CROCETTA                                   salita  al Forte della Crocetta

 

 

TARGHE

Salita – al forte della - Crocetta

 

                                                                           

 

QUARTIERE ANTICO: Promontorio

 

 da MVinzoni, 1757. In celeste salita belvedere; giallo, santuario e corso Belvedere; fucsia salita V. Bersezio; rosso abbazia del ss.Crocifisso (poi forte Crocetta).

 

N° IMMATRICOLAZIONE:  2777   CATEGORIA: 6

 

 da Pagano/1967-8

 

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA - n°:   26280

 

UNITÀ URBANISTICA: 24 – CAMPASSO

                                           27 – BELVEDERE

                                           28 – s.BARTOLOMEO

in blu Santuario e Forte; giallo, corso Belvedere; celeste via B.Powell; rosso salita V.Bersezio. Da Google Earth 2007.

 

CAP:   16149

PARROCCHIA:   NS del Belvedere

 

STRUTTURA:   da corso Belvedere,  al forte; e -dopo esso- ‘ai monti’.

   Incrocia sal. V. Berzesio  (dalla quale, la crosa già iniziava all’inizio del secolo. Nel 1910, fu allungata in basso, a collegarsi con “salita” Belvedere (così è scritto, ma per errore; in quanto, in realtà si collegava con il ‘corso’, come oggi). In quegli anni già aveva civici sino al 26 e 19).                                                                                                                

                             

foto anni 20                                                                   foto Pasteris del 1937

 

   In gran  parte è stata asfaltata, perdendo le caratteristiche originali di crosa. Dopo il forte (posto a circa 160 m.slm) un bivio: la strada costeggiando,  porta al Garbo; ed invece, salendo, al forte Tenaglia.

===Dopo 50 metri di lieve salita, anticamente –ma ancora negli anni 1980- ‘antistante un nucleo di casupole di origine rurale’ c’era un lavatoio di 15mq, rettangolare, a due vasche, coperto da tettoia di lamiera ondulata; rifinito grossolanamente in cemento, alimentato dall’acquedotto civico. Incuria, inutilizzazione e  vandalismo fecero che agli inizi degli anni 1990  fu  distrutto.

 

CIVICI non esistono civici rossi.

UU24=solo pari, dal 2 al 18 (compreso 2a) (al conto, mancherebbero 20 e 22)

UU27= solo dispari, dal 1 al 9 (compresi 1ABCE e 7A)

UU28= NERI= da 11 a 19 (mancano 13 e 17; aggiungere 13A, 15A)

                         e da 24 a 36 

 

===civ. 2 assegnato a nuova costruzione nel 1960; ed il 2 divenne 2A

===civv. 1, 3, 5 demoliti nel 1969; furono rifatti nello stesso anno; il primo fu ristrutturato nel 1995 con divisione in 1, 1A,1B,1C.

===civ.4 è una casa-villa; nei primi anni del 1900 ancora appartenente ai marchesi Pallavicini.

C’era nel 1933 il circolo “Unione Previdenza Belvedere”.  Una lettera datata 15 maggio 1939, invito ad un giocatore perché si presenti a disputare una partita “Coppa Fascio Secondogenito”, da giocarsi contro la squadra (sconosciuta) del “Grifone Sampierdarenese” è intestata scritta a macchina “Gruppo Sportivo Belvedere (non so se furono la stessa società).

Nel 2007, la vlla appare in condizioni esterne molto fatiscenti, attorniata da piccolo giardino ed enormi alberi non curati che coprono la visuale. È caratterizzata da una veranda a pagoda, chiusa da vetrata, all’apice del tetto.

Naturalmente, tutto peggio nel 2011; il terreno a mare è stato spianato ed asfaltato, per essere utilizzato a parcheggio auto dei residenti.

 

  

le ultime case a est                 villa Pallavicini

===civ. 8 vicino all’incrocio, ha un marmo dei “zona militare 250” e, sopra il portone una targhetta probabilmente di una società assicuratrice con la scritta “La Paterna”

-    

                                            il quadrivio visto scendendo

 

All’incrocio con salita Bersezio, la strada forma un perfetto quadrivio, procedendo essa diritta verso il forte; a destra – prima di finire il primo tratto – c’è d’angolo la villa De Ferrari descritta in salita Bersezio.  Essa, sulla nostra strada offre due caratteristiche: il muro svasato alla base indicativo di antica costruzione; e tre tetti in gradazione, indicativi di successive costruzioni di ampliamento.


All’inizio della salita, proprio nel quadrivio, una fontanella allietava col suo getto e la sua forma;  nel 2009 è chiusa e pressoché distrutta. Abbastnza ben conservata la struttura da crosa.

 


Dopo una decina di metri, alcuni anelli infissi per terra fanno pensare a un sistema carrucolare mirato ad issare verso l’alto dei grossi pesi (cannoni?).

 

 


===civ. 12  C’è la villa Buttero:  già presente nella carta vinzoniana del 1757, subito prima dell’incrocio con salita Bersezio ( dall’epoca romana al 1633, unico percorso per chi transitava, da, e per “la Polcevera”); ed a quell’epoca  proprietà dei PP.Agostiniani, gestori del monastero del SS.Crocifisso, allora collocato nel terreno ove ora si erge il forte.

