DASTE                                                 via Nicolò Daste

 

 

 

TARGHE:  (in verde, gli errori)

S.Pier d’Arena – 2764 – via – Nicoló  Daste – sacerdote-filantropo – 1820-1899

Via - Nicolò Daste – sacerdote filantropo – 1821-1884 – già via sant’Antonio                                          

 

                                                               

da stabilire dove è

  sommità di via Gioberti

 

via Giovanetti

 

Angolo con via della Cella

 

angolo con via Carzino (contenente quattro errori: ó, 1821, 1884, sant’Antonio)

 

QUARTIERE ANTICO:  da Mercato a Coscia                                         

da Vinzoni, 1757 – in rosso creusa dei Buoi; fucsia, via della Cella-sal.Belvedere; ocra, vico Stretto; blu, via Larga

 

N° IMMATRICOLAZIONE:   2764,    Categoria 2

      

Codice INFORMATICO della strada - n°:   21420

UNITÀ URBANISTICA:  26 - SAMPIERDARENA

                                            28 – s. BARTOLOMEO

 da Google Earth, 2007. Da rossa, via S.Canzio a fucsia via Palazzo della Fortezza.

 

CAP:   16149

PARROCCHIA:  NS della Cella

STORIA  DELLA STRADA:         ai tempi dell’impero romano (come già detto per la strada ‘via Aurelia’ (vedi), con Genova racchiusa nelle sue mura dove ora è Santa Maria di Castello, che solo nell’anno 1155 arriveranno a porta dei Vacca; e solo dopo il 1320 alla porta san Tomaso di piazza del Principe) i militari o i carovanieri diretti al nord o all’ovest,  arrivati  nella zona dell’attuale piazza Di Negro, trovavano più semplice salire agli Angeli, allora collina senza nome specifico, piuttosto che raggirare la scogliera di san Benigno; da lassù poi, costeggiare in alto  per scendere a Rivarolo tramite via Pietra l’attuale salita V.Bersezio. La sottostante spiaggia, lunga e bella, era praticamente ignorata, deserta o abitata solo da qualche sprovveduto e singolare pastore amante della solitudine, ma a rischio di assai brutti imprevisti (difficoltà di scambi, ma anche pirati, saraceni, sbandati, ecc.).

   Dall’alto dei colli, allora la via più frequentata, potevano scendere alla spiaggia, solo tramite le attuali salita Belvedere o salita S.Rosa, abbastanza scomode e ripide da non favorire, anzi scoraggiare, l’afflusso sia dei pellegrini che dei carovanieri di passaggio.  Molto lento fu quindi l’aumentare di questi contadini-pastori stanziali, in virtù dei quali nacque l’embrione e poi l’espandersi del nostro borgo.

   Si presume lentissima quindi l’evoluzione residenziale se, solo vicino all’anno mille,  iniziò a dirsi popolato da sette-ottocento anime, agglomerate più o meno vicine, e facendo assumere all’abitato una forma allungata parallela al mare e fiancheggiante l’unica via spontaneamente creatasi che la percorreva parallela al mare: la via centrale; nella sostanza una strada non tanto in alto da dover salire e scendere, non troppo vicino alla spiaggia soggetta ai marosi. Così si strutturò spontaneamente questo primo tracciato nell’antico borgo, il quale però, quando arrivava ai tre estremi si fermava drasticamente (a est, alla Coscia con l’aspra scogliera di san Benigno; a san Martino dalla parrocchia; al Torrente, nel punto più largo e non sempre in secca). Le comunicazioni col mondo esterno erano tutte con difficoltà: o traversare torrente e acquitrini, o salire, o scavalcare la roccia, o remare.

   Quando  aumentò per la Repubblica la necessità di navigli: la spiaggia divenne comodo centro di cantieri navali, fino ad essere scelta quale cantiere principale e posto di esercitazioni  navali e terrestri  (per Genova, la costa di ponente ‘fuori mura’ – da porta dei Vacca a san Benigno - era anch’essa piuttosto rocciosa e con scogliera frastagliata; non come la nostra piatta, sabbiosa e rapidamente profonda; inoltre la nostra era posta alla confluenza con il nord ed il ponente, ambedue  punti di arrivo via mare e via terra del legname).

   La necessità di erigere nuove case e la scelta di aprire chiese ed abbazie, Cella, s.Sepolcro (Monastero), s.Bartolomeo e Belvedere con Promontorio e quella parrocchiale in zona  san Martino, comportò allargare la strada, trasformandola da mulattiera a carrettiera.

