V d’Alemagna e I di Spagna;1500-1558) + Isabella di Portogallo__________________

                    |                                                                         |                                        |                   |

            linea d’Austria (impero)                                  linea Spagnola (regno)         altri 3 figli naturali

                    |                                                                         |

 Maria d’Austria+MassimilianoII (1527-1576)        Filippo II+Isabella di Valois +Anna d’Austria

  |                    |                   |                        |                                              |                            |

 Ferdinando  RodolfoII  Margherita  Alberto                                        Clara                FilippoIII

                    Imperatore                       1559-1621                                                                                  1578-1621

 

 

Quindi sia Margherita e FilippoIII che Alberto e Clara, erano rispettivamente cugini primi.

Filippo II re di Spagna (1527-1598-figlio di Carlo V  e di Isabella di Portogallo. Ebbe 4 mogli = dalla prima Maria di Portogallo morta di parto, ebbe Carlo che però, ritardato mentale, morì giovane. Poi Maria Tudor, sterile,  morta dopo 15 mesi. Terza fu Isabella di Valois con la quale il re ebbe nel 1566 Isabella Clara. Infine Anna d’Austria -figlia di MassimilianoII e sorella di RodolfoII- dalla quale ebbe l’erede maschio che assumerà il nome Filippo III)

Alberto d’Asburgo, nato a Neustadt nel 1559 e morto – seppellito nella chiesa di s.Gudula - a Bruxelless nel 1621, arciduca, principe dei Paesi Bassi, nominato cardinale da papa Gregorio XIII nel 1577, arcivescovo di Toledo ed inquisitore in Spagna. Divenne prima governatore del Portogallo e dal 1596 dei Paesi Bassi cattolici (allora in guerra con la Francia). Fu obbligato da Filippo II a sposare sua figlia IsabellaClara portando in dote il governatorato dei Paesi Bassi (che – a seguito della pace di Vervins del 1598 con la Francia - si erano separati dalla Spagna. Dimostrò così essere abile militare, ottimo governatore, protettore delle arti e scienza, guardiano della fede cattolica contro gli eretici.

Isabella Clara. Pizzagalli conferma che la figlia di Filippo II aveva acconsentito di sposarsi 35enne solo dopo la morte del padre avvenuta nel  settembre dell’anno delle nozze (1598). Arrivò a Genova il 18 giugno 1599 con il suo seguito, diretta verso Bruxelles ove col marito l’arciduca Alberto avrebbe governato i Paesi Bassi; ci furono sontuosi banchetti e “gli arciduchi restarono in città circa dieci giorni installandosi a due leghe da Genova, nella principesca villa dei Doria a Perdese” (?; pag.214 del libro su Anguissola; o Pavese=Doria-Franzoniane) ed aggiunge che qui ebbe modo di riincontrare Sofonisba Anguissola pittrice che era stata dama di compagnia della madre.

Nel libro sulla vita della Anguissola, così viene chiamata dalla pittrice, mentre altri Eugenia Clara ed altri ancora solamente Clara. Forse è giusto il primo, essendo nata da Isabella di Valois. Arrivata il 18 giugno 1599, anche lei  accompagnata da numerose galee,  si fermò 10 giorni pernottando –e qui si ripete il Pizzagalli-  “a due leghe da Genova  nella principesca villa dei Doria a Perdese” e dove la pittrice eseguì un ritratto dell’infanta (che poi fu inviato al fratellastro FilippoIII)   

FilippoIII  1578-1621. Divenne re dal 1598. Ebbe ai suoi ordini Ambrogio Spinola; ma compromise le condizioni economiche del regno iniziando nel 1618 la guerra dei Trentanni.  Dalle sue nozze con Margherita d’Austria, nacquero sia Anna d’Austria II (che poi divenne regina di Francia sposando Luigi XIII; dai quali nacquero Luigi XIV e Filippo il capostipite della famiglia degli Orleans) e Filippo IV re dal 1621 il quale non riuscì a risollevare le sorti economiche del paese protraendo le guerra dei Trentanni ed altre perdute.

Margherita d’Austria-Stiria  non ha lasciato particolarità storiche di rilievo. Sappiamo che nacque a Graz  nel 1584, divenne moglie di Filippo nel 1599; fu donna molto pia, fondò numerosi monasteri;  morì a Madrid nel 1611. Era nipote dell’imperatore Rodolfo.

Annunciate le nozze, dall’Austria verso la Spagna si mosse uno stuolo di nobili–ciascuno dei quali con il proprio seguito (in totale 1200 persone, più cavalli, muli, carri e bagagli). Oltre i due diretti interessati, anche la madre della futura regina (principessa Maria di Baviera) ed il conestabile di Castiglia governatore di Milano. Molti i nobili tedeschi, spagnoli ed italiani che partiti dall’Austria e Veneto si unirono congiungendosi a Bologna ove i delegati del papa Clemente VIII benedissero due -delle due coppie- prima delle nozze ufficiali; per poi passare per Milano e scendere a Genova ove si fermarono dieci giorni a spese della Repubblica prima di imbarcarsi sulle 40 galee reali predisposte da GiovanniAndrea Doria.

La città aveva dovuto addobbarsi ed organizzarsi già prima, mentre quattro nobili senatori precedevano la carovana a Cremona per porre accoglienza nelle terre  liguri,  alloggiare tutti gli ospiti nelle varie ville disponibili sia a Novi, Voltaggio, Campomorone ed infine San Pier d’Arena: la futura regina  nel palazzo Lercari. Il quarto giorno, il Doge Lazzaro Grimaldi (vedilo in via Daste) accompagnato dalle guardie svizzere e da 350 tra senatori e  nobili, a cavallo  venne nel borgo per colloquiare con Margherita tramite interprete considerato che parlava solo tedesco, e per invitarla ad un pranzo in Fassolo: le dame in lettiga, gli uomini a cavallo raggiunsero la villa dei Doria. Qui il cerimoniale voleva che l’Arciduca prendesse per mano la nipote Margherita, mentre al doge toccava offrire il braccio alla madre, ma il conestabile anticipò il Grimaldi porgendo il braccio all’imperatrice dando così fuoco a velenose accuse contro il Doge, di aver lasciato offendere la Repubblica e quindi essere inetto a reggere le sorti dello stato. Queste perfide parole causarono tale mortificazione nel nostro duce che si sentì male, e dopo pochi giorni furono causa del suo prematuro decesso (16.2.1599) proprio nel giorno in cui gli ospiti iniziarono a veleggiare per la Spagna

 

Così, nel biennio 1598-99,  a Genova avvennero due scali incrociati: il primo, da Vienna a Madrid (di Margherita e di Alberto, andati in Spagna a sposarsi con i  reali locali)  e l’anno dopo,  provenienti da Madrid, di Clara e del marito arciduca Alberto d’Asburgo, in viaggio per  ritornare a Bruxelles e governare i Paesi Bassi.

 

In parte la narrazione di questi fatti viene ingarbugliata da confusioni degli stessi Storici: così narrano permanenza di 10 giorni del gruppo all’andata uguale a quello del ritorno; la presenza in porto di 40 galee atte a trasportare il vasto seguito dei reali d’Austria nel 1598 che vengono parimenti contate per il ritorno di Clara ed Alberto nell’anno 1599; qualcuno che fa tornare Clara a Genova, altri che la fa sbarcare a Savona (forse dopo Genova; ma non avrebbe senso questa tappa in più. Infatti  Verzellino  scrive (ponendo il fatto nell’ anno 1581; da Vienna, l’8 novembre): “giunse in Savona con 43 galere del principe Doria l’imperatrice  Maria d’Austria col seguito (figliuola di Carlo V, vedova di Massimiliano e madre di Rodolfo Imperatori, sorella di FilippoII re di Spagna (1527-1598) che la chiamò al governo del regno di Portogallo. Assieme con Margherita sua figliuola minore, accompagnata da Ferdinando suo figliolo e Carlo suo cognato arciduchi d’Austria, ed assaissimi signori e cavalieri titolati di Austria, Boemia, Ongaria, Alemagna e Italia; e  Lodovico Taberna vescovo di Lodi, noncio apostolico; e compagnia dei cantori”).

 

   Nel 1757, sulla carta vinzoniana, appartiene sempre alla famiglia Lercari, essendo intestata a Cristoforo Imperiale Lercari.


   Nel tardo 1700, divenne proprietà della famiglia Sauli (ed in quegli anni, anche questo palazzo fu requisito dai francesi per dare alloggio agli ufficiali dell’Armata).

arma dei Sauli, corona ducale


  Negli archivi della famiglia Sauli si leggono sette fascicoli, alcuni a stampa, relativi ad una lite con i Grimaldi, per due imprecisati palazzi e ville situati in San Pier d’Arena “alla marina”, iniziata nel 1660 e conclusa nel 1718.

I Sauli, chi li fa esuli da Lucca (negli anni 1329), chi originari di Sori (SauriàSauli). Dal 1393 i primi sono descritti già fiorentemente attivi  sia con i ‘luoghi del Banco di s.Giorgio’, sia in investimenti commerciali in città ed in oriente (Chio), con un Bendinelli senior che andrà sposo ad una Usodimare. Seguaci degli Adorno, furono ambasciatori (anni 1495-1515)  molto attenti alle arti (Bendinelli I diede il via alla basilica di Carignano) ed alla cultura. Nel 1530 furono tra le otto famiglie più ricche della città assieme ai Grimaldi, DiNegro, Pallavicini, Doria; sette sono i loro palazzi facenti parte dei rolli. Il 22.2.1599 Lorenzo (1535-1601; pugnalato) venne eletto doge, ma coronato venti giorni dopo perché in città non c’erano stoffe per le livree né la seta per l’abito del duce.  Numerosi gli ambasciatori, cardinali, vescovi di levatura internazionale (Bendinelli III  partecipò alla battaglia di Lepanto a proprie spese con una galea )

Alla fine del 1800 divenne di Nasturzio Silvestro (questi, nato il 10 ott. 1847 sfruttò il giardino per costruire la sede dello stabilimento di conserve, creato come ‘società collettiva’. La fabbrica era già molto attiva  dal 1904.  Nel 1905 si reclòamizzava con semplci cartolne postali (in una di esse, comunica a un cliente di Chiavari che sono pronte “50 casse latte che mi ordinaste”). Nel 1908 Silvestro risulta essere il più grosso a livello regionale con capitale genovese costituitosi allora con 1,5 milioni.  Entrato in crisi negli anni 1909-10, andò sull’orlo del fallimento sia per aumento dei costi di produzione, sia per un crollo dei prezzi (svendita da parte di altri fabbricanti), fu offerto all’asta per 430mila lire  (creando uno scandalo sia per sopravalutazione degli impianti, sia per aver presentato irregolarità amministrative) e rivalutato 125mila lire. Aveva annesso anche il settore cromolitografico capace di realizzare immagini su banda stagnata, destinate a decorare le latte. Nel giu.1910 si trasformò in ‘Società ligure per la lavorazione della latta e la fabbricazione di conserve’ con nuovo capitale di 450mila lire in buona parte versato dai Raggio. Ma già l’anno dopo 1911 era costretto ad una produzione ridotta al 50% rispetto le sue potenzialità al punto da dover produrre recipienti per altri scopi (benzina, petrolio). Il  cav. Nasturzio era sia proprietario di terreni in via Daste e vicinanze (e li usò per costruire caseggiati); e sia anche proprietario di una fabbrica di ghiaccio –forse quella al Campasso in via Spaventa-   e rifornì l’ospedale del prezioso materiale in forma gratuita per anni, fino alla chiusura dell’attività nel 1921 (per questo l’ospedale  lo iscriverà nel libro d’oro dei benefattori e gli dedicherà un busto, da  sistemarsi nel padiglione maternità: fu una classica figura del borghese divenuto ricco, subentrato all’aristocratico,  capace di grossi interessi, con benevola attenzione al sociale come era d’uso a quel tempo). Nel 1927 leggiamo che il cavaliere, ottantenne, festeggiò con i soci del Circolo Unione, offrendo un pranzo. Nel 1951 la società era col semplice nome «Nasturzio ‘Ligure Latta’» una delle 12 società del settore ancora esistenti nel nostro territorio, con sede in via G.Buranello civ.1.  Il non rinnovo degli impianti divenuti quindi obsoleti, ed anche il metodo di lavoro non adeguato ai tempi ed alla tecnologia più avanzata, portarono ad un dissesto economico insanabile nell’ anno 1976 quando lo stabilimento chiuse per fallimento, ma rimanendo per mesi occupato dalle maestranze licenziate; l’idea di vendere a privati l’area fu impedita dal piano regolatore che prevedeva un vincolo per uso dell’area a scopo istruzione pubblica e per l’impossibilità del Comune di onorare la spesa; i vari progetti tra cui anche destinare l’area a parcheggio interrato in concessione gratuita al Comune, fallirono.

   Nell’ultima guerra, il 9 sett.1944 una incursione aerea distrusse la loggia a ponente e recò gravi danni generali; nell’impossibilità di poterla riparare e proposta come irrimediabilmente compromessa, i proprietari la cedettero alla cooperativa privata ‘Settima Società Cooperativa’ (costituita tra cittadini sampierdarenesi, tra cui Carlo Argeri, e con direttore dei lavori l’ing. Mario Caiti di Sampierdarena).

 

prima dei restauri                                   lo stabilimento Nasturzio

   Come ‘palazzo Sauli’ solo nel 1957 fu vincolato e tutelato dalla Soprintendenza per i beni architettonici della Liguria.

   Ciò malgrado negli anni 1960 si provvide a sventrarla completamente e -salvaguardando solamente l’esterno e la struttura del tetto secondo i vincoli stabiliti dal Ministero della P.I.Antichità e Belle Arti (con la formula ‘dove era come era’)- fu ristrutturata totalmente ad appartamenti, eliminando qualsiasi traccia interna della vecchia struttura. Infatti, alla toponomastica appare che il cv. 8 fu soppresso nel 1961 per demolizione e riassegnato a ‘nuova costruzione’ nel 1964.

Di fronte alle severe normative CEE – su impianti elettrici, prevenzione incendi, barriere tagliafuoco, ecc.- dovremo fidarci di chi, a quei tempi diede l’autorizzazione a questo tipo di intervento (applicato anche in altre dimore, non per fortuna alla villa Serra-Monticelli, restaurata negli anni 1997-99), però il dubbio di una certa leggerezza rimane e merita comunque una denuncia morale a chi permise questo scempio senza un più approfondito progetto di salvaguardia delle antiche strutture.

   La facciata principale, non si apre sulla strada principale, ma a levante  (diversa come struttura architettonica, ma volutamente posizionando l’ingresso a ponente, simmetrico ed opposto al palazzo della Fortezza, che ha l’ingresso a levante del palazzo, da creare con essa e la villa Imperiale uno spazio prospettico ben definito, quale ‘di borgo nel borgo’).

   La soffocante edificazione attorno, impedisce quasi di accorgersi di questa particolarità, forse così ideata nel desiderio di sfruttare  l’esiguo giardino che possedeva  esteso a ponente ed a sud della proprietà. La carenza di spazi privati, fu compensata da una apertura della soluzione planimetrica: le due logge contrapposte ai fianchi del salone centrale riescono a dare  una perfetta soluzione del rapporto spazi interni-esterni.

   Il giardino, stretto e lungo, arrivava sino al mare: dal piazzale posto davanti all’ingresso, era racchiuso da un alto muro a secco che sulla via principale aveva un grosso portale, proprio dove ora si apre l’avvio verso il Centro Civico. Il giardino fece la fine degli altri, tagliato dalla ferrovia e poi  totalmente lottizzato per case  da abitazione.

   De Landolina - sbagliando col palazzo Doria, posto di fronte - scrive che «v’àn sede, le suore Franzoniane che vi tengon convitto...»,.

 

===civ. 8A: l’edificio ristrutturato appare assegnato nel 1984 a scuola succursale ed a Centro Civico, della Circoscrizione CentroOvest - su progetto dell’ing. Guido Veneziani - inaugurata ufficialmente il 19 magg.1984 alla presenza del sindaco Cerofolini, dedicato a G.Buranello.

                                        

il prof. Gallino; di Airaldi                                                                  album della Biblioteca

 

Esternamente appare in vistoso, stridente e soffocante contrasto con la villa precedente, non tanto e solo  per il cemento grezzo, quanto per la plastica vivacemente colorata ed in contrasto con il grigio dei palazzi sampierdarenesi; ovviamente fu fonte di vivaci contrasti ideologici: penso che questo impatto sia stato voluto, proprio per distinguere l’edificio e dire che esso è moderno e con la voglia di vivere dentro, anche se metaforicamente ricorda il film disneiano  “la bella e la bestia”.

Con la spesa di 10 miliardi circa (di cui uno usato per gli arredi: questa spesa fu giudicata eccessiva essendo stato il materiale acquistato  presso  aziende le più ‘in’ del momento, determinò una arroventata seduta in consiglio comunale), fu eretto utilizzando l’area (e riuso di alcune strutture) occupata -dalla seconda metà del 1800- dallo stabilimento  di Silvestro Nasturzio.