Adattata architettonicamente al terreno in forte pendenza, ha due soli piani a levante dove prospetta col cancello sulla salita; tre piani invece a ponente, con accesso diretto ai terreni posti in fasce degradanti, tipico della villa eretta nel sette-ottocento, e  ad uso prevalente contadino.
All’interno il piano nobile, corrispondente al piano terra rispetto l’entrata principale,  ha  un ampio salone rivolto verso il mare.

 

    

ingresso alla casa                                  antico torchio conservato in cantina

 

dal giardino, vista del forte                                  e del Santuario di Belvedere

 

===civ.11: Il Pagano/1925 vi pone la reperibilità di un appaltatore di costruzioni, Mignanego Amedeo.

Corrisponde oggi all’istituto del Patronato san Vincenzo de Paoli (figlie di s.Anna) per il ricovero di bimbi orfani e abbandonati, e loro inserimento nelle scuole pubbliche (dall’età 3 a 11 (maschi) e 3-14 (femmine). Con ingresso veicolare all’apice di corso Martinetti, civ. 146nero, a mezzo di lungo viale di accesso. 

   

dalla fontana in basso a sin., a          

–in rosa- la villa del Patronato

                                                                     

L’ente nacque il 22 genn.1931 (Nel Pagano è scritto “Questa società fu fondata a Parigi nel 1833 da federico Ozanam e pochi altri suoi compagni studenti universitari ed ora è diffusa in tutte le parti del mondo”). Scopo statutario ha come indirizzo “qualsiasi opera cristiana di carità; ma più specialmente la visita dei poveri a domicilio”.  Nell’espandersi, fu d’uopo dividerla in sezioni locali, o Conferenze. I mezzi sono da raccogliere tramite libere offerte degli associati e straordinatrie contribuzioni e offerte di benefattori.

A Genova arrivò il 16 febb.1846 e da allora numerose divennero le Conferenze sparse sul territorio (nel 1940 in Centro erano 44;  più quelle delle delegazioni).

Anche a San Pier d’Arena, allora comune a sé, si aprì la prima nel 1852 con tra i membri fondatori: Francesco Romairone, Nicolò Daste allora ventitreenne ed ancora falegname e il salesiano don Giovanni Antola; essa cessò l’attività vent’anni dopo. Una seconda risorse nel 1875 in san Gaetano; una terza nel 1881; ed una quarta infine nel 1883 cessata quest’ultima sei anni dopo; infine, e definitivamente, con la collaborazione dei salesiani, per iniziativa del cav Rocco Bianchi (don Michele Rua (beatificato) e don Paolo Albera furono assistenti prolifici, dimostrandosi – come voleva don Bosco stesso - sempre grati a chi li aveva fortemente aiutato nella fondazione dell’ospizio’  da dover sentire riconoscenza concreta con l’accogliere o aiutare altri confratelli con le proprie strutture); essi crearono una Conferenza locale, di specifica assistenza ai bambini e da allora divenne particolare intensa.  Cercarono da subito una sede ove applicarsi; così accettarono essere ospiti in corso Dante Alighieri (corso L.Martinetti) in un appartamento di otto vani del civ.51 (detta ‘palazzina della musica’, a due piani).

I primi bambini -dai 4 ai 12 anni- furono affidati alle suore di sant’Anna per l’educazione sociale, morale e psicologica; ed inaugurarono la casa - presidente il dr. Zunino Adriano, medico odontoiatra (il dott. Zunino, nato nel 1896, padre di 5 figli, visse in umiltà e modestia, praticando pietà, carità e bontà; rimase presidente della conferenza sampierdarenese della Società di san Vincenzo de’ Paoli per quarant’anni, dedicandosi agli assistititi con larghezze economiche ed anche professionalmente. Per riconoscenza, il 12 ott.1975 fu posto nel salone del palazzo un busto in marmo)- il 4 (o il 14) magg.1931 con una messa religiosa celebrata da don Nicolò Giordano (Pré Giordan). Il famoso prete Giordano dedicandosi attivamente all’opera, riuscì nell’agosto 1951 a far trasferire il nucleo assistenziale, ormai cresciuto di numero e con maggiori esigenze di spazio,  nel palazzo di via Crocetta (e le femmine in quello di via Currò); ed in questo, sempre sotto la gestione della Società di san Vincenzo, erano aiutati dal Comune, privati ed enti). La costruzione ha accesso veicolare  da corso L.Martinetti al 146 (nella ex ‘piazza Promontorio’) dove, dopo un cancello, esiste un lungo viale che porta alla casa.   La villa è sotto tutela e vincolo della Soprintendenza per i beni architettonici della Liguria.

 

Il 1931 è l’anno in cui il regime fascista decise di obbligare lo scioglimento di tutte le associazioni giovanili esistenti in Italia per inglobarle nella ONB (opera nazionale balilla) poi divenuta GIL (gioventù italiana del littorio).

