CICALA vico Cicala
da MVinzoni, 1757. In celeste la pieve di s.Martino; in verde l’oratorio; in rosa la via di s.Martino che continua in via Vicenza-Campasso. In giallo vico Cicala; tutti i terreni a nord del vicolo – non delimitati nella carta - erano dei mag.ci Cicala
Una strada così titolata, attualmente non esiste più a Sampierdarena, ed è alla Maddalena.
Corrisponde all’attuale via A.Caveri che, da piazza R.Masnata (già piazza Vittorio Emanuele III) conduce a via F.Marabotto.
Il cambiamento del nome fu effettuato dal podestà nel 1935: è citata nel Pagano ‘33 e non c’è più nelle revisioni del 1940.
STORIA : prime notizie della famiglia nel nostro borgo portano la data del 1417:
---29 maggio 1417 «in Sampierdarena, nella casa d’abitazione del notaio rogante, nel carrogio dritto, presso la loggia de nobili de’ Cicala – (un cittadino di Ge vuole che sua figlia rimasta vedova, riceva l’eredità ed anche la restituzione di una somma che lui aveva prestato al genero che si chiamava Paolo Promontorio).
---10 giugno 1417 ed è tratta da “Regesti della val Polcevera” pag. 235. Scrive «nella villa di Sampierdarena presso la porta di casa di Simone Cicala. – Cattarina, figlia del qm Andrea Rainaldi di Savona e moglie di Francesco Cassini, abitante in Sampierdarena, costituisce a suo procuratore il marito, che accetta il mandato di fare i negozi di lei».
---8 maggio 1418 «in Sampierdarena, davanti la porta della casa d’abitazione di Giovanni Ferrari...(si descrive un appezzamento di terra che confina) inferiormente Gregorio Cicala...».
---Da essi si salta alla carta Vinzoniana del 1757 (vedi sopra), senza notizie precise. In essa compare, appartenente ai ”mag.ci Cicala”, un vasto territorio a nord della antica abbazia di san Martino, esteso a tutto il nord-est dell’attuale via Vicenza-salita Millelire (che appaiono già tracciate nella carta). Doveva comprendere una villa della famiglia, che i fratelli Remondini nel 1887 appena accennano tra le case signoirili che possedevano all’epoca una cappella privata interna.
Prima dell’anno 1900, a quel vicolo posto a levante di via A.Saffi e volgarmente detto ‘Cicala’ fu proposto e poi confermato detto nome (anche se lo scrivano addetto, a volte scrisse Cigala).
Così nel 1910 lo troviamo dipartente ’da via Umberto I, verso la collina’ (erroneamente perché essa corrisponde alla attuale via W.Fillak); con civici sino a 6 e 5.
Il Pagano/1925 cita che al 5.2 lavora: Federici Ernesto nel ramo della frutta secca ed agrumi.
Ancora nel 1927, la stradina era un ‘vico’, di 5.a categoria, che portava sino al civico 9 (dove era la villa Moro - ora distrutta - visto che l’edificio attuale n° 9 è recente, e senz’altro post bellico); e da lì “ai monti”.
Nel nov. 1932 fatturava dal civ. 3/2 il “capomastro Cesura Domenico” per lavori fatti in via Umberto I, 48/6 (£.35 per imbiancatura cucina con 3 mani di bianco). In altro preventivo, in via delle Corporazioni 38/6 – tra l’altro – la “demolizione del banco della cucina e delle nasse per il fuoco con carbone”.
Una delibera del podestà, datata 19 ago.1935, cambiò il nome in via Antonio Caveri; e questo quando in sommità era ancora chiusa.
Una bomba nel 1944 causò la distruzione di metà palazzo posto in via A.Saffi-Mazzucco, a lato mare dell’inizio del vicolo; questo aveva il n° civico 37 ultimo della via (oggi via C.Rolando); quando fu concessa la riedificazione, si preferì non ricostruirlo sullo stesso sedime ma restringerlo nella facciata esposta sulla strada (per poter così allargare lo sbocco del vicolo) concedendo un allungamento sul retro - per eguagliare la precedente superficie - formando un nuovo edificio a L. Ed il portone, da via A.Saffi fu spostato in via A.Caveri di cui divenne civico 1. Questa nuova ala comportò uno scavo, durante il quale si descrive emersero resti umani cimiteriali (si presuppone residui delle cripte profonde dell’abbazia) che furono fatti scomparire per non rallentare i lavori; nonché un muro - di cui esiste documentazione fotografica - munito di ampi fori rotondi, facente parte o della cinta o della abbazia stessa.
Per fare questa variazione, si approfittò del fatto che precedentemente le bombe avevano distrutto anche l’Oratorio retrostante, che fu spianato e ricuperato il terreno per il civico 1A, e per la piazzetta antistante.
PIEVE di san MARTINO:
acquarello di “Salucci (?), cittadino ufficiale toscano della Repubblica Ligure” disegnato ‘dal vero’. 51x81. Museo Navale. In primo piano, il torrente Polcevera. Forse non è l’abbazia, perché essa a quella data era in fase di distruzione, con campanile diroccato; potrebbe essere s.Gaetano ma non aveva la facciata così. E il campanile dietro?: non è dal vero.
POSIZIONE: Nell’immaginario di molti, è difficile la attuale localizzazione della chiesa; e la zona stravolta dall’edilizia e dalle ristrutturazioni non favorisce chiarezza. Nello studio di alcuni storici, la localizzazione dell’antica chiesa sembrerebbe corrispondere a posizioni più interne ed alte del vicolo, avendo scritto che sui ruderi e con le pietre rimaste fu costruita la villa Moro: quindi all’altezza dell’attuale civ.11 di via A.Caveri. Anche il Remondini, esprimendosi con vaghezza, non fa giustizia; infatti ancora nel 1897 scrive “ quest’antica chiesa...che una voce vaga vorrebbe fosse stata un antico delubro gentilesco, stava...là al luogo detto Palmetta ove allora, come il presente, era ed è l’Oratorio omonimo, che le stava assai accosto” . E giù parole e parole su dov’era la Palmetta!
La carta del Vinzoni, è la prim: si rivela molto corretta e corrispondente per tutte le altre posizioni edilizie e confini, e tracciata in epoca in cui la chiesa era ancora eretta. Chiaramente la pone tra la strada principale ed il suo Oratorio. E se quest’ultimo era localizzato ove ora è il civico 1A di via A.Caveri, la localizzazione precisa è sovrapposta alla piazzetta antistante, a partire ravvicinato dal retro del civico 1 di suddetta strada.
A sostegno, leggere quanto scritto sotto ne: ‘lo spazio’.
La logica della scelta di un sito così interno rispetto al borgo, viene spiegato con le continue incursioni dei barbari saraceni sulla costa, quindi nascosta e coperta dalla vista dal mare; e in posizione ‘strategica’ per i residenti ed i viandanti, che passavano dalla soprastante via Pietra, e potevano comodamente scendere tramite ripidi ma brevi sentieri.
LEGGENDA: racconta che san Martino (poi vescovo di Tours), nel IV secolo, fuggendo da Milano perché perseguitato, sostò in questo posto nel dirigersi verso l’isola della Gallinara (Albenga). Ne approfittò per trasformare un tempietto pagano in chiesa; e soprattutto lasciò due suoi discepoli francesi Olcese e Claro (anche loro poi vescovi e poi ancora santi), che iniziarono nella zona un’opera di evangelizzazione. E dopo la morte del santo nel 396, anche devozione verso il loro maestro. L’origine storica precisa del tempio come viene descritto, non è misurabile, ma senz’altro era di molto anteriore all’anno mille (vedi via s.Martino).
SCRITTI e STORIA: Lo studio sulle origini delle prime parrocchie sparse in tutto il territorio nazionale e denominate pievi, affonda nell’impossibilità di raccogliere dati certi e documenti e ci si affida alle tradizioni o alle informazioni indirette.
Rotari (17° re longobardo, con sede a Pavia) nel 641 distrusse le pievi poste sul mare di Voltri, Recco, Camogli ed oltre, sino a Luni. Quella di san Martino non è citata, o perché interna e quindi non avvistata dal mare, o appunto perché ancora non esisteva.
Dalla metà dell’800 iniziarono le invasioni ed i saccheggi dei saraceni, (posizionati a Frassinetto); sia lungo la costa, sia nell’interno sino al Piemonte. Indifese e quindi per prime, e prima che avvenissero le scorrerie anche nell’interno, ad essere saccheggiate e devastate furono quelle pievi in riviera costruite sul mare (prima fu quella di Sanremo, detta Matuziana nel 866); è presumibile quindi che la nostra pieve fu eretta dopo questi eventi, e per essi fu scelto un luogo più protetto all’interno, non visibile dal mare, seppur più scomodo.
Ma i primi scritti che diano sicurezza alle fonti di ricerca, risalgono:
-all’anno 1006, quando già pagava le decime all’abate di san Siro. Genova era già sede centrale di diocesi e contava 28 pievi periferiche (queste, a loro volta, erano centrali per le parrocchie, chiese e cappelle minori); e poiché la Pieve di Prà viene documentata essere collocata ‘nel luogo di mezzo’, ne viene confermato che la nostra già esisteva; e che in quegli anni la Pieve di san Martino di San Pier d’Arena era già eretta, e spaziava dal fossato di san Michele (“caput arena ubi dicitur sancto Michele” ovvero a Fassolo, presso la casa del principe Doria) al limite di ponente di Cornigliano. Inoltre, già comprendeva l’abbazia del Fossato (1066) e la chiesa di Cornigliano.
I primi sacerdoti ad interessarsi e curare la chiesa pare furono i Benedettini.
-all’anno 1128 (lo stesso della guardia alla spiaggia sul Liber Jurium), sul “Fogliazzo dei Notari”. In quell’epoca la chiesa era già elevata in Arcipretura (archipresbiter, da sempre usato nella diocesi genovese, divenne sinonimo di reggente la pieve; ‘custos et rector’) ed insignita della dignità di parrocchia; è citato anche il nome di chi la gestiva allora l’arciprete Oberto Balbo; aveva giurisdizione parrocchiale dal Faro al confine ovest di Cornigliano, e verso l’interno sino a Rivarolo (delimitata dalla antica via romana che scendendo dalla Pietra, per portarsi in riviera doveva oltrepassare Certosa e scavalcare con un ponte il torrente solo a livello di Borzoli oppure proseguiva per l’interno, verso la Lombardia).
Nel 1131 circa, antistante la solenne abbazia, la cittadinanza del borgo riunitasi a consesso, decretò l’assegnazione del titolo di console a tre suoi concittadini decretando la nascita del Comune di San Pier d’Arena.
Nel 1143 la chiesa riceveva una parte delle decime del piviere (cioè la popolazione che viveva attorno alla pieve; altra parte spettava al Magiscola della cattedrale). Il vescovo Siro stabilisce alcuni capitoli per le singole chiese, e in particolare “de ecclesia sancti Martini de via. caput X – de ecclesia sancti martini de via, in festivitate ipsius ecclesie denarios. XII. et candelas. XII.”.
Di quest’anno e dal Registro della Curia alcuni capitoli del novembre 1143 relativo alle varie chiese “de Sacto Petro de Arena” si legge : “decime plebei sancti petri de arena, dividuntur in quatuor partes. Plebs habet unum quarterium. Tota alia tenent Canonici sancti laurentii pro maziscola et pro oberto clerico. et Oliverus de platea longa. et filii gandulfi rufi, et rainaldus de pinasca. et Oglerius ventus. et Bonus matus alvernacius. et decimam quam filii idonis de carmadino tenent in corneliano. et Guilielmus Guercius. et hoc quod guiscardus tenebat in sancto petro de arena quod curia tenet“.
Nel 1144 sul ‘registro arcivescovile’ si riporta un lodo dei consoli per il versamento di decime all’arcivescovo di Genova : “de Sancto Petro de Arena - decime plebei sancti petri de arena. div (nell’originale viene sempre usata la u e non la v)iduntur in quatuor partes. Plebs habet unum quarterium. Tota alia tenent Canonici sancti laurentii pro maziscola et pro oberto clerico. et Oliverius de platea longa. et filii gandulfi rufi. et rainaldus de pinasca. et Oglerius ventus. et Bonus matus alvernacius. et decimam quam filii idonis de carmandino tenent in corneliano. et Guilielmus Guercius. et hoc quod guiscardus tenebat in sancto petro de arena quod curia tenet“ (le decime della pieve di SPd’A. da dividersi in quattro parti.La pieve ne ha un quarto. Tutte le altre le tiene il Canonico di s.Lorenzo..).