  Su una superficie complessiva di 4270 mq, si alza a forma di L per tre piani, privo di barriere architettoniche sia orizzontali che verticali; è gestito da un Comitato polivalente (funzionari del Comune, politici e forze politico-sociali locali; vuole essere “spazio pubblico, aperto al contributo della partecipazione diretta, all’incontro ed al confronto dei cittadini, delle istituzioni, delle associazioni siano esse ‘cittadine’ o localizzate nel quartiere”).

   Contiene un centro sociale (due sale poliuso (capaci di 100 persone sedute con eventuale spazio espositivo); un auditorium con 300 posti a sedere,  per cultura, concerti, spettacoli, animazione, dibattiti e convegni; un refettorio per la mensa. La prima mostra apparve il 2 feb.1984 sul tema “photo america ’84 – obiettivi sull’America latina” realizzata dal Comune, e seguita da “Mondo sommerso”); due palestre (di cui una molto grande, contornata da gradinata capace di ospitare su seggiolini 285 persone, ed omologata per incontri nazionali di volley; attrezzata per gli sport da palestra: arti marziali, pallacanestro, pallavolo, ginnastica, calcetto, ecc.; uno spazio collegato, permette corsi di ginnastica di piccoli gruppi (ginnastica correttiva, o altro). Vi fa perno il Centro Polisportivo Buranello, servizio per bambini e ragazzi accreditato dal Comune a carattere socio educativo e ludico); una scuola media, succursale della Barabino, sita in palazzo Masnata di via A.Cantore; la bella e ben tenuta biblioteca Gallino (La biblioteca, iniziò il 10 dicembre 1851 (data della delibera comunale), con due fondi librari consecutivi (109 libri vincolati dal donatore Emanuele Nicolò Pratolongo, ispettore delle imposte dirette e morto nel 1929,  “per uso della Biblioteca pubblica” allegata alla scuola comunale) donati -quel giorno stesso e poi ancora altri il 30 successivo- al sindaco GB.Tubino (che di suo ne aggiunse altri). L’anno dopo anche l’arciprete parroco della Cella don Stefano Parodi (poi Canonico della Metropolitana di s. Lorenzo) fece una donazione di libri, permettendo arrivare ad averne 407 in totale. Due fonti diverse, danno  quantitativi diversi dai tre donatori, e rispettivamente 109-98-200 e 106-139-162).

   La scuola trovò sistemazione nel palazzo Centurione del Monastero ad iniziare dal 1852; ma la biblioteca dovette aspettare 20 anni prima di poter essere aperta al pubblico (dal 20 marzo 1870 con orario dalle ore 18 alle 22, dopo averne annunciato l’apertura con manifesti murali), non esistendo ancora la mentalità  organizzativa adatta ed i fondi: pur offrendosi al Governo per aprire una pubblica biblioteca, e ricevendo pertanto un certo numero di volumi (dal Ministero Industria-Agricoltura-Commercio circa 2193 libri, provenienti da conventi soppressi dei Cappuccini di S.Margherita, di Bagnara in comune di Quarto al Mare, e dei Minori Osservanti di Moneglia; non si sa perché rifiutò  300 volumi dei Cappuccini di Campi-Cornigliano) si creò una non indifferente confusione  non tanto mescolando i libri di varia provenienza, ma non tenendone conto con una catalogazione opportuna (eventuali libri rari o codici: infatti risultavano esserci otto incunaboli e manoscritti vari della fine del 1400, ma che nel 1929 erano già ‘perduti’).  Altro munifico donatore, divenne padre agostiniano Giuseppe Bistolfi, già direttore della scuola che aggiunse 544 volumi e 53 opuscoli.

   Alla fine del 1877 il numero dei libri obbligò cercare una nuova sede: fu trasferita nel palazzo Imperiale-Scassi di via A.Cantore.

   Solo nel 1905 quando si aprirono le scuole dedicate a Mazzini ed a sua madre, la biblioteca poté tornare nel palazzo Centurione del Monastero, in restauro (fino al 1911) da parte dell’ing.A.Cuneo; in quell’anno i libri censiti erano 6398, divenuti 6593 nel 1911.

Nel 1915, allo scoppio della guerra, la sala fu chiusa al pubblico ed adibita a laboratorio di indumenti militari; tale chiusura rimase in atto fino al 1921 quando –affidata per la gestione ad una commissione scientifica- fu riaperta  con orario 15,30-18 e 19,30-22.

   Nel 1935, il Comune, da 9 anni ormai della Grande Genova, decise un nuovo trasferimento nel piano nobile del palazzo Doria-Masnata di via Cantore: in questa occasione fu munita di scaffali metallici (la prima ad usarli in Italia) e si riscontrò che il catalogo –per autori e materia- era incompleto ed antiquato.

   Ma quattro anni dopo, nel 1939,  per conclamate esigenze del liceo classico insediato nella stessa struttura, si ordinò un ennesimo quinto trasferimento al civ.4 di via A.Saffi (da poco divenuta via E.Mazzucco, oggi via C.Rolando), preso in affitto dal Comune ed ove rimase aperta in due soli vani anche durante il periodo bellico perché l’austero palazzotto, già degli Spinola, era purtroppo però già occupato da altre  attività: si riuscì a spostare i VVUU –e ricuperare altre due stanze- ma non per esempio gli uffici di un sindacato lavoratori. Nel 1947 incorporò 475 volumi della biblioteca Guerrazzi di Cornigliano. Mentre erano in corso trattative per l’acquisto dell’immobile, esse fallirono e fu gioco forza dover reperire altrove lo spazio necessario.

In questo periodo, bibliotecario fu il prof. Fausto Micheli insegnante di lettere. Era amico ed ammiratore di Francesco GALLINO


 il quale per trent’anni era stato insegnante di scienze matematiche nelle scuole secondarie di Sampierdarena. Nato qui in città il 6 novembre 1878,  morì prematuramente a soli 50 anni il 28 novembre 1929; alla sua salma fu concesso a titolo d’onore una tomba perpetua nel cimitero della Castagna.

Si era distinto anche nel campo della pubblica assistenza divenendo presidente della Congregazione di Carità, e dell’ammi- nistrazione dell’Ospedale (nel periodo di nascita del ‘Villa Scassi’, nel trasloco da villa Masnata a, in alto, a quota40) in seno al quale era stato attivo fautore del trasferimento. Fu il Micheli che promosse e riuscì – per ‘volere popolare’ espresso verbalmente dal podestà - e non per delibera comunale, a far  titolare nel 1938 la biblioteca  al Gallino.

 


   Nel 1952 le attenzioni si concentrarono su un appezzamento di terreno in via A.Cantore, affidato all’associazione Combattenti perché dal piano regolatore valutato inedificabile. Otto anni occorsero per modificare la legislazione.

   Nel lug.1954 i registri segnalavano la presenza di 13.703 volumi; nel dic.1967  erano 18.892 (numericamente sesti nell’ambito delle biblioteche comunali ed undicesimi in città) contro i 347.457 della biblioteca dell’Università ed i 115.664 della Berio. 

   Finché nel 1960 su progetto dell’ing. Giorgio Olcese, (allora vice capo alla Ripartizione Edilizia) su quel terreno a ponente della scuola e lievemente sopraelevato rispetto il piano stradale fu eretta la palazzina destinata ad ospitare specificatamente la Biblioteca (in realtà l’apertura di via Cantore nel 1935 determinò un abbassamento del piano viabile tanto che alla villa affiancata dovettero aggiungere i due scaloni,  in origine non esistenti).

   Nel 1961 la biblioteca venne privata delle opere stampate prima del XIX secolo, accentrate alla Berio con scopo conservativo. Mercoledi 13 maggio 1964, ore 11,  fu inaugurata (l’invito porta errato lindirizzo: «Francesco Gallino – via Generale Cantore, 31» dal sindaco Vittorio Pertusio con l’applicazione su un muro vicino l’ingresso  di una lapide  che iniziava con     “dall’angustia di antichi palazzi, alla studiata capienza di questo edificio, nel nome di Francesco Gallino nel 94° di fondazione...”***.

Le sale offrivano in lettura 40mila volumi e si aprivano anche a dibattiti, concerti, convegni, mostre e lezioni sia di musica che giornalismo.

   Nel novembre 1988 avvenne il settimo trasloco, con  collocazione -speriamo definitiva- nel Centro civico; nel passaggio avvenne anche il trapasso delle consegne dalla ex direttrice dr MTeresa Morano, alla neo nominata dr Cassinasco Maura.

   Nel 2002 ancora una generosa donazione di 500 libri da parte di due signore, di cui una di Pegli permisero avvicinarsi sensibilmente ai 50mila volumi; e la palazzina in via Cantore -che nel 2002 viene ancora popolarmente conosciuta col nome del Gallino- rimane un magazzino,  deposito cartaceo e di libri da tenere anche se non aggiornati e/o da utilizzare correntemente.

Responsabile divenne il sampierdarenese dr. Francesco Remedi. Si scrive che come importanza e numero di volumi ora è la terza delle comunali, contando oltre circa 50mila libri, servizio periodici correnti e passati, varie sale lettura, ed una di gioco-lettura per i piccini; e può permettersi di donare vari volumi a tema (cucina, ricamo, cucito) per la scuola delle vespertine nei giardini Pavanello. Quando per motivio di salute ha dovutro lasciare l’incarico, è stato sostituito dalla dr.ssa Langella

   L’insieme viene eufemisticamente chiamato il ‘Beaubourg del ponente’ (chissà perché questa mania di assomigliare agli altri).

   Nel marzo 2004 fece scalpore la scoperta di un tossicodipendente trovato nell’atto del buco, nascosto in un angolo del cortile, confuso nel degrado causato dalle attrezzature necessarie per apportare la posa di cavi della corrente per alimentare il progettato (ma nel 2008 ancora non realizato) prolungamento dei filobus da san Benigno. Dopo 20 anni d’uso l’edificio già accusa il peso degli anni necessitando di grandi spese di manutenzione straordinaria (190mila euro) ed ammodernamento (30mila euro; da essi anche l’insonorizzazione da parte dei rumori della ferrovia e della palestra sottostante).

===civ. 10 è l’ultimo dell’isolato; l’ultima vetrina appartiene ad una della farmacia dell’Ospedale, o Gioberti.

   Portone molto semplice, col minimo architettonico dell’epoca

 

Via Gioberti

Inizia un tratto di percorso assai ristretto, probabile della stessa dimensione dell’originale; pedonalizzato negli anni 80, ma ordine disatteso dai motorini (nel quale si apre la villa Crosa e di fronte una lunga serie di case basse a due piani – apparentemente antiche – anche se nel 2005 opportunamente ridipinte nella facciata con finti poggioli ed altre decorazioni). Nel 2008 ai due estremi furono posizionati dei dissuasori; nel 2009 persiste a levante; è stato divelto a ponente.

visto verso levante

   

foto Gazzettino Sampierdarenese  verso est-paracarro nell’angolo                           foto Patrone

In fondo alla strettoia

Nell’angolo:

===civ 36r  inizia come vetrina laterale di un bar, il quale si apre in via Gioberti.

===civ. 14:  Nel centro del tratto a caruggetto, percorribile solo pedonalmente, c’è la villa CROSA (-DIANA).

La famiglia Crosa fu l’ordinatrice di questa villa e di un’altra vicina in salita Belvedere, nel tardo 1500. La carta del Vinzoni del 1757 già la attribuisce genericamente ai “magnifici Crosa”; ed ancor oggi scarse sono le notizie della famiglia (il Dizionario biografico degli italiani non ne cita alcuno di Genova) e della villa stessa, usata soprattutto come residenza balneare e vacanziera della ricca famiglia mercantile.


Sappiamo solo che erano originari di San Pier d’Arena ed avevano iniziato l’ascesa economica raggiungendola nella seconda metà del 1600 con Pietro
Crosa che raccolse un pingue patrimonio adottando una nuova strategia finanziaria basata su prestiti anche esteri, a medio termine. Questo tipo di esercizio, fu adottato su vasta scala di operazioni finanziarie dai Crosa ma poi anche e di più dai Cambiaso e di meno dai Marana. Comunque, attecchì ed acquisì interesse internazionale, imponendosi ai precedenti sistemi adottati dai patrizi di più antica nobiltà come Doria, Pallavicini, Grimaldi e Durazzo.

Al punto che i suoi figli Gio Antonio e Gio Ambrogio poterono presentarsi a palazzo Ducale, anche se non nobili, con pretese di privilegi tipici dei patrizi aristocratici  (come mantenere il capo coperto di fronte ai pubblici amministratori, ed il titolo di “magnifico”).

L’ 11 giu.1727, con vantaggio reciproco avendo essi dovuto pagare 125 mila lire alle casse della Repubblica,  ottennero il titolo nobiliare con l’iscrizione al libro d’oro e la possibilità di partecipare alla gestione delle cose pubbliche, pur mantenendo proficue attività commerciali interne (come una grossa fornitura di legname agli arsenali francesi e spagnoli) alimentate da vasti possedimenti in ville,  edifici, palazzi (alla fine del XVI secolo, la Repubblica contava 500 famiglie nobili, ridotte a meno di duecento dopo poco più di un secolo, e 140 alla sua caduta.

Periodicamente venivano ascritti nuovi cognomi, e di essi aveva importanza oltre la loro attività ed economia, anche il peso numerico. Dei componenti più numerosi erano, nell’ordine, gli Spinola, Giustiniani, Doria, DeFranchi, Pallavicini con oltre 50 ascritti; tra 50 e 5 erano i Cattaneo, Centurione, Gentile, DiNegro. I Crosa entrarono tra i nobili prima del 1750  assieme ai Cambiaso ed i Pareto, con meno di 25 componenti)

   Ricoprirono così per successive generazioni,  cariche importanti di governatore, senatore, promotori dell’Accademia Ligustica di Belle Arti e si imparentarono con le più facoltose e nobili famiglie genovesi.

Avendo acquistato da Stefano Doria il feudo e castello di Vergagni (pagato 150mila600 lire), nell’ alta val Borbera, ebbero conferma dall’imperatore Giuseppe II  della signoria  del luogo, divenendo Crosa di Vergagni.

Nel 1780 la villa era proprietà di Ambrogio Crosa.

Nelle varie successioni, vantano sempre titolari di spicco storico ed umanitario tra cui viene ricordata Nicoletta Crosa, monaca cappuccina vissuta nel secolo XVII in concetto di santità;  sino ai più recenti, distintisi nella guerra di liberazione.

 

Nella guida Costa/1922  nell’elenco dei nobili e titolati genovesi, esiste un Crosa Nicolò di Agostino di Nicolò, marchese, signore di Vergagni; egli aveva due figli Agostino e Giuseppe; ed un fratello G.Batta il quale aveva tre figli: Giovanni, Agostino, Pietro.

Dal 1934 il palazzo è vincolato e tutelato dalla Soprintendenza per i beni architettonici della Liguria.

 

Nei primi anni del 1900 la casa (allora ubicata in via Generale Cantore al civ. 14)  venne acquistata da Dario Diana per abitazione e, nei cui giardini venne eretto lo stabilimento soc.an. R.D.Diana & C. fatto con due edifici (rettangolari, paralleli nord-sud, dei quali - quello a ponente quasi il doppio di superficie rispetto quello a levante- e come sono tali ancora nel 2012); con aia interna; villa all’apice nord alla quale è stato sottratto qualsiasi spazio a giardino; ed ingresso in via Vittorio Emanuele (via G.Buranello).  Detto stabilimento era quindi attiguo alla villa e fu adibito alla lavorazione (industria e commercio) della latta, conserve e/o olearia e litografia. Il titolare, adibì la villa ad abitazione e uffici, lasciando a piano terra magazzino, laboratorio, deposito rivendita e spaccio per i consumatori al minuto. Nel 1924 dominava l’azienda assieme a Massardo;  e nell’erigere - su disegni degli ing. Antonio e Filippo Rovelli - fu diffidato dall’avvocato della sig.ra Semino Anita in Rollo, la quale probabilmente aveva degli interessi nella zona di erezione - dall’eseguire determinati lavori (demolendo quelli già fatti)

Dei due fratelli eredi, fu Manlio il più rappresentativo;  probabilmente ben impegnato politicamente col fascismo, era  divenuto cavaliere ufficiale, commendatore, regio commissario, sindaco sino al 1926 quando il Comune di SPdArena cessò di vivere per entrare a far parte della “Grande Genova”; e grande benefattore dell’ospedale civile a cui donò, negli anni 1928, mezzo milione di lire per cui gli fu intestato il padiglione Casa di Salute; presidente del Circolo della caccia e numerosi altri incarichi     Nel 1942 la soc. “fratelli Diana” comprendeva: una fabbrica di latta, in via Buranello; ed una di lavorazione del tonno (cotto a vapore ed inscatolato sott’olio nelle lame, in via Castelli). Detto stabilimento era ancora aperto nel 1961 come soc. per az. capace di “fotocromolitografia e lavorazione della latta” il cui edificio ancora sopravvive, con altre mansioni).  A metà 1974 la ‘Diana spa’ chiuse la produzione perché impossibilitata a far fronte alla concorrenza più moderna).