Tra le associazioni disciolte, ci fu l’ASCI (associazione scoutistica cattolica italiana) i cui membri, guidati dal sacerdote concittadino don Enrico Sciaccaluga loro assistente spirituale (chiamato tardi al sacerdozio, fu appoggiato nelle scelta da don Orione stresso;  a 34 anni venne consacrato prete e da allora si dedicò all’Opera divenendo infine Economo generale) decisero in giornata stessa ritrovarsi sotto “voce” diversa ed ammessa dal regime fascista: così si ‘appoggiarono’ – cambiando nome - alla società san Vincenzo. E così continuarono a seguire i principi dello scoutismo, mascherandoli nell’attività della Società. Quando fu finita la guerra e tornata la libertà associativa, i membri anziani degli scout (Masci- movimento adulti scout italiani) continuarono a coltivare e praticare ambedue le iniziative.

 

     Potrebbe essere questa costruzione, quella che il Remondini colloca in Crocetta, “fuori le mura, un dì vicino alla chiesa, ed ora al nuovo cimitero”: che “viene chiamato palazzo Castaldi già Bracelli’; in essa dal Remondini vengono descritti all’epoca (1882) la presenza di una cappella dedicata alla ss.Concezione; l’aver ospitato per sei anni le suore del Buon Pastore (prima del loro trasferimento a Marassi);  aver venduto nel 1875 parte del terreno di proprietà al municipio cittadino per l’apertura del cimitero.

  Nell’aprile 2005 è la segnalazione dell’apertura di un centro diurno per bambini (6-11 anni) o provenienti da famiglie in difficoltà, o affidati dal tribunale al Comune (sono circa 500 i minori che il tribunale ha dato in affido, partecipando alla spesa degli educatori).

 

===civ. 17  fu assegnato nel 1980 a nuova apertura.

===civ.24  assegnato a nuova costruzione, nel 1954

 

STORIA

1) la STRADA negli anni attorno all’anno 1900 era abitata solo da Serra Ercole ai civv 1 e 2; da Galliano Raffaele ai civv 3,4,5.

  Nel 1910 fu stampato un elenco delle vie cittadine, e vi appare come

“salita al Forte Crocetta,  dalla salita Belvedere (quest’ultima salita, è stata aggiunta a penna cancellando -sempre a penna- lo stampato, su cui  era scritto ‘dalla via Promontorio e salita Pietra’: ovvero l’attuale salita Bersezio) al forte; contava ben 26 civici pari e 19 dispari.

   Nel Pagano 1912 compare al civ. 8 l’impresa edilizia di Rebora Emilio.

   Nel 1916, il consiglio di fabbriceria della parrocchia abbaziale di SBdFossato e di Promontorio sottopose all’arcivescovo di Genova mons. Lodovico Gavotti il problema dei confini parrocchiali; annotava che dal crocevia, salendo verso il forte la strada fungeva da confine; infatti scrisse “tutte le case che trovansi a destra fino al casotto del dazio di Sampierdarena situato a fianco del forte Crocetta, appartengono alla parrocchia di Promontorio eccetto una segnata col n.15 di proprietà Sciaccaluga che appartiene alla Certosa di Rivarolo” (sappiamo che nel 1926 gli altri confini parrocchiali vennero sanciti diversamente, ma in questa parte della città rimasero immutati).

   Nel 1927, all’atto dell’assorbimento di San Pier d’Arena nella Grande Genova, viene inclusa nell’elenco delle strade cittadine come ‘salita Forte Crocetta’, di 6a categoria.

   Nel Pagano 1940 la strada è solo segnalata come presenza: “da corso Belvedere ai Forti” e con un solo civico rosso per il ‘dopolavro Promontorio’ (non specificato dove).

2)  La storia di questo COLLE segue dal 1400 le tracce della nobilmente blasonata famiglia Fregoso o Campofregoso, mercanti (specie con l’oriente ove accumularono ingenti ricchezze) abitante e fiorente in una borgata posta tra Rivarolo e San Pier d’Arena a ponente di Begato, sulla sinistra del Polcevera (toponimo che esiste ancora e in territorio non più sotto nostra giurisdizione). Personaggi caratterizzati da indomito spirito battagliero, coraggio ma anche cultura e sagacia politica concretizzata nell’elezione a doge di loro componenti.

   Storia più recente e vicina, trae premessa praticamente nel 1745, quando Genova fu aiutata dai franco-ispani alleati non certo fedeli e garanti.  La Repubblica, in data 1 maggio di quell’anno,  aderendo con loro  al trattato di Aranjuez  tra Francia, Spagna e Napoli, aveva da loro garantita la sua integrità territoriale - compreso la Corsica - contro le mire dell’Austria-Piemonte da terra  e della flotta inglese del Tirreno (guidata dall’amm. Rovelley che il 27 sett. compì anche un bombardamento della città) .