Un secondo documento sempre tratto dal fogliazzo notarile è del 1146 , e scrive :”in presentia Gregorii qui fuit abbas sancti andree…et Guilielmi monachi monasterii…accepit Alexander ab Aidelina (Ansaldi, nipote di frate Gregorio)…denarios sex, nominative pro pensione unius anni de manso uno, quod est in Sancto Petro de Arena ante ecclesiam Sancti Martini“ (ricevuta di denaro dato ad Alessandro – probabile arciprete di s.Martino - per l’ affitto di una casa posta davanti alla chiesa***)
Ed è del 1148 si annota che l’arciprete di san Martino deve delle obbligazioni all’arcivescovo, che aveva diritto nel borgo a terre e possedimenti, e quindi a gabelle .
Nel 1150 papa EugenioIII inviò una bolla all’arcivescovo Siro II, con la quale prese sotto la protezione della sede apostolica la Chiesa genovese; le conferma il godimento di tutti i redditi, decime e proprietà. Fra queste ultime cita: “curtem Sancti Petri de Arena cum suis pertinentiis”.
Nel 1158 la chiesa era governata dall’ arciprete Ottone. Questi, più volte citato si firma “ego Oto archipresbiter ecclesie sancti Martini, de S.Petro de Arena”. Così si legge su documento datato 25 agosto di quell’anno quando assieme ad un canonico, e con di fronte sia di due dei tre consoli che di tre ‘vicini’ (quali rappresentanti dei parrocchiani -a determinare consenso-) vendette un terreno, riutilizzando la somma per comprare altri beni a Paravanico e con tre lire di Genova un nuovo messale (non era da tutti possedere e saper leggere un libro, ovviamente scritto a mano su pergamena: un principe agiato poteva al massimo possederne venti o trenta; e collezionisti consumavano la vita per possederne alcuni; grossomodo 3 lire corrispondevano ad un’oncia e mezza d’oro sul mercato di allora. Questo testo appare essere stato uno dei primissimi libri di preghiere circolanti in Genova, anzi il primo di cui se ne conosce il prezzo pagato, probabilmente guarnito di figure o miniature, forsanche di filamenti argentati o pietre).
Il 26 genn.1190 tale Giulia de Belloculo ‘nanti notaio Lanfranco’, nella chiesa di s.Torpete, fa testamento lasciando soldi dieci alla chiesa di san Martino; altrettanti all’opera di s.Giovanni di Sestri e L.3 a s.Maria del Priano.
Una lettera di Papa Gregorio IX scritta il 3 luglio 1235 fa riferimento che dal 27 lug. 1200 è di spettanza del Capitolo della pieve anche l’ospedale con una chiesa posizionato dal ponte lungo la strada del litorale (sul margine del torrente dalla parte di Cornigliano).
La Pieve aveva assoggettato il territorio e la chiesa di Cornigliano (dedicata a san Giacomo; escluso il suo Rettore che era nominato dal Capitolo di s.Maria delle Vigne), ancor prima del 1100 quando questa chiesa era probabilmente già una realtà visto che pagava le decime del grano all’arcivescovo..
Il Capitolo dei Canonici della pieve, a lungo mantenne il diritto di eleggere il proprio arciprete; e da un atto notarile del 18 marzo 1461 si sa che allora detto diritto era ancora mantenuto.
1210, 28 novembre. Nella pieve di s.Martino, Oberto Balbo Cavassa e Gio: di Gronda, rettori di S.Pier d’Arena, radunati qui assieme ad alcuni altri uomini di Sampierdarena, alla presenza del podestà della Polcevera (Nicola de Volta) e del suo giudice (Riccobono) eleggono di loro spontanea volontà Oberto de Campi in sindaco e procuratore del comune della pieve di S.Pier d’Arena per difendere il comune contro un placito posto da Nicola Usodimare
Nel 1220 è ricordato nella pieve un capitolo di sacerdoti, composto dall’arciprete e da tre canonici: in quell’anno Guglielmo “minister plebis Sancti Martini de Sancto Petro arene...emette un decreto in cui sollecita in maniera decisa un prete Alberto, che tenta di innalzare un oratorio nel territorio della pieve, e gli impedisce di procedere nei lavori, perché “ in preiudicium nostre plebis”.
Nel 1226 viene segnalato in una bolla del pontefice Onorio III, un canonico Simone Malocello (che da suddiacono nella cattedrale genovese, divenne in quell’anno arciprete a san Martino, e poi nel 1231 fu nominato vescovo di Albenga).
Nel 1240 era arciprete Rolando, con Ogerio e Guglielmo canonici; in una lettera del pontefice Gregorio IX del 3 luglio 1235, e citata in atto del notaio Salmone, si fa cenno di spettanza al capitolo della Pieve di una chiesa munita di assistenza ospedaliera posta presso il ponte dai corniglianesi; e ancora che sotto soggezione all’abbazia di san Martino doveva essere la cappella di san’Agostino.
Nel 1253 favorito dai francescani di Sestri –già promotori del presepe- venne messo in scena il ‘ludus peregrinorum’ ovvero una rappresentazione a carattere teatrale con tema il dramma sacro: nella nostra abbazia venne scelto –dal Vangelo, l’indomani di Pasqua- l’apparizione di Gesù ai due pellegrini di Emmaus. Ne fecero parte cittadini di Sestri e che si concluse con una rissa tra gli uomini delle due borgate.
Il testo descrive «ego Berruminus filius petri de Raynero de sancto petro Arene confiteor tibi Lanfranco de sancto petro Arene me tibi dare debere solidos vigenti tre set dimidium Ianue. Quas pro me solisti comuni Ianue. Occasioni…rixe quam homines plebatus sancti petri de Arena fecerunt cum hominibus sexte in ludo peregrinorum renuncians exceptioni non numerate pecunie…. Actum Ianue Ante domum canonicorum sancti laurentii…14 ott.1253
La stessa scena si ripeteva ancora due secoli e mezzo dopo, nel 1490, in casa Adorno col titolo ‘dei doi peregrini’.
Fa parte dei più antichi spettacoli religiosi (già effettuate 1243 a Padova; poi, anche 1257 a Siena; 1298 a Cividale; 1280 a Chiavari,
Di un altro arciprete Salvo, sappiamo 1) che il 7 marzo 1257 (Regesti di valPolc.II.250) fu parte in causa -in un pronunciamento espresso da Ugone Fieschi: il quale dovette concludere una lite finita a schiaffi tra preti (Rubaldo –canonico di s.Maria delle Vigne- aveva colpito Salvo –arciprete della pieve di s.Martino; finisce con non luogo a procedere per mancanza di prove; quindi evitata a Rubaldo l’applicazione della pena addirittura di scomunica)); 2) (Regesti dVP.II.pag.251) il 15 febbraio 1258 fu chiamato (tramite l’arcivescovo di Genova), affinché appianasse (‘determinare amicabili compositione’) a nome della Santa Sede vari diverbi:-- tra i cittadini di Spotorno ed il comune di Savona (Spulturni, et aliorum locorum episcopi Saonensis;circa le gabelle del vino e grano proveniente a Savona via nave; e la partecipazione militare di essi in caso di guerra sia per necessità di Savona che di Genova);-- tra il comune di Savona (sindaco era Pellegrino Catulo) ed il suo vescovo (che era Corrado, rappresentato da maestro Gandolfo; diatriba già in atto dall’ottobre precedente, riguardante le decime di grano e del sale, o moneta da pagare dalle navi che entravano in porto: il vescovo di Savona -per conclusione non descritta- aveva scomunicato tutti i cittadini, senza sentir la loro scusa; questi si erano rivolti al papa Alessandro IV (in quei giorni a Viterbo per commemorare il terzo anno della sua elezione) e questi delegò alcuni sacerdoti perché discernessero la verità nello scontro. Questi, a loro volta, suddelegarono l’abate nostro, perché chiarisse le giuste ragioni. Ferretto pone questo evento in data 11 ottobre 1257);--tra il comune di Savona e Noli (per dei terreni di contesa pertinenza); --tra il comune di Savona e Spotorno (arrabbiati al punto “che dovevano far guerra con tutti coloro con cui Savona doveva far guerra o pace”). Diede risposta-sentenza l’8 marzo successivo.
Nelle carte del monastero di s.Andrea, una pergamena datata 13 novembre 1261 e firmata a Viterbo da papa UrbanoIV nel primo anno di pontificato, affida all’arciprete della pieve di comporre una causa relativa a terreni, decime e debiti, tra il monastero di sant’Andrea ed alcuni privati savonesi.
1264 3 marzo. “Ego presbiter Petrus, canonicus plebis sancti Martini de Harena, promitto...”(Nel Regesti di val Polc.pag.67)
Nel 1311 troviamo citato il nome dell’arciprete: Cremona, archipresbiter Plebis S.Martini de Capite Arene’), quando la ‘pieve di S.Martino de Capite Arene’ aveva dipendente la chiesa di Cornigliano; confermato da alta pergamena testamentaria ove Loreto, barbiere genovese, lega dei beni al monastero di sant’Andrea a Genova e lo fa davanti allo stesso sacerdote in qualche stanza del sampierdarenese (‘…actum in Sancto Petro de Arena …presentibus testibus presbitero Cremona archipresbitero dicte plebis…’); e nel 1387 la ‘Plebs S.Martini de Arena è tassata per sei soldi ogni cento di reddito, da pagarsi alla Camera Apostolica’.
1372, 22 agosto. Fa testamento, in casa sua di SPdArena, Franceschina q.Leone Ihacaria. Vuole essere sepolta nella chiesa di s.Martino, alla quale lega un fiorino d’oro ogni anno per dieci anni; ... più dieci fiorini d’oro da darsi ai poveri ospedali di Genova e distretto, a giudizio e consiglio di prete Nicola arciprete della chiesa di S.Martino...più alla predetta chiesa due soldi in perpetuo per un annuale da cantarsi dall’arciprete di essa chiesa..più...
Al tempo della reggenza dell’ arciprete Oberto Sacco da Pavia (1384-1397), l’arcivescovo decretò (1387) una cifra da far pagare alla ‘plebs sancti Martini de Arena’, stabilita in 6 libre, per soddisfare le esigenze del papa Urbano VI oberato da spese in guerre contro gli scismi. Nel tempo, il cittadino Filippo Scotto donò alla chiesa la reliquia del braccio di san Martino ricuperata a Pola, tra le altre spoglie del Santo prese dai genovesi ai veneziani ( la flotta era guidata da Gaspare Spinola), pare tra gli oggetti trasferiti alla Cella.
Un altro atto notarile cita nell’anno 1396, 17 marzo, “...presbitero Obertino de Zacijs de Papia archipresbìtero plebis Sancti Martini de Sancto Petro arene Januensis diocesis,,,”
Operante nel XIII secolo, viene segnalata l’esistenza di ‘mastro Buonaventura, fonditore di campane’, inserito dal Novella tra i ‘figli di Sampierdarena’; si presume che i rintocchi provenienti dalla abbazia siano avvenuti per opera di questo artigiano.
E sempre nel XIII secolo, l’edificio fu soggetto ad un sostanziale restauro: ingrandito a tre navate divise da colonne (era di 22,5x15 metri, oltre un piccolo presbiterio di 7,5 m), con nove altari (tre i testa e tre per lato).
Negli anni a cavallo tra il 1400 e 1500, erano d’uso nell’abbazia le cosiddette ‘rappresentazioni mute’ a commemorazione dei giorni di giovedì e venerdì santi, della Pasqua: ovvero composizioni plastiche di fantocci-manichini, o persone viventi ma immobili, detti ‘ludus’ (vedi alle Casacce).