 


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Manlio Diana

                               con tanto di ciminiera

 

  

lattine di tonno in scatola e lavoranti – sopra e sotto: foto Biblioteca Gallino

  

 

Ritornando alla villa, nel dopo guerra, subentrò lo IACP (Istituto Autonomo Case Popolari), che comprò il tutto all’asta pubblica fallimentare, e con l’ipotesi di un utilizzo pluriabitativo: con la promessa della salvaguardia delle originali strutture architettoniche (specie dei pavimenti in marmo e cotto), si prevedeva l’utilizzo “consono alle nuove esigenze abitative” tra cui un ascensore, otto appartamenti, uffici, ed a piano terra 5 negozi e nell’atrio una ‘galleria espositiva’).

Però nel genn.1999 la famiglia originaria (il cui titolare è amministratore delegato della Fondazione Fieschi, istituzione che gestisce un ricco lascito patrimoniale col fine di opere benefiche e case per anziani)  ha provveduto a rientrarne in possesso, ricomprando da ARTE (attuale nome dello ex-IACP)  l’intero stabile da restaurare, compiendo i lavori negli anni 2002. A metà 2003 la facciata è completata e rimossi i tubi delle impalcature (belle le finte finestre, disegnate agli estremi delle 5 vere centrali); a fine febbraio 2007 mancano le rifiniture: riapposizione della statua della Madonna protettiva nella sua nicchia sopra il portone (che è stata rimessa a posto nel 2011); il n° civico; gli scalini il cui marmo è vistosamente scavato; la porta -anche delle botteghe laterali - in una delle quali era l’edicolante ora posizionato di fronte. In quest’ultimo anno, di tutti i civici rossi di villa Crosa al 48Ar esiste ancora una logora targa in alto su cui è scritto tutto arrugginita: ”Gempesca”.  

                                                                                                          

                                                      2004                                                         2010 - In restauro? o...

   2012 sembra un’altra

 

La casa si estende in forma tradizionalmente rettangolare, lungo l’asse di via Daste, allora l’unica strada del borgo:  su essa si apre con un portone in marmo molto semplice, arricchito solo da una edicola soprastante. Viene giudicata “gioiello architettonico cittadino; e seppur minore dimora gentilizia, resta tuttavia dignitosa“. Si avverte la scuola postalessiana  per la forma allungata del prospetto (sull’asse viario) e per la distribuzione delle sale.

  

da via Castelli                                               retro  anni 1970                          la facciata in via Daste

L’interno ha un atrio a colonne doriche di marmo ed un pavimento ancora originale di marmo scuro; un bello scalone a due rampe divergenti -parallele alla facciata- che portano al piano nobile, decorato sui soffitti e pareti.

               

Anche alcune stanze dell’ammezzato, sono decorate con affreschi a burlesca. Un bel loggiato (poi tamponato) prospettante dal salone principale, posto su due piani nella facciata a sud, così costruita per poter ammirare il mare  prima che la ferrovia interrompesse la visuale.

 

 

piano nobile                                                   piano alto, abitativo

 

sale del piano nobile

 

In un bagno – ora moderno, ma antica toilette signorile - scopriamo un piccolo ninfeo decorativo.

        

interni di villa Crosa – dopo il restauro finito nel 2010, i mobili saranno ovviamente cambiati 

 

Il giardino è ormai estremamente ridotto: largo all’incirca come il palazzo, arrivava verso il mare a confinare con quello della villa Cambiaso (in via San Pier d’Arena, detto palazzo della Pretura); in seguito tagliato dalla ferrovia, dalla strada e lottizzato, fu occupato da edilizia abitativa e soprattutto industriale (la soc. Massardo Diana & C., produttrice di scatolame in latta per alimenti, attiva dalla fine del 1800).

  

2011 retro villa – ex giardino, con ai lati del piazzale, edifici industriali: di fronte e lato ponente

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caseggiato in angolo con via Castelli in fase di

ristrutturazione

 

==Il basso caseggiato che segue e che si apre in via A.Castelli, finisce con il civ. 54r e porta una grossa lapide dedicata a R. Pieragostini «da famiglia di lavoratori / il 3 maggio 1899 / in questa casa nacque / Raffaele Pieragostini / operaio tra gli operai / lottò tutta la vita e la vita diede / per la redenzione della classe lavoratrice / subì arrtesi persecuzioni condanne esilio /  e continuò a lottare / membro del triunvirato insurrezionale ligure del P.C.I. / comandante delle gloriose Brigate Garibaldi / operanti in Liguria /organizzò e diresse la lotta contro il naifascismo / arrestato il 26 dicembre 1944 subì quattro mesi di torture / alla Casa dello Studente / e mentre la Patria rinasceva alla libertà /con le mani ancora incatenate il 24 aprile 1945 / veniva trucidato dai tedeschi / a perenne ricordo / i compagni di lotta posero»  

 


A monte, c’è nell’angolo un grosso antico paracarro di pietra; dopo il quale un cancello fa vedere una piazzetta con un grosso ippocastano che è stato malamente potato nel 2008 e di conseguenza morto nel 2010 (rimane il tronco) e con delle casette a tettoia che assomigliano ad antiche stalle. 

===civv. 20 e 22 furono soppressi nel 1973, per sistemazione della numerazione.

 

Via Agostino Castelli

===civ. 24 (già 18-20 della via (del) Mercato; poi 20 prima del 1973). All’incrocio con via A.Castelli, dal lato a ponente, appare la villa GRIMALDI DI GERACE (Gerace è una cittadina in provincia di Reggio Calabria, estesa su una rupe, dominata da un castello normanno e  dalla più grande cattedrale della regione. Occupata dai saraceni nell’anno 986, passò a Roberto il Guiscardo (1059), ai Caracciolo (1430) agli Aragonesi (1479), ed infine ai Grimaldi dal 1574. Girolamo Grimaldi ricevette nel 1609 dal re di Spagna Filippo III l’alto titolo di principe di Gerace. Questo ramo nobile si estinse nel 1783 quando l’ultima principessa Maria Teresa Grimaldi morì sepolta sotto le macerie del terremoto che sconvolse la Calabria:  l’unica figlia di essa, sposatasi con un Serra trasmise a questa famiglia il feudo di Gerace ed il titolo. Nel 1672 la famiglia –in particolare Geronimo Grimaldo, principe di Jeraci-, aveva il palazzo principale alla Meridiana: all’inizio ponente di strada Nuovissima a Genova, ai Quattro Canti di san Francesco; fu uno dei descritti dal Rubens).

 

 il retro della casa, rifatta                                                       facciata a levante

 

     Non si conosce l’ordinatore iniziale, né la data di costruzione che si fa ascendere alla fine del cinquecento (Cosa frequente, quella di non sapere pressoché nulla degli architetti e maestri d’opera, autori nel secolo dopo il 1530, di meravigliosi palazzi signorili: Poleggi stima essere il 90% dei 3-400 che lavoravano in città nei loro cantieri).

    Nella carta vinzoniana↓ del  1757, appare - come tutte le altre ville - rettangolare, ma con due ali rivolte verso il mare (di cui quella a levante un poco sporgente, sembra incorporare una torre; oggi non più evidenziabile); ed era del “magnifico Francesco Grimaldi Geraci”.

 carta del Vinzoni. In verde scuro via N.Daste, verso il mare vico Stretto s.Antonio; verso i monti salita S.Rosa.

In ocra i terreni dei Grimaldi di Gerace con la villa rossa (con torre e più grossa di quella dei Crosa). A ponente la villa di Ambrogio Doria distrutta; in lillà villa dei Centurione con a mare di essa il terreno di Giuseppe Serra della villa Serra-Doria Monticelli.

 

Erano Grimaldi della  stessa famiglia di Palazzo Fortezza, della Semplicità e di altre dislocate a mare ed a Belvedere (era uso tra le nobili famiglie genovesi, Doria, Spinola, Serra, Grimaldi, Pallavicino, una politica matrimoniale basata sulla salvaguardia degli interessi economici, commerciali e terrieri, da tutelare vicendevolmente: così assai spesso unioni  matrimoniali tra loro, onde evitare dispersioni e divisioni al di fuori del gruppo sociale di appartenenza).

   Prima della metà dell’ottocento la villa era divenuta di proprietà di Dellepiane Pasquale fu Antonio il quale utilizzò il giardino per erigervi baracconi per officina o depositi (e per le ferrovie, il sottopasso portava il suo nome), i quali poi verranno utilizzati o ricostruiti dai Galoppini.

   Negli anni 1848 circa – erigendo il biscione ferroviario, fu lasciato un sottopasso probabilmente per accedere alla fabbrica del Dellepiane, e per sua stretta convenienza fu aperta la strada ‘mangiando’ la parte più a levante della proprietà della villa. Cosicché, alla casa rimase, a levante, solo quello stretto spazio oggi delimitato da una cancellata ed usato come posto auto dei residenti (ancora alla data 1930 quando la  strada aveva nome di via s.Benigno, non esisteva la cancellata ma un muro, decorato con ghirigori a sbalzo e ondose tortuosità alla sommità).

   Dal 1934 l’edificio venne vincolato e tutelato dalle Belle Arti (che lo segnalano in “via D’Aste (sic) civ. 20 già del Mercato (sic; era via generale Cantore) 18-20” e lo chiamano ‘palazzo ex Grimaldi poi Delle Piane’). Anche nel 1946 viene citato come “palazzo Grimaldi di Gerace-Spinola, ora Dellepiane”(vedi anche via A Castelli).

 Nel 1972 l’ultimo proprietario, ottenuto l’annullamento del vincolo monumentale causa i gravi danni subìti all’interno dall’usura del tempo e mai ristrutturati, provvide a svuotarla e ricostruire l’interno ad appartamenti mantenendo solo l’esterno come era della villa originale nobiliare.

Intitolando un articolo sul giornale “speculazione edilizia e depauperamento artistico”, si scrisse senza precisare, che vi fossero affreschi: “soffitti di puro stile” e scaloni.

    Il giardino, che era esteso vero sud a forma di J, arrivava -nel 1850 circa- a confinare con le proprietà di un sig. Castelli e della chiesa della Cella;  fu appena sfiorato dalla ferrovia ma fu lo stesso “divorato” dalla lottizzazione per costruzioni ad uso industriale dapprima (l’opificio dei Galoppini) ed abitativo poi; aveva pure un tratto a nord al di là della strada, formato a cuneo (tra salita S.Rosa ed una villa Centurione ora distrutta), ma anch’esso scomparve per edificazione e l’apertura di via A.Cantore.

Il palazzo Geraci ora inizia con il civ. 56r di un centro sociale, e finisce con il 62r, a cui segue l’entrata attuale nella villa tramite un cancello che, attraverso un tunnel (con 2 portoni, uno a levante e l’atro a ponente), porta a dei posti macchina nel retro.

 

===Il palazzo seguente, inizia con il 66r, finisce col 70r (nel 1976 questo civico era il  26Ar e fu variato in 70r dopo ristrutturazione); ospita un picolo supermercato chiamato META.


 

 

 

 

Ad esso segue il grande palazzo (che si apre in via Giovanetti ed è famoso per i supporti del cornicione, protetti dalle Belle Arti), che sulla nostra strada porta solo civici rossi da 70Ar a 70Cr; per finire col terrazzo sotto cui è ospitata ai civv. 72r e 74r la Farmacia Italiani.


Via Giacomo Giovanetti

L’isolato inizia con il civ. 76r del pastaio Bovio

 

===civ. 28. A lato mare, nell’angolo di ponente con via G.Giovanetti, si estende un’altra villa CENTURIONE (-D’ORIA-BAGNARA)  inizialmente (quindi inizio 1600, ovvero XVII sec.; gli affreschi dell’Ansaldo –probabilmente del 1625- fanno testo sull’età minima) dei Centurione (dal Vinzoni a fine 1700 non specificato il  nome ma solo generico ‘principe Centurione’ (la  stessa famiglia della villa del Monastero; di piazza Montano (marchese Filippo); dei terreni attorno a salita san Barborino (mag.co Giulio)).

   Non è chiaro se trattasi di questa casa (potrebbe anche essere la villa di pza Montano in presunzione del confinante a sud): morendo il marito Doria Ugo q.Cristoforo signore di Mornese, la vedova Peretta Doria qAntonio qGerolamo, per gestire se stessa ed i suoi 6 figli (ma, i due unici maschi moriranno precocemente; due femmine, una andò sposa ad un Doria Stefano ed una non si sa) dovette farle suore – probabilmente per carenza di dote adeguata- dovette vendere delle proprietà (compreso  il feudo di Mornese, ceduto a Filippo da Passano). Il 21 aprile 1597 Peretta vendette una proprietà ereditata dal padre a don Cosmo Centurione q.Marco -con atto del notaio Stefano Carderina,  per la somma di £ 15mila più una gemma valutata 4mila-. “La proprietà confinava sul davanti con la via pubblica; da un lato con la casa di Urbano Rela, dall’altra con gli eredi GioAntonio Marcenaro, e sul retro con la Crosa, ovverossia Vallo, del magnifico Barnaba Centurione” (del Monastero).  

   È segnata ben visibile nella carta del Vinzoni del 1757, quando era ancora di proprietà della famiglia Centurione, ed era caratterizzata da una ampia terrazza rivolta verso sud (la cui balaustra è ancora visibile dal lato di via Giovanetti), anche se con pochissimo giardino esteso verso il mare: poche decine di metri solamente (confinante con le terre della vicina a ponente villa Serra, i cui giardini allargantesi sotto la nostra -sino all’attuale via G.Giovanetti- a sud arrivavano sino alla proprietà dei ‘RR.PP della Cella’). In altra carta sempre di fine 1700, si desume che vicino alla villa passasse il torrente proveniente da Belvedere e sfociante in mare alla Cella).

   Desta perplessità che per anni è stata misconosciuta: molti autori – e tra essi lo stesso Alizeri - pur avendo gli affreschi in continua visione nei negozi, mai l’hanno descritta, forse appunto per la forma architettonica modesta. Unico accenno è del 1934 quando venne vincolata come monumento ma solo semplicemente per le opere pittoriche, genericamente espresse con uno strano “tutto ciò che è di Bernardo Castello o Giovanni Carlone ed altri”. Qualcuno attribuì gli affreschi a Orazio Gentileschi perché aveva dipinto altrove gli stessi soggetti (forse nel casino dei D’Oria non molto lontano)

   Divenne poi proprietà di un D’Oria (da fine 1700, a fine 1800; forse della stessa famiglia dei vicini, della villa Serra-Monticelli, a fine secolo chiamati ‘eredi di Cesare’).

   Poi dell’ imprenditore Copello CarloMaria  (questi, deceduto negli ultimi anni del 1800, quando in un censimento di proprietà appare che possedeva varie case tra cui questa –che in quella data è segnata al civ.26 di via s.Antonio, con invece al 28 ‘eredi Monticelli’).

   Infine dal  1904, di Bagnara Ersillo (o Ermillo) questi, non citato sul Dizionario dei Liguri, divenne un imprenditore locale aprendo una fabbrica di cappelli, appoggiato da fondi varesini. Acquistò la villa da Copello con i giardini ed orti. Nella parte a mare del terreno -giardini di pertinenza fino a nord della ferrovia-, edificò la sua fabbrica di cappelli, facendo scomparire qualsiasi traccia di verde od orto (vedi via G.Giovanetti). Ebbe due figli, di cui uno chiamato Lucifero (divenuto al tempo noto giornalista e critico d’arte (vedi GB Derchi); frequentatore assiduo della libreria Roncallo –allora considerata un vero centro culturale locale-; morto più precocemente del fratello); e l’altro Esdra (che fu più vicino al padre nel lavoro; ma che -compromessosi col fascismo- alla caduta del regime ebbe la casa devastata, saccheggiata e mobili defenestrati; era ancor vivo nel 1978. Si scrive sul Gazzettino che oltre la fabbrica Esdra aprì e gestì anche i due negozi di cappelli, in piazza Vittorio Veneto (ma non viene confermato dal Pagano che dal 1908 al 1950 pone in piazza il “cappellificio Alessandrino” ma di proprietà di Pieragostini, poi Tortarolo –vedi-) ed in via G.Buranello (circa all’incrocio con via della Cella)).

   Nel 1934 lo stabile fu posto sotto tutela della Soprintendenza alle Belle Arti.–Poco prima di quegli anni- viene segnalata nel palazzo la presenza della Pretura locale (diretta dal dr. Dino Col, prima che fosse trasferita in via San Pier d’Arena) e una scuola religiosa (così scrive Ciliento, ma forse è quella sottostante che non è privata); poi una sezione di un partito.

   Il Bagnara nel subito dopoguerra -1946 circa-, cedette in affitto il piano nobile alla scuola privata Pareto  la quale probabilmente già occupava alcuni vani ricordando che quando negli anni 1949-50 la strada da un anno non si chiamava più via Mercato, al civ. 28 c’era l’Istituto ‘Vilfredo Pareto’ (corsi per ragionieri, geometri, nautico, avviamento e scuola tecnica commerciale, scuola media, lezioni individuali e a gruppi. Tel. 43.603.