   Ma l’anno dopo, Genova fu praticamente tradita dai nuovi alleati (tutto territorio di ponente fu abbandonato dai francesi in ritirata fin oltre il Varo, verso la Provenza, mentre  a nord le altre truppe franco-spagnole, perduta Piacenza, si ritirarono scendendo dalla Bocchetta fino a Genova e se ne andarono nelle rispettive patrie, abbandonando la città alla rabbia ed al desiderio di vendetta  le forze imperiali austriache; anzi si sentì umiliata da false accuse di aver rifiutato un aiuto a difendere la città e di aver anteposto altrettanto false insinuazioni di aver tratto vantaggio da una connivenza col nemico). Parte degli austropiemontesi si riversarono in riviera a ponente sino a Tenda; un altro gruppo, seppur non numeroso ed abbastanza in cattive condizioni, attraversò la Bocchetta e si riversò lungo la Polcevera trovando debole difesa (sia per lo sbandamento spagnolo, sia perché le truppe genovesi erano formate da mercenari stranieri, sia perché precedute da false notizie di essere più numerosi e meglio armati); guidato dal gen. Antoniotto Botta Adorno comandante supremo dell’esercito austrosardo  arrivò a San Pier d’Arena occupandola ai primi di settembre (cognome genovese, per discendenza da un’ava materna assieme a delle terre a Silvano d’Orba; lui era nato a Pavia da un patrizio genovese  condannato a morte in contumacia (Vitale dice che il padre era lombardo) e da madre parmigiana, tutti vissuti sempre nella sfera dell’Impero;  il Botta non si sentiva quindi genovese (anche se pare che nel 1745, per opportunità, fu ascritto alla nobiltà cittadina), ma tutta la famiglia nutrì sempre sentimenti di astio e vendetta verso la Repubblica, a causa di interpretate persecuzioni subite. Fondamentalmente lui era un generale austriaco,  e mirava a realizzare gli scopi dati dal comando viennese: racimolare quanti più soldi poteva dalla supposte ricche casse di Genova considerato la ‘insopportabile’ fame di soldi della corte di MariaTeresa, ed impedire le ambiziose e pericolose aspirazioni del momentaneo alleato piemontese). Genova, impossibilitata a difendersi da sola, e mal interpretando le forze nemiche fu obbligata ad arrendersi (infatti non approfittò nemmeno di una piena del torrente che improvvisamente travolse parte delle truppe accampate sul greto; ed appariva sempre meglio arrendersi all’Austria che al Piemonte, evitando saccheggio e sottomissione permanente (e su questo era d’accordo anche il Botta che così trovò le porte aperte  il giorno 6 settembre)). Il generale con fare arrogante di chi aspettava vendetta ed ora l’ha a portata di mano; tramite il conte di Chotek, mandato a Genova da Maria Teresa, impose al doge Gian Francesco Brignole condizioni di resa pesantissime: occupazione della piazzaforte da parte delle truppe austriache e stato di prigionia di guerra dell’esercito che abbandona armi, artiglierie e difese; l’esosa cifra di tre milioni di genovini d’oro (pagati in tre rate, di cui però la terza forse non versata) e vari tributi imposti dalle autorità militari; l’obbligo per il doge di andare a supplicare perdono a Vienna; la consegna dei senatori in ostaggio.

   Il Senato, qualcosa concesse, qualcosa temporeggiò, qualcosa  rifiutò con sdegno, creando una situazione di stallo assai tesa, favorita solo dalla  crisi diplomatica insorta tra Piemonte (in quel momento assediante Savona) e l’ Austria per gelosie (non nascosto desiderio di Carlo Emanuele di eliminare l’antica indipendenza repubblicana di Genova, ed ottenere il miglior sbocco sul mare di Finale già ottenuta col trattato di Worms).  Ma la brutalità austriaca avvicinò sempre più la solidarietà di tutti i cittadini, sia allargando la fascia degli intolleranti e pronti alle estreme risorse e sia proibendo ulteriori passive concessioni.

   A novembre, per l’assedio della fortezza di Antibes, il Botta (essendo lui stesso impegnato contro Savona) chiese alla città l’artiglieria che il re di Sardegna non gli poteva fornire: ottenuto un rifiuto, ordinò di raccogliere d’autorità quella  a lui necessaria; ma il 5 dicembre 1746, verso  sera, durante il trasloco un mortaio (con dedica incisa sul bronzo a santa Caterina) dalle alture di Carignano si impantanò in Portoria rendendo vani gli sforzi dei soldati. Essi pretesero malamente ed a colpi di bastone l’aiuto dei popolani: iniziò così l’insurrezione, stimolata dal Balilla (sicuramente un GiovanniBattista  Perasso per alcuni storici nato nel 1735 nella parrocchia di s.Stefano di Portoria, per altri nel 1729 a Pratolongo di Montoggio); la sassaiola e la massa crescente di popolo (è qui il nocciolo concreto della storia: il popolo vissuto umilmente per secoli, soggetto alla filantropia della carità del ricco e della Chiesa, conservato nella miseria,  che ricuperava improvvisamente dignità, orgoglio e dimensione di se stessa negando essere miserabile. Non meno importante la figura del nobile, che scende alla pari nella strada e guida personalmente la massa, prestandosi con consigli, mezzi ed organizzazione). Le truppe dovettero fuggire da Portoria e poi via via nei giorni successivi sempre più numerose dalle strade attorno, pressati dall’ufficiale Tomaso Assereto, fin oltre la porta di san Tomaso (a Principe) e fuori delle mura, riparando a San Pier d’Arena (L’insurrezione era scoppiata improvvisa cogliendo di sorpresa il governo stesso, diviso tra ignavi o austriacanti e ribelli; se da un lato era largamente favorevole ai rivoltosi, dall’altro era bisognoso del tipico atteggiamento genovese di ‘non apparire; fare, ma in silenzio’ per non essere accusato di non aver tenuto fede ai patti;   ufficialmente dimostrarsi contrario fino a rifiutare le armi, ma permettendo che se ne comperassero ‘dalli tedeschi medesimi di Sampierdarena’ o invitando ad ingegnarsi, il ché significava organizzarsi –permettendo di fare un ‘quartiere generale del popolo’ nel palazzo dei gesuiti di via Balbi- e di disarmare la guardia per aprirsi i depositi. Il popolo apprezzò questa forma di ‘non ingerenza’ al punto che ricuperato il possesso della porta di sanTomaso, la chiave venne consegnata dal Doge con un atteggiamento fiero ma riverente da Giovanni Carbone ragazzo di osteria, ferito).