1406, 14 maggio -Dal Regesti di vP (II.280)- l’arcivescovo di Ge Pileo DeMarini costituisce suo procuratore don Giovannino di Castelnuovo –arciprete della chiesa di s.Martino di SPdA- a comparire davanti al mag.co e ill. sig. Conte di Pavia, a procurare che l’amministratrore della mensa arcivescovile dia conto della sua gestione. Il 7 sett. L’arcivescovo “sapendo che la chiesa manca di titolare per la morte di don Giovannino, nomina a detta chiesa don Antonio d’Alessandria cappellano di detto Arcivescovo”.
1409 il 29 aprile, (Regesti di vP II.280) lo stesso arciprete don Antonio viene convocato perché assieme ad altri revochino il mandato a due, preposti a presenziare assieme all’arciv. al Concilio Generale di Pisa convocato per l’unione della Chiesa cristiana. Dello stesso anno, 22 nov. L’arcivescovo ammonisce fra Pietro dell’Olmo (preteso arciprete della pieve di Ceranesi) perché dia conto delle rendite della chiesa di sMartino di SPdA da lui usurpata per qualche tempo indebitamente ed ingiustamente senza alcuna licenza, pur tenendo insieme la sopradetta cura di Ceranesi (Regesti II.281)
1410 un atto notarile del Regesti di ValPolcevera (pag.218) del 17 agosto, fa scrivere al “prete Franceschino, cappellano in S.Lorenzo, per commissione e mandato dall’Arcivescovo di Genova, mette in possesso prete Iacobo di Rotondo in uno dei canonicati della pieve di S.Martino in Sampierdarena, presente, volente ed accettante col consenso dell’arciprete Giovanni di Montemerlo di Tortona, arciprete di detta chiesa”.
1411, 22 giugno testamento di Giannono Cibo q.Giuliano cittadino di Genova. Lega alla casa dei disciplinanti di S:Martino di Sampierdarena lire dieci per comprare un crocifisso, a condiziomne che i fratelli di detta casa lo ascrivano, dopo mporte, nel numero dei confratelli defunti.
3 ottobre. È arciprete della chiesa fra Giovanni. Riceverà da testamento 2 fiorini d’oro, per seppellire nella chiesa Iacobina Castagneto q.Guglielmo che è inferma in una casa vicina al ponte di Cornigliano.
Un atto notarile del 23 settembre 1416 scrive :”in San Pier d’Arena, sotto il portico della chiesa di S.Martino – Pietro de Pietra, abitante a Gaiano ed Ambrogio de Castagneto qm. Lorenzo, massari della chiesa di S.Martino in San Pier d’Arena, dichiarano a prete Giovanni di Montemerlo, arciprete di detta Chiesa, d’aveea avuto intero pagamento di tutto ciò che egli, o altri al tempo della di lui elezione in arciprete di essa chiesa, promisero di dar loro per causa di riparazone di detta chiesa”. (appaiono ovvie le vicine contrade ‘de Pietra’ e ‘Gaiano’)
1455-12 marzo- nel Regesti di val Polcevera si legge a pag. 302 che l’arciprete di Sampierdarena, Francesco Bianchi (esegue un ordine di immettere un sacerdote nell’Ospedale dei poveri di s.Biagio in Rivarolo)
E’ del 18 marzo 1461 l’elezione da parte di due canonici, del nuovo arciprete della Pieve: questo diritto dei Canonici di San Pier d’Arena di eleggersi l’arciprete risaliva a molti anni prima .
1464 17maggio, prete Antonio Fabiano di s.Remo, che è “arciprete di s.Martino ed è anche rettore o governatore dell’Ospedale di S.Pietro Martire del ponte di Cornigliano, fa la sua rinuncia nelle mani del Vicario generale dell’Arcivescovo che elegge in sua vece al medesimo posto prete Francesco di Stuliasco di Voghera, cappellano della chiesa delle Vigne in Genova (Cipollina-Regesti di ValPolcevera-pag.306)
L’arciprete Giovanni de Fabiano, il 20 gennaio 1495 presenziò a solenne funzione nell’abbazia sestrese di s.Andrea per il ricupero di alcune reliquie precedentemente rubate.
1510 Giorgio Vigne dipinto coevo alla Briglia
Nei secoli posteriori, fu gradatamente abbellita con marmi e pitture; un battistero di marmo; un magnifico pulpito e -nella cantoria- dal 1640 un bell’organo costruito da Stefano Scoto.
Negli secoli a seguire, la chiesa tornò nuovamente in pietose condizioni , mentre il territorio subiva profonde modifiche socio-politiche: in particolare NS della Cella, san Bartolomeo della Costa, san Giacomo di Cornigliano, san Michele di Coronata poco a poco avevano acquisito autonomia; nacque anche il problema per la comunità, se spendere i soldi per un restauro lasciandola in quella zona troppo decentrata o addirittura trasferirla in zona più a mare ove era cresciuta la popolazione attiva. E’ datata 2 aprile 1563 una lettera scritta dal Doge della Repubblica Battista Cicala Zoaglio a Carlo Borromeo (arcivescovo di Milano, poi divenuto santo; allora cardinale e segretario di stato nominato dallo zio Pio IV ); di essa si segnalano solo alcuni passi chiarificatori: “le anime essendo rette e governate da un povero prette (sic)...che ivi stava il più delle volte a fitto, ne hanno pigliata assai scarsa ricreazione nei sacramenti e culto divino, standovi persona alla cura di bassa qualità e da non sapersi regolare e amministrare ....per essere il luogo molto debole di entrata ...i parrocchiani impetrarono d’introdurvi due frati dell’ordine di sant’Agostino ...il che consentiva trassero tutte quelle anime molti conforti anche dopo la morte, nel 1562 dell’arciprete rev Paolo Gandolfo,... al punto di pregarla di intercedere per noi con sua Santità...di unire la chiesa suddetta al monastero di sant’Agostino di questa città...”. La supplica non sortì effetto, anche perché in corrispondenza il monastero fu temporaneamente chiuso per sospetta eresia.
Nel 1582, il delegato pontificio mons. Bossio, venuto in Liguria per controllare l’applicazione degli statuti del Concilio di Trento, visitò la chiesa e decretò che la reliquia di san Martino fosse inclusa in un contenitore più adeguato e che fosse posta nell’altare maggiore dietro un cancello, affinché fosse più facile vederla ma non toccarla. Altre precise istruzioni furono rilasciate anche in riguardo all’Oratorio (leggi sotto).
Il card. Durazzo, fece più d’una visita pastorale alla abbazia: nei decreti relativi alla visita del 1650 e 1652, vengono descritti (vedi all’anno 1700) gli altari segnati con una *; nella visita del 1654, ne vengono aggiunti due, segnati con ** .
Nel 1683, per un sinodo celebrato in san Lorenzo dal 6 all’8 maggio, vennero stabilite le precedenze tra i vari arcipreti, in rapporto all’importanza e vetustà delle pievi: per primo ebbe merito l’arciprete di Lavagna, seguito da quello di Rapallo, Gavi, Palmaro, Voltaggio; quello di San Pier d’Arena ebbe il sesto posto seguito da quello di Portovenere, di Recco, Nervi, ed altri. Il borgo contava allora poco più di 3000 anime o 750 fuochi.
Nei primi anni del 1700 gli altari risultano così distribuiti:
=1 dx=del SS.Salvatore ( fin dai primi anni del 1700 - e chissà quanto prima- presso i cancelli antistanti la porta Lanterna fu dipinto sull’ardesia il volto di Cristo coronato di spine; successivamente l’effige venne protetta costruendovi attorno una piccola cappella; dovendosi fare dei lavori di fortificazione, nel 1719, si demolì la cappelletta: il popolo del Primo Quartiere della Coscia e l’arciprete di san Martino Giovanni Giacomo Tavaroni (parroco dal 1687 a 1743; vedi chiesa d.Cella, accusa di ‘furto sacro’), assenziente l’arcivescovo di Genova s.e.card. Lorenzo Fieschi, fecero supplica al governo che il 13 giugno accettò, ché la pietra fosse segata e donata al borgo. Con festa e tripudio nello stesso 1719 (che si tramanda tutt’oggi come annuale festa principale e sagra cittadina, la domenica successiva al 2 maggio (nel 1822 vide presenziare il re Carlo Felice con la consorte, tornati apposta da palazzo reale di via Balbi per assistere alla cerimonia religiosa, dopo una visita ufficiale fatta alcuni giorni prima ed in cui erano stati accolti alla porta Lanterna da manifestazioni di festa ed alta simpatia popolare, da fuochi d’artifizio, e quindi da sagra), il sasso fu portato nella parrocchia di san Martino e, posto sopra al primo altare destro. Fu chiamata effige taumaturgica del SS.Salvatore. Nel 1722 il parroco di san Teodoro rivendicò la proprietà dell’effige, ma perdette la causa. Fu traslocata alla Cella, quando la abbazia venne chiusa al culto, ed anche qui è custodita su un altare. Alcune richieste di protezione da parte del popolo in drammatiche situazioni locali -come in occasione dell’assedio del 1800, con il borgo epicentro degli scontri-; un maremoto del 1821; un terremoto del 1828 ed il 23/2/1887; il colera; il vaiolo nel 1870 e 1887-, e sistematicamente realizzatasi, ammantarono l’immagine di una suggestiva capacità miracolosa.
=2 dx=del Bambino Gesù** ( o della Circoncisione, o del nome di Gesù; questo altare risale ai padri domenicani che forse nel 1587 gestivano l’abbazia , e che avevano questa devozione, titolare del loro Ordine);
=3 dx=di san Michele e san Sebastiano (con un quadro con la loro effige );
=4 dx=di san Pietro **( aveva una ancona del santo, in mezzo a san Ugone cav. gerosolimitano e Carlo Borromeo). L’altare era di particolare venerazione da parte dei marinai. Fu traslocato alla Cella;
=altare maggiore= marmoreo, con il quadro di san Martino, dipinto da Domenico Piola, andato perduto. Dello stesso autore, sarebbero stati quindi l’icona e l’ affresco sulla facciata esterna sopra la porta principale);
=4 sn=della Immacolata Concezione * (di patronato di Tomaso Spinola) ;
=3 sn=di san Bernardo ed il Crocifisso* (di patronato della famiglia Boconelli , opera del nostro Gian Domenico Castiglione soprannominato Grechetto; trasferito alla Cella);
=2 sn=sacro al Crocifisso*. Era di patronato di Marcello Celle. Traslocato alla Cella.
=1 sn=del Rosario* (della Società di dottrina cristiana o di san Sebastiano; il rito e l’usanza volevano che senza un patrone responsabile l’altare potesse essere interdetto alle funzioni sacre perché non completamente fornito del necessario: questo accadde quando si estinse la famiglia dei patroni di nome Topoli , in attesa di un altro interessato; era il più ricco in marmi, con una statua in legno posata solennemente su un altare con 4 colonne).
Dai registri comunali si legge il nome del Vicario, magn.co Benedetto Molfino, presente ad una riunione del 23 maggio 1763 nella quale si eleggevano i responsabili (Ufficiali) della Comunità: censori, deputati di sanità, cassiere, cancelliere, ?traglietta? (sic), i responsabili di quartiere (Mercato, Corpo di Piena, Capo di Faro).
Nella riunione successiva del 5 giugno effettuata nel ‘Castello’ fu eletto anche il Predicatore che avrebbe fatto il Quadragesimale (sic) nella chiesa parrocchia di s.Martino.