 Alla sua morte, ereditò la casa una nipote argentina che, essendo lontana, diede l’incarico nel periodo 1975-85 alla società  ACER di intermediare la vendita a privati compratori.  In quegli anni la società occupò tutto il primo piano.    La parte ad ovest della villa, fu occupata in anni non precisati –pur sempre postbellici- da suore vespertine (che forse e  probabilmente coprirono la volta di alcune stanze con disegni affrescati alquanto banali –non si sa per ripristino del decoro o perché forse dipinte con nudi-); dal Circolo Cacciatori Diana; dalla sede della sezione locale del partito politico della Democrazia Cristiana; da una sala danze.

   Ma infine tutto fu ristrutturato in appartamenti privati.

 

 

   Di forma rettangolare regolare, ha un avancorpo rivolto a sud fino al limite della proprietà. L’aspetto generale e la facciata – su via Daste- leggermente irregolare, fanno classificare l’immobile di mediocre interesse architettonico (sembrano due case vicine, poi accorpate;  e ciò forse spiega il disinteresse degli storici come l’Alizeri). Ad un primo approccio appare mediocre anche nella regolarità delle sue nove finestre del piano nobile, ed altrettanti negozi, al piano terra e al mezzanino; e –considerato il volume- non si accompagna alla  normale dignità architettonica di villa la quale viene richiamata solo da recente ritintura negli intervalli delle finestre.

Nel retro si evidenziano le innumerevoli ristrutturazioni e vari accorpamenti, avvenuti nei tempi.

 ===l’ingresso=== è oggi relativamente umile e stretto, e non dà l’impressione di una villa quanto piuttosto di semplice palazzotto; entrando, dopo pochi metri si apre ad est la scala per salire al piano nobile ma un cancello limita la possibilità di accedervi liberamente; procedendo oltre –in fondo al  corridoio verso ovest- si apre una seconda scala che dà accesso ad uffici, studi professionali ed abitazioni private (una delle quali possiede il vano della ex cappella, riconoscibile da una maggiore altezza della volta (oltre gli otto metri) che però ha perduto gli affreschi).

All’interno, difficilmente visitabile essendo tutto privato:

===al piano terreno==========,

===civv.88-92r esiste un negozio di tessuti, chiamato “La Tessile”, sui cui soffitti esistono affreschi prodotti - considerato gli anni, su commissione dei Centurione, attorno al 1622 (Priarone scrive essere attribuibili ‘alla seconda metà del terzo decennio’ quindi quindici anni dopo, riprendendo Pesenti: ‘su base di caratteri formali individuabili in quel “passaggio di colore intenso, brillante, percorso dallo zig-zag della luce ... al colore più disteso, morbido, fatto di inflessioni di languida luminosità”) - da 

Gian Andrea Ansaldo (Voltri, 1584-Genova, 1638. fu uno affrescatore tra i più ambiti della .      .              sua epoca sia in città che nelle ville di campagna.  Ovvero non solo nella

               città vissuta allora dai ricchi esponenti della nobiltà (come  in piazza della Nunziata)  ma

               anche in via Daste, commissionato dai Centurione e dai Lomellini. 

GianAndrea Ansaldo fu pittore nei primi anni del 1600.  Discepolo del Cambiaso, è preceduto in età da B.Strozzi,  B. Castello e L.Tavarone; e  contemporaneo di G. Carlone. Attivo sia su tela che con affreschi,  fu primo dell’epoca sia ad esprimersi con particolare vivezza e splendore di colori, e sia ad introdurre la prospettiva nei suoi affreschi  (tra questi, quelli visti generalmente dal basso, sono mirabilmente rappresentati nella villa Spinola di San Pietro: il confronto -con gli affreschi di Bernardo Castello in Posta Vecchia-  ravvede, sia eguale espressione di sensibilità pittorica tardomanieristica delle composizioni; e sia il tipo di impaginazione delle immagini in modo ordinato nelle inquadrature).

L’attribuzione ha avuto una evoluzione che comprende vari studiosi: Pesenti, sottolineò che questi affreschi di ‘storie bibliche’ sono di difficile datazione proprio a causa dei ritocchi eseguiti da altri nei tempi dopo. Il Sopranis, dei lavori in questa villa, proprio non ne parla. La successiva analisi critica, da parte di esperti, vide dei riferimenti –in particolare nei soggetti degli affreschi- con quelli del vicino casino di Marco Antonio Doria (parente dei proprietari?) affrescati da Gentileschi ma perduti. Alla fine, i prof. Ciliento e Boggero nel lontano 1983 -e quest’ultimo con un libro specifico edito nel 1985 sul pittore- hanno riconosciuto che nella villa Centurione-poi Doria- poi Bagnara gli affreschi sono del pittore, databili 1625 circa

Priarone nella cronologia, data  1623-5 le imprese di Ambrogio Spinola nella villa omonima; e 1628-30 ca quelle bibliche di questa villa.

 

    

 

 

 

   Rappresentano fatti biblici (Genesi), tema che genericamente veniva proposto con elevata frequenza essendo da un lato mistico religioso (e quindi con approvazione di questa componente molto forte in quei secoli) e nel contempo molto simbolica di valori di sofferenza e lotta per la libertà e l’autonomia politica: l’”incontro di Giacobbe e Rachele al pozzo(vedi foto sotto - Giacobbe, patriarca, dopo aver strappato la primogenitura a Esaù, dovette fuggire; sposò Rachele e Lia ed ebbero 12 figli tra i quali Giuseppe e Beniamino) e nel locale retrostante “il sogno di Giacobbe(vedi foto sotto - Giacobbe, tornato in Palestina, dopo aver avuto visione di Dio, cambiò nome in Israele prima di fuggire in Egitto), purtroppo ampiamente ritoccati da altri negli anni posteriori; mentre più integri sono, in locali affiancati ad ovest,  “Giona e la balena(affresco completamente rovinato, pressoché illeggibile - Profeta minore della Bibbia, inviato da Dio a Ninive per convertirli, preferì imbarcarsi per l’occidente in fuga; gettato in mare dai marinai finì inghiottito da una balena da cui ne uscì vivo dopo tre giorni; a significato che Dio perdona. Soggetto rarissimo nella pittura genovese, dove è in genere collocato marginalmente mentre qui è al centro della stanza.; era già stato trattato da Gentilreschi dai D’Oria), e “Tobiolo con l’angelo sulle rive del Tigri(vedi foto sotto - figlio di Tobia -che era prigioniero a ninive e divenuto cieco- sposò Sara dopo averla liberata dal demone Asmodeo -che le aveva ucciso ben sette mariti- con l’aiuto dell’angelo Gabriele che anche guarisce il padre dalla cecità), con vari paesaggi nelle lunette e grottesche negli intervalli.

  

 

Tobia e l’angelo sulle rive del Tigri   Incontro di Giacobbe e Rachele al pozzo

                

paesaggi liguri

 

panoramica con, centrale, il sogno di Giacobbe

 

  Tutti gli altri negozi hanno la volta imbiancata o contraffatta, e quindi priva di decorazioni. Quando l’ala estrema del piano nobile di ponente divenne proprietà Mariotti (mobilieri a SestriP); nei lavori di riordino (1990 circa) la ditta commise un errore idraulico, allagando i pavimenti e deteriorando in maniera gravissima l’intonaco e gli affreschi sottostanti (si era completamente gonfiato e staccato, ed il resto del dipinto appare  come ammuffito ed con l’impressione dell’irrimediabilmente perduto). Nella causa coinvolgente il proprietario, ditta dei lavori, Belle Arti e proprietari del negozio sottostante, il giudice concluse dando colpa e ordine di restauro alla ditta dei lavori che però nel frattempo, dichiarata fallita, è scomparsa non esistendo più e nel 2004 lasciando tutto come sta nell’ignavia di a chi compete la responsabilità del danno cittadino. Nel 2006 non certo all’improvviso ma dopo lamentele varie tra le quali anche va voce del Gazzettino Sampierdarenese, ci fu una indagine approfondita conoscitiva della situazione degli affreschi alla quale seguì il totale insperato ricupero. Dopo esso, nel 2007, nel negozio è seguita una ristrutturazione che ha coperto con infrastrutture i vari dipinti: decisione di utilità unilaterale ma – a mio avviso - riprovevole.

 

===Al piano nobile=========

===civ. 28.

 Solo qui, esteriormente individuabile dagli ampi finestroni distribuiti: uno centrale sopra il portone, e quattro laterali nelle due direzioni (corrispondenti ai due distinti appartamenti collegati a due rampe di un unico scalone che i restauri hanno alterato -qualcosa è rimasta di antico nell’ala est- e nel retro, dal terrazzo affacciato verso il mare ma –come già detto- sugli orti della casa vicina ed oggi sul fianco nord del lungo caseggiato Bagnara di via G.Giovanetti) dona la consapevolezza della villa tradizionale locale, tardo cinquecentesca. Gli appartamenti si strutturano con un salone –con finestre nord-sud e salotti laterali.

--Salotti: in due stanze del primo piano,  tra grottesche e figure simboliche, due volte raffigurano “Agar con l’Angelo” nel salotto a sud; ed il “sacrificio di Isacco”nel salotto a nord, su via Daste.

   

primo piano-Sacrificio di Isacco             primo piano: Agar e l’Angelo

 

 

primo piano – camera                                            primo piano – camera

 

--Nel salone dell’appartamento ad est -oggi abitazione privata- si conosce che sono ancora conservati degli affreschi.

Sono dipinti di un fatto narrato nella Bibbia (Deuteronimo?) appositamente richiesti dal committente mirati ad alludere ad un preciso messaggio, in polemica politica (la scelta della storia di Ester è spiegata perché oltre esaltare l’immagine della Repubblica politicamente autonoma e  contraria agli eccessivi tentativi di ingerenza spagnola,  ella anche prefigura la Vergine: nel 1637 la Madonna fu incoronata Regina di Genova, e quindi assunse aspetto particolare di culto, di simbolo e di identificazione genovese)

   In questo salone la volta è coperta da un complesso di riquadri: uno  centrale (deteriorato e illeggibile) contornato da sei riquadri più piccoli (intervallati da finte statue bronzee e negli angoli da figure allegoriche).

  

salone-panoramica                 

  

salone- particol con trionfo di Mardocheo

 

salone  piano nobile - ‘preghiera di Ester’ e, a fianco,  ‘la Gloria’

salone storie di Ester - -Assuero consegna l’anello a Mardocheo davanti a Ester (partic e intero)

 

 

salone storie di Ester= Animadversio                        trionfo di Mardocheo

 

   L’insieme fa parte di un ciclo relativo a Ester

ESTER = era una giovane giudea  a livello di ebrea schiava col suo popolo in Persia. Il re Assuero (o Serse I, 485-465 aC) dopo aver bandito un editto in tutte le sue province mirato a trovare una fanciulla vergine e bella di aspetto, seleziona Ester. Divenuta regina ed abitando a Susa, ella osò intercedere col il re in affari di Stato e convinse lo sposo a sventare una congiura del ministro Aman mirata a deportare Mardocheo –padre adottivo di lei-  e sterminare la comunità ebraica. Mardocheo riceverà l’incarico di Primo Ministro.

 L’evento è ricordato ogni anno nella liturgia ebraica. Ed aveva due significati: uno religioso: una donna (la Madonna) che salva e redenta un popolo schiavo; l’altro politico, esempio di lotta contro i tiranni nemici della libertà.

La storia biblica dalla quale i pittori trassero notizia, fu romanzata e pubblicata in Genova nel 1615 da Ansaldo Cebà, nel poemetto ‘la reina Ester’ ed. Pavoni. L’opera fu sospesa dall’ Indice nel 1621: quindi la scelta pittorica degli eventi descritti è antecedente a quest’ultima data e fu commissionata da chi aveva le stesse idee indipendentiste e di esaltazione dello Stato repubblicano e della sua libertà. Nel 1637 la Madonna fu eletta ‘regina di Genova’.

La ritroviamo a Genova nel palazzo Lomellini-Patrone alla Zecca, dipinta da Domenico Fiasella; e in villa Soprani di via Camilla -da Giovanni Carlone).

   Della grande volta del salone, rimangono leggibili solo i riquadri periferici. Come narrato nella Bibbia: inizia sul lato minore della volta  con «Mardocheo supplice, alle porte della reggia» (anch’esso mal conservato, a stento si legge lo sdegno di Aman). Questa incerta lettura del disegno è però giustificata dal successivo riquadro che rappresenta «la preghiera di Ester», alla quale seguono «Ester confortata da Assuero» e –sul lato minore- «Ester denuncia Aman ad Assuero» a sua volta seguito da «il trionfo di Mardocheo» e «Assuero consegna l’anello di Primo Ministro a Mardocheo».

   Nel centrale - la scena centrale però è andata perduta - si chiudeva in apoteosi la storia di Ester: Aman punito con l’impiccagione (ma descritto in forma appena intravisibile sullo sfondo) e “Assuero che donando ad Ester l’anello nuziale, accetta la sua supplica”.

   Le grandi statue dipinte in nicchia, esprimono i sentimenti delle scene vicine: a fianco di Ester che prega, la statua raffigura l’Angor, mentre quando Ester è confortata, la statua esprime Humiltas; mentre vicino alla rabbia di Aman c’è l’Iracundia, e col trionfo c’è l’Honor

   Nei cartigli angolari sono rappresentate quattro virtù morali, che si innestano a loro volta a interpretare i sentimenti dei riquadri delle scene di Ester: Moderazione o prudenza (vicino alla preghiera di Ester); Verità o fortezza (Ester che denuncia); Temperanza (confortata); Giustizia (Aman denunciato).

   Le statue dorate in nicchia posta al centro del dei lati lunghi,  sono Gloria (esaltazione della mitezza) ed Animadversio (retta cognizione del comportamento secondo la fede); 

===civ. 30  è posto alla base della torre della villa Serra (civ.34): probabilmente è un ingresso autonomo ai vani aperti nella torre, da dopo il  restauro del complesso. La torre ha un civico rosso: 94Ar

===civ. 32  è posto ad una porta che serve la parte più a est della villa che si distingue da essa anche architettonicamente, e che non ha civici rossi.

===civ. 100r è l’ultimo dell’isolato da questo lato, ed è nel corpo della villa.

===civ. 34  nell’angolo a levante con via della Cella, al limite finale dell’antica via sant’Antonio (così, prima di chiamarsi via N.Daste) troviamo l’ingresso della:

villa IMPERIALE (-SERRA–DORIA–MONTICELLI-BASELICA),  usata nell’antica toponomastica per dare –procedendo verso ponente- limite d’inizio della zona e via Mercato (oggi sempre via N.Daste).

   

prima dell’ultimo restauro           la torre, resa vani di appartamenti

  

anno  2009

 

   Si è prospettata l’ipotesi che sia tra le più antiche di tutte le ville locali, risalente addirittura al tardo quattrocento o inizi del cinquecento;  ha corroborato questa ipotesi la collocazione nel punto prima di tutti e più intensamente vissuto del borgo, ed anche per alcune caratteristiche architettoniche come la forma della loggia e della torre. Nei vari successivi restauri, si nota la chiusura della loggia, avvenuta non si sa quando.

==Le notizie certe dicono che già nel finire del 1500 apparteneva alla famiglia Imperiale: infatti fu acquistata dal m.co Ottavio Imperiale a nome degli eredi fideicommissari del fu Gio.Battista Imperiale.

Giulio Pallavicino, nella sua “Inventione di scriver...”, narra una storia per l’anno 1585 che alla fine interessa il nostro Ottavio. Inizia «Matesdi a 16 (luglio)  E’ stato dopodisnare frisato in viso un certo birro delle Pompe molto vegliaco nometo il Guercio perché gli manca un ochio, ha rinonciato la spada e non si sà altro»---«Venardì a 26   In fine l’insolenza di questi birri di Pompe havendo oltrepassato l’ordine per il comportarsi, furno questo giorno di mattina assaltati appresso al fossato di Santo Bartolomeo da doi travestiti e dattogli parecchie coltelate chi nelle gambe e chi in testa et a quel Longo Guercio non si dice ancor cosa alcuna»---«Matesdì a 30 E’ a parte del Serenissimo Senato fatto grida che sapendo alcuno cùi sia stato abbi fatto dare alli birri, che gli danno scuti 500 d’oro e doi banditi, pur che non sia il principale» ---«Venardi a 9 (agosto)  E’ stato mandato a pigliar per ordine della Rotta Battista Genochio, dicesi per essere incolpato di haver fatto dare alli birri delle Pompe, per ordine di Ottavio Imperiale e medesimamente mandorno in casa di Marchese Imperiale a santo Pietro d’Arena a cercar di un stafiero, il quale presero e condusero in prigione»---«Lunedì a 12  Si è questa mattina sparso voce che Ottavio Imperiale era quello che havea fatto dare alli birri per havergli fatto molte forfanterie»»---«Venardì 16 (agosto)  Si è detto per vero che quel birro delle Pompe, il Longo, sia morto, et è tutto vero ---«Sabato  a 17 (agosto)   E’ stato liberato Battista Ginochio per non havergli trovato cosa alcuna».