   A San Pier d’Arena il Botta Adorno -lanciando sfide, minacce di vendetta, riorganizzazione per un assalto- dal giorno 8 accetta sedute per eventuali trattative con proposte portate da GianDomenico Spinola e relative sue controproposte;  mentre in realtà  predispose la ritirata per il giorno 10 (soprattutto perché a corto di truppe -forse non più di 3500 soldati- ed anche perché non voleva rimanere tagliato fuori oltre appennino in inverno). All’alba del giorno 11 una pattuglia genovese inviata a San Pier d’Arena in ricognizione, trovò il borgo abbandonato dal nemico, tranne alcuni feriti o malati e chi si disponeva a curarli (da un rapporto del 12 dicembre dell’ospedale  Pammatone, che a quei tempi già disponeva -come nessuna capitale d’Europa- di oltre mille posti letto da potersi sommare ai 1800 disponibili all’Albergo dei Poveri, risultarono ricoverati 180 tedeschi  tra feriti e febbricitanti). Per proteggersi la ritirata, il generale austriaco aveva pagato persone che godessero di un certo credito, affinché spargessero la voce che gli austriaci si ritiravano pacificamente (tra essi, un certo Boccalippa,  mulattiere genovese, già al soldo degli spagnoli: pare avesse ricevuto diecimila scudi per “tenere a freno i Polzeverini”).

   In città, sulla scia dell’entusiasmo, non pochi cittadini si riunirono armati e galvanizzati marciarono per aiutare i savonesi assediati dai piemontesi; ma arrivati a San Pier d’Arena, scoperto il Magazzino del Sale abbandonato dagli austriaci, si diedero a far bottino abbandonando l’impresa militare ed i savonesi a lor sorte (forse è da allora che un proverbio ricorda l’entusiasmo dei genovesi: “a fûga di zeneizi a dûa trèi giorni”; corrisponde a quello toscano che dice “genovese aguzzo, piglialo caldo”.

   Questi episodi dimostrarono al dogi genovesi l’esigenza di spostare la linea difensiva più all’esterno, dominando le valli di acceso sia del Polcevera che del Bisagno; essendo mutate le tecniche di guerra e soprattutto il potenziale delle armi da fuoco: Coronata e Belvedere, se catturate dal nemico,  rendevano insicure le mura; così, nel 1747 i marescialli ingegneri militari De Cotte e De Sicre, legarono i loro nomi alla progettazione e realizzazione delle nuove opere di difesa delle mura, mentre  tutto attorno era un ribollire di movimenti di truppe (francesi, tornati suoi loro passi dalla Provenza, guidati prima dal generale Mauriac e poi dal duca di Richelieu; austriaci guidati da Schulemburg, nel desiderio di vendetta, ridiscendono la Bocchetta ma vengono contrastati al Diamante ed alla Scoffera; spagnoli guidati dal duca di Boufflers con la promessa di maggiore incisività tradotta in pratica in un disinteresse passivo; piemontesi, che espugnata Savona, hanno truppe libere per stringere la morsa dal ponente; inglesi per la costante padronanza del mare). Dalla foce del Polcevera, per tutto il versante del colle di Belvedere, sino al Tenaglia, espressero tutta una trama di trinceramenti e terrapieni, atti a tamponare il tentativo di ritorno degli austriaci, che belligerando dimostrarono essere fortemente intenzionati di tornare ad assediare la città prima che -per fortuna nostra-, la pace di Acquisgrana  del giungo 1748, pose termine alla guerra, e restituì alla Repubblica il tempo per ammodernarsi .

3) il MONASTERO del ss. Crocifisso -  Il Sicre relazionò il Nuovo Magistrato genovese il 27 ago.1748, descrivendo ideale - per la difesa - costruire un forte, usufruendo di un’area  però già occupata da un monastero agostiniano, dedicato al SS. Crocifisso. 

Il complesso conventuale, con chiesuola, era stato costruito in zona detta “Crocetta” per eremiti (mentre il termine ‘crocetta’ è prettamente legato alla qualità ‘a stella’ di un trinceramento militare, nel nostro caso appare invece secondario allo stesso nome riferito al nome del convento e quindi preesistente alla fortificazione), negli anni tra il 1600-1609 - a cura e spese del padre Giobatta (o Bartolomeo) Fabra, religioso di ricca famiglia nobile genovese, divenuto della congregazione dei padri Eremitani Agostiniani scalzi (questa congregazione, introdotta a Genova dal padre Battista Poggi (che poi fu fatto beato), nacque dal tentativo di Fabra di apportare un cambiamento, una riforma, alla regola di vita dei monaci; cambiamento che era stata approvato da Clemente VIII. Nel 1642 papa Urbano VIII pose concordia tra le due correnti religiose  degli Agostiniani, decretando che ‘Ordinis Sancti Augustini Congregationis Ianuensis’ ed i frati del Convento del ss. Crocifisso in località Promontorio anch’essi genovesi, dovessero osservare le regole che nel 1610 il cardinale Sauli aveva confermato, e “censuit praefatum conventum et fratres ss.Crocifixi” perché obbedissero al Vicario generale della Congregazione. Cessò così la sua spinta modificatrice, accettando la definitiva appartenenza ai padri Agostiniani del convento di N.S. della Consolazione di via Giulia a Genova).  Felloni conferma la presenza degli agostiniani (congregazione di Genova) di questo istituto regolare (uno dei 50 presenti a Genova in quegli anni, compreso s.Maria degli Angeli di Promontorio gestito dai carmelitani della congregazione di Mantova).