Nel 1795, il ser.mo Senato, con decreto 14 sett., concedeva ai cittadini del borgo e su loro richiesta la chiesa di san Gaetano quale parrocchia (con l’obbligo di offrire ai padri Teatini gestori di quest’ultima chiesa, un’altra proprietà parrocchiale in cambio, e cioè san Pietro in Vincoli il salita Belvedere, da poco liberata dai padri Gesuiti (essendo stata soppressa la Compagnia del Gesù). I Teatini rifiutarono il cambio, ma essendo comunque licenziati, si ritirarono in san Siro a Genova lasciando il tutto stagnante. Finché il 22 mag.1797 scoppiò in Genova la rivolta, e l’anno successivo il Senato promulgò delle leggi favorevoli alla restrizione del culto, requisizione dei beni (alla parrocchia di san Martino furono requisiti dal segretario generale del direttorio della municipalità e versati all’Amministrazione della Polcevera beni preziosi per un valore di lire 5080: valutando 48,5 libbre di preziosi a 6,6 lire l’oncia, ed altri per 24,4 libbre a 4,10 l’oncia. Ed una somma ben più considerevole fu ritirata all’Oratorio, per una cifra di 10.018 lire) e concentrazione degli istituti religiosi tramite soppressione di numerose chiese (tra cui in progetto anche la Cella stessa): i cittadini del borgo -dopo inchieste, riunioni, domande, si appellarono al Governo Democratico ligure che nel 13 mar.1799 deliberò il sequestro di san Gaetano (di proprietà privata) che fu donata al Demanio; chiusura delle porte della fatiscente san Martino sperando inutilmente di utilizzarla in qualche modo; la Cella (in quel momento abbandonata -perchè espulsi nel 1798 i padri Agostiniani calzati) quale parrocchia del borgo: nei locali del convento si trasferirono trasformandola in casa canonica, il 5 apr.1799 (venerdì dopo la Domenica in Albis), l’arciprete di san Martino (don.Giacomo Luigi Da Pozzo, che sopravvisse tre anni), i suoi sacerdoti, tutti gli arredi, il titolo parrocchiale di san Martino, anteposto a quello di santa Maria della Cella.
Alla Palmetta, cessata la funzione parrocchiale, cessò anche il culto e rimase solo lo stabile in sempre più grave stato di abbandono. Sia per l’assedio del 1800, quando si trovò al centro di scontri tra truppe , venne colpito da bombe e mezzo scoperchiato; sia per sottrazione di marmi pregiati ed antichi e delle pietre già squadrate, ad utilizzo privato; sia per usi profani (ricovero di stallaggi, carri ed animali - Remondini nel 1897 scriveva che “sotto i piedi dei muli e degli asini stanno intatte le sepolture...”), rimasero in piedi solo parte del campanile anche lui diroccato, ed alcuni muri maestri.
Cosicché nel 1899, dall’arciprete Tiscornia nelle rimembranze delle Feste Centenarie del SS Salvatore, viene descritta definitivamente distrutta esclusi i quattro muri maestri.
LO SPAZIO.
Le carte del Vinzoni del 1756, e del Brusco del 1790, chiariscono la posizione ed i rapporti con la strada principale: in un terreno a trapezio con base sulla strada, la parte sinistra occupata da una piazza e dalla chiesa; la parte destra - in basso dall’orto, da una stradina laterale e dal terreno della canonica; ed in alto a chiudere, l’Oratorio con campanile e casa-canonica.
dalla carta del col. ing. C.Brusco - 1790
Remondini scrive “si vide sorgere, per opera di speculatori, un grande caseggiato al muro di facciata dell’antica chiesa”, ed altrove ripete non villa né casa ma “dal 1890 caseggiato“: fu il civ. 37 di via A.Saffi (via C.Rolando) che poi diventò ed è il civ.1 di via A.Caveri).
L’arciprete Luigi Tiscornia, ex parroco dell’abbazia, scrisse che ‘l’area dell’antico tempio rimane tutt’ora circoscritta dai quattro muri maestri, occupata da bottai, da baracche e da stallaggio(… e che) sotto le macerie stanno intatte le sepolture”. Quando dopo il periodo ultimo bellico hanno rifatto il palazzo ora civ.1 di via A.Caveri (semidistrutto forse dalla stessa bomba che aveva distrutto l’Oratorio retrostante), dovendo spostare di vari metri verso levante i basamenti (concedendo in cambio l’allargamento del vicolo), memoria d’uomo ricorda aver visto emergere ossa in abbondanza (sottolineiamo che ai tempi dell’abbazia, le sepolture erano tutte in chiesa perché ancora non esistevano i cimiteri) ed alcuni muri - con grossi finestroni rotondi- che furono rapidamente distrutti o coperti, presumibilmente per evitare interruzioni degli enti predisposti, e vi fu fabbricato sopra l’ala del palazzo.
Lo spazio sedime della abbazia ed i terreni a monte verso il forte di Belvedere (ai limiti delle case popolari, e potendo utilizzare il materiale pietroso e marmoreo rimasto) furono comperati da privati per utilizzare il terreno a villeggiatura: in particolare per erigere posizionandola più in alto, ove ora il civ. 9-11, la villa Negrotto (poi dei Pittaluga; e nel 1899 dei Moro; poi divenne scuola gestita da suore; poi fabbrica di colori (Rocca ?); ed infine demolita pure essa). Viene infatti ricordato che dopo il civ. 4 di via A.Caveri, di fronte c’era il muro dell’Oratorio ed in quel punto la stradina in salita era sbarrata dal cancello della villa: dopo esso, un lungo viale privato portava all’edificio; esistette sino al 1934 quando la soc. Coop.edile ‘La Moderna’ su progetto dell’ing. Bonistalli acquisì i diritti di distruggerla.
fotografia del 1949, scattata dall’alto, affacciati da una finestra nel retro del civico 35 di via C.Rolando: durante i lavori di ripristino dell’area bombardata, si scorgono i muri dell’antica abbazia, rapidamente coperti.
L’ESTERNO : dal Ratti si descrive sopra la porta principale un affresco di Domenico Piola rappresentante il santo nell’atto di fare la sua elemosina.
L’INTERNO : già descritto precedentemente. Era a tre navate, con nove altari.
IL CAMPANILE aveva tre campane, ed era posto a levante rispetto la chiesa.
I SACERDOTI : Il lungo elenco degli arcipreti che gestirono la Pieve negli anni, inizia con Oberto Balbo nel 1128 e prosegue : Ottone, 1158 ; Martino tra il 1186 e 1195 ; Oberto de Campi, 1210 ; Guglielmo, 1220 ; Simone Malocello, 1226 poi vescovo d’Albenga nel 1230 ; Rolando, tra 1235-40 ; Gugliemo da Castello, 1250 ; Salvo, tra 1251-59 ; Rubaldo, 1264-70 ; Oberto, 1282-96 ; Cremona, 1302-24 ; Gerardo di Regio, 1341-48 ; Antonio Piloso da s. Vittoria 1352-58 ; Nicolò di Ottobono 1367-84 ; Oberto Sacco da Pavia, pure prevosto di san Donato, 1384-97 ; Bartolomeo di san Pietro 1397-1400 ; Giovanni Scarabelli da Castronuovo, 1400-06 ; Antonio Mezzano da Alessandria, 1406-7 ; Pietro Valdettaro, 1407-09 passò a san Pietro di Banchi ; Giovanni di Montemerlo 1410-34 ; Antonio Poggi 1434-35 ; Francesco Bianchi da Novi 1435-61; Giovanni Girardengo di Novi, 1461; Antonio Fabiani da san Remo, 1461-64 ; Francesco da Voghera 1464 ; Giacomo Lazzari da Castronovo 1464; Antonio Fabiani, 2° volta, 1465-68 ; Pier Giovanni Fabiani da san Remo, 1488-97 ; Pietro Costa, 1497-98 ; Gerolamo Garibaldi da Chiavari, 1498-99 ; Stefano Oliva da Sestri Levante 1500; Pier Giovanni Fabiani, 2° volta, 1499-1530; Paolo Gandolfo di Albenga, 1530-31 ; Pier Giovanni Fabiani, 3° volta, 1531-38 ; Paolo Gandolfo, 2° volta, 1538-62; Giovanni Pignone da Voltri, 1562-73 ; Giorgio Massa di Turrito d’Albenga 1573-1605; GB Scibone, 165-22; Gio Vittorio Angeletti da Vezzano 1622-53 ; Gio Maria Salineri di Sampierdarena, 1653-57; Gio Francesco Puppo, 1657-61 ; Gio Francesco Dolcino, 1662-87 ; Giacomo Tavaroni, 1687-1743 ; GB Borelli 1743-73; Carlo Marchelli, 1773-87; Giacomo Luigi da Pozzo, 1787-1801 trasferimento della parrocchia a santa Maria della Cella la quale ne assume il nome come cointestatario; Giuseppe Luxoro ,180 - ;Giuseppe Bava 1826-35 ; GB Antola da Recco, 1836-42 ; Angelo Boccardo, 1843-45 ; Stefano Parodi già arciprete di Sori, eletto nel 1846-62 eletto canonico della metropolitana ; Michele DeCavi da Voltaggio, 1863-74 ; Stefano Daneri, chiavarese, 1874-83 ; Gio Luca Pizzorno da Rossiglione, 1884-91 eletto canonico della Metropolitana ; Francesco Olcese da Cornigliano, 1889-1915 promosso abate di NS del Rimedio; Giovanni Bozzano, 1915-24; Raffetto Emanuele da Sampierdarena, 1925.
ORATORIO : in un bombardamento aereo del 7 nov. 1942, la chiesuola dell’Oratorio di san Martino, fu tragicamente distrutta. Uniche foto, ci permettono nostalgicamente di vedere parzialmente l’interno, presso l’altare maggiore.
altare maggiore con effige della Madonna 1942
della Guardia
In totale assenza di altre immagini, siamo riusciti da chi è vissuto nella zona, a rifare la mappa ed il plastico del luogo (vedi allegato) prima di quell’infausto giorno.
Non è tanto la sua piccola presenza, né i beni seppur di enorme valore artistico in essa contenuti, ma è andato perduto l’intenso significato storico e tradizionale, di quasi mille anni della zona: e non è poco.
l’oratorio, ricosctruito da testimonio oculare
Dove ha sede il civ. 1A attuale, di via A.Caveri, da dopo il 1400 già esisteva nel retro della abbazia questa chiesuola affiancata dalla casa per il sacerdote, perpetua e campanaro, con davanti un giardinetto; il tutto circondato da un discreto muro. Era il cuore pulsante della parrocchia, dal quale si diramavano tutte le attività di rappresentanza extraliturgiche (processioni, assistenza, aggregazione) programmate dal Consiglio direttivo.
Uno studio del canonico Cambiaso Domenico, permette risalire alle prime decadi del 1400 per molte ‘confraternite rurali’ vicine, non per la nostra (vengono segnalate quelle di Voltri, SestriP, Rivarolo, Bolzaneto fino a sant’Olcese; non la nostra); anche se conclude il periodo scrivendo “queste istituzioni sullo scorcio del sec. XV erano diffuse in tutte le nostre campagne”.
Nel Regesti di val Polcevera vengono però segnalati alcuni particolari, probabilmente inerenti all’erezione di questo oratorio: «data 4 aprile 1417—Pietro di Pietra risulta procuratore ed amministratore di5 persone: 4 sono nipoti di Iacobo Bacarino (ovvero due –Antonio e Bartolomeo-, figli che la figlia qGiovannina ha avuto sposando Pietro Di Pietra; altri due nipoti -Antonio e Lodovico- figli ed eredi di q.Domenichina q.Iacobo); + Cristoforo Barocio q.BeretolloBarono. Hanno accertato che i Confratelli Disciplinanti del beato Martino di SPdA hanno costruito una casa su un territorio di Iacobo e di volerla ‘tramutare alla Chiesa’ (territorio che fu venduto ai Confratelli, ma con “patti, modi e condizioni”). A parte il fatto che detti confratelli (in particolare Martino de Coronato, priore, e Antonio di Fassolo sottopriore) sono liberi su tutto ciò che hanno costruito su terreno della chiesa; su quello che invece hanno costruito su terreno di Jacobo, entro natale –escluso nei mesi di agosto e settembre- vogliono si proceda a ‘scoprire detta casa e diroccare i muri. Promettono di lavorare e far lavorare in detto territorio a loro proprie spese ed asportare tutte le pietre e il getto di essa Casa senza portare danno alcuno”.
Dieci giorni dopo, datato 15 aprile 1417, il “prete Giovanni di Montemerlo, arciprete della chiesa di S.Martino in Sampierdarena, concede in locazione perpeytua, per l’annuo canone di lire 2 di Genova, ai signori Martino di Coronato, speziaro, priore, e ad Antonio di Fassolo, fornaio, sottopriore della casa dei disciplinanti del beato Martino, presenti, stipulanti ed accettanti a nome proprio e a nome e vece ancora degli altri confratelli di detta Casa, presenti e futuri, un pezzo di terra, ossia un vuoto di detta chiesa e vicino alla stessa, di lunghezza goa 25 e la larghezza goa 10, cui confina, di sopra la strada pubblica ovversia la crosa, da un lato la terra di Raffaele Doria, inferiormente e dall’altro lato la detta chiesa, sopra il qual territroio, ossia vuoto, devono i detti confratelli coistruire la loro Casa che hanno già cominciata, con tutti e singoli gli introiti ed uscite spettanti a detta Casa” (Filza II.prima numerazione.152).