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il ramo dei Serra sampierdarenese, inizia nel 1342 con Manfredo→Antonio→Antonio→Paolo→Antonio(3ft)→Paolo(1ft)

Girolamo→GB(1ft)→Filippo→Veronica→2femmine________________

 


Musso-Manoscr.XVIIsec                                   

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I Serra sono una famiglia nobile genovese, che trae origine precedente degli anni medievali del 1130 quando ai 4 Consoli –con affiancati tre consoli dei Placiti-  :venne dato l’incarico ad alcune famiglie viscontili di amministrare (giustizia, tasse, ecc). Esse discendevano da Ido, figlio di Adolfo conte della Bassa Germania incaricato da Ottone I. Come ai DeMari ed agli Spinola, ai ‘deSerra’ venne dato l’impegno di essere vicari dell’imperatore col titolo di vice-conte, per amministrare la Valpocevera quale terra di origine nella ‘pieve della Serra’ (Serra Riccò).


La Scorza propone una discendenza nata da Serra, figlio di Otto Visconti e fratello di Bonifacio Usodimare. Scrive altresì che nel 1528 furono ascritti nei Lercaro; e che la famiglia ebbe 1 doge (Gerolamo-1814, ultimo della Repubblica); 2 cardinali (Giacomo-1600; e Nicola -1766); 25 senatori dei quali, 22 della Repubblica (Pietro di Antonio-1551; Geronimo d Paolo-1593; Nicolò di Paolo-1604;  Gio.Pietro di Francesco-1617; Francesco di Antonio-1619; Paolo di Antonio-1629; GB di Antonio-1638; Gio.Tomaso di Gio.Pietro-1650; Nicolò di Gio.Pietro 1653; Gio.Agostino di Gio.Pietro-1657; Gio.Carlo di Gio.Pietro-1664; Geronimo di Francesco-1681; Gio.Pietro di Gio.Agstino-1696; Francesco Maria di Geronimo-1725; Gio.Agostino d Gio.Pietro-1727; Gio.Carlo di Francesco-1735; Francesco Maria di Gio.Pietro-1739;  Marcello Maria di Giuliano-1745; Gerlamo di Francesco Maria-1746; Giacomo di io.Carlo-1770; Gio.Pietro di Gio.Agostino-1775; Gio.Francesco di Carlo-1784); 1 senatore del Regno Sardo (1848-Domenico); 2 senatori del Regno d’Italia (1860-Orso; 1861-Francesco).

In particolare vengono ricordati:

-Giovanni  1397-1471 ambasciatore a Londra ed a Milano (Genova, dopo aver fatto dedizione alla signoria di Milano retta dall’arciv. Giovanni Visconti già nel 1353; e l’aveva ripetuta con i Visconti,  nel 1421 al 1435 quando era duca di Milano  Filippo Maria Visconti). La dedizione a Milano -come governo di sudditanza- fu ripetuta una terza volta da Giovanni, filomilanase, col duca FrancescoI Sforza dal 13 V 1464 al 15 III 1477).   ---   Battista sec.XIV ambasciatore a Milano e Madrid (per la questione di Finale)   ---   Girolamo ambasciatore a Milano e Torino   ---   -Giacomo 1570-1623, cardin.   ---   GianFrancesco di Girolamo generale di Spagna; si traferisce a Napoli ove crea  un ramo familiare ---  .

-Alla fine del Settecento, come detto sopra, da GioPietro si dividono in due rami

--dei  Serra di via Serra, detto ‘dei ricchi’  Domenico, morto 1813 che aprì la strada   ---  GianCarlo, suo figlio, 1766-1844, conte dell’Impero

--dei Serra di Porta dei Vacca, detto ‘dei dotti’ GianFrancesco 1776-1854 scienziato e scrittore --- Vincenzo 1778.1846 sindaco e rettore Univ.   ---   GB 1768-1855 prima giacobino poi napoleonista   ---GCarlo ambasciatore per Napoleone. Iscritto alla nobiltà  ---   Girolamo 1761-1837 rapprentante di Napoleone (con M.Cambiaso e L.Carbonara) firmò la convenzione di Mombello; all’annessione all’impero fr. presiede Università e lavora con Accademia di scienze e lettere;  con Bentick fu a capo del Governo Provvisorio; con annessione regno, da Carlo Alberto fu chiamato a far parte della deputaz di Storia Patria; scrisse Storia dell’antica Liguria e di Genova fino al 1834, in quattro volumi  ---

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                      Emilia

Girolamo      GioFrancesco+GiovannaDoria qCarlo principe di Tursi) morì in scontro navale salvando il figlio del

                                                       re Filippo IV di  Spagna

qPaolo qAntonio →  Bianca                                                                -AnnaTeresa  suora

+Veronica Spinola    Maddalena                |Girolamo                           - GioBatta  (s.p.)                                       

                      Artemisia                 |Domenico                         -Giovanna            

                                          Maria                       |Anna Maria                           +Fr.sco Spinola         |   →Maria Caterina +GiulioGregorioOrsini

                                         Giovanna          |Filippo        → -Lavinia      |Giovanna DeMarini

                     GioBatta+Eleonora Spinola q Niccolò  +GB DeMarini Castagna    + GBCenturione  

                                        +Lavinia DeMarini

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Con Giovanna DeMarini si estinse il ramo dei Serra Paolo q.Antonio

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==Il 7 nov. 1607 Geronimo (o Gerolamo) Serra (1557-1618; figlio di Paolo, con 7 fratelli tra i quali Antonio che inizierà la discendenza della villa Serra di via Cantore (vedi a Cantore la cartina genealogica); avrà due figli GioFrancesco e GioBattista; in ascendenza è del ramo che alterna Paolo con Antonio (per due volte; per salire ad un terzo Antonio qManfredo, quest’ultimo vissuto nel 1350→M-A-A-P.A-P-G); divenuto senatore nel 1593; marchese di Strevi e di Amendralecho (Spagna); sposò in prime nozze Emilia Spinola ed alla sua morte (1593), Veronica Spinola di S.Pietro. Ebbe 11 figli; sul libro “i Serra” ne cita 2, Battilana pag.6 ne cita 8 quelli sopra nello schema) si avvalse di un parente acquisito (Gio Pietro II Serra, poi divenuto 1608-9 governatore di Corsica; e senatore 1611-18 e da cui discenderanno i due rami: dei Serra di Porta dei Vacca e di via Serra), per comperare al prezzo di lire 61.502 il palazzo con torre e terre sito in San Pier d’Arena, messo all’asta pubblica il 7 nov. 1607, con  la clausola del mantenimento abitativo, nelle parte superiore, di Francesca, madre degli Imperiale.

 

Nelle sue disposizioni testamentarie legò alla moglie Veronica l’abitazione della casa e della villa di San Pier d’Arena (testamento stilato quando i primi figli erano ancora minorenni; per evitare sperequazioni nella prassi successoria, seguì l’istituto del fidecommesso e maggiorascato per linea maschile in base al quale per assicurare l’integrità del patrimonio, offriva il diritto di proprietà ai suoi diretti discendenti in modo di stabilire una linea familiare favorita, rispetto ad altri che avrebbero potuto entrare in diritto.  Nel caso che il primogenito a sua volta non avesse eredi, i beni si trasferivano agli eredi del secondo figlio;  questa intercambiabilità interessava quindi solo i primi due nati: :il primogenito Gio Francesco marchese di Strevi ed Amendralecho e signore di Cassano, ed il secondogenito GB, che in quella data aveva appena un anno).___________________________________________________

 

==alla morte della donna (1629), per disposizione testamentale (1613) del padre nella distribuzione dei beni, subentrò il figlio secondogenito (il primogenito era Gio.Francesco che morì in uno scontro navale contro i turchi, salvando la vita a Giovanni d’Austria figlio di Filippo IV di Spagna; del quale, dopo altre 3 generazioni, essendo ultima una femmina, finì il ramo), poi divenuto marchese,  GB Serra era nato l’8  agosto 1612 nella villa sampierdarenese (nella parte superiore della casa era ancora viva la madre degli Imperiale)-; divenne -1628- marchese diMornese comprando il feudo dal cognato Antonio Pallavicino q.Nicolò (quello famoso del Gonzaga-Rubens; sposò  Lavinia DeMarini qFilippo marchese di CastelnuovoScrivia; assieme ebbero tre figli. Banchiere con prestiti agli spagnoli, diplomatico all’estero (Oltregiogo per il sale e Madrid ove morì nel 1684), antibriganti,  aveva investito in manifatture, cartiera sul Gorzente, sfruttamento dei boschi (carbone), fornaci. Morì 22.2.1750 lasciando alla porimogenita Giovanna

 

 

==il primogenito dei tre, fu Filippo (+ altri sei nomi, secondo la moda spagnola) 1645-1715, marchese di Mornese; andò sposo di Eleonora Spinola q.Nicolò di 18 anni più giovane; ebbero quattro figli: Giuseppe (unico maschio secondogenito morì a sette anni nel 1705) e Giovanna, Lavinia, Veronica (quest’ultima si ritirò a vita religiosa facendosi suora col nome AnnaTeresa).  Di lui si sa che nel 1705 affittò a terzi l’appartamento nuovo a piano terra, posto  “manu dextera ingressus ostii palatii situato in loco S.ti Petri Arene in vicinia Logiae eiusdem loci seu burghi ” (notaio Massone).  Di carattere prepotente (incline a abusi, illegalità e reati di minaccia armata tramite ‘bravi’; arresto di persone con lo scopo finale di farne condannati al remo delle sue navi (assolto da Genova, dallo Stato del Monferrato è condannato al bando con pena di morte)=non può entrare in quel territorio nel quale è compreso Mornese; spostamento dei segni di confine; nonché di abigeato per autogiustizia) e testardo (non giurerà fedeltà a VittorioAmedeo duca di Savoia e Monferrato).

E’ nel suo periodo di vita e in località vicina, l’episodio speculare che coinvolge il BottaAdorno padre, feudatario di Castelletto e di Silvano, il quale non vuole pagare Genova (gli sequestrano i buoi; lui va a riprenderseli; condanna a morte e distruzione della casa genovese)

delle due figlie di Filippo ed Eleonora:

==Giovanna Serra ricca nobildonna. Sposata con Spinola Francesco Maria, primogenito q.Federico, meno ricco della moglie e non completamente ‘avveduto e capace’ dovendo, i suoi scarsi beni farli gestire dalla madre e poi dal fratello GB abate;  trasferitasi dal luglio 1747 in Toscana poi definitivamente a Roma (1751) dove curò la causa di separazione dal marito iniziata cinque anni prima (1743) quando il primogenito, GB Spinola era andato sposo con MariaTeresa Fieschi q.Ugo ed il secondogenoto –ancora minorenne- Giulio aveva 17 anni; visse caparbiamente cercando dimostrare i diritti delle sue vaste proprietà, con continue ripicche economiche verso la sorella Lavinia; ma nel suo ultimo testamento non c’è alcun accenno alla villa sampierdarenese pare non fosse direttamente interessata ai beni sampierdarenesi  (e mornesi) anche se verrà testimoniato che ‘in tempo della villeggiatura’ aveva abitato la nostra villa e che ‘pagava di proprio’.

== Lavinia Serra marchesa (1685-1755) in GB DeMarini, deceduto poi a Castelnuovo Scrivia il

12.2.1750abitava normalmrnte, prima in Campetto (fino al 1750) poi in strada Nuova; ebbe due figlie Giovanna e MariaCaterna. Alla morte lascia metà feudo di Mornese e vuol essere sepolta in s.Siro.

  Il 27 marzo 1740 fece eseguire importanti lavori di manutenzione nella villa (un mese prima della morte della madre Eleonora in quegli anni già vedova  e prima quindi della divisione dell’eredità con la sorella Giovanna; Lavinia,  non essendo in perfetta armonia con la sorella, si premunì ordinando apposita perizia che venne depositata negli atti del notaio A.Roccatagliata e per questo stesso motivo, la madre nel testamento impose alle figlie di entrare in accordo nel giro massimo di trenta giorni).   

Il 29 aprile 1741 sempre Lavinia, evidentemente maggiore interessata ai beni sampierdarenesi, affittò a terzi  l’appartamento al piano nobile (‘nel palazzo che possiede in San Pier d’Arena, in vicinanza della piazza del Mercato (sulla quale porgono alcune finestre)’. In atto, di poco seguente, era precisato che ‘il palazzo era contiguo a quello di Carlo Doria q. Ambrogio’ ...forse il Carlo del palazzo dei Serra-Masnata).

Possedeva anche Mornese -nell’Oltregiogo; e nel 1715 per conservare queste proprietà, dovette giurare fedeltà ai Savoia (subentrati ai Serra e, a scendere nel tempo, ai Pallavicino, Passano, Doria).

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==Il 24 giugno 1755 Giovanna deMarini in Centurione, figlia di Lavinia (morta in quell’anno), quale erede e primogenita (ella non compare nella discendenza, sia sul libro del Battilana che su quello del Buonarroti), chiese ed ottenne a) cede alla sorella MCaterina la sua quota del feudo di Mornese – l’altra parte è in mano a Giovanna Serra in Spinola; b) tramite sempre il notaio A.Roccatagliata, di essere immessa nel possesso del fideicommisso istituito sopra la villa (palatium situm in Burgo S.ti Petri de Arena cum rhedario et receptaculo sub eo (…‘con ricovero per le carrozze e vestibolo sotto di esso…’) et alia domuncola eidem palatio annexa cum altero situ contiguo…que bona sunt in vicinia Logie eiusdem loci S.ti Petri Arenae et contigua alteri palatio Fideicommissij instituti a dicto nunc q. Marchionem Hieronimo Serra ad favorem nunc Marchionis Ioanni Francisci Serra ducis Cassani).

Nota: il palazzo ‘della loggia’ assai probabilmente è quello di fronte, successivo procedendo verso Cornigliano, chiamato ‘villa Gavotti’ -vedi)

 

==Ultimo dei Serra, rilevabile dalla carta vinzoniana del 1757 proprietario appare il ‘magnifico marchese Giuseppe (Maria) Serra(probabilmente è il Giuseppe nato a Genova il 20 maggio 1714, da Francesco Maria Serra q.Geronimo e Laura Negroni; quando andrà sposo (1738) alla quindicenne Laura Serra portatrice del titolo di duchessa di Cassano e lui diverrà terzo duca di Cassano (+5° marchese di Strevi e 1° barone di Civita); andranno a vivere a napoli ed avranno figlio Luigi+altri 7. Da Giovanna a lui, si arriverebbe per successione feudale regolata da disposizioni normanne di primogenitura dell’anno 1137: in assenza di essa, eredita il maschio della prima femmina; in mancanza ancora, i titoli passano ai collaterali sino al quarto grado purché discendenti del primo investito)

Più d’uno sono i Giuseppe; tutti cugini dell’albero genealogico di Paolo Serra, ma alcuni morti prima del 1756; unici  possibili, per combaciare con la data della mappa, appaiono quello nato a Strevi il 7/1/1706, figlio di GioFrancesco (e quest’ultimo nipote dell’omonimo GioFrancesco del fidecommesso. non è dato conoscere come da lui la villa passa ai Doria

 

 

Estinto il ramo Serra, negli anni a cavallo del 1800 divenne proprietà della famiglia Doria

Su una carta, probabilmente del Porro e del 1780, è scritto: “M.co Giuseppe Serra ora dei Doria eredi di Cesare”


==Ad essa successe Monticelli Bartolomeo, e figli; curatori di un pastificio e di un mulino al Campasso. Una cartolina postale di invio materiale, datata 1899, porta scritto “Stabilimenti di paste – farine e semole – Monticelli Bartolomeo e figli / Sampierdarena e Rivarolo Ligure”. Si ritrovano in attività per

alcune generazioni, pare fino oltre il 1950. Nei Pagano non appaiono.

 

 

 

 


==Per la Soprintendenza, l’edificio compare da lei vincolato e tutelato fin dal 1934 con assegnazione di possesso da parte di non meglio specificato sig. Gancia; (unico Gancia conosciuto che occupava una posizione di un certo prestigio negli anni 1888, era Gancia geom. Mario, fu Michele, nato a Narzole (Cn), segretario capo municipale, domiciliato a SPdArena, divenuto ‘storico’ per aver mantenuto l’incarico per molti anni ed aver acquisito i più sperticati riconoscimenti anche del Commissario straordinario; essere stato testimonio di atti importanti della municipalità (contratto con OEG/1897 per esempio) e che nel 1901 fece parte del comitato pro lapide per il prete Daste in via Mameli).


==Solo nel 1960 pervenne ai due fratelli Baselica, Rino e Gianni, mobilieri cittadini, che la adibirono a negozio e deposito del loro lavoro. Cessarono la loro attività negli anni 1993. Dei due, particolarmente attivo, impegnato socialmente ed effervescente fu  Rino che si firmava ‘Ribas’ creatore tra le mille idee socialmente utili prodotte: direttore di Radio S 1 e poi di Radio Lanterna City – emittenti locali degli anni 70/80 -, la Croce d’Oro, nonché da presidente della SPdArenese calcio, il campo sportivo Morgavi, tra i soci fondatori dell’UOES (unione operatori economici SPdArenesi). Rino Baselica era nativo di Arquata S. ma da giovane trasferitosi a SPdA. Divenne giornalista pubblicista (Gazzettino SPdArenese, stampa specializzata nell’arredamento). La sua decisiva presenza in mille operazioni, gli creò anche dei nemici che espressero la loro invidia con violente scritte murali. Morì 72enne il 20 ott/1994 mentre l’ambulanza lo portava dall’abitazione di via Buranello al Villa Scassi.