   Il monastero fu completato in tempi successivi, anche con donazioni: una lapide del 1613 ricordava un testamento a favore della chiesa di  tutti i propri averi lasciati il 10 gennaio 1610 dalla madre del Fabra.     Nel 1649-50 fu priore p. Angelico Aprosio Gioniore, celebre letterato proveniente dagli Agostiniani della Consolazione di Genova.

Nel Regesti II-pag.193 si legge “nella villa di Promontorio, 5 genn.1659. Fra Spirito Molfino di Rapallo, priore del convento del Crocefisso di Promontorio, dell’ordine degli Eremitani di santo Agostino, della congregazione di santa Maria della Consolazione di Genova, e le due terzi parti dei frati di detto convento, si obbligano di dare a Geronima – moglie di Gio:Batta Bassi e a Bianca sua madre, loro vita naturale durante...soldi + celebrare messa giornalmente (ogni mese cantata) + porre una lapide in memoria per poter ereditare, villa con case a Borzoli + due ville con casa a Coronata”.

   Nel 1677, ‘con  licenza de’ superiori’ il frate Rossi Prospero Antonio pubblicò nella stamperia Biserti dei componimenti poetici intitolati «primitie canore. Ouero primi furori poetici», e dei madrigali (era “Agostiniano da Parma, Lettore de Profissi (o professi) nel Conuento del Santiss.Crocifisso di Promontorio di Genoua, e tra gl’ Appatisti di Firenze Academico Ottuso”).

   Le carte, ricordano l’iniziazione religiosa nel 1685 di G.B.Cotta divenuto illustre letterato e famoso per santità di vita;  la presenza di 11 religiosi tra cui 8 padri e 3 conversi.

   Praticamente, dalle fonti in possesso, possiamo considerare ultimata la  costruzione esterna del monastero nell’anno 1747, mentre l’altare in marmo risulta posizionato nel 1761.

   I frati erano intanto divenuti 13 nel 1770 (10 padri); 17 nel 1771, segnalati dal parroco di Promontorio l’abate Francesco Grondona;

   L’arredamento interno possedeva – oltre l’affresco sulla volta riproducente Dio, numerose opere preziose, tra cui: --un quadro raffigurante sant’Agostino che lava i piedi a Gesù in vesti di pellegrino,  dipinto da Orazio De Ferrari (ora forse all’Accademia Ligustica delle Belle Arti); --varie statue in legno, usate il giovedì santo per le cerimonie, donate alla chiesa di s.Stefano a  ‘Zemignano’ (s.Geminiano); --un Crocifisso scolpito da G.B.Bissoni  (nel libro “Scultura a Genova e Liguria”, controllato, non c’è nel vol.II, a pag.21) che venne dato all’abbazia di s.Bartolomeo della Certosa;  un bassorilievo, in pietra nera di Promontorio, con N.S. delle Grazie, finito nell’oratorio di s.Stefano a Rivarolo; un dipinto con la Madonna del Carmine.

   Franco Risso propone l’idea che le due cappelle esistenti – una alla sommità di salita Bersezio, e l’altra presso il cimitero degli Angeli e la società di Promontorio - siano state erette in funzione di conforto ai pellegrini ed alle carovane che dalle due parti salivano al convento dirette verso l’Oltregiogo

   Un’altra fonte (Poleggi.pag.24), dice che  il monastero era «casa già dei P.P. Ministri degli Infermi, che è immediatamente soggetto alla Tenaglia, è stato pur esso recentemente dagli Inglesi in forte ridotto».

   L’attività religiosa fu soppressa nel 1798 corrispondente al periodo in cui il Direttorio Esecutivo del governo francofilo della Repubblica Democratica Ligure decise (6 aprile, a seguito dell’ascesa di Napoleone che introdusse riforme a tutte le strutture religiose limitandone numero, privilegi, diritti vari) la requisizione dei beni preziosi alle chiese: nel convento dei PP. del SS Crocifisso furono sottratti beni preziosi (ori, argenti, pietre e gioie) per lire 5537 (molti, se paragonati a lire 6048 requisiti alla Cella, e 5080 alla parrocchia di san Martino).

   Il convento poi sarà demolito definitivamente nel 1815.

 

 

 

4)   Il FORTE CROCETTA:  dapprima lo spiazzo non ebbe tale nome, nascendo a fianco del convento; era una semplice piazzola per un cannone, puntato sulla valle del Polcevera - Coronata in particolare – ma anche sul Belvedere prevedendone la possibilità di una conquista da parte del nemico; nonché una linea di trincee di collegamento con lo spiazzo sottostante del Belvedere ed ancor più giù sino al torrente.