E già (Filza II, seconda numerazione 67) pochi anni dopo, 9 giu.1422 compaiono delle disposizioni testamentarie del su citato «Antonio di Faissolo q.Bertono, abitante in Sampierdarena. Vuole essere seppellito nella chiesa del beato Martino in Sampierdarena e precisamente nel monumento dei disciplinanti di detta chiesa... Ordina altresì che gli introiti e redditi di una sua casa, con forno, situata in Genova nella contrada dello scalo, e che non dovrà mai essere venduta, vengano percepiti da un cappellano o prete, da eleggersi tra i massari e priori della chiesa di San Martino, il quale dovrà celebrare in perpetuo, in detta chiesa, delle messe di rimedio dell’anima sua e de’ suoi parenti, e ciò in ciascuna domenica e nelle principali solennità»
In mancanza di altri dati certi, taluni autori ponevano la nascita, in corrispondenza della visita di mons. Bossio, nel 1582, il quale cita l’oratorio; ma tale atto ne sancisce l’esistenza, non l’anno di erezione. Lo stesso vale per la “Casaccia di s.Martino” sampierdarenese, compare segnalata la prima volta dopo detta visita.
Essendo il pregio dell’edificio sacro, basato prevalentemente sulle decorazioni che la bomba aveva pressoché completamente distrutto (marmi degli altari, balaustre e pavimento; stucchi e dorature, caratteristiche per raffinatezza, eleganza e policromia) ne fu ordinato tout-court l’eliminazione.
Particolare menzione merita la ‘rettoria’ di san Martino, munita di gonfalone proprio.
La CONFRATERNITA (o Arte o Corporazione).
da leggere: SemeriaGB –libri 1912 in 6.1A - vol.I pag. 117 e aggiungere in biblioteca
PREMESSE= Già dai tempi delle crociate, esisteva in tutta Europa un fervore religioso molto acceso, sentito e temuto (i preti erano colti, possedevano potere temporale anche nei singoli Stati, promuovevano quel microcommercio povero ma diffuso nel popolo da condizionarlo: la disciplina penitenziale nasce così). Nel XIII secolo erano sorti gruppi di laici popolari che diedero vita a manifestazioni parareligiose, molto istintive essendo essi solo pescatori o contadini anche se presumibilmente dirette dai più colti figli di nobili. Descritta in atto notarile (perché la sacra rappresentazione, svoltasi probabilmente sul sagrato della nostra abbazia, fu seguita da una rissa tra uomini del borgo ed alcuni di Sestri), San Pier d’Arena fu testimone nel 1253 di una di queste prime rappresentazioni –e tra esse è considerata la più importante-, allora chiamate ‘ludus’, ovvero nel nostro caso ‘ludus peregrinorum’ perché riproponeva in forma scenica l’incontro dei discepoli-pellegrini con Gesù a Emmaus. Queste rappresentazioni locali (che sulla base dei documenti furono una delle prime sacre rappresentazioni d’Italia, molto probabilmente portate qui precocemente da qualche frate proveniente dall’Umbria) dovettero continuare nei secoli, se ne abbiamo documentazione di altre datate 1538 (nessuno doveva recarsi armato laddove si andava a conversare, ballare, fare festa, pena due tratti di corda) e 1589 nel ‘diario Pallavicini’ conservato nell’Archivio municipale (“Domenica 8 8bre 1589; dopodisnare certi giovinetti di poca età hanno recitato una rappresentazione spirituale in lo Chiostro delli Fratti di S.Pietro d’Arena, et riuscitte benissimo: Vi era gran concorso di persone particolarmente di donne. Li figlioli sono doi di Gio.Batta Pallavicino q.Damiano e uno di Ger.o Grimaldo q.Luce; li altri erano figli di huomini di S.Pietro d’Arena”)
Questi uomini (più spesso appartenenti alla stessa classe sociale –e quindi ‘fratelli’-, si riunirono in associazione sia per pregare ma anche per riunirsi laicamente in autonomia del clero; e preferirono non farlo in chiesa quanto invece in locali annessi, laddove poter discutere e quindi instaurare un punto di aggregazione sociale, ed appoggio culturale o di soccorso nelle spicciole necessità della vita quotidiana.
AGGREGAZIONE = In tempo di religiosi –prevalentemente francescani e domenicani- dal forte carattere che predicavano -tra l’altro- la penitenza, minacciando gravi castighi (s.Pier Damiani, s. Domenico Loricato, s.Antonio da Padova, s.Francesco d’Assisi, l’eremita perugino Raineri Fasani) divenne nuova l’ idea-sviluppata in campo internazionale- di manifestare il pentimento in forma organizzata, più qualificata e clamorosa tale da stupire, ammirare e da emulare. La primogenitura –relativa alle prime due decadi del 1200- è variamente attribuita: fece poi scalpore quella prodotta dai frati francescani in Umbria nel 1258, dal Fasani nel 1260 (per noi, i più vicini francescani e quindi fautori di questi ‘ludus’ erano a SestriP): sorse come festa di popolo affiancata all’uffizio liturgico (celebre quella dopo la predica di s.Antonio da Padova nel 1225: la folla iniziò a flagellarsi e cantare pie canzoni), organizzando i personaggi che vennero chiamati “Disciplinanti” in onore della Passione di Gesù (altri scrive ‘Disciplinati’ dalla traduzone latina di “domus disciplinatorum s.Antonii in conventu s.Dominici”; Roscelli a pag.150 scrive - presumo erroneamente - la ‘Confraternita della Morte’: perché questa è tardiva nel tempo e corrisponde a quella dell’oratorio omonimo, una volta esistente in via N.Daste ora sarebbe in via A.Cantore). Questi, acquisirono -su tutti gli altri tipi di aggregazione- la maggiore importanza e popolarità, diffondendosi rapidamente anche in Liguria. Anche il noistro Oratorio di san Matrtino, appartenne a questa categoria. A Genova una prima rappresentazione risale al 1260 (quando Sinibaldo Opizzoni venne a Genova con grande compagnia di persone che denudati nel dorso iniziarono a girare per le vie gridando “misericordia”, battendosi ed invocando Maria perché intercedesse con Gesù per i loro peccati. Ebbero un buon successo di folla, e tutti gli storici concordano che furono il seme da cui germogliarono le prime Confraternite (oltre una dozzina a Genova in quella data; altre numerose, nelle riviere, un secolo dopo).
Come sempre, l’idea ebbe varianti per allargamento inventivo (di essi più famosi sono i ‘penitenti’ (che andavano vestiti di sacco e cappuccio ‘invocanti’ la misericordia divina o che si sottoponevano spontaneamente a severe proibizioni). Essi furono esasperati poi dai ‘flagellanti o battuti’ (che girando l’Italia diretti in Provenza eseguivano penitenza pubblica, istericamente autofrustandosi a sangue o automortificandosi con il cilicio).
Prevalsero però poi, alla fine del 1300, gli atteggiamenti più moderati e pacati, seppure sempre con fervore ardentissimo, chiamati i ‘bianchi’ (provenienti dalla Provenza, erano vestiti di sacco, ancora biancato dalla farina (saio), fermato da una corda alla vita, e con cappuccio coprente tutto il volto salvo due fori per gli occhi: diedero l’avvio ai costumi tipici delle Confraternite).
Assieme ai religiosi, sicuramente divennero gli infermieri degli Ospedali (XV secolo); dei Lazzaretti (XVI); delle Scuole di carità e del Monte di Pietà (XVII). Più tardi divennero anche mecenati dello sviluppo dell’arte sacra (XVIII).
ORATORI= Una delle prime necessità fu di crearsi e costruirsi un locale proprio, (laddove non ne erano reperibili nell’ambito della chiesa): sorsero così, prevalentemente nel XV secolo gli ‘oratori’, favoriti da leggi approvate dal senato della Repubblica e dalla aspirazione ad una propria autonomia (per ottenere la quale si autotassavano e si proponevano per donazioni ed eredità; arrivando poi -spesso- a possedere beni cospicui).
REGOLAMENTO o statuto= Apparve ben presto necessario regolarizzarsi con statuti, fissare gerarchie, comportamenti, multe, cerimoniali (abiti (cappe di velluto, più o meno ricche in rapporto alla gerarchia, a volte con strascichi e paggi a sorreggerlo; bottoni appositi; cappucci ricamati), Cristi; casse; mazze ornate con statue d’argento del Patrono; crocchi per sorreggere i Cristi; fanali; e tanti beni vari) sia per testimoniare in processione la propria fede, sia per evitare abusi ed eccessi (essere disarmati perché le ovvie rivalità, non finissero in inevitabili risse).
Il più antico a Genova, risale al 1306 nella chiesa di s.Domenico, ove sta scritto che stavano «congregati per lo bonu statu di la compagnia».
Oltre poi ai regolamenti interni, fu necessario nel 1530 circa, istituire sia per Genova che per il suburbio e territorio della Repubblica, uno speciale Magistrato -detto dei Quattro Sindaci- che sorvegliasse l’osservanza alle regole di base dettate dal Senato. Così aggregate ed uniformate, le confraternite si trovarono riunite in Casacce (in un documento notarile del 1561 per la prima volta viene scritta la parola ‘casacia’ come volgarizzazione di casa, nome dato come ‘domus’ alla sede delle Confraternite stesse alla loro nascita), fino a divenire sinonimo stesso di Confraternita, di sede specifica per le attività caritativo-assistenziali, parrocchiali e di aggregazione organizzate dal Direttivo.
1923
STORIA LOCALE = Della casaccia di Promontorio, ne parliamo alla voce specifica.
Qui era quella di san Martino: si hanno notizie di essa in una lettera datata 1825 nella quale il priore – nel rivendicare il diritto di trasportare i defunti (vedi sotto a quella data) - esprime che dai documenti a sue mani (in particolare il libro dei confratelli defunti, risalente a quella data: documenti andati perduti con il bombardamento) tale funzione era esercitata dalla Compagnia la quale ‘esisteva da prima del 1379’.
Nulla si ha di ufficiale, sino al 1582, quando alla Pieve fu ospitato - quale severo visitatore apostolico - mons.Francesco Bossio, vescovo di Novara (visita effettuata a tutte le chiese e comunità religiose, subito dopo il concilio di Trento (1545-63) per dare aggiornamento ed impulso al culto della Madonna in contrapposizione al protestantesimo; nella sua relazione si legge che fece tagliare dalla “ Casacia Sancti Martini in villa Sancti Petri de Arena“ degli alberi vicino ad un cimitero (‘coemeterio ante fores ecclesiae arbores extirpentur’= presumibile lo stesso da cui emersero nel dopoguerra ‘45 dei resti umani durante il rifacimento del palazzo soprastante; esistevano cimiteri all’aperto in quell’epoca solo per i poveri: i ricchi venivano sepolti in chiesa). DeRobertis aggiunge altre e precise istruzioni, rilasciate dal prelato direttamente al parroco così responsabilizzato di persona, da attuare entro quattro mesi, mirate a migliorare la decorosità della forma ecclesiale (che però a mio avviso riguardano più la chiesa dell’Oratorio): fece ingrandire la predella e l’altare maggiore; collocare la ‘pietra sacra in modo conforme; fare una ‘umbrella’ (sopra l’altare) con un panno di seta; trasferire la pila dell’acqua santa; ingrandire la sacrestia; arricchire i paramenti sacri munendoli di pettorali, borsa e purificatoi; munirsi di tre veli da calice di colore diverso, di tre tovaglie d’altare, di due palli – uno bianco o rosso, un altro nero o viola - di due casule degli stessi colori.