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L’edificio rimase molti anni vuoto finché fu occupato dal –per ora penultimo- acquirente:

==Il recente (pare dal 1991-3 circa, avendo Baselica finito l’attivà, prima del decesso) proprietario, è stata una Finanziaria (ing. Ins.Int. spa), operò una ultima radicale ristrutturazione interna con la spesa di 10miliardi di vecchie lire: dal 1997, affidandola a valenti esperti (arch.ing. Penco, Zucca, Visconti, Elia) e con l’approvazione del Consiglio di circoscrizione,  proseguì fino all’anno 2002.  Si disse che sarebbe stato demolito un corpo aggiunto che era stato usato a fabbrica; che furono obbligati  a conservare il loggiato e mettere a disposizione il salone (anche ad uso congressi) mettendo in risalto gli affreschi interni della scuola dei Calvi (vedi ‘palazzo Doria’ nelle pag. precedenti) raffiguranti in 5 medaglioni le “fatiche di Ercole” ed il “consesso degli dei”;   

furono aperti studi professionali ed  un terrazzo a roof-garden con piscina; alcune abitazioni, nei piani alti occupanti anche la torre; ed al piano terra  negozi e garage su due piani per venti auto; nel rispetto ovviamente delle antiche forme architettoniche esterne.

 

==Dal 2008 è in cessione alla «Chiesa Evangelica Internacional ‘Luz del Mondo’»; nel 2010 non c’è più ed appare vuota.

   Disegnata a trapezio, aveva tre ingressi (il principale a nord su via Daste); dal 500 e quando fu riadattata da villa padronale a fabbrica, ben poche ristrutturazioni furono fatte fortunatamente, da mantenere intatte le strutture (fu chiuso il loggiato a sud, lasciandolo però visibile; modificate le scale, ed al posto del giardino hanno costruito un nuovo corpo di fabbrica  che unisce la torre alla villa.  Al piano terra un grande atrio con la volta a padiglione, era affrescata; sul lato mare una apertura ad arco dava accesso al giardino tramite un retro a volta  più bassa ed a crociera.

  

tre immagini, del piano terra

 

La torre è stata rifatta anche all’interno, ed adattata ad uso abitativo conservando le componenti esterne (finestre, mensoloni sporgenti per appoggiare il cornicione). Nelle sue sale nacque Radio Lanterna City. Ora è un vano dei vari appartamenti privati.

  

                      

Nella carta vinzoniana, il giardino si estendeva verso sud, sino a confinare con le proprietà della chiesa della Cella (quindi sino all’attuale viadotto ferroviario). Evidentemente prima la ferrovia dal 1843 e gli altri proprietari seguenti, in probabile affanno economico e stimolati dalle lottizzazioni successive alla immigrazione di massa al richiamo industriale, hanno permesso di distruggere tutto.

   DeLandolina nel suo libretto del 1922 (da prendere con le molle, visto gli innumerevoli errori), scrive che i primi proprietari furono i Lomellini, e da essi i Doria prima dei Monticelli i quali “già dalli avi l’ereditarono come pastificio, e lo continuano ancor oggi in tale industria”.

=== si apriva in via Daste, quando non esisteva via A.Cantore, poco prima della crosa della Cella, una antica villa Lomellini (-Boccardo),  posta dove ora è il civ.39 di via A.Cantore (vedi).

 

via della Cella

===civ. 36  palazzo GAVOTTI, l’ ultima dell’attuale via Daste.


   La prima testimonianza, tardiva rispetto la costruzione, è del Vinzoni che nel 1757 descrive la proprietà del “magnifico Agostino Gavotto”(o “i”)   

Esiste, nella genealogia, ricca di personaggi, un solo AgostinoMaria, vivente nel 1714 (figlio di Giulio q. GioAngelo e di Cecilia Feo di Tomaso; fu nobile savonese e patrizio genovese che  il 6 febbriao 1673 aveva sposato


Giovanna Pavese di GiulioDionisio barone di Gevise e Casalinovo nel Regno di Napoli e di Aurelia Gavotti. Pare abbia vissuto prevalentemente a Savona, ove nel 1666 figura tra i m.ci Maestri Razionali; nel 1677 è tra i m.ci Anziani; nel 1702  ospitò FilippoV di Spagna e -l’anno dopo- la duchessa di Savoia col principino; e nel 1714 Elisabetta Farnese che andava sposa a FilippoV.

La famiglia: ricca, dinamica e potente famiglia di origine varazzina (ma con ancora primaria origine da Sassello, anteriore al 1400) trasferita poi nel XV secolo a Savona.

Lo Spotorno scrive che il nome deriva dal francese “savot” ovvero zoccolo di legno, calzatura dei


‘villani, della povera gente’.                           .       .                  

Avran fatto fortuna, se dal 1521 furono ascritti alla nobiltà savonese in virtù delle capacità strategiche economiche: infatti, già discretamente ricchi  nel Cinquecento, accrebbero il capitale con l’edilizia di lusso (loro -ad AlbissolaSuperiore- una maestosa e sfarzosa villa) ed allacciando –alla pari di altre famiglie savonesi in contatto diretto con le genovesi- rapporti con le più potenti


famiglie di  Roma e del Vaticano. La discendenza, ricca di rami e di intrecci con altre famiglie, formò tre rami principali: uno a Savona –città d’origine-, una a Genova ed una –dall’inizio del 1600- a Roma (i nobili Raimondo e Carlo, sulla scia delle principali famiglie nobili genovesi, appaiono i capofila dei savonesi a Roma, attivi in operazioni bancarie legate alla Spagna). Ma contano anche in Puglia (a fianco della famiglia genovese dei DeMari).

Dal 1613 li sappiamo con solide basi di banchieri in Genova (nonché a Napoli e Roma) malgrado le secolari tensioni tra le due città. Qui possedevano un palazzo in una piazza, vicino alle dimore dei Pallavicino, Torre, Piuma e D’Oria .

Nel 1794 nella fase discendente di potere di tutte le famiglie savonesi, quella Gavotti  appare essere l’unica savonese ancora presente nel patriziato genovese

Ma i loro soldi non furono investiti solamente in operazioni bancarie quanto piuttosto -ed in forma ingente- rendendosi intermediari di opere d’arte di alto livello culturale, acquistate e reivendute per i maggiori collezionisti genovesi e romani.

--Vincenzo; morto 1544, commissario di campo e delle munizioini, di CarloV

--Nicolò III- alla sua morte nel 1650 fu stilato il possesso di tele di Raffaello, Rusticucci, Guercino ecc.

--Lorenzo; fu dal 1653 vescovo di Ventimiglia; incaricato Nunzio Apostolico in Svizzera da Urbano VIII nel 1646

--Maria Aurelia q. Camillo (che andò sposa a Francesco Maria Doria  q. Brancaleone, e che ereditò nell’agosto 1679 i mobili ed una ampia -e di valore- quadreria, con oltre cento quadri tra cui forse un Rubens), ed intrecci con la famiglia savonese Pavese (di cui un Camillo sposò nel 1594 Maria Doria q. GB (vedi chiesa della Cella e palazzo delle Franzoniane)).

--Antonio Gavotti (Genova, 1783-1833) era uomo d’austeri costumi morali e gestiva come maestro d’armi una sala di scherma nel Centro storico genovese, mentre con la moglie e figli abitava in salita degli Angeli al 66. Iscrittosi  alla Giovine Italia ospitò nella propria sala  gli affiliati della società segreta.  Scoperto, fu  processato come sovversivo e proselitista delle idee mazziniane nell’ambito dell’esercito, e condannato a morte ‘con ignominia’ ovvero alla schiena. Così all’alba del 15 giugno 1833 presso la batteria della Cava a Genova, fu fucilato assieme al sergente Giuseppe Biglia (di Mondovì) ed al sergente dei zappatori Francesco Miglio (di Rivalta Torinese) ambedue facenti parte del reggimento Granatieri Guardie delle dell’esercito sardo e quindi condannati come traditori, avendo letto e dffuso gli scritti mazziniani e non avendo denunciato ‘la cospirazione’ ed i congiurati.   I tre patrioti furono sepolti dapprima nella cripta della vicina chiesa di San Giacomo di Carignano e, all’epoca della demolizione di questa dovuta all’apertura di corso Maurizio Quadrio, traslati a Staglieno, accanto alla tomba di Giuseppe Mazzini. Del gruppo facevano parte Iacopo Ruffini e Lorenzo Boggiano, poi  morti suicidi per non tradire. Tutti, prime figure di martiri del movimento mazziniano e dell’ideale di libertà.


Nella zona di Carignano, Genova lo ricorda con una strada; mentre una lapide è posta in via Chiabrera dove aveva la palestra “IN QUESTE MURA / NELLA SALA  D'ARMI / DI ANTONIO GAVOTTI / UNITI NEL PENSIERO DELLA REDENZIONE ITALICA / CONVENNERO DAL 1830 AL 1832/ MAZZINI, RUFFINI, BIGLIA, MIGLIO, ORSINI / E ALTRI PATRIOTI / CHE LA GLORIA DELLA FONDATA / GIOVINE ITALIA / FECONDARONO COL CARCERE COLL'ESIGLIO COLLA MORTE / IL CIRCOLO LIBERO PENSIERO 5 MAGGIO 1894”.

                                            

  

lapide a Staglieno

 


--Gerolamo Gavotti, marchese, fu sindaco di Genova nel periodo 1860-3; nel 1898 donò un quadro -già di GioCarlo Doria-, all’Accademia Ligustica di BA. (l’Età di Rubens.pag.219).

--Ludovico Gavotti.  Visse negli anni a cavallo tra 1800-1900; genovese, marchese, canonico  assistente ecclesiastico, molto attivo a fianco dei salesiani (1868-1918), poi divenuto vescovo di Casale Monferrato, e (dopo tre anni di vacanza dell’incarico a Genova, poiché mons. Caron non ottenne l’exequatur dal re) -dal 7 marzo 1915 al 23 dicembre 1918- nostro arcivescovo; morì 50enne di influenza spagnola (fu succeduto da altri tre arcivescovi, anche loro caratterizzati dalla breve gestione della nomina per morte prematura o dimissione: Boggiani 1919-21, Signori 1921-3, Sidoli tre mesi 1924).   

A noi interessa Agostino, in quanto citato da Vinzoni come possessore della casa nel  1757.

Nessun accenno alla nostra villa, neanche nel dettagliato libro di Leonardi, ove essa viene solamente citata nelle note, ma non per reperti d’archivio, quanto appunto solo rilevandola scritta nella carta del Vinzoni, senza ovvio sbilanciamento sul proprietario

Con tale nome, da Leonardi vengono citati

---Agostino, ma solo in quanto padre di GioAngelo (quest’ultimo, chiamato anche Angeletto, visse nella prima metà del 1600 e probabilmente fu il primo ad essere ascritto alla nobiltà savonese. A sua volta padre di Giulio, ma anche di Raimondo e (Gio)Carlo trapiantati a Roma.).

---AgostinoMaria I q.Giulio q.GioAngelo. Alla sua morte, nel 1715 abitava vicino alla chiesa di SM delle Vigne dove teneva ampia fornitura di tessuti preziosi (damaschi, velluti, ecc.) molto in voga nel seicente per rifinire sedie da uomo o da donna, sgabelli, separé, ecc.) e ben 73 quadri. Nei suoi possedimenti (citati solo di Genova, di Savona (a Fossavara, con 50 quadri) e di Legino) aveva ospitato il re di Spagna FilippoV (1702) ed Elisabetta Farnese (1714, futura moglie di FilippoV). Fu nominato coerede con altri, da Michele Imperiale (nipote di Vincenzo).

---Agostino Maria II Melchiorre (1702-1760), figlio di Giulio Deodato Maria Gavotti e di Geronima Cattaneo; andato sposo a Maria Valeria DeMari q. Stefano; nipote del precedente. Viveva in Genova nei pressi della chiesa conventuale di s.Agnese; ma aveva anche possesso -da parte della moglie- a Sestri della villa DeMari Spinola, descritta dal Gauthier.

Vedere inventario dei suoi beni a pag. 330 del Leonardi: ma non c’è la villa sampierdarenese, forse perché venduta prima della morte.

---Giulio, 1882-1939, ingegnere,  fu un ardito pioniere dell’aeronautica, poi colonnello del genio aeronautico ed organizzatore dell’arma. Fu aviatore militare nella guerra italotuca, ed ha il guinnes di essere stato il primo aviatore bombardiere del mondo, lanciando nella guerra libica ordigni su Tripoli estraendoli da una borsa posata ai piedi 

---Ludovico 1868-1918 vescovo di Casale e, nel 1915 arcivescovo di Genova quando con l’exequatur del ministro Salandra si risolse la questione di mons. Caron.

In base alla data vinzoniana, la scelta appare limitata ad Agostino Maria II Melchiorre, su descritto. 

La villa -La posizione angolare rispetto alle due crose, le più vecchie della città, e la sua vetustà senz’altro influirono sulla forma tendenzialmente irregolare del perimetro.

   Appare dalle carte, nel 1825 essere divenuta proprietà di Samengo Giuseppe: per vari anni ci fu un conflitto con il Comune, proprietario di un vano a piano terra definito ‘di pubblica spettanza’, dal quale appare desiderio realizzarne due negozi da affittarsi; l’opposizione del proprietario paralizzò il progetto che venne ripreso nel 1832: fu allora inviato l’arch. Angelo Scaniglia per la programmazione (perizia del 23 nov.1832); gli eredi Samengo -che abitavano nei piani superiori- nuovamente si opposero chiedendo amichevole prelazione per l’acquisto dei vani e rispetto di diritti di servitù.  Dalle carte della piccola vertenza legale si evince in quella data il non uso di nomi delle vie né numerazione: dallo Scaniglia la casa viene definita “loggia posta in capo alla crosa  Cella in S.Pierdarena sotto la casa dei sigg. Samengo eredi” ... altrove si legge “perizia dei lavori à farsi a questa cosiddetta Loggia Comunale ad uso di due botteghe “.

      La costruzione fu arricchita da una cappella. Nel 1897 si descrive: “nella via della Cella come ora si dice, colla facciata verso la Loggia, vedesi la Cappella Samengo, intitolata agli Angeli Custodi: ha graziosa cupoletta e sull’ingresso, per un ristoro ivi praticato nel 1793, vi si scorge lapide relativa. Non è però più pubblicamente ufficiata”.

Nel palazzo di fronte a villa Serra, lungo via Daste c’era una ‘cappella Samengo’ privata, intitolata agli ‘Angeli custodi’: la volta era a cupoletta e, sull’ingresso - dal 1793 quando fu restaurata - fu posta una lapide a ricordo. 

 

Altrettanto di antica data –forse dopo i Samengo- è la sua ristrutturazione per essere adibita a convento, come si può rilevare dai cartigli con un trigramma posti a fianco dei due portoni (uno in via della Cella, che dando adito ad una scala, con volte a crociera,  porta al piano nobile laddove alla loggia oggi murata portava lo scalone originale, ed ancora al piano sottotetto con originari soffitti a grosse travi lignee, è quello che ha conservato più dell’atrio le caratteristiche antiche della villa) e quello principale in via Daste, quest’ultimo di aspetto sette-ottocentesco barocco, sormontato da una edicola con interpretata dapprima (essendo coperta da grata e vetro) un San Cristoforo, in gesso, con basamento anch’esso in gesso ornato da due puttini (forse per essi, chiamata ‘angeli custodi’ - all’Arch.St.di Palaz Ducale è scritto che è stato restaurato nel 1957)  nel centro di una facciata senza decorazioni se non una fascia marcapiano posta sopra il piano nobile.

Il tetto in ardesia, è a padiglione.

 


Infatti nel 1937 viene scritto che “nell’Opera Pia L. Gavotti (tornata ai primitivi proprietari o le suore adottarono il loro nome?) sono ospitate in ricovero 13 femmine tra operaie ed impiegate”.

   Dopo quella data venne completamente ristrutturata all’interno, per abitazioni e negozi (al primo piano trovò la prima sede la neonata ’Associazione Combattenti’ negli anni subito dopo la prima grande guerra), con manomissione delle originali fattezze interne, pur mantenendo esternamente le caratteristiche dell’antica villa. Il frontale appare senza nessuna decorazione se non una fascia bianca sopra il piano nobile, quale segnapiano; nella facciata a sud, si vedono due finestroni a loggia, ormai chiusi, muniti di balaustra a colonnine.