1100 – Sul tema dell’insediamento, le crociate diedero  un impulso decisivo: il trasporto ed il ritorno di numerosi volontari, pellegrini-soldati, provenienti o diretti verso l’Europa centrale, sollecitò la produzione di centri di accoglienza (vedi la chiesa in piazza del Monastero), e di centinaia di navi. La prima forse, delle numerose immigrazioni e mescolanza di razze a cui questa delegazione è stata soggetta, per lavoro. Permise ai sampierdarenesi di crescere e divenire i migliori costruttori e calafati conosciuti a quei tempi: a loro -già organizzati in famiglie come i Coronata, i De Marini, i Vento, i Piccamigli, i Lercari, i Da Pelo, i Sambuceti, i Casale,  i B...cacci,-   si rivolsero anche i sovrani stranieri  (in particolare viene ricordato re Luigi IX di Francia, che scelse i Lercari).

1200 -   In pochi secoli  avvenne il primo intenso aumento di popolazione residente, portando il borgo ad avere un migliaio di persone. Misura  tale da permettere, dopo poche decine d’anni (ed è da allora che iniziano le testimonianze scritte) di essere già organizzato con una ben precisa struttura di comando, similare a quella esistente nella città vicina, di cui inevitabilmente seguirà le vicende tutte  (sono descritti al comando del borgo dei consoli: ricordiamo, probabile nobiluono locale, Alberto di Bozzolo; coadiuvati dal cintraco e con discreta autonomia dirigenziale. Già ben organizzati i servizi di guardia costiera, le gabelle, e la suddivisione in  quartieri: la nostra strada, posta al centro, era  compresa nella cosiddetta zona del Mercato o della Cella, confinante a ponente con la zona san Martino ed a levante con la zona Coscia). Fu forse allora che la strada divenne ’strada Comunale.

1400 -  E tale era ancora quando i ricchi nobili genovesi  iniziarono ad interessarsi della zona e del ponente in genere, per costruirvi comode e sontuose ville di vacanza  e villeggiatura che ancor oggi  ci arricchiscono in modo sommerso e sconosciuto ai più (in Liguria, solo noi e Sestri Levante, possiamo vantare l’onore di possedere il numero più elevato di ville patrizie dopo la città; col vantaggio per noi di averne di più che eccellono per ricchezza d’arte e di prestigio);  le principali di esse, si affacciano su questa arteria, piccola ma unica, e di enorme importanza per il borgo. Nel frattempo, si era lentamente formata anche una nuova parallela lungo la spiaggia, la ‘strada della Marina’. In questi anni, i signori genovesi, per arrivare qui o usavano il mare, o risalivano gli Angeli e scendevano da Belvedere o alla Pietra, con disagi non da poco.

Solo nel 1633, con l’erezione delle ultime mura di Genova, e con una strada spianata sulla scogliera raggirante la punta del promontorio di  san Benigno, fu progettata l’apertura della “porta della Lanterna” e, da essa, della ovvia discesa (questo tratto di strada, pur Genova vantandone il possesso, fu chiamata ‘salita alla Lanterna’ e non ‘discesa dalla-‘...) che sfociava da noi in uno slargo poi chiamato Largo Lanterna. Fu meglio strutturata anche una nuova strada a mare che probabilmente era già tracciata dall’uso quotidiano dei frequentatori della marina. Per chi arrivava proveniente da Genova quindi, dopo poche centinaia di metri dalla Lanterna, si proponeva un bivio: poteva scegliere se proseguire diritto  usando la nostra strada, attraversante l’interno  borgo, o usufruire dell’altra neoformata strada a mare, parallela alla nostra, necessaria per condividere lo sparuto e poco intenso  traffico stradale e commerciale.

   Sotto i Savoia, un loro regio decreto del 1857, ovviamente riconobbe la via - da san Benigno a san Martino - chiamandola genericamente “strada Superiore”.

   Ma ben preso a seguire, dopo solo pochi decenni, alle vie più importanti si iniziò a dare un nome personalizzato anche se non ufficializzato, in genere caratterizzato dall’evento che vi risiedeva di maggior significato popolare: infatti leggiamo che già poche decadi dopo - la nostra lunga strada era spezzata in più tratti ciascuno con nomi diversi: dalla Lanterna sino a via Larga (via Palazzo della Fortezza) il primo tratto era via DeMarini; seguiva ad esso il pezzo stradale denominato via sant’Antonio che arrivava sino all’incrocio con la crosa della Cella; continuato a sua volta  da via Mercato (sino all’inizio dell’attuale via C.Rolando; ovviamente via Cantore non esisteva. Alcuni testi la scrivono con ‘del’, altri senza: le prime targhe in genere non mettevano articoli o preposizioni); da questo punto  iniziava come terzo pezzo, o la via san Martino (verso il nord e la ex parrocchia) o verso il ponte, la via san Cristoforo.

La cultura di allora, per delimitare i vari tratti, più che  i nomi stessi delle strade tramandava il nome di proprietari di case d’angolo;  così via sant’Antonio era compresa tra villa Grimaldi (la Fortezza) e casa dei fratelli Monticelli (la villa Serra, all’angolo con via della Cella); e, da qui, la via Mercato era sino a casa Ferrando (molto probabilmente un palazzo ora demolito che faceva angolo dell’attuale via Dattilo in terreno che nella carta del Vinzoni era degli Spinola).