Così sappiamo che allora esisteva già una organizzazione a Confraternita; quando questa aveva deciso costruire un Oratorio proprio, è scritto sopra. Comunque l’edificio fu eretto a monte della chiesa, a forma di L rovesciata (╗) la cui parte verticale era l’Oratorio, e la parte orizzontale era suddiviso in cella campanaria, canonica ed abitazione della perpetua. L’Oratorio era un grosso vano rettangolare, con abside ed altare maggiore posizionati a monte, e due altari laterali. Un tetto unico copriva in forma non differente dalle costruzioni tipiche di allora; sotto di esso erano due grandi finestre lobate, mentre – sopra il fastigio dell’altare maggiore - ve ne era una più grande, schermata da vetri colorati. L’ingresso era in basso, sulla facciata laterale interna; dava accesso ad un vano molto piccolo, tipo ingresso, prima della chiesuola vera e propria; nel quale erano affissi i due crocefissi.
Le casacce ebbero il loro apogeo sociale e politico con l’inizio del 1600, ed il loro tramonto alla fine del 1700. Infatti anche l’arcivescovo Domenico DeMarini negli anni 1629-32 si interessò dell’Oratorio, riordinando di fare entro sei mesi un ‘umbrella di seta’ sopra l’altare maggiore (probabilmente non essendo stato eseguito il dettato del Bossio)
Una serie progressiva di ‘spese’, sono frutto e conseguenza del lento sviluppo e maturazione culturale dell’associazionismo, che inizia a rilasciare documentazioni di sé: così sappiamo che nel 1649 la Compagnia dei Disciplinanti di san Martino è composta da due priori, tre consiglieri e 44 confratelli, i quali ultimi potranno arrivare a 72 (il numero, frequente imposto in tante Confraternite, nasce da un passo del Vangelo di Luca (10.1) dove si dice che Gesù designò eguale numero di discepoli da inviare a due a due a raccontare la nuova fede): era iniziato proponendo rappresentazioni religiose popolari semplici come preghiere o laudi cantate, e si passò a rappresentazioni tipo teatrali più complesse, a loro volta lievitate in quelle più immediate e di grossa partecipazione delle processioni; e queste poi cresciute di intensità in vere e proprie competizioni nella ricerca del bello, del vistoso e grandioso, per stupire le altre congregazioni e contrapporsi –tramite la religione- al lusso dei nobili.
In questo periodo oltre che al servizio della propria parrocchia, la rivalità tra loro trovò sfogo anche sull’estetica (possedere tante cose belle e preziose significava essere generosi e magnifici: abiti di fini tessuti, mantellette, cappe o tabarrini finemente e riccamente decorati; cristi sempre più pesanti, comunque superiori ai cento chili, ed arricchiti di argenti ed oro a sbalzo vere e proprie lavorazioni fantasiose di oreficeria; casse scolpite da artisti di massimo valore e con pitture ricoperte con lamine d’oro zecchino); sulla forza (il tenere in equilibrio e trasportare cristi sempre più appesantiti divenne un’arte raffinata e non da tutti, adatta a far presa sul gentil sesso che ammirava chi riusciva a mantenere in equilibrio quell’enorme peso pur eseguendo passi di danza, sapersi genuflettere e rialzarsi o virtuosità diverse); sulla rappresentatività (la presenza nelle processioni è richiamo ai fedeli a partecipare): il povero dava sfoggio di ricchezza tramite l’associazionismo e sotto il tollerato mantello della religione; ma assolutamente è da rifiutare il preconcetto che si raccogliesse solo ‘arte povera o popolare’, perché le scelte andarono a cercare artisti anche ‘foresti’, valutati ‘alla moda’ essendo presenti nelle chiese e palazzi più prestigiosi della città. L’impegno religioso spesso si sommava e si confondeva col bisogno dei meno abbienti di riunirsi, distinguersi con una divisa, ed esprimersi nel possedere il bello gareggiando con i patrizi: da qui l’affetto nell’abbellirsi sempre più; la cura nel conservarlo con zelo; il puntiglio di essere sempre migliori.
Ancora del 1654 quando l’arcivescovo, card. Stefano Durazzo, in seguito alla visita pastorale nelle parrocchie e dei maggiori luoghi di culto, fece chiudere una finestra presso l’altare del Crocifisso e riunire la reliquia dell’oratorio con quella dell’abbazia in una unica teca d’argento (i confratelli possedevano conservata in una teca collocata in una nicchia nel coro una preziosa reliquia, tramandata di derivazione dalla santa Croce). In più, scrive che: esiste “l’Oratorio de Disciplinanti di S.Martino in quale si celebra, et oltre l’altare maggiore vi è l’altare del SS.Crocifisso al quale è una compagnia particolare con capitoli approvati dall’ordinario”(quindi uno statuto; con modalità di iscrizione, elezione di priori e consiglieri, obblighi degli associati, ecc.).
Ma in altro documento dell’archivio storico del Ducale, nella stessa data si ricorda che il capitano della Polcevera, Gerolamo Spinola, a causa dei dissapori interni alla Casaccia prese d’autorità a nominare i dirigenti ed il regolamento, portando ‘a buon fine’ i dissidi.
Questo fermento fu forse la causa nel 1689 di una disposizione arcivescovile mirata a frenare usanze non gradite al parroco; in particolare si proibisce nelle feste solenni far celebrare messa nell’Oratorio (concedendolo invece nelle domeniche ordinarie e per le messi in suffragio delle anime del Purgatorio).
Gli associati, necessariamente di età superiore ai 17 anni, erano suddivisi in severi ordini gerarchici, con un priore a comando (gerarchicamente sottoposto al parroco, ma molto influente nelle decisioni parrocchiali a seconda delle personalità); i Consiglieri (che comandavano i singoli, ma anche le varie compagnie (quella dei crocifissi, quella della ‘cascia’, del coro, delle donne) alcuni dei quali svolgevano ruolo anche di pacificatori (‘mantenere l’unione e la concordia tra di noi tutti’)); ed infine l’Università dei fratelli.
Sono di quegli anni degli inviti alle altre Confraternite (sicuramente a quella di Coronata) per partecipare assieme ad alcune cerimonie; e si dava anche libera la possibilità di risiedere nel nostro borgo ed iscriversi altrove (reciprocamente nei documenti dell’Oratorio di NS Incoronata del 18 ott.1665, all’art.4 si fa norma “che il Superiore pro tempore debba la seconda domenica di ottobre giontarsi con li Consiglieri quali unitamente doveranno fare nomina di sei persone cioè due di S.P.D’Arena, due di Coronato e due di Cornigliano che bebbino andar sotto l’approvazione per Priori...”.). Con queste Confraternite limitrofe (quella di NS Incoronata, S.Stefano di Rivarolo, s.Martino di Pegli) non sono solo rapporti di presenza nelle occasioni di festività solenni ma anche di aggregazione e ‘conserva’ negli impegni e funzioni (esempio, nel trasporto dei defunti, su richiesta dei familiari, una di esse poteva svolgere il servizio, al posto di quella di diritto per località dell’evento)
E sicuramente, questi confronti esterni furono causa di un graduale ma intensivo migliorare l’apparato decorativo interno.
Di altissimo pregio ed unica divenne la ‘macchina per processione’: una scultura in legno di Anton Maria Maragliano (1664-1739, intagliatore genovese,emerso tra gli operatori della stessa arte per bravura e capacità di soddisfare i desideri di maestosità a sfarzo richiesti dai committenti) col gruppo: il santo Martino, la Madonna col Bambino ed angeli, intitolata “apparizione della Madonna a san Martino”, compiuta nel 1703.
Rappresentava la Madonna, in posizione elevata, nell’atto di accogliere le suppliche del santo, in posizione di intermediario tra cielo e terra in quanto -con la mano destra- Le indicava la folla dei fedeli idealmente posizionata in basso (tale sequela, finalizzata ad esaltare gli stadi della religiosità, verrà riproposta dal Maragliano in molte altre casse da lui costruite.
Acquistata per 400 lire, fu ospitata sull’altare a sinistra, ed adoperata come “cassa” o “macchina” per le processioni; alla consorteria era costata 400 lire; ma nel 1774 più del doppio costò il ricolorarla perché Lorenzo Campostano, reputatissimo in questo lavoro (anche per altri interventi in altre sedi, di ripintura e restauro delle opere del Maragliano), usò molto oro in rilievo sul fondo pitturato, mirando ad imitare alla perfezione le antiche preziose stoffe genovesi.
Anche queste vesti processionali, appartengono alla prima metà dell’800
È del 1705 quando si comprò un grande Crocifisso,da porre sull’altare di destra, opera dello scultore sampierdarenese Pier Maria Ciurlo (vedi vico Ciurlo: a lui attribuite sono conosciute solo due opere: questa per l’Oratorio andata distrutta; ed un’altra esistente alla Cella dapprima attribuita al Pittaluga); si sa per riferito, che i due “cristi”, uno “bianco legno” ed uno “nero ebano” erano posti ultimamente uno di fronte all’altro, nell’ingresso dell’Oratorio. Un secondo Crocifisso fu scolpito da AntonMaria Maragliano, ovviamente per questo di gran pregio, datato 1743
Belle e preziose tele arricchirono le pareti della piccola chiesa,di autori definiti ‘di ottimo livello, con punte di eccellenza’ acquistate negli anni dopo il 1726 e pressoché tutte ispirate a episodi della vita di san Martino l’un l’altro complementari (un’idea può farsi attraverso l’unica foto visibile sopra o visitando altri oratori tipo quello di Coronata): posta sulla parete destra e di Sebastiano Galeotti, la ‘guarigione di un’ ossessa’ (Alizeri precisa che essa era del 1732 ed era ‘fermato sulla destra parete’. Dopo il bombardamento risultò gravemente lacerata dalle macerie e mancante di un largo pezzo centrale, salvandosi solo la figura del santo a sinistra, fermato nell’atteggiamento di –seduto- porgere il braccio destro alla figura femminile in primo piano a destra il cui volto ed i panneggi retrostanti sono stati lesionati dallo strappo), ed aveva accanto il seguente, di Domenico Parodi, il ‘Valentiniano II ed il suo trono avvolto dalle fiamme’. Anch’essa riportò numerosi strappi e vuoti dal bombardamento tanto da comprometterne gravemente la leggibilità. Posto invece sulla parete sinistra, e di G.B. Resoaggi, la ‘visione del Santo ancora catecumeno’ (appariva Cristo additante Martino ai suoi angeli come a dire loro che essendo quello ancora catecumeno, era da Lui stesso definitivamente vestito. Questo quadro è stato catalogato come definitivamente perduto); del savonese Domenico Guidobono, la ‘guarigione di una mendicante’ comprato tra il 1728-30 e giudicato irreperibile; di Giuseppe Comotto, un ‘condannato alla forca liberato’, da altri definito il ‘forsennato scampato al laccio’; anch’esso oggi irreperibile;
di F. Campora
disegno soffitto Oratorio
di Francesco Campora, (1693-1753. nato a Rivarolo, carattere irrequieto, fu a Napoli e Roma per apprendere, ma producendo tele di mediocri qualità. Solo nella maturità riuscì a trovare l’espressione giusta e di valore, come si può vedere a Sestri, in Albaro, Rivarolo, a Sarzana e Bitonto, ed infine anche nel nostro Oratorio. Il Campora era stato allievo di Giuseppe Palmieri (che sei anni prima aveva decorato con angioletti similari la volta dell’Oratorio di Coronata e che quindi –molto probabilmente- fu da modello all’allievo, nel frattempo influenzato anche da Domenico Parodi, il romano Maratta ed il Solimena)). Sue due tele ad olio, in totale, con gli affreschi, costando alla Casaccia 1400 lire, una titolata ‘san Martino guarisce un cieco’ ovvero ‘il miracolo del paziente risanato a un occhio’ questo fu uno dei primi acquisti della Confraternita nel 1736 ed inizialmente posto sull’altare maggiore; altra fu una pala della ‘Madonna con s.Martino, s.GBattista e s.G.Evangelista’ (tela che dopo il bombardamento rimase intatta, ma che è scomparsa dopo; nel 1953 un soprintendente effettuò invano delle ricerche. Raffigurava la Madonna in alto a braccia aperte, e sottostanti i tre santi F.Campora – Madonna dell’Oratorio di s.Martino
Alizeri definì che l’autore «si condusse da buon figurista»; Dellepiane descrive: «...tra ornamentazioni eleganti, minute, capricciose, fughe prospettiche, sinuose cornici architettoniche, nella volta centrale dell’oratorio, in moto roteante, dipinse il vasto affresco della gloria di san Martino. Con l’opera maggiore, armonizzano nella correttezza del disegno e delle chiare scale cromatiche, gli affreschi allegorici del coro, degli Evangelisti nei peducci della volta, e la gloria degli angeli del soffitto che sovrasta l’altare sul quale campeggiava il quadro del San Martino, pure del Campora»).
