CONTE                                          salita Dante Conte

 

TARGA:

S.Pier d’Arena – salita - Dante Conte – pittore sampierdarenese – 1886-1919

                                                         

    

                                               

       

vandalismo 1999; persiste 2011       dove era appoggiata la targa di marmo prima dell’attuale  

                                                                               

 

 

QUARTIERE ANTICO: Promontorio

 da MVinzoni, 1757.

In giallo via sBdFossato; celeste, via GB Derchi.

 

N° IMMATRICOLAZIONE:   2760

 

       da Pagano/1961.

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA - n°  18740

UNITÀ URBANISTICA: 28 – s.BARTOLOMEO

 Da Google Earth 2007.  in celeste via GB Derchi; in rosso via Promontorio; in giallo via S.B.d.Fossato.

 

N° CAP:   16149

PARROCCHIA:   Promontorio (dal 5 al 7, e dal 2 al 10)

 

 

 

 

 


STRUTTURA:  partendo dal basso, è viabile in due sensi nel tratto che da via san Bartolomeo del Fossato (dal tratto pianeggiante dietro alla chiesa) e passando sotto l’autostrada con un tunnel, arriva sul versante ovest della valle  fino ai primi caseggiati per abitazione.


Da qui, sale pedonale - dapprima a scalinata, poi a crosa quasi diritta che – a metà - è laterale alle case alte di via Fanti (alle quali si apre con un passaggio pedonale) - fino a che in cima si innesta  in salita Promontorio.

                            

in salita                                                                               in discesa

 

                                          

                                                                     in basso a sin il muretto delimitante la crosa

 

Dalla carta del Pagano/67 appare che per via MFanti era previsto sia continuare verso nord (ed invece è rimasta a sud della nostra salita) e sia – tramite scaletta - avere in carico il palazzo civ.23 (che è rimasto in via D.Conte, raddoppiandosi).

Da come viene descritto, si deduce che ancora nel 1976 era un sentiero, similare al letto pietroso in secca di un torrente.

STORIA:   ai primi del novecento, il Novella non cita questa salita e neanche include il pittore tra i “figli “ della città;  ma il tracciato, magari solo a mulattiera, dovrebbe essere antichissimo se viene scritto che dalle origini 1200esche delle chiese, il sacerdote di Promontorio scendeva a dire messa a san Bartolomeo, e viceversa, essendo titolare o quantomeno vicario di ambedue. Infatti è già ben visibile nella carta del Vinzoni del 1757, scendere da Promontorio con lo stesso schema a forcone, di oggi.

 nel centro della foto e in basso, probabile inizio del tracciato, ancora negli anni 1930

 

   Allora, attraversava le proprietà:  =nel tratto orientato verso il mare, prima i terreni di Domenico Rizzo, poi quelli del sig.r Gio.Batta Tini =Nel tratto orientato a levante, a nord il Tini su citato; a sud prima i terreni della mag.ca Marzia Imperiale; poi nel pezzo finale a zigzag, i terreni dell’”abbazia goduta dall’ecc.mo cardinale Doria”  (definita: ”san Bartolomeo del Fossato alias monastero dell’ordine Vallombrosano”). 

Non si sa da quando, ma sino a subito dopo il 1910, iniziò a chiamarsi    ‘salita san Bartolomeo’   (dalla via san Bartolomeo alla via Promontorio), quando già aveva civici sino al 7 e 10. Dopo quella data - ed ancora nel 1933 - divenne ‘salita Galileo Galilei’.  

   L’intestazione ufficiale col nome del pittore, fu data per delibera del podestà del 19 ago.1935, prima della mostra retrospettiva, ordinata in città nel 1937.  La numerazione è crescente dal basso verso l’alto.

   Nel Pagano/40 è appena accennata solo la titolazione, senza civici: ‘da via s.Bartolomeo a Promontorio’.

 

CIVICI

2007=  da 5 a 57        (mancano1, 3, 35, 43, 47→55: aggiungi 13A)

           da 2 a 12         (manca 4) 

Risultano assegnati a nuove costruzioni i civv. : dal 21 al 33 (1965); dal 13 al 19 (1968). A nuove aperture dal civ. 5 al 13A (1988-90). Soppresso il 4 per demolizione (1965). Assegnato il 12 ad immobile condonato.

 

la crosa vista dalla valletta a ponente: a sinistra il muretto e una casa contadina

 


===civ. 45 L’ingreso è sormontato da una Madonna (della Misericodia?)               

 


 

===il civ. 57, in prossimità della cima della strada è la villa Rizzo: nella planimetria del Vinzoni (1757), è segnalata come grossa costruzione in un molto ampio possedimento terriero di cui era proprietario Domenico Rizzo.

Più che villa residenziale probabilmente era una grossa casa agricola.

Sul posto ora è visibile un edificio completamente rifatto mentre gli spazi terrieri sono notevolmente ridotti.

      

ingresso civ. 57                              Madonna della Guardia       vecchio truogolo di fronte casa              

 

 

 

 

 

 

DEDICATA


al pittore locale, nato il 27 febb.1885 da Benedetto, operaio ansaldino, e da Natalina Zino; al battesimo, il nome completo comprende anche Mosè; primogenito di altri due maschi e quattro femmine.


    Essendo il genitore impossibilitato fargli continuare gli studi, notata la sua particolare bravura nel disegno a 15 anni, da conoscenti venne segnalato ad Angelo Vernazza che lo prese come allievo (probabilmente il sollecitante indiretto fu il sindaco Nino Ronco).  E poiché risultò effettivamente bravo, riuscì ad iscriverlo nell’anno 1900 all’Accademia Ligustica di Belle arti  (allora diretta da Alfredo Luxoro  dove insegnava anche Orazio Quinzio e con direttore della scuola di disegno del nudo, il fratello, prof. Tullio Salvatore Quinzio). Questo primo insegnante gli fornì i principi fondamentale dell’arte, secondo i dettami barabiniani; così indirettamente ebbe come base culturale l’impronta del Maestro, supinamente fedele al classicismo tradizionale.

   Seppur ‘bocciato’ l’anno dopo ad un concorso bandito dal Comune di Genova (con i fondi dell’istituzione Brignole De Ferrari, proponeva un sussidio per due giovani artisti), seppe dimostrare le sue qualità  vincendo pochi mesi dopo un’altra borsa di studio di lire cento mensili per la durata di 5 anni, sufficiente per un corso di perfezionamento presso l’Accademia di Firenze. 

   Nel capoluogo toscano, acquisì un notevole miglioramento e maturazione artistica (vincendo una medaglia d’argento per il profitto), e strinse amicizia con i migliori esponenti dell’arte, compreso anche con Augusto Rivalta (scultore genovese, a quei tempi già maturo ed affermato direttore della scuola locale di scultura, della quale rimase a dirigere per un quarantennio).

   Per capirlo, occorre a questo punto chiarire che già Barabino, come tutti i pittori di quel tempo, si era trovato ad essere a cavallo tra il vecchio stile detto classico (in cui il modello e la forma erano basati su regole fisse e precise) e quello nuovo (in cui, senza regole fisse, era espressione nuova d’arte, la libertà della fantasia e del colore). Barabino scelse rimanere nel tradizionale, e questa scelta si è poi rivelata non promozionale: tutti i critici lo elogiano, ma le sue opere non hanno certo le quotazione di un Picasso. Il Nostro - come tutti gli artisti liguri del fine ottocento - era stato educato ad una scuola barabiniana ancora avvolta in un forte isolamento