Popolarmente è stata anche chiamata “via delle ville artistiche”.

   Con la morte del venerato don Daste (1899), il Municipio (e, in esso, per primo l’assessore Giacomardo Pietro - sull’onda della vastissima emozione, dimostrata con l’alta affluenza di folla e nobiltà alle esequie - tutto proteso a commemorarne il nome ed il ricordo, decise di  eliminare il nome antichissimo di via Mercato  (che poi scomparirà ufficialmente con delibera del podestà nel 19 ago.1935) ed affidare il corrispondente tratto di strada – da via della Cella a via Nino Bixio (tratto interno della crosa dei Buoi, oggi scomparso in quanto inglobato in piazza N.Montano) -  al nome del sacerdote, ma con l’errore di scriverlo con l’apostropofo ‘via Nicolò D’Aste’ (così come però era da sempre scritto negli atti comunali e che - dopo il 1915 - sostituirà definitivamente anche il tratto a levante chiamato  via sant’Antonio,  dedicandolo al “generale A.Cantore”, e facendo scomparire definitivamente anche la dedicata al santo. Sappiamo che il Comune nostro è sempre stato laico e platealmente di sinistra, anche estrema - visto  la miscela politica con gli anarchici prima della scissione: i santi, quando poteva, li eliminava dalle vie, che erano state così denominate per scelta popolare e per l’esistenza di corrispettive abbazie o chiese: s.Antonio, s.Antonino, s.Martino, s.Cristoforo, ecc.; vedere anche la protesta del parroco di Promontorio).

   Immutata la situazione ancora nel 1910, quando la strada, già delimitata completamente da palazzi i cui civici raggiungevano il 34 ed il 23, si legge essere riconosciuta per il tratto confinato tra “via  Cella e via san Cristoforo”.

   Ancora nel 1925 è scritta “D’Aste”; ricordando che allora era da via della Cella a ponente. 

   Nel 1927 il Comune di Genova la include nelle sue strade, scrivendo ancora scorrettamente  ‘via D’Aste Nicolò’, di 4a categoria.

   Subito dopo il 1935, con l’apertura della attuale via A.Cantore, la targa dedicata al generale alpino venne trasferita in questa nuova grande arteria, e il nome giusto  Nicolò Daste  ne prese il posto, prolungando quindi la dedica sino all’altezza del  Palazzo della Fortezza:  come è oggi.

   Paradossalmente, nel Pagano/1940 la strada non compare nello stadario, né con l’accento né senza; e tutto il percorso da via L.Dottesio a via A.Cantore è chiamato ‘via del Mercato(vedi); con civici da 1 (scuole) a 33 (privati); e da 2 a 28 (con civ.4 pastificio Rebora, e 14 abitaz.  del comm. M.Diana (villa Crosa)). Ritenendo errata questa informazione, metterò ai civici sottoscritti la descrizione di quanto rilevato.

    Nel 1987, da una commissione di esperti facenti parte di un fantomatico ‘club dei Pignoli’, ricevette l’Oscar del degrado stradale - specie il tratto tra via Carzino e via G.Giovannetti -.

   Nel 2002 il Comune concesse la titolazione al medico Pietro Gozzano al piazzale antistante villa Imperiale; pertanto la nostra strada è stata privata dei primi tre civici dispari comprendenti la villa Scassi e le due scuole ai suoi lati (civv. 1, 3, 5).

   Nel 2004  otto milioni di euro legati ad un “contratto di quartiere” dovevano cambiare volto alla strada, ricupero dei palazzi, pavimentazione, marciapiedi, ed infine, pedonalizzarla. Nel 2010 è ancora un progetto.

 

STRUTTURA === è strada comunale. I civici iniziano - proseguendo verso ponente la via L.Dottesio - dal punto di incrocio con via Palazzo della Fortezza ed arrivano allo sfociare della strada in via A.Cantore e via Carzino.

È lunga  553,29 m.; larga da m. 2,15 a 8,45; con 1 e 2 marciapiedi

La numerazione civica va da levante a ponente.

Il transito veicolare è spezzato in vari segmenti diversi: senso unico  verso ponente, dall’inizio sino alla via V.Gioberti;  da qui, a via  A.Castelli è solo pedonale; da questo incrocio alla via G.Giovanetti  è ancora senso unico verso ponente; da questa a via A.Cantore, è senso unico verso levante.

È servita dall’acquedotto DeFerrari Galliera.