Alizeri cita esistesse anche una tela di Palmieri (appartenente – secondo lo studioso - ‘ad un’età men felice per l’arte, ma non menoma lode ai Confratelli che tanto fecero in breve tempo e con non lievi dispendj’), comunque scomparsa nel bombardamento.
Quasi tutti questi professionisti sono presenti nella decorazione di altri Oratori (specie Coronata e Pegli), a dimostrazione di un ‘gusto comune’ nell’interpretare il ruolo del laico ordinante, ma molto presumibilmente in parallelo con la decorazione della Chiesa a fianco.
Ebbe un primo restauro nel 1736 affidato sia allo stesso Francesco Campora che dipinse con affreschi le pareti e la volta (nella volta del presbiterio affrescò una ‘gloria di angeli e putti danzanti o seduti sulle nuvole’. Due sono le sinopie conservate a Palazzo Rosso –Gabinetto dei disegni e stampe-: una evidentemente fu scartata nella scelta.;
e sia a G.B.Revelli (o Revello; quadraturista, soprannominato “il Mustacchi”, che per 800 lire compose gli ornati).
La dottoressa DeRobertis precisa che, dalle fotografie e per gli elementi ornamentali, sono rilevabili una ‘maggiore compostezza’ rispetto gli altri Oratori ancora eretti; in particolare lo ravvisa ne «le incorniciature rettilinee e lobate delle tele, le finte paraste con capitelli compositi, i motivi a mensola e a voluta, le protomi di angeli dalle ali dorate ai lati della pala d’altare e delle finestre. Gli stucchi dorati e un’ornamentazione più serrata prevalgono nella zomna del presbiterio e in uno dei due altari laterali; quest’ultimo è caratterizzato da un ricco fastigio a volute, intorno al quale si notano racemi vegetali in stucco dipinto. La parete laterale è qualificata dalle grandi tele rettangolari inframmezzate da paraste dipinyte con capitelli in stucco»; propone l’idea di una progressione decorativa in crescendo, avvicinandosi al presbiterio rispetto.il resto della chiesa; questo era il punto più ricco di dorature e rilievi che si integravano in continuità con gli affreschi del Campora. Nell’abside, in apposite nicchie ai lati dell’altare, erano state affrescate in formato grande, le figure di s.Pietro e di s.Paolo
Sicuramente l’oratorio non andò indenne a saccheggio e sopruso, ai quali fu sottoposta tutta la popolazione, durante le invasioni austriache; specie quella del 1747 quando la ritirata dell’invasore fu accompagnata da rabbiosa ruberia e devastazione.
È conservato nei registri manoscritti dell’oratorio di Coronata, datato 1754 e registrato due anni prima davanti a notaio, un regolamento riguardante la tassa da versarsi dai minolli qui iscritti (anziché all’oratorio di san Martino), a testimonianza di accordi di collaborazione e reciproca tolleranza.
Il testo del Ratti, edito nel 1766, descrive la presenza di tele, affreschi e stucchi eseguiti dai migliori artisti locali del tempo.
Con la presa di governo nel 1797 della Repubblica Ligure, inizia un periodo di estremo e rigoroso controllo di tutte le istituzioni religiose da parte della Municipalità della Polcevera. Il 2 maggio 1798 il segretario generale del direttorio locale, fornì ai superiori l’inventario degli ori e preziosi vari sequestrati nelle 20 chiese: di fronte al valore di lire 75 requisite all’Oratorio della Morte, la somma ritirata al nostro Oratorio fu di 18.018 (la più alta di tutti, compreso della Cella (L.6048), Belvedere (L.210), la parrocchia stessa di san Martino, ormai quasi in disuso ma con beni corrispondenti a L.5080). Pieno di titubanza ed ossequio verso in Direttorio esecutivo, il priore GB Morando q. Giuseppe scrisse (cofirmata dal vice Antonio Pittaluga) una lettera di rimostranza ‘per i modi precipitati e iritanti’, ‘con la generale insoddisfazione di un pubblico così ben affetto al governo’, concludendo ‘ a presentarvi le giuste nostre istanze onde ci sia permesso il ricupero suddetto’. Sappiamo che pochi anni dopo, nel 1803, i confratelli erano 220.
Sono documentate presso le altre confraternite genovesi le disposizioni limitative che il governo impose a tutti gli iscritti e sacerdoti: elezione degli Amministratori da parte della Municipalità; obbligo per essi di comparire di fronte ai Commissari del governo per sentire lette le ordinanze ed obblighi relativi alle disposizioni scelte per la gestione degli oratori; non poter vendere o comperare alcuna proprietà né radunarsi, o fare processioni né celebrazioni liturgiche senza l’assenso delle autorità. Alcuni altri oratori – non si sa del nostro - furono utilizzati per cerimonie civili quali feste patriottiche o comizi. È ovvio il degrado a cui andò incontro tutta la struttura. Un ultimo decreto napoleonico del 1811 a seguito de precedenti, riguardante sia gli ordini monastici sia gli oratori, determinò infine la soppressione delle congregazioni laiche e quindi la chiusura di molti oratori e dispersione dei loro corredo liturgico e patrimonio artistico (quadri, casse, crocefissi, statue, vesti, ecc). La restaurazione permise a molte di ricuperare i beni e la libertà d’azione.
Nelle processioni, veniva portato anche un gonfalone; il Priore ed i suoi Vice, procedevano in processione portando della mazze molto probabilmente d’argento (appunto dette mazze processionali) che sono andate perdute. All’apice esse avevano scolpiti, una la Vergine e l’altra il Santo. Dalle riproduzioni fotografiche e dalle caratteristiche dei motivi ornamentali (specie i motivi floreali del basamento), sono attribuibili alla prima metà del 1800 tutti i Confratelli seguivano - reggendo i Crocefissi, il gonfalone (con l’effige dell’’Assunzione’, scomparso col bombardamento, era stato dipinto da G.B.Chiappe) ed i pastorali- vestiti con lunghe e prestigiose cappe, munite di cappuccio, tutte in seta cremisi, lavorate e ricamate con fregi d’oro; mentre il tabarrino era in velluto nero, anch’esso fittamente ricamato (si dice ‘broderie’) con fili d’oro e d’argento (due cappe e due tabarrini sono conservati presso la Confraternita del ss.Rosario di Marassi). Solo dopo vari lustri e con la restaurazione (1815), consenzienti i reali piemontesi, sia le Associazione che le Casacce ripresero le manifestazioni; ma le seconde, seppur mantenendo prevalente il carattere religioso e di pia associazione, perdettero quel forte valore e potere perché troppo spesso sconfinavano nel politico e sociale, con ovvie ripercussioni sulla loro libertà d’azione.
È datato 1822 quando finalmente si riuscì ad avere un sacerdote fisso a testimonianza della concessione di celebrazione della s.Messa e conservazione del SS.Sacramento come custode dello steso e dell’assistenza spirituale della zona, in un periodo in cui l’abbazia era non in atto, e quando della funzione parrocchiale era incaricata la Cella.
Come relazionato in inizio della trattazione, nel 1825 i priori Francesco Dalorso e Antonio Pittaluga q.Andrea (?), scrivono al Vicario Generale genovese rivendicando il diritto della Confraternita nei confronti dell’Oratorio della Morte ed Orazione in merito al trasporto dei defunti. Nella lettera si vantano essere unici a poter svolgere questo ruolo, da quattrocentocinquant’anni (prima del 1379; e non da 70 anni come la Confraternita concorrente, data da essi stessi scritto nella richiesta alla Curia, stilata nel 1803). Si vantano altresì essere aggregati alla “Sacrosanta Chiesa Lateranense, ed all’Arciconfraternita del Gran Gonfalone di Roma".
Nell’anno 1876 il priore dichiara un reddito netto di lire 66,08.
Nel 1898 invece viene redatto un inventario dei beni, comprensivi di 1262 lire (£.800, l’appartamento del sacerdote+50 oggetti di culto+330 rendite varie+82 la quota associativa dei confratelli (una lira a testa)).
Il 3 nov. 1911 l’assemblea generale della Confraternita approva un nuovo statuto, conformato alle leggi allora vigenti in merito; tale statuto venne poi approvato dal Comune del borgo il 18 dicembre successivo.
Ancora, -1920- quando l’arcivescovo card. Tomaso Boggiani, erigeva la chiesuola a succursale della parrocchia di san Gaetano, col titolo di rettoria. Ovviamente possedeva un gonfalone proprio.
Nel 1933 era rettore il sacerdote P.Opizzo
Nel bombardamento del 7 nov.1942 l’oratorio andò completamente distrutto. È possibile che alcuni pezzi - come in particolare le teste di due angeli - rimasti illesi, siano ricomparsi su mercati antiquariali e in collezioni private. Il recuperabile fu trasferito alla Cella o all’arcivescovato.
Da alcuni anni, i fratelli Bisio, Ottavio e Marco si sono assunti il gravosissimo onere di far rivivere la antica confraternita presso la chiesa della Cella. L’appoggio del parroco permise di ricuperare parte degli oggetti ed arredi di proprietà, e lì ospitati; altro materiale è archiviato nei fondi dell’arcivescovado, ma - per vari motivi - notevoli sono le resistenze a riportare alla luce, e rimettere questi reperti in mani generose e disinteressate o quantomeno responsabili super partes, come il confratello Remedi o il parroco stesso.
In compenso, essi stessi non sono personaggi facili: una ‘riservatezza’ abbondantemente oltre i limiti della normalità e non certo per timidezza, anzi ai limiti della superbia, ridimensionata solo dalla costante partecipazione alle faticose cerimonie; ma restii a fornire notizie, idee, programmi, ecc (la stessa de Robertis nel 2007 scrive, relativo alla documentazione in mano all’attuale priore, che “non ne è stata possibile la consultazione ai fini della stesura del presente studio”).
DEDICATA ad una famiglia genovese, i Cicala, con importanti possedimenti nel borgo.
Lo stemma; possiede alquante varianti. É definita, in araldica, arma ‘parlante’ o ‘allusiva’. Era “d’azzurro a sei cicale poste in orlo d’argento”; divenne “di rosso all’aquila d’argento coronata d’oro”.
da Nobiltà di Genova – A.Franzoni – Berio – 1636
Una leggenda – descritta da Giorgio Rubestel nel suo “Teatro genealogico” - narra che un cavaliere, di nome Pompeo - guerriero da Ventimiglia in procinto di combattere assieme ai genovesi contro i pisani -, si vide attratto da uno sciame e dal suono di alcune cicale; la cosa fu interpretata di buon auspicio, cosicché vinta effettivamente la battaglia, il guerriero grato all’animale, lo inserì nel suo stemma con colore oro in campo azzurro.
Ma in una lapide (a Soldaia) datata 1404, cita ‘Conradi Cigale honorabilis consullis et Castellani Soldaie’ uno stemma è quello di genova, altri due portano una aquila. Altra, non datata, ricorda ‘Gifredo Cigara’ vescovo di Caffa nel periodo 1423-41: ha due scudi ambedue con l’aquila.
Le iniziali sei cicale d’argento (per altri d’oro), divennero cinque per scelta dei discendenti, finché si descrive che nel 1432-51 il re di Boemia Ladislao III Iagellone, in seguito a vittorie ottenute sui turchi, concesse al suo segretario Giovan Battista di Bartolomeo del ramo Scarsi (vedi sotto) il privilegio di sostituire gli insetti con l’aquila bianca imperiale di Polonia (che è “di rosso all’aquila d’argento (=bianca) coronata”).