 

                                           

come si presenta all’arrivo in salita

 

Il De Sicre (1747) ideò potenziare questa zona creando una postazione avanzata, chiamata ‘Crocetta Trincerata’, prevista con una postazione proiettata verso monte, ed una muraglia congiungentesi col Tenaglia: fu così collegata col soprastante  forte Tenaglia con una sottile muraglia a cortina, munita di feritoie, con infrapposta la torre rettangolare Granara, e che si accosta al nostro forte con una porta che chiudeva la strada di accesso posta su uno sperone di roccia a 160 m. slm. ed allargata utilizzando anche il territorio del convento, munita di due batterie di cannoni che potevano essere custodite da un centinaio di persone (in una lettera, scritta per il Nuovo Magistrato delle Fortificazioni, consiglia di ‘aumentare a 400 i difensori’), ma nell’assedio di quell’anno non furono pressoché mai impegnati dal nemico via terra – timorosi delle sue potenzialità - però come previsto assai bersagliati dalle opposte batterie piemontesi collocate a Coronata.

Quindi, tornata la pace, si lasciò tutto in abbandono, fino a che il Genio Militare napoleonico stese un progetto e tentò di iniziare la costruzione di una fortificazione più complessa utilizzante le strutture conventuali e sistemando a difesa il terreno circostante; però  anch’essa  non fu completata.

Nel tempo, via via i militari occuparono spazi sempre più ampi sottraendoli all’area del convento finché nel 1798, il governo provvisorio o Corpo Legislativo della Repubblica Ligure, allontanò definitivamente i frati e decise per la distruzione del complesso religioso

   L’opera, come era, servì nell’apr.1800 quando le truppe austriache misero in assedio il gen. Massena; l’esistenza della  fortificazione si dimostrò provvidenziale e necessaria per fermare gli assedianti per due mesi, costringendoli ad asserragliarsi in Coronata lontano dalle mura di difesa, ormai da sole inefficaci a proteggere la città  dall’invasione nemica; a giugno di quell’anno, dopo eroica difesa, il generale francese dovette arrendersi per fame e mancanza di munizioni (firmò la resa presso la cappella posta nel centro del Ponte di Cornigliano (vedi), conservando l’onore delle armi ma soprattutto  acquisendo merito di aver trattenuto gran numero delle truppe austriache, migliorando le possibilità a Napoleone di vincere dieci giorni dopo l’armata nemica a Marengo).

Ripreso in mano dal Genio Militare napoleonico, il progetto –non messo in atto- di fortino prese forma e volume, con doppio recinto poligonale senza spigoli, feritoie e torre di vedetta quadrata. Gli inglesi, che occuparono il forte nell’intervallo tra francesi e piemontesi, sfruttarono parti di aree del convento, per rafforzare la fortificazione.

 

Il portale sormontato da piastra                  la cannoniera che controlla la strada da Begato-Rivarolo

una volta reggente lo stemma sabaudo.

 

Questo tipo di forti, posti “a cintura”, si dimostrò efficace  anche per evitare -come era successo in qualche episodio- che l’elemento difensivo potesse divenire offensivo qualora fosse caduto in mano del nemico. Questo timore condizionò ed anticipò le tecniche di difesa per tutto il secolo 1800.  La rapidissima evoluzione dell’artiglieria e del suo potenziale distruttivo, richiedevano di anno in anno improvvise e radicali mutazioni di programmazioni  costruttive, ed il rinvio di decisioni testé già prese ed in breve divenute obsolete.

 

Cosicché solo nel 1815 sopraggiunto il Genio Militare – prima sardo, poi sabaudo – ereditò le idee di utilizzo e si stilò un progetto definitivo che demolì tutte le precedenti incerte muraglia ed il convento, spianando il terreno; e si mise in atto la costruzione del forte quale oggi vediamo a quota 157 m/slm. sullo stesso crinale del Tenaglia, eseguito tra il 1819 e 1823, (eretto ancora a misura difensiva, in previsione di un attacco da terra risalente lungo le ripide pendici: basso sul terreno protetto da argine di terra atto a smorzare i colpi nemici; mentre gli alloggiamenti erano più interni protetti da spesse mura. Già in questa prima fase di costruzione, precose di cinquant’anni l’architettura europea delle costruzioni poste a difesa delle città). Progressivamente sino al 1827 fu completato, fino ad acquistare definitivo potere espressivo sia nella forma pentagonale; sia usando materiale e mattoni diversi e quindi rilevabili di datazione; sia con lo scavo del fossato che segue la irregolare planimetria; sia con sopraelevazione di un piano: si crearono così due terrapieni, quello superiore e quello inferiore per quelle leggere; sia con lo spostamento della porta dalla facciata a mare a quella attuale ad est.