 

CIVICI

2007= UU26- NERI   = da 7 a 15 (mancano 1→5;   aggiungi 13A)

                                            2 a 36 (mancano 4, 6, 18→22; aggiungi 8A)

                       ROSSI da13Ar a 109r (mancano 1r→13r, 77r, 89r, 91r;

                                                                                aggiungi 41Ar, 59ABCDEFGr)

                                                da  2r a 126r  (mancano 4r, 6r, 20r, 98r; aggiungi  16A→Dr,             .                                                                      18A→Dr, 22ABCr, 24ABCr, 48Ar, 52Ar, 56Ar, 58Ar, .                                                                        60A,r 64ABr, 68Ar, 70ABCr, 94Ar, 106Br)

        =UU28-ROSSI da 1r a 13r 

 

Dai Pagano, occorre prestare attenzione alle successive e non concomitanti variazioni, sia del tratto stradale che dei civici:

Il Pagano 1912 vi descrive: al 1r il forno di Barabino Agostino;--- 10 la levatrice DellaCasa Teresa;--- all’11-11  Pisani geom Ezio (fino al 1912 interessato sia ai materiali da costruzione, sia come marmi greggi e lavorati; rappresent. delle principali case marmiste della regione Apuana);--- ed anche al 21r, Massa Carolina commestibili;--- al 27r un forno per pane di Dellacasa Giovanni –attivo anche nel 1925;--- al 30r commestibili di Soldaini Dionisio;--- 41r il forno per la produzione del pane dell’Unione Consumo L.L. acora attivo nel 1925;--- 46r commestibili della Coop. Ligure Lombarda. Non specificato il civico: ristorante ‘Unione’ di Cocito Attilio posto ‘angolo via Nicolò d’Aste’.

Nel Pagano 1925  compaiono in più il droghiere Gaggero Giuseppe al 38r;--- 24r Toma Regolo fu GB, tappeziere in carta e stoffe (nel § era ‘di GB’ ed al civ. 6);--- 37 rivendita di sale e tabacchi di Corazza Roberto;--- 62r l’ufficio dell’industria Penna & Galliano di saponi-negozianti candele e affini-materie prime-olii e grassi;--- non specificato il civ.: (8r) il verniciatore Galimberti Gius.;---

Nel Pagano/33 appaiono essere aperte sulla strada (scritta d’Aste) le imprese: al 2r negozio di merceria e di filati all’ingrosso di Valle A.G.; al 4 il floricoltore Bertorello Luigia; all’8r negozio di biacca-colori-vernici di Galimberti G¨; 38r droghiere Gaggero Giuseppe; 41-43 cartoleria-legatoria di Berardi Giovanni. Non specificato dove: il fruttivendolo e negozio di articoli casalinghi  di Casale Davide.

   Nel Pagano /40 abbiano parlato sopra, non essendoci la strada con questa titolazione, ma ancora quella vecchia di via del Mercato.

In esso compaiono: -civici neri= al civ. 1 Scuola M.Mazzini; al civ. 2 r.scuola second. d’avv. prof . Principe di Napoli + scuola serale comm. O.Scassi; civ. 4 Rebora A & figli, pastificio; civ. 5 scuola el. Maria Mazzini (invece è G.Mazzini ndr); al civ. 7, la 110ª   Leg. Duca del Mare; civ. 9, collegio madri pie Franzoniane. Scuole elem. medie.; civ 14 ‘abitaz comm. M.Diana’ e ‘s.a. f.lli Diana cons. alim ‘; ai civv. 11, 13, 15, 33 privati; civ. 26 Liberti A., metalli.   Invece, civici rossi=  62 negozi, dall’1r e dal 10r a 107r e 116r; con  una trattoria (al 114r di Mancini Zaira), un bazar (Trieste, di Chianese Nicolò al 101r); una farmacia (Italiani Dom. al 74r); mobili usati (di Frambati G. al 62r);  e – onde stabilire anche la qualità delle richieste= 6 osterie; 5 commestibili; 4 salumerie; 3 fruttivendoli e mercerie; 2 macellai, parrucchieri, carbonai, pasticcerie, drogherie; 1 di tante qualità, da cartoleria, tabacchino, latteria, bar, ombrelli, colori, tessuti, calzoleria, giornalaio, pollivendolo, pescivendolo, rigattiere, modista, tintoria, terraglie, friggitoria, caffè,  .. perfino un ‘fumista’ (Piacenza G. al 57r (riscaldamento ndr)).

 

1) CASEGGIATI POSTI A MONTE DELLA STRADA (civici dispari).

 

 

2)  CASEGGIATI POSTI A MARE DELLA STRADA (civici pari).

 

 

 

DEDICATA al sacerdote sampierdarenese, nato il 02 mar.1820, da Giovanni Battista e da Giulia Parodi, in una casa di via san Cristoforo, ora scomparsa.

Il cognome D’Aste ha origini antichissime rapalline; e ritroviamo documenti genovesi che risalgono al 1180. Negli anni successivi, abbiamo dei D’Aste calzolai; teologi nel Concilio di Trento; nobili negli anni del 1567 ascritti ai Cicala; cardinali; senatori.

Nell’escursus del tempo, con documenti scritti a mano, D’Aste spesso diventa Daste. 