 

 

  Così ora finisce via Daste, con l’angolo smusso del palazzo che si apre in via Carzino, e che fu a lungo la casa madre dell’opera di don Daste. In     quell’angolo di casa, a buona altezza è inserita una edicola della Madonna      


                                                         

che è messa così in alto e “protetta da vetro con grata” da impedire la netta visione dentro della sacra immagine; e per molti che transitano, è come se fosse vuota. Potrebbe essere quella statua che il prete acquistò dallo scultore Canepa quando se la vide rifiutata da un paese del Monferrato perché giudicata brutta; o quella ricuperata sempre dal sacerdote Daste,  alla chiusura di una Società Cattolica  dapprima chiamata di san Giuseppe, poi della Vittoria.


   Prima del 1935 e della apertura di via A.Cantore, la strada (che prima si chiamava via Mercato e, dopo, già rinominata via Daste) proseguiva passando davanti all’attuale portone 46 di via A.Cantore che appare sottolivellato (mentre invece è la grande arteria, che è sopralivellata; per raggiungere pedonalmente via Carzino, sia a levante che a ponente di essa occorre scendere degli scalini),  ed in diagonale  si allacciava con  via A.Saffi (via C.Rolando) passando dietro la villa di piazza Montano.    Nel tratto che manca, proseguendo la strada verso ponente, a sinistra dopo via U.Rela, c’erano vaste stalle che davano il nome alla zona: “le stalle”. I carri erano  mezzi di locomozione ancora assai usati in città per i trasporti di ampio materiale specie dal porto e nell’interno cittadino; parcheggiavano nell’aia di casupole con scalinata esterna per salire al secondo ed ultimo piano. Erano ancora esistenti nel dopoguerra ‘45 e furono distrutte in seguito per costruire il civ. 50 di via A.Cantore.

   Da Lamponi, vengono ricordati (e nel Baraccone del Sale fu pure allestita un mostra tematica) alcuni carrettieri di quell’epoca (dal 1920 al 1960 e più) come i busallini Salvarezza, Settimio Rossi ed un certo Rebora a cui morirono sei cavalli in un incendio ed i colleghi si autotassarono in colletta per aiutarlo: il nostro concittadino Giovanni Rebora (sampierdarenese di nascita e residenza dal 1932, morto a 75 anni a causa di neoplasia. Cresciuto vicino al mare con i nonni, vantava le origini umili e ‘periferiche’. -Da giovane andò a lavorare all’Eridania per pagarsi gli studi fino alla laurea in Storia economica (facoltà di Economia) e poi - quale tema preferenziale- anche docente di storia agraria-alimentare medievale (facoltà di Lettere); infine anche direttore del Dipartimento in via Balbi 6

Fisicamente alto, dinoccolato, con qualche competenza di arti marziali, aveva con tutti un atteggiamento a seconda sornione-sarcastico-bonario, estroso, ironico anche contro il male, bonario e salacemente sferzante nel valutare i rapporti della gente col cibo come mode alimentari e diete.. Simpatiche battute dialettali (difendeva il dialetto sino all’ostentazione anticonvenzionale usandolo a lezione, nelle conferenze e persino agli esami ove assumeva comunicativa ‘assai poco baronale’. Faceva conferenze da storico documentato achivista con rapporto vita vissuta ed alimentazione   (il pesce, poco apprezzato; la carne che costava meno della frutta perché quest’ultima arrivava da lontano; i piatti ‘poveri’ che tali non sono come i funghi e le chiocciole; esecrazione delle eccessive lodi ma economicamente pesanti del lardo, dei polpi, dei tartufi) o pubblicava libri sul tema (Colombo a tavola; La civiltà della forchetta). Politicamente antisavoia e repubblicano dell’antica Repubblica; poi di sinistra (iscritto al PCI) dal quale              se ne distaccò disincantato rimpiangendo le figure antiche del partito e prendendo la distanza dai nuovi giochi di potere. Dalla moglie Anna, ebbe due figli maschi.

La dinastia dei Rebora ha radici molto antiche originari dell’entroterra (Langasco, Campomorone, Isoverde) che da coltellinai giravano il Piemonte (Ovada) fino ad arrivare a San Pier d’Arena a fare i trasportatori, ferraioli (falci, zappe, ecc.) e pastai.  Lui era nipote di Giuanin (nonno) e di Giulin (zio), che col tombarello facevano la spola con sassi e terra destinati a riempire il porto (dove poi il primo spiazzo fu utilizzato ad aeroporto ed hangar con 4-5-velivoli Caproni di tela dalle doppie ali). Anche il padre ‘Giuletto, detto o negrin’ faceva il carrettiere e morì qualdo il figlo aveva solo 14 anni (con carichi di caffè dal porto franco) e durante la 2ª guerra mondiale ebbe sequestrati sia i fratelli che i cavalli - questi ultimi, portati a Novi, morirono in breve di stenti e cattiva gestione). Oltre i tombarelli, usavano i tamagnoni (pianali) carretti (per ortolani), carri (per funerali, e merci varie), diligenze (nel 1978 ne fu esposta una alla stazione di Principe che faceva servizio sui Giovi prima di essere soppiantata dalla ferrovia). Era una categoria a cui spettava tutto un vocabolario specifico e caratteristico dei secoli di mestiere (dai banali zoccoli e redini, alle mangiatoie ed abbeveratoi in pietra, finimenti, orpelli e selle); divisa fatta di casacca rigidamente sempre blu – detta brodda – e pantaloni neri; soprannomi (Pietro o perdibraghe, Picaggia, Balle sciocche

  

 

Sulla destra di questo tratto, dove ora è la via A.Cantore, in piena “zona Mercato”,  c’era dapprima il bugnato ingresso della Villa Doria ora sede della suore di don Daste (vedi salita Belvedere e via A.Cantore); e subito dopo  l’ORATORIO DELLA MORTE ED ORAZIONE, ora demolito.

   Sappiamo che una confraternita, chiamata  “N.Signora della Cintura” era nata nel 1665 (altri dice 1669) presso la chiesa della Cella, ed ivi  ospitata ancora nel 1749 in una  propria sede presso il chiostro posto dentro il convento degli Agostiniani. Lì rimase fino al 1759 quando i vari confratelli desiderando dividersi dai sacerdoti che volevano trasformare il loro oratorio in teatrino parrocchiale, si allontanarono dal convento cercando sempre nella zona Mercato una casa ove fosse annessa una cappella: trovata, la comperarono dall’abate Nicolò Spinola dopo averla sfittata dai fratelli Marchelli; vi stabilirono la nuova sede mutando anche nome societario, con autorizzazione romana, in quello su scritto in titolo, dedicando il proprio compito ufficiale all’assistenza ai moribondi specie quelli poveri,  e procurare loro le onoranze funebri con i minimi riti necessari.

 a destra della palma, la facciata

foto Pasteris 1936

   Nel 1772, quando era Superiore della Confraternita tal Lorenzo Mongiardino, su disegno dell’arch. Giuseppe Scaniglia di Francesco, trasformarono la casa in Oratorio, con nuova facciata di stile corinzio. Finito l’edificio cinque anni dopo, il 6 febbraio 1777  fu benedetto da mons. Carlo Orazio Marchelli, uno dei fratelli suddetti?, arciprete di San Pier d’Arena, e dedicato al ‘SS. nome di Maria, “Urbis Patrona”’. A novembre dello steso anno furono benedetti i due altari laterali.

   Nel 1846, ad opera dell’arch. Angelo Scaniglia fu ampliato, costruendovi un coro posteriore a forma semicircolare, e  un presbiterio in stile con la chiesa.

L’interno era con tre altari, e sopra il maggiore di essi era una statua in marmo dell’Immacolata,  dapprima attribuita allo scultore francese Pietro Puget e poi riconosciuta opera di Filippo Parodi, conte; ricuperata dalla cappella Rolla appena distrutta; attualmente nel museo della Cella;  gli altri due altari  laterali (benedetti il 1 nov.1777), erano dedicati uno al Crocefisso (Passione di S.N.Gesù Cristo), e l’altro alle Anime purganti  (questo fu eretto a spese personali di Francesco Scassaro, mentre un altro confratello, tale GB.Rapallino, lo fece abbellire con stucchi ed un  quadro del santo Francesco da Paola).

Fu sempre custodito da un sacerdote, obbligato alla missione sacerdotale di evangelizzazione, ed a due messe nei giorni festivi .

Nel 1890 esauritasi la comunità e cambiate le celebrazioni funebri, la chiesuola


 

ebbe una diecina d’anni di inutilizzazione; finché, subentrato

padre Giordano Nicola (o Nicolò), già cappellano della famiglia Rolla (che aveva una cappella nella zona dell'Ansaldo ed andata distrutta per erigervi lo stabilimento), fu aperta al culto popolare attirando


ben presto i favori della cittadinanza sia per la comodità dell’ubicazione sia per l’idilliaca carica umana e semplicità che il sacerdote emanava (nato a SPdArena il 21 ottobre 1852, battezzato il 24 alla Cella. Dopo il Seminario, celebrò la prima messa nel 1875 e dopo breve diaconato nell’oratorio di san Martino, fu inviato prima come diacono a s.Biagio, paesino alle pendici della Guardia, poi per dieci anni parroco a Marsiglia in val Bisagno. Tornato a SPdA fu incaricato essere cappellano titolare sia della famiglia Rolla-Rosazza nella cappella omonima vicino al Polcevera (sino alla demolizione fatta da parte dell’Ansaldo; forse a compenso di questa demolizione, fu incaricato dall’arciv.Pulciano di fondare a Campi – allora rione un po’ abbandonato – la chiesa di s:Maria Immacolata di Lourdes). In San Pier d’Arena prese cura sia dell’Oratorio Morte e Adorazione di via Mercato, inserito nel territorio della Cella e dove poco alla volta acquistò la fama del sacerdote dei poveri, degli ammalati e moribondi e dei mangiapreti; sia delle orfanelle di s.Anna e nell’educandato delle suore Pietrine. Con questa veste, già dal 7 gen.1909 era anche sacerdote dell’ospedale civile (in villa Masnata) in forma gratuita e continuando volontariamente per oltre trent’anni (Olivari scrive 20), anche quando l’Amministrazione soppresse l’incarico ufficiale.  Nel 1928  fu riconfermato  direttore spirituale onorario  all’ospedale di  villa Scassi.

Nella maturità, lo sconvolgimento territoriale e la guerra arrivarono a distruggere il suo habitat: prima la cappella Rolla (per allargare via Degola), poi la Cappella Morte e Orazione (per fare via Cantore - vedi poco sopra); poi ancora l’espulsione definitiva dei sacerdoti abitanti nell’ospedale locale;  e non vide per poco la distruzione dell’Oratorio di s.Martino – da lui gestito – disintegrato da una bomba  nel 1942; per un tempo andò a vivere opite di don Minetti in san Teodoro, vico dello Sparviero.


Opuscolo scritto da sac. Fortunato Cordiglia, arciprete di Mignanego, il 24 maggio 1925  in ricorrenza dei 50anni di sacerdozio di don Giordano ricordando che iniziò il 22 maggio 1865, festeggiato dai soci dell’Oratorio di san Martino e da don Daste. In esso si accenna alla volontà materna di avviarlo al sacerdozio quando lui era ragazzino, e fu allora benedetto da Padre Santo. 


Oltre alla sua fondamentale missione sacerdotale, due appaiono prevalenti gli indirizzi del suo operato: uno, quale ‘operaio della chiesa’, si trovò coinvolto non sottraendosi,  per salvaguardare il lavoro della povera gente, in quegli anni di travolgente trasformazione in città industriale ma con troppo spesso licenziamenti o arrivi da tutta Italia di poveretti senza casa o ammalarsi senza assistenza, in un clima generale poco favorevole agli uomini di chiesa (anzi genericamente malvisti ed avversati da anarchici ed estremisti anticlericali più o meno associati, in un periodo in cui anche la Chiesa romana faticava a riprendere il passo vicino alla trasformazione sociale (don Sturzo e padre Gemelli –come esempi). L’altro fu, come don Daste per le bambine, anche “Praê Giordan” era  conosciuto, per l’assistenza che forniva ai giovani maschi rimasti orfani o comunque soli: sovvenzionato da alcune facoltose famiglie locali, aveva istituito una specie di collegio per gli orfani, con lo scopo di avviarli al lavoro.

Guadagnandosi lo spazio poco alla volta, alla fine tutta la cittadinanza sampierdarenese circondava il sacerdote di unanime rispetto e  venerazione.

Da una relazione del presidente dell’ospedale Gais,  del 1925, si legge:non esiste una persona che non conosca le opere di zelo e di assistenza e la carità veramente evangelica del simpatico sacerdote di Cristo. Tutti, anche i miscredenti s’inchinano all’esemplare vita del vecchio nostro concittadino che... profonde i tesori del suo cuore nobilissimo in opere benefiche che vanno dall’Assistenza spirituale...a quella materiale specie a favore dei poveri ragazzi senza tetto e senza guida....tutta San Pier d’Arena lo  ammira e venera...con qualsiasi tempo ed in qualsiasi ora del giorno e della notte don Giordano  nonostante i suoi 75 anni suonati, ascende questo colle e reca il conforto della parola cristiana a chi si accinge al grave passo! Il suo nome è benedetto da tutti i tribolati ...”

Morì all’ ospedale,  il 23 gennaio1941.  Le esequie, dalla Cella, non furono seguite da molti, perché volle scomparire in silenzio, come era vissuto; quindi molti ancora lo ricordano ma poco sanno nei particolari della sua vita. Solo don Raffetto –parroco della Cella- narrò che quando fu ricoverato ebbe parole di semplice meraviglia nel constatare che, da quando aveva detto la prima messa ‘la superiora gli aveva fatto indossare una camicia da letto nuova, senza rammendi e pulita’.

Don Giordano dovette superare non banali difficoltà burocratiche: l’edificio era proprietà della confraternita e non della Curia come pressoché tutti gli edifici religiosi, per cui il prete dovette sobbarcarsi il pagamento delle tasse arretrate (in virtù della legge dell’uso capione*** l’aver pagato per 25 anni l’affitto o le tasse avrebbe potuto far vantare diritti di proprietà, ma il sacerdote non ne fece mai uso, e lasciò alla Curia i diritti sull’immobile); e poi delle successive rette.

L’ Oratorio fu acquistato dal Comune negli anni 1930, previo accordo con la santa Sede in base al Concordato: il sacerdote venne ‘pensionato’ con una modestissima rendita che gli permise il ricovero in un istituto religioso; la cifra di mezzo milione di allora fu consegnata alla Curia nelle mani del suo incaricato mons. Marchesani; gli arredi (organo, quadri, drappi) trasferiti nell’istituto don Minetti (a Genova, in largo san Francesco da Paola; escluso la statua dell’Immacolata trasferita alla Cella); l’edificio   subito distrutto per consentire il prolungamento di via A.Cantore ormai già completamente strutturata ma non ancora aperta al traffico  per via dell’ultimo ostacolo frapposto, quando direttore sino alla demolizione, rimase   padre Giordano

 

DEDICATA al sacerdote sampierdarenese, nato il 02 mar.1820, da Giovanni Battista e da Giulia Parodi, in una casa di via san Cristoforo, ora scomparsa.

Il cognome D’Aste ha origini antichissime rapalline; e ritroviamo documenti genovesi che risalgono al 1180. Negli anni successivi, abbiamo dei D’Aste calzolai; teologi nel Concilio di Trento; nobili negli anni del 1567 ascritti ai Cicala; cardinali; senatori.

Nell’escursus del tempo, con documenti scritti a mano, D’Aste spesso diventa Daste. 

Non credo sia stato trovato l’atto di nascita. Però lui si firmava Daste.

Di famiglia operaia benestante, il giovane crebbe con la sorella primogenta Maria Isabella (1814-1889) ed il fratello Giacomo, e poi  con gli insegnamenti della madre dapprima, e di sacerdoti dopo  (all’Oratorio di san Martino, con don Galliano, imparò il latino; all’Oratorio della Morte con don Bartolomeo Ansaldo, ricevette altre nozioni culturali, matematica ed italiano in particolare, e di pietà; era così bravo discepolo che fu avviato alla Prima Comunione a 10 anni –cosa non comune a quei tempi);  nel tempo libero aiutava il padre (questi -falegname di alta qualità- riceveva ordinazioni per lavori importanti ed era quindi sufficientemente remunerato da avere una casetta propria, cosa peraltro abbastanza rara a quei tempi tra il ceto popolare. Tra i tanti impegni viene ricordata la sua attività di artigiano benemerto nel Santuario di Belvedere e nella costruzione del teatro Modena, ottenendo come risarcimento dell’ onorario dovuto, due palchi. Morì quando il ragazzo aveva solo 15 anni, bloccando ogni iniziativa che potesse allontanarlo dal dover mantenere la madre ed i fratelli);



   

 

 lavorò pure in una fabbrica locale di tessuti stampati (specie i famosi mezzari, e forse nella fabbrica Testori). Perduto il padre, proseguì sotto la direzione di uno zio –definito alquanto burbero e dispotico- il suo inserimento nel lavoro artigianale, prendendosi cura di un fratello minore e di una sorella maggiore. La madre morì nel 1842 quando Nicolò aveva 22 anni.