Per fortuna mai utilizzato, anche qui - come nel Tenaglia  e Belvedere - furono rinchiusi prigionieri – in condizioni assai critiche – nell’aprile 1849 i rivoltosi del moto antisabaudo catturati dal gen. La Marmora. Nell’occasione i rivoltosi divenuti custodi delle fortificazioni, ma male organizzati, si erano arresi senza combattere  ai bersaglieri - guidati dal capitano Govone e dall’ “uffiziale” Ferré-. L’ufficiale Giuseppe Avezzana, già condannato a morte per aver partecipato a moti liberali nel 1821 e che ora si era posto alla guida dei ribelli riuscì a fuggire, ma  i prigionieri vissero ore di terrore per la minacciata -e possibile- condanna a morte che poi per fortuna non avvenne (non sapendo certo che La Marmora aveva dato la sua parola d’onore, che i prigionieri sarebbero stati trattati umanamente; anzi aveva minacciato di morte chi li avesse molestati); anche se derubati, vilipesi e percossi nel tragitto, e sadicamente rinchiusi in molti in piccole e luride stanze, senza cibo ed acqua per due giorni, più volte disposti in file come a subire l’estrema pena e invece per registrarne i nomi o per contarli e poi essere rigettati ammucchiati, compreso i feriti per le percosse subite anche dopo la resa. Vi rimasero fino al giorno di Pasqua ).


Possedeva due cannoni (da 21 GR) e otto obici (da 21 GRC).

Come gli altri, la grande guerra del 1915-8 obbligò l’abbandono della struttura, spostandosi l’attenzione e le finanze sul fronte orientale italiano.

Fu allora utilizzato per ospitare famiglie di profughi o sfollati fino anche dopo lam seconda guerra mondiale.

Infine, negli anni 1960, fu preso in uso da privati – non sappiamo se autorizzati o in abuso – che, in genere, ne impediscono l’accesso (lasciando l’impressione  di un ambiente più vicino a delle stalle o discarica che a dell’abitazioni).

   4a) STRUTTURA DEL FORTE  In buona parte ancora ben conservato,  ha forma pentagonale, a due piani; grande 17.540 mq.; mura ciclopiche (10 metri verso valle e 2 metri sulle volte) a prova delle bombe di allora;  una ventina di vani sia per le artiglierie (rivolte verso i tre lati scoperti) che per depositi ben protetti, e servizi; il tutto, tenuto basso sul terreno, coperto da un terrapieno di protezione prevedente anche la possibilità di installare delle artiglierie di superficie che dovevano essere in condizione di colpire verso la valle e proteggere le assai ripide pendici del monte. L’ingresso, raggiungibile da due ponti: il primo – più lungo - in pietra; il secondo – vicino al forte -  levatoio, che sorpassano il  grosso fossato esterno e precedono il portone che è di modeste proporzioni, anche se appare ingigantito da paraste in laterizio sopra il quale sormontava lo stemma sabaudo. È posto a levante ed al centro; dà adito ad un piccolo e stretto cortile rettangolare ove si apre a sinistra una rampa sagomata a piatto ai due lati per lo scorrimento delle ruote dei pezzi d’artiglieria mobili,


sul terrapieno superiore per le armi pesanti raggiungibile con una scala; e alcune stanze –una ventina in tutto -  con volta a botte, per il corpo di guardia; più un buio e triste - ma munito di caminetto - alloggio per il comandante. A destra, altra scala per scendere in altri alloggiamenti degli artiglieri (con pagliericci di paglia), cucina e polveriera, celati dietro le spesse mura e sotto un notevole manto di terra opportuno per assorbire la forza di penetrazione dei proiettili. Le artiglierie coperte potevano sparare su tre lati: due a mare ed uno a nord; verso valle il tiro era affidato alle batterie di superficie poste sopra il terrapieno protetto da un potente terrapieno.

                                                                        

Gli ultimi lavori videro  l’allargamento della strada di accesso e del fossato (portato a 7 metri), il rialzo di un piano con conseguente spostamento della porta principale (a tutto sesto, incorniciata da due paraste in mattoni, ai fianchi delle quali si aprono i tagli per il passaggio dei meccanismi di sollevamento del ponte; sopra di essa, era un grosso stemma sabaudo; prima era a piano terra, ora viene collegata alla strada con un ponte levatoio).                                                      Esternamente sono visibili le numerose feritoie e cannoniere, nonché un cordolo in laterizio che contorna il forte all’altezza dei parapetti segnando le diverse inclinazioni: sottostante a scarpa e sovrastante a piombo.

   Dal forte la strada “salita al forte Crocetta”, diviene  sentiero che costeggiando arriva a Begato; prima passa sotto una porta inquadrata da due feritoie che a sua volta inizia una sottile cortina muraria munita di feritoie, che permette –costeggiandola- di risalire protetti fino al Tenaglia. Tale muro permette o difendersi dalle feritoie, o proteggersi tramite un baluardo intermedio, detto la Torre Granara: oggi in ruderi disposti in forma rettangolare, ad un piano,  perché rimasta incompiuta; fu utilizzata solo innalzando dalle fondamenta un muro semicircolare per proteggere una postazione superficiale. Collocata sulla linea delle trincee tracciate nel 1747 dal Tenaglia al Crocetta, poi protette da una linea muraria con feritoie.

   In una piccola costruzione a monte della strada, fu posto uno degli uffici del dazio cittadino; lì la guardia controllava chi entrava attraversando una porta sulla strada inquadrata da due feritoie (antica strutture rimasta in atto dal 1747, oppure chi scendeva verso il Belvedere.

Non stabiliva il confine con Rivarolo, ma era l’unico accasamento utilizzabile su quelle alture.

   La zona del forte fa ora parte del Parco Urbano delle Mura, vasto polmone verde della città.

 

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