Non credo sia stato trovato l’atto di nascita. Però lui si firmava Daste.

Di famiglia operaia benestante, il giovane crebbe con la sorella primogenta Maria Isabella (1814-1889) ed il fratello Giacomo, e poi  con gli insegnamenti della madre dapprima, e di sacerdoti dopo  (all’Oratorio di san Martino, con don Galliano, imparò il latino; all’Oratorio della Morte con don Bartolomeo Ansaldo, ricevette altre nozioni culturali, matematica ed italiano in particolare, e di pietà; era così bravo discepolo che fu avviato alla Prima Comunione a 10 anni –cosa non comune a quei tempi);  nel tempo libero aiutava il padre (questi -falegname di alta qualità- riceveva ordinazioni per lavori importanti ed era quindi sufficientemente remunerato da avere una casetta propria, cosa peraltro abbastanza rara a quei tempi tra il ceto popolare. Tra i tanti impegni viene ricordata la sua attività di artigiano benemerto nel Santuario di Belvedere e nella costruzione del teatro Modena, ottenendo come risarcimento dell’ onorario dovuto, due palchi. Morì quando il ragazzo aveva solo 15 anni, bloccando ogni iniziativa che potesse allontanarlo dal dover mantenere la madre ed i fratelli);



   

 

 lavorò pure in una fabbrica locale di tessuti stampati (specie i famosi mezzari, e forse nella fabbrica Testori). Perduto il padre, proseguì sotto la direzione di uno zio –definito alquanto burbero e dispotico- il suo inserimento nel lavoro artigianale, prendendosi cura di un fratello minore e di una sorella maggiore. La madre morì nel 1842 quando Nicolò aveva 22 anni.

   Ma il lavoro manuale, seppur affrontato con il massimo impegno per altri 18 anni, non era all’apice dei suoi interessi: lo vediamo sempre più spesso essere presente nel tempo libero come chierico,


fabbriciere o segretario nella chiesa cittadina della Cella ove frequentava le congregazioni del S.Rosario, del SS Nome di Gesù, o alla Dottrina; nonché in Confraternita nell’oratorio di san Martino ed in quella ‘delle Anime’. 

                                  

 

Fu allora, probabilmente, che maturò l’idea della prevalente devozione alla “Divina Provvidenza” quale appiglio a cui aggrapparsi e da insegnare, invocare, pregare, quale collante nella catena Dio-offerta-uomini: “Dio per dare agli uomini i serve degli uomini,  tramite la DP; così alla fine gli uomini danno; ma è la DP che ha fatto sì che loro diano”

   Così, seppur  tardivamente, solo a 40 anni fece esplodere una travagliata vocazione, desiderata ma sempre oppressa per altre scelte di più immediata apparente importanza. Decise quindi nell’agosto del 1860 la via del sacerdozio, abbandonando il lavoro presso lo zio ed il fratello che continuavano l’opera paterna.

    Risultando tardi per entrare in seminario, per la formazione teologica provò a rivolgersi all’insegnamento del sac. Vincenzo Carlini allora parroco di Masone e custode della cappella gentilizia nella villa Rostan a Multedo: come suo discepolo trascorse solo 4 mesi, quando sentì il bisogno di avere basi più solide: preferì trasferirsi alla Certosa di Rivarolo ospitato in due stanze dal medico Garello sperando apprendere dal parroco –un suo omonimo- di più, della lingua latina e filosofia; ma anche qui, fu subito ‘sfruttato‘ quale fabbriciere e soprintendente ai lavori per cui preferì cercare –accettando un periodo di prova- presso la chiesa di san Pancrazio assumendo l’incarico di inserviente. Ma alla fine ritornò da don Carlini per affrontare i temi della teologia, ospite nella villa Rostan: qui, rientrato in sintonia, riuscì a concentrarsi nello studio e rafforzare la chiamata, fino a che tutto si completò a 46 anni, nel 1866: dopo un ritiro a Campi dai frati Cappuccini, subì la cerimonia dell’abito talare, la tonsura e gli Ordini Minori (da mons.Filippo Gentili, vescovo di Novara in quel tempo alloggiato a Genova nel suo palazzo patrizio). A questo, seguì la promozione a suddiacono (da mons. A.Charvaz), e poi  a diacono (a san Michele di Pagana da mons Pallavicino).

   Infine  fu ordinato sacerdote a 47 anni, il 24 giu.1867, (festa di san Giovanni Battista);  e la prima messa fu da lui celebrata il 29 giugno  (festa di san Pietro) alla Cella, dove rimase  ad esercitare il suo ministero, irradiando quel fascino e carisma che lo accompagnerà per tutta la vita sacerdotale: un potere irresistibile che accomunò nel giudizio ed ammirazione poveri e ricchi, credenti e non (SPdA era ‘roccaforte del socialismo, con forti matrici anarchiche e quindi anticlericali; ma non era il credo politico che faceva fare differenze nell’essere disponibile sempre ed a tutti. La gente ‘sentiva’ che lui era al di sopra della politica).