La famiglia genovese ghibellina presente in Genova dagli anni prima ancora del mille, forse provenienti dal nord Europa tedesco, ma sicuramente insediati nel 942 e cresciuti di potenza prevalentemente a Lerici ed a Ventimiglia; inizialmente spesso citati come Cigala o Cigada,
Il Campana, il Giscardi (1774) ed altri storici, li fanno arrivare a Genova nel 1142 ove si imparentarono con altre forti famiglie (Scarsis, Recalcati, Mosca, Basazza); le quali tutte però, poi si fecero chiamare Cigala. Fornirono già nel 1155 uno (Guglielmo; poi anche ambasciatore all’imperatore Barbarossa) dei primi consoli (placiti, della giustizia) al Comune
La famiglia, già nella prima metà del 1400 era tra le più potenti di Genova e di Napoli, concentrando la propria attività nel commercio internazionale (da Messina a tutto l’oriente). Abitava da varie generazioni in città, nel carruggio del Filo presso san Lorenzo, poi piazza Cicala.
Erano ‘colonnati’ del Banco di San Giorgio per cifre non indifferenti tanto che dai cartulari del Banco risultano lasciti considerevoli indirizzati a beneficenza.
Nel Regesti di val Polcevera 24 lug.1415 si fa riferimento al genovese Morruele Cicala, deceduto dopo testmento: volle che due dell’albergo dispensassero ai poveri i Luoghi che aveva nelle Compere dei Mutui ed altre, di Ge..Allo scopo Battista (dottore in Leggi) riunì i genovesi Lanzarotto, Sisto, Simone, Gregorio, Gerolamo (con deleghe) ed andarono da Corrado sampierdarenese, dove furono scelti per eseguire le volontà, Corrado e un Odoardo.
La fama ed importanza non furono intaccate nella riforma restrittiva del Doria annevuta nel 1528: divenne una dei 28 “alberghi” (famiglie nobili della città che ebbe importanza fondamentale nella vita pubblica costituendo ciascun albergo l’unione di più nuclei familiari legati da interessi economici, con evidente aumento del patrimonio gestibile, e con esso la creazione di organizzazioni private acquisenti cariche pubbliche di governo). Ai Cicala si aggregarono 21 altre famiglie delle quali molte sono riportate col nome della località ove risiedevano (Recalcato, Besaccia, Squarciafichi, Gradi, Opicello, Semino, Varsio, Moneglia, Cassana, Asta, Tubina, Cazero, Bondenaro, Carmandino, Ovada, Bobio, Brignole, Zovagli, Monleone, Scarsi, Mosca).
Come ovvio, anche la famiglia Cicala, a sua volta acquisì numerose ramificazioni, delle quali potente furono quelle di Savona e Messina, con personaggi vicini ad imperatori e papa Sisto IV.
In San Pier d’Arena Un elenco relativo all’anno 1414, delle abitazioni possedute dalle nobili famiglie genovesi ‘alberghi’, dichiara che nel nostro borgo, ‘de Cigalis’ avevano 5 ville, 10 case e 4 casette. Compare il loro nome in tre atti notarili del 1416, uno dell’11 giugno in cui nel parlatorio del monastero del Santo Sepolcro tal Giovanni Gorgeggio qm Quilico restitutisce a “Marietta Arcanta badessa ed Eliana Cicala priora dello stesso Monastero lire 50 avute in prestito”. Un altro del 21 giugno: “ mastro Guido de Magnaria di Sestri Ponente, mastro d’antelamo, confessa, al calzolaio Domenico Pozzo di Nervi, abitante in Sampierdarena, d’aver avuto da lui, in diverse rate, lire 90, computati in esse tutti i pagamenti fattigli dino al giorno d’oggi, e queste lire 90 sono per causa di lavorerio e spese da lui fatte in riparazione ed edificazione di una casa, posta il Sampierdarena, nella via pubblica, casa che detto Domenico tiene a nome di livello da Violante moglie del qm Teramo Cicala. e da Gerolamo suo figlio. “; ed uno del 11 novembre: “in Sampierdarena, sotto il portico della casa di Sisto Cicala. – Gerolamo Cicala qm Teramo, e Raffaele Cicala, si compromettono in Raffaele Squarciafico e Giuliano Morocelli di Genova, per tutte le questioni che vertono e che vertiranno tra loro”.
Uno scritto di un mons. Bossio, del 1582, segnala che i Cicala avevano ancora un palazzo in San Pietro d’Arena (ma, non spiega dove).
Nella carta vinzoniana del 1757, di proprietà Cicala appare un vasto possedimento di terreno che dalla strada principale (oggi via Vicenza-via Campasso) rimaneva incluso tra la attuale via Caveri ed il nord, non definito sulla carta perché ai margini del descritto; e verso il monte sino ai possedimenti del rev.ndo Orzese inizianti circa ove ora è via F.Marabotto. Nei terreni appare chiaro la presenza della villa padronale riferibile e quella ora in salita Millelire 2 e di proprietà della Soc. Alleanza e Amicizia*** .
Personaggi Tra i più famosi della famiglia, vengono ricordati
==Un Guglielmo, nel 1155 fu ambasciatore da FedericoI Barbarossa, assieme a Caffaro, Ivo Contardo ed Oberto Spinola; nel 1198 fu tra i Capitani che portarono a Genova le ceneri del Battista***;
==Odoardo, che sposò Argentina Scaglia e poi, rimasto vedovo, Teodora de Vivaldi. Ambasciatore, incaricato dell’’Officium monete’, consigliere degli anziani nel 1427 circa. Ebbe 4 figli, tra cui Antonio padre del sottocitato Meliaduce.
==GiòBattista Antonio, già sopra citato, dottore avvocato, diplomatico, conte, consigliere dell’imperatore Sigismondo, ed infine elettore degli anziani; nato nella seconda metà del XIV secolo; personalità di gran peso nella tumultuosa Genova del quattrocento. Nominato erede universale del padre Bartolomeo (anche lui dottore in legge, trasferitosi a Genova da Pavia), entrò in possesso di varie proprietà immobiliari, di cui anche a San Pietro d’Arena. Tra i molti privilegi ottenuti nella sua frenetica ed intensissima vita, si ricordano numerosi missione da ambasciatore presso -re, antipapa Giovanni XXIII, principi e, nel 1418, la nomina dell’Imperatore quale suo consigliere, e creato -in quanto partecipe della vittoria contro i Tartari-, cavaliere (dell’ordine dello Speron d’oro) con l’autorizzazione a fregiare l’emblema di famiglia con l’aquila bianca di Polonia, coronata d’argento in campo rosso, al posto delle sei cicale d’argento poste in orlo su campo azzurro.
==un Lanfranco poeta trovatore, magistrato, ambasciatore, figlio di un Girolamo, nato nella prima decade del XIII secolo, e morto nell’anno 1278; partecipò alla vita legislativa cittadina-specie come giudice-, e politica della Repubblica con missioni diplomatiche specie in Provenza: nel 1235 è il primo scritto; nel 1241 suoi scritti sono da Aix. Lo ritroviamo a Montpellier mandato in Provenza dai genovesi al conte di Tolosa, Raimondo VII (1197-1249, fu costretto dalla rinascita dell’eresia albigese ad affrontare una crociata , promossa da papa OnorioIII e da Luigi VIII di Francia, in cui subì però dura sconfitta, ed alla sua morte le sue terre furono riunite alla corona francese), al fine di stipulare alleanza contro FedericoII. Nell’anno 1251 fu presente nelle stipula di pace tra Genova e varie città: Varazze, poi Savona, Ventimiglia, Venezia, Firenze (antipisani). Innamoratosi di Berlanda, gentildonna provenzale, ne cantò ispirate e passionali canzoni, che divennero disperati e dolorosi versi alla sua morte: il suo “ canzoniere”è un testo fondamentale quale preludio al dolce stil nuovo; nell’intera produzione lirica -pervenutaci ridotta- c’è una cronologia corrispondente alla maturità dell’autore: dapprima canzoni amorose ed un poco sensuali, poi sirventesi (componimenti provenzali polemici, satirici, politico-religiosi) per RaimondoVII eBonifacioII; canti per la crociata in terrasanta di LuigiIX dell’ago.1248 a cui offrì un finanziamento; e infine sinceri canti di omaggio alla Madonna.
Al ritorno di una missione, fu aggredito vicino a Monaco ed ucciso, non si sa per quale tragico motivo, che peraltro ha favorito una serie di congetture che coinvolgerebbero Jean Nostradamus, profeta nel 1571 di quella morte violenta, dell’anno e del luogo e tramandata per 2 secoli.
==Importante Meliaduce Cicala, mercante nato nel 1430 e morto 51enne. Visse nell’epoca della grande espansione della famiglia nel ramo mercantile con uno ‘status’ di notevole solidità. Sposò Nicolosina Vivaldi, e non ebbe figli. Fu vicegovernatore ducale e Anziano nel Consiglio. Armatore di tre navigli, per trasporto merci e –come allora consentito- per guerra corsara sulle rotte dell’Egeo. Quarantenne, fece carriera quando iniziando come ambasciatore alla corte di PioII ebbe -per il finanziamento di una operazione militare contro i Turchi- quale controvaluta- la gestione di miniere di allume (usato come mordente nel trattamento delle stoffe e della lana e pelle). Quando successe SistoIV della Rovere. Il Nostro era nelle grazie della “famiglia del papa” raggiungendo come banchiere le più alte vette dell’amministrazione dello stato pontificio (deteneva la direzione della depositeria generale: “pecuniam depositariorum locumtenens”). Morì precocemente, sepolto nella basilica ‘di san Giovanni Battista dei Genovesi’ che lui stesso aveva fatto erigere in Roma con funzione di ospedale, di cui ancor oggi esiste la Confraternita istituita da GiulioIII nel 1553.
==Nicolò, fece riedificare ed affrescare nel 1542 il palazzo familiare , in piazza ora Pinelli.
==Marino Cicala, si occupava di trasporto di schivi da Cembalo (Balaklava) a Chio.
==Giovanni Battista, qm Giulio, ricco uomo di governo nel seicento, studioso e cronista delle storie della Repubblica (“Memorie della città di Genova e di tutto il suo dominio, ...”), raccolte in più volumi manoscritti il cui originale era in una biblioteca privata genovese (avv. G.Molfino), e governatore della Corsica. Al figlio che lo succedeva alla carica pubblica di governatore dell’isola, disse la famosa frase: “ricordati che la Cicala canta, ma non mangia”, alludendo alla necessità di governare onestamente. Morì nell’anno 1659; a lui DeLandolina/1922 attribuisce la titolazione della strada
==Andrea anch’egli giurista, eletto per volontà di Federico II quale giudice nel regno di Napoli nel 1245; un Carlo, professore di diritto canonico, partecipe al Concilio di Trento (1561-2); vescovo di Albenga, morì a San Pietro d’Arena il 29 lug.1581 mentre dalla sua sede era qui di passaggio volendosi recare a Roma;
==un Vincenzo, fondatore dell’accademia degli Arisofi*** aventi lo scopo di approfondire gli studi filosofici ;
==Zoaglio Battista (1485-1566), scrittore (di una storia dei Mamelucchi), governatore (in Corsica), ebbe numerose e responsabili cariche da parte della Repubblica fino a diventarne doge (1561-3). Dote particolare era l’ imprenditoria commerciale (riuscì a racimolare 25mila scudi da dare ad un Lercari in debito con il re di Francia affinché non si pensasse che i genovesi non onoravano i loro debiti (‘pro dignitate’); e poi altri 10 mila scudi, da dare in prestito a CarloV). In corrispondenza con Carlo Borromeo arcivescovo di Milano (poi santo), gli raccomandò la nostra pieve di sMartino che in quel tempo si trovava in critiche circostanze
==Compaiono nella lista del Gran Consiglio della Repubblica: PaoloFr.(nato7 giugno 1763, q.GB, q.Car.Jul); CarloGiulio (nato 1 agosto 1770 fratello di Paolo); Nic.Bartolomeo (n. 1 aprile 1772, fratello Paolo); Agost.Alessan. (n.8 novembre 1773, fratello Paolo); GiacomoFilippo q Nicolai (n.1 maggio 1730); GB q.Nicolai (n.17. giugno 1733). Compare altresì un Cicala, visconte nato 6 luglio 1717, che fa parte dei procuratori della Repubblica.
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