   Ma il lavoro manuale, seppur affrontato con il massimo impegno per altri 18 anni, non era all’apice dei suoi interessi: lo vediamo sempre più spesso essere presente nel tempo libero come chierico,


fabbriciere o segretario nella chiesa cittadina della Cella ove frequentava le congregazioni del S.Rosario, del SS Nome di Gesù, o alla Dottrina; nonché in Confraternita nell’oratorio di san Martino ed in quella ‘delle Anime’. 

                                   

 

Fu allora, probabilmente, che maturò l’idea della prevalente devozione alla “Divina Provvidenza” quale appiglio a cui aggrapparsi e da insegnare, invocare, pregare, quale collante nella catena Dio-offerta-uomini: “Dio per dare agli uomini i serve degli uomini,  tramite la DP; così alla fine gli uomini danno; ma è la DP che ha fatto sì che loro diano”

   Così, seppur  tardivamente, solo a 40 anni fece esplodere una travagliata vocazione, desiderata ma sempre oppressa per altre scelte di più immediata apparente importanza. Decise quindi nell’agosto del 1860 la via del sacerdozio, abbandonando il lavoro presso lo zio ed il fratello che continuavano l’opera paterna.

    Risultando tardi per entrare in seminario, per la formazione teologica provò a rivolgersi all’insegnamento del sac. Vincenzo Carlini allora parroco di Masone e custode della cappella gentilizia nella villa Rostan a Multedo: come suo discepolo trascorse solo 4 mesi, quando sentì il bisogno di avere basi più solide: preferì trasferirsi alla Certosa di Rivarolo ospitato in due stanze dal medico Garello sperando apprendere dal parroco –un suo omonimo- di più, della lingua latina e filosofia; ma anche qui, fu subito ‘sfruttato‘ quale fabbriciere e soprintendente ai lavori per cui preferì cercare –accettando un periodo di prova- presso la chiesa di san Pancrazio assumendo l’incarico di inserviente. Ma alla fine ritornò da don Carlini per affrontare i temi della teologia, ospite nella villa Rostan: qui, rientrato in sintonia, riuscì a concentrarsi nello studio e rafforzare la chiamata, fino a che tutto si completò a 46 anni, nel 1866: dopo un ritiro a Campi dai frati Cappuccini, subì la cerimonia dell’abito talare, la tonsura e gli Ordini Minori (da mons.Filippo Gentili, vescovo di Novara in quel tempo alloggiato a Genova nel suo palazzo patrizio). A questo, seguì la promozione a suddiacono (da mons. A.Charvaz), e poi  a diacono (a san Michele di Pagana da mons Pallavicino).

   Infine  fu ordinato sacerdote a 47 anni, il 24 giu.1867, (festa di san Giovanni Battista);  e la prima messa fu da lui celebrata il 29 giugno  (festa di san Pietro) alla Cella, dove rimase  ad esercitare il suo ministero, irradiando quel fascino e carisma che lo accompagnerà per tutta la vita sacerdotale: un potere irresistibile che accomunò nel giudizio ed ammirazione poveri e ricchi, credenti e non (SPdA era ‘roccaforte del socialismo, con forti matrici anarchiche e quindi anticlericali; ma non era il credo politico che faceva fare differenze nell’essere disponibile sempre ed a tutti. La gente ‘sentiva’ che lui era al di sopra della politica).

   L’anno dopo, madre Angela Massa delle Franzoniane (era Madre superiora del convento, ove già da più di cent’anni (dal 1751) era prioritario l’interesse del problema specificatamente coinvolgente la classe sociale degli operai; e della loro famiglia, sopratutto le orfanelle, divenute prive di qualsiasi sostentamento sociale, affettivo ed educativo): non avendo consorelle a numero sufficiente per gestire l’istituto, si affidava a pie coadiutrici esterne come la concittadina Apollonia Dellepiane animata di carità ed ispiratrice dell’iniziativa di occuparsi in casa sua di nove fanciulle rimaste orfane di operai concittadini deceduti). Dovendosi trasferire a La Spezia, cercò come affidare l’organizzazione delle 12 orfanelle che teneva riunite. Si rivolse dapprima al direttore don PietroPaolo Gallo –e questi rigirò il problema a don Daste.

   Possiamo immaginare  la personale sensazione di incapacità ed impreparazione: un incarico impari alle sue modeste capacità. Ma impossibile dire no. La Divina Provvidenza lo avrebbe aiutato.

 

   Così, don Daste, caricato dell’onere totale del mantenimento di questo impegno, coadiuvato dalla stessa Dellepiane -divenuta suora- e da altre animatrici come suor Caterina Cipollina e suor Ghio Giulia, dapprima le portò in angusti locali di via san Bartolomeo, poi in via Bombrini, via Goito, piazza Capitan Bove (in palazzo Boccardo) ed ultimo, quando le ragazzine erano diventate 30 o 40, in via Mameli (cioè via Carzino, nella casa di proprietà del principe Centurione; questi volle venderla al sacerdote per una minima cifra (25mila lire), che fu raggranellata con la vendita dei palchetti del teatro Modena e l’aiuto di benefattori).

   Al sacerdote -in base alla regola dettata per prima “al bambino è dovuto il massimo rispetto”- toccò questuare, educare, alimentare, vestire.

Ma per lui non era problema il proporsi quotidianamente agli altri nella maniera più umile, facendosi riconoscere ovunque come il “poverello di San Pier d’Arena” ed accumulando aneddoti della sua bonaria, disarmante semplicità  e visione ottimistica della vita (oltre il colera nel 1886 ed il  terremoto del 1887 -nel ponente ligure, con Bussana distrutta-, si dovette affrontare la miseria quotidiana di tanta gente in una città in piena trasformazione sociale: sono anche gli anni di San Pier d’Arena appena riconosciuta città, di don Bosco attivo a san Gaetano; ma anche gli anni in cui i ricchi borghesi che gestiscono il potere al posto degli aristocratici, decidono per l’industrializzazione, e si scontrano con le masse degli operai sfruttate e anelanti a nuovi migliori diritti, primo tra tutti la protezione dei più deboli). Schierandosi apertamente dalla parte dei disperati, ne assunse tutti gli oneri, anche se apparentemente preziosi solo allo spirito; ma -riuscendo a creare nei facoltosi il bisogno alla carità- ottenne così il contemporaneo plauso di ambedue le classi sociali. I suoi fagotti raccoglievano tutto il possibile, ed in tutto il circondario genovese (arrivava a Ronco, a Gavi, in riviera; quando tornava, per concessione amministrativa locale passava liberamente senza pagare il dazio; anzi a volta gli veniva aggiunta altra merce sequestrata) per migliorare la sua casa ove mancava tutto, dalle seggiole ai letti, dal fuoco per l’inverno al cibo quotidiano. Gli aiuti più vicini, nel limite, arrivavano dal parroco della Cella don Francesco Olcese, dal vescovo (prima mons.Andrea Charvaz, poi Salvatore Magnasco ed infine Tommaso Reggio), dal Comune (il sindaco Federico Malfettani e l’assessore -il pittore Orgero- promossero ed ottennero dal Consiglio una retta fissa  tratta dal bilancio comunale, idonea ad aiutare l’istituto), dalle varie  Società Cooperative (che seppur di idee differenti, non facevano mancare generi alimentari), dalla stessa UITE che lo faceva viaggiare gratis. Era divenuto un prete speciale, un prete che applicava il concetto di povertà  andandola a cercare nella strada e portandosela a casa; non faceva questua ma offriva umilmente se stesso per ottenere la carità: questo suscitava rispetto non solo nei benestanti quanto soprattutto in tutti coloro che come lui dovevano lottare per sopravvivere e che -malgrado ciò- lo eleggevano non concorrente ma nobile alleato da rispettare.

   Gradatamente realizzò nuove regole di vita per sé e per i propri collaboratori, dando inizio ad una nuova Opera ed alle Figlie della Divina Provvidenza, con regole nel 1873 (e poi riscritte aggiornate nel 1916, 1950, 1982); devozione particolare alla Madonna onorata sotto il titolo di N.S. della Divina Provvidenza la cui festa solenne cade la seconda domenica dopo l’Epifania. Patroni dell’opera sono san Gaetano da Thiene (1480-1547, il santo della Provvidenza), san Girolamo Emiliani (1486-1537, detto padre degli orfani); sant’Angela Merici (1470 ca-1540 una delle prime a raccogliere le orfanelle) e sant’Orsola martire; gli abiti debbono essere i più semplici e modesti; requisiti fondamentali l’umiltà, l’affetto da donare ed un’instancabile operosità.

Dal 1887 compaiono delibere della Giunta comunale mirate ad esentare del pagamento del dazio per l’Istituto, da pagarsi all’’inroduzione di generi alimentari diversi’.

   Nel 1891 il sacerdote presentò domanda poter murare, sotto la nicchia esistente nell’angolo nord del palazzo, “una tavola sostenuta da mensolette di ferro e ornata all’intorno con una mantovana metallica”: sulla quale poter apporre fiori, candelieri o  paramenti. Il tutto corredato di progetto dell’ing. Salvatore Bruno. Il parere della Giunta fu positivo. Ma nulla si rivela circa la statua contenuta nella nicchia.

   Il 6 dic.1892 aprì una casa anche in Sestri Ponente, cittadina dallo sviluppo tumultuoso dei cantieri e dell’industria, e per i giovani precaria come San Pier d’Arena, affidata alla direzione di suor Agnese Morasso. Pochi mesi prima, il re UmbertoI, in visita a S.P.d’Arena, o aveva lodato e gli aveva fatto pervenire una offerta in denaro.

   Dopo un intervento agli occhi per cataratta, nell’inverno si pose a letto e morì settantanovenne poco prima della mezzanotte del 7 febb.1899.

La giunta comunale nelle figure del sindaco F. Malfettani e dell’assessore Orgero (che tante volte l’avevano aiutato anche con donazioni  personali),  riunita d’urgenza deliberò all’unanimità lutto cittadino con la bandiera a mezz’asta, le spese per il rito funebre e un posto distinto al cimitero della Castagna. Infatti, la mattina seguente, in Comune avvenne una seduta straordinaria, per commemorare la contemporanea dipartita del prete e dell’ing. Nicolò Bruno. Per il prete, la relazione scrive che il sindaco Federico Malfettani “alzatosi in piedi, pronuncia le seguenti parole: signori Consiglieri, la vostra Giunta...commossa da tanta sventura, che rapiva persona sì eletta, da tutta San Pier d’Arena rimpianta, che sol visse di carità, per il bene dei sofferenti; il sacerdozio esercitando evbangelicamente, affatto mondo da terrene intenzioni; tutte le sue sostanze, tutte le sue cure e fatiche erogando per il sostentamento dell’Opera pietosa da Lui fondata; dalla quale da anni traggon pane e vita morale tante povere fanciulle derelitte; la vostra Giunta, onde render solenne tributo di stima e di amore a cotal angelo di bontà; a chi serenamente moriva in aureo vivido cerchio da tutti benedetto, interpretando i vodstri sentimenti, qui decise radunarvi per sottoporre alla vostra approvazione le proposte alle disposizioni pei funerali cui è caso: Vi propone quindi oltre all’aver già provveduto che la bandiera di tutti gli stabilimenti  comunali sventoli per quattro giorni abbrunata, di assegnare una tomba d’onore nella cappella del cimitero civico alle spoglie venerate”. Presero parola vari consiglieri tra i quali il geom. Pietro Giacomardo che espresse il parere dare titolazione al prete per tratto di strada sino ad allora detta ‘via Mercato’; altri che promossero non lasciar morire l’opera del prete, sussidiandola; lo stesso Pietro Chiesa socialista, propose “ascrive a mio dovere l’affermare che le proposte della Giunta onorano ogni partito che simboleggi la carità, il sacrificio, il lavoro. Quando un uomo come don Daste muore povero, mentre povero non era quando intraprese il suo apostolato, è debito civile onorarne la memoria”.

    Non fa stupore quindi che ai solenni funerali, partecipò tutta la cittadinanza, con tutta la municipalità ed autorità genovesi e delle delegazioni limitrofe. La messa fu celebrata dal parroco delle Grazie, don Costantino Zenega; il carro – di prima classe - fu offerto dalla ditta Robba. Continuò così la gara ad ancora ‘dargli qualcosa’ che potesse soddisfare l’esigenza interna di tutti di essere stati vicini all’ “Uomo più grande di SanPierd’Arena”.

Tutta l’opera del piccolo prete, con la sua morte ebbe un ‘rialzo di quotazione’: lo stesso Consiglio comunale nel marzo successivo convenne sulla “utilità che ne deriva alla città dell’esistenza dell’Istituto della Piccola Provvidenza (sic)”, e prospetta “convenienza del Comune al concorrere al miglioramento di detto istituto nell’interesse generale della Cittadinanza...”. Cosicché altre case furono aperte in Prà (1932), in alcuni asili parrocchiali (1946) ed in India (1979). Assunse le redini della casa quale direttrice suor Clotilde Pavan (probabile già colaboratrice e facnte arte del comitato pro-lapide),  mentre fu sostituito come direttore dell’opera  da don Anacleto Cotta.

 

   Datato 20 genn. 1901, un comitato composto da una ventina di cittadini si propose - davanti a notaio - sobbarcarsi l’onere di porre una lapide nella facciata del palazzo dell’Istituto in via Mameli (vedi anche via Carzino).

   La cosa si realizzò nel 1905. In occasione dell’inaugurazione della lapide (il marmo era stato disegnato dall’ing. Sirtori e donato dal cav. Mazzino - vedi descrizione a ‘via G.Mameli’ e ‘S.Carzino’), fu a lui intestata anche la strada adiacente. 

L’ing. Pietro Sirtori, faceva parte del comitato per l’applicazione della lapide del prete don Daste in via Mameli (Carzino);  era esponente politico nella Giunta, rappresentante il Partito Popolare fondato da don Sturzo; in quanto assessore ai Lavori pubblici, era stato progettatore del Piano Regolatore  che prevedeva – tra l’altro - una grossa strada centrale (v.Cantore) ed una a mare (Lungomare Canepa) le quali, allora, non furono realizzate per l’assorbimento nella Grande Genova; dopo la devastazione fascista -1924- sia del Circolo della Gioventù Cattolica intitolato a Giosuè Borsi (vedi via Carzino) che della Cooperativa di Consumo intitolata a Giuseppe Toniolo, diede – assieme a suoi quattro colleghi di partito  (Bono, Ferrea, Penna, Platone) - le dimissioni (ottobre) dalla civica amministrazione, malgrado le formali scuse de Direttorio fascista locale.

Il 13 genn.1905 il sindaco N.Ronco fece assegnare definitivamente la tomba del sacerdote; il feretro, dopo le dovute riparazioni (effettuandosi la cerimonia in forma solenne) il 7 aprile fu traslato dal Pronao (ove era nel posto n° 22) al ‘suolo della Chiesa’... ‘più vicino all’altare della Cappella’, sulla quale  fu collocato un cippo molto semplice, dello scultore Giuseppe Frondoni, recante la scritta “sac. Nicolò Daste - benemerito fondatore del Pio Istituto della Provvidenza - 1820 - 1899 “ e soprastante, un tondo con olio raffigurante il sacerdote, curato dal pittore Angelo Vernazza.

   Il 6 luglio 1924, dopo 25 anni dalla morte, a cura di don Davide Lupi e con autorizzazione e origanizzazione del sindaco Manlio Diana, la salma fu  novamente traslata con grande cerimonia (comprendente corteo, sosta e messa alle Cella, commemorazione al Politeama Sampierdarenese, trattenimento delle 150 orfanelle ospitate. Pubblicazione di una biografia) in una cappella della casa madre, ovvero nell’istituto ora a lui dedicato nella villa di salita Belvedere 2.  La tomba in marmo, fu disegnata e scolpita dal prof. Daniele Danusso, torinese.

   Il 20 magg.1965 le spoglie mortali del prete vennero nuovamente e definitivamente traslate in una nuova cappella (sempre interna nell’istituto ed aperta col generoso contributo di un imprevisto donatore, il prof. Marino Cortese zoologo: aveva suggerito ad una cliente di fare una donazione ad un istituto, questa scelse il don Daste ed dal successivo ringraziamento nacque la conoscenza e la donazione; nel 1962, durante i lavori di fondamenta, fu fortunosamente ritrovata una grossa bomba inesplosa. La cappella fu consacrata dal card. mons.G. Siri) ponendo  la grossa lapide sul lato sinistro del presbiterio (con la scritta : “ SACERDOTE  -  NICOLAUS DASTE   -  1820-…1899…..?”***) , di lato all’immagine della Madonna venerata dalle suore, dipinta dal francese Pierre Mignard e da lui chiamata “Vierge au grappe” (o drappe?)

   Interessanti voci, dicono -già dal 1992- di una proposta di beatificazione: si stanno ricercando testimonianze, informazioni narrazioni di eventi che possano portare alla valutazione dell’apposita Commissione vaticana; è comunque un iter lungo e minuzioso alla cui base occorre che la pratica sia corredata da precise testimonianze di un evento miracoloso accaduto a qualcuno dopo una sua invocazione; sarebbe un grande onore per San Pier d’Arena.