   L’anno dopo, madre Angela Massa delle Franzoniane (era Madre superiora del convento, ove già da più di cent’anni (dal 1751) era prioritario l’interesse del problema specificatamente coinvolgente la classe sociale degli operai; e della loro famiglia, sopratutto le orfanelle, divenute prive di qualsiasi sostentamento sociale, affettivo ed educativo): non avendo consorelle a numero sufficiente per gestire l’istituto, si affidava a pie coadiutrici esterne come la concittadina Apollonia Dellepiane animata di carità ed ispiratrice dell’iniziativa di occuparsi in casa sua di nove fanciulle rimaste orfane di operai concittadini deceduti). Dovendosi trasferire a La Spezia, cercò come affidare l’organizzazione delle 12 orfanelle che teneva riunite. Si rivolse dapprima al direttore don PietroPaolo Gallo –e questi rigirò il problema a don Daste.

   Possiamo immaginare  la personale sensazione di incapacità ed impreparazione: un incarico impari alle sue modeste capacità. Ma impossibile dire no. La Divina Provvidenza lo avrebbe aiutato.

 

   Così, don Daste, caricato dell’onere totale del mantenimento di questo impegno, coadiuvato dalla stessa Dellepiane -divenuta suora- e da altre animatrici come suor Caterina Cipollina e suor Ghio Giulia, dapprima le portò in angusti locali di via san Bartolomeo, poi in via Bombrini, via Goito, piazza Capitan Bove (in palazzo Boccardo) ed ultimo, quando le ragazzine erano diventate 30 o 40, in via Mameli (cioè via Carzino, nella casa di proprietà del principe Centurione; questi volle venderla al sacerdote per una minima cifra (25mila lire), che fu raggranellata con la vendita dei palchetti del teatro Modena e l’aiuto di benefattori).

   Al sacerdote -in base alla regola dettata per prima “al bambino è dovuto il massimo rispetto”- toccò questuare, educare, alimentare, vestire.

Ma per lui non era problema il proporsi quotidianamente agli altri nella maniera più umile, facendosi riconoscere ovunque come il “poverello di San Pier d’Arena” ed accumulando aneddoti della sua bonaria, disarmante semplicità  e visione ottimistica della vita (oltre il colera nel 1886 ed il  terremoto del 1887 -nel ponente ligure, con Bussana distrutta-, si dovette affrontare la miseria quotidiana di tanta gente in una città in piena trasformazione sociale: sono anche gli anni di San Pier d’Arena appena riconosciuta città, di don Bosco attivo a san Gaetano; ma anche gli anni in cui i ricchi borghesi che gestiscono il potere al posto degli aristocratici, decidono per l’industrializzazione, e si scontrano con le masse degli operai sfruttate e anelanti a nuovi migliori diritti, primo tra tutti la protezione dei più deboli). Schierandosi apertamente dalla parte dei disperati, ne assunse tutti gli oneri, anche se apparentemente preziosi solo allo spirito; ma -riuscendo a creare nei facoltosi il bisogno alla carità- ottenne così il contemporaneo plauso di ambedue le classi sociali. I suoi fagotti raccoglievano tutto il possibile, ed in tutto il circondario genovese (arrivava a Ronco, a Gavi, in riviera; quando tornava, per concessione amministrativa locale passava liberamente senza pagare il dazio; anzi a volta gli veniva aggiunta altra merce sequestrata) per migliorare la sua casa ove mancava tutto, dalle seggiole ai letti, dal fuoco per l’inverno al cibo quotidiano. Gli aiuti più vicini, nel limite, arrivavano dal parroco della Cella don Francesco Olcese, dal vescovo (prima mons.Andrea Charvaz, poi Salvatore Magnasco ed infine Tommaso Reggio), dal Comune (il sindaco Federico Malfettani e l’assessore -il pittore Orgero- promossero ed ottennero dal Consiglio una retta fissa  tratta dal bilancio comunale, idonea ad aiutare l’istituto), dalle varie  Società Cooperative (che seppur di idee differenti, non facevano mancare generi alimentari), dalla stessa UITE che lo faceva viaggiare gratis. Era divenuto un prete speciale, un prete che applicava il concetto di povertà  andandola a cercare nella strada e portandosela a casa; non faceva questua ma offriva umilmente se stesso per ottenere la carità: questo suscitava rispetto non solo nei benestanti quanto soprattutto in tutti coloro che come lui dovevano lottare per sopravvivere e che -malgrado ciò- lo eleggevano non concorrente ma nobile alleato da rispettare.

   Gradatamente realizzò nuove regole di vita per sé e per i propri collaboratori, dando inizio ad una nuova Opera ed alle Figlie della Divina Provvidenza, con regole nel 1873 (e poi riscritte aggiornate nel 1916, 1950, 1982); devozione particolare alla Madonna onorata sotto il titolo di N.S. della Divina Provvidenza la cui festa solenne cade la seconda domenica dopo l’Epifania. Patroni dell’opera sono san Gaetano da Thiene (1480-1547, il santo della Provvidenza), san Girolamo Emiliani (1486-1537, detto padre degli orfani); sant’Angela Merici (1470 ca-1540 una delle prime a raccogliere le orfanelle) e sant’Orsola martire; gli abiti debbono essere i più semplici e modesti; requisiti fondamentali l’umiltà, l’affetto da donare ed un’instancabile operosità.

Dal 1887 compaiono delibere della Giunta comunale mirate ad esentare del pagamento del dazio per l’Istituto, da pagarsi all’’inroduzione di generi alimentari diversi’.

   Nel 1891 il sacerdote presentò domanda poter murare, sotto la nicchia esistente nell’angolo nord del palazzo, “una tavola sostenuta da mensolette di ferro e ornata all’intorno con una mantovana metallica”: sulla quale poter apporre fiori, candelieri o  paramenti. Il tutto corredato di progetto dell’ing. Salvatore Bruno. Il parere della Giunta fu positivo. Ma nulla si rivela circa la statua contenuta nella nicchia.

   Il 6 dic.1892 aprì una casa anche in Sestri Ponente, cittadina dallo sviluppo tumultuoso dei cantieri e dell’industria, e per i giovani precaria come San Pier d’Arena, affidata alla direzione di suor Agnese Morasso. Pochi mesi prima, il re UmbertoI, in visita a S.P.d’Arena, o aveva lodato e gli aveva fatto pervenire una offerta in denaro.

   Dopo un intervento agli occhi per cataratta, nell’inverno si pose a letto e morì settantanovenne poco prima della mezzanotte del 7 febb.1899.

La giunta comunale nelle figure del sindaco F. Malfettani e dell’assessore Orgero (che tante volte l’avevano aiutato anche con donazioni  personali),  riunita d’urgenza deliberò all’unanimità lutto cittadino con la bandiera a mezz’asta, le spese per il rito funebre e un posto distinto al cimitero della Castagna. Infatti, la mattina seguente, in Comune avvenne una seduta straordinaria, per commemorare la contemporanea dipartita del prete e dell’ing. Nicolò Bruno. Per il prete, la relazione scrive che il sindaco Federico Malfettani “alzatosi in piedi, pronuncia le seguenti parole: signori Consiglieri, la vostra Giunta...commossa da tanta sventura, che rapiva persona sì eletta, da tutta San Pier d’Arena rimpianta, che sol visse di carità, per il bene dei sofferenti; il sacerdozio esercitando evbangelicamente, affatto mondo da terrene intenzioni; tutte le sue sostanze, tutte le sue cure e fatiche erogando per il sostentamento dell’Opera pietosa da Lui fondata; dalla quale da anni traggon pane e vita morale tante povere fanciulle derelitte; la vostra Giunta, onde render solenne tributo di stima e di amore a cotal angelo di bontà; a chi serenamente moriva in aureo vivido cerchio da tutti benedetto, interpretando i vodstri sentimenti, qui decise radunarvi per sottoporre alla vostra approvazione le proposte alle disposizioni pei funerali cui è caso: Vi propone quindi oltre all’aver già provveduto che la bandiera di tutti gli stabilimenti  comunali sventoli per quattro giorni abbrunata, di assegnare una tomba d’onore nella cappella del cimitero civico alle spoglie venerate”. Presero parola vari consiglieri tra i quali il geom. Pietro Giacomardo che espresse il parere dare titolazione al prete per tratto di strada sino ad allora detta ‘via Mercato’; altri che promossero non lasciar morire l’opera del prete, sussidiandola; lo stesso Pietro Chiesa socialista, propose “ascrive a mio dovere l’affermare che le proposte della Giunta onorano ogni partito che simboleggi la carità, il sacrificio, il lavoro. Quando un uomo come don Daste muore povero, mentre povero non era quando intraprese il suo apostolato, è debito civile onorarne la memoria”.

    Non fa stupore quindi che ai solenni funerali, partecipò tutta la cittadinanza, con tutta la municipalità ed autorità genovesi e delle delegazioni limitrofe. La messa fu celebrata dal parroco delle Grazie, don Costantino Zenega; il carro – di prima classe - fu offerto dalla ditta Robba. Continuò così la gara ad ancora ‘dargli qualcosa’ che potesse soddisfare l’esigenza interna di tutti di essere stati vicini all’ “Uomo più grande di SanPierd’Arena”.

Tutta l’opera del piccolo prete, con la sua morte ebbe un ‘rialzo di quotazione’: lo stesso Consiglio comunale nel marzo successivo convenne sulla “utilità che ne deriva alla città dell’esistenza dell’Istituto della Piccola Provvidenza (sic)”, e prospetta “convenienza del Comune al concorrere al miglioramento di detto istituto nell’interesse generale della Cittadinanza...”. Cosicché altre case furono aperte in Prà (1932), in alcuni asili parrocchiali (1946) ed in India (1979). Assunse le redini della casa quale direttrice suor Clotilde Pavan (probabile già colaboratrice e facnte arte del comitato pro-lapide),  mentre fu sostituito come direttore dell’opera  da don Anacleto Cotta.

 

   Datato 20 genn. 1901, un comitato composto da una ventina di cittadini si propose - davanti a notaio - sobbarcarsi l’onere di porre una lapide nella facciata del palazzo dell’Istituto in via Mameli (vedi anche via Carzino).

   La cosa si realizzò nel 1905. In occasione dell’inaugurazione della lapide (il marmo era stato disegnato dall’ing. Sirtori e donato dal cav. Mazzino - vedi descrizione a ‘via G.Mameli’ e ‘S.Carzino’), fu a lui intestata anche la strada adiacente. 

L’ing. Pietro Sirtori, faceva parte del comitato per l’applicazione della lapide del prete don Daste in via Mameli (Carzino);  era esponente politico nella Giunta, rappresentante il Partito Popolare fondato da don Sturzo; in quanto assessore ai Lavori pubblici, era stato progettatore del Piano Regolatore  che prevedeva – tra l’altro - una grossa strada centrale (v.Cantore) ed una a mare (Lungomare Canepa) le quali, allora, non furono realizzate per l’assorbimento nella Grande Genova; dopo la devastazione fascista -1924- sia del Circolo della Gioventù Cattolica intitolato a Giosuè Borsi (vedi via Carzino) che della Cooperativa di Consumo intitolata a Giuseppe Toniolo, diede – assieme a suoi quattro colleghi di partito  (Bono, Ferrea, Penna, Platone) - le dimissioni (ottobre) dalla civica amministrazione, malgrado le formali scuse de Direttorio fascista locale.

Il 13 genn.1905 il sindaco N.Ronco fece assegnare definitivamente la tomba del sacerdote; il feretro, dopo le dovute riparazioni (effettuandosi la cerimonia in forma solenne) il 7 aprile fu traslato dal Pronao (ove era nel posto n° 22) al ‘suolo della Chiesa’... ‘più vicino all’altare della Cappella’, sulla quale  fu collocato un cippo molto semplice, dello scultore Giuseppe Frondoni, recante la scritta “sac. Nicolò Daste - benemerito fondatore del Pio Istituto della Provvidenza - 1820 - 1899 “ e soprastante, un tondo con olio raffigurante il sacerdote, curato dal pittore Angelo Vernazza.

   Il 6 luglio 1924, dopo 25 anni dalla morte, a cura di don Davide Lupi e con autorizzazione e origanizzazione del sindaco Manlio Diana, la salma fu  novamente traslata con grande cerimonia (comprendente corteo, sosta e messa alle Cella, commemorazione al Politeama Sampierdarenese, trattenimento delle 150 orfanelle ospitate. Pubblicazione di una biografia) in una cappella della casa madre, ovvero nell’istituto ora a lui dedicato nella villa di salita Belvedere 2.  La tomba in marmo, fu disegnata e scolpita dal prof. Daniele Danusso, torinese.

   Il 20 magg.1965 le spoglie mortali del prete vennero nuovamente e definitivamente traslate in una nuova cappella (sempre interna nell’istituto ed aperta col generoso contributo di un imprevisto donatore, il prof. Marino Cortese zoologo: aveva suggerito ad una cliente di fare una donazione ad un istituto, questa scelse il don Daste ed dal successivo ringraziamento nacque la conoscenza e la donazione; nel 1962, durante i lavori di fondamenta, fu fortunosamente ritrovata una grossa bomba inesplosa. La cappella fu consacrata dal card. mons.G. Siri) ponendo  la grossa lapide sul lato sinistro del presbiterio (con la scritta : “ SACERDOTE  -  NICOLAUS DASTE   -  1820-…1899…..?”***) , di lato all’immagine della Madonna venerata dalle suore, dipinta dal francese Pierre Mignard e da lui chiamata “Vierge au grappe” (o drappe?)

   Interessanti voci, dicono -già dal 1992- di una proposta di beatificazione: si stanno ricercando testimonianze, informazioni narrazioni di eventi che possano portare alla valutazione dell’apposita Commissione vaticana; è comunque un iter lungo e minuzioso alla cui base occorre che la pratica sia corredata da precise testimonianze di un evento miracoloso accaduto a qualcuno dopo una sua invocazione; sarebbe un grande onore per San Pier d’Arena.

 

 

 

 

 

 

 

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Gli autori in verde=già trasferita la bibliogr. a Largo Gozzano (x villa Imperiale-Scassi).

In rosso restano qui a Daste.

I  bianchi, da controllare.

 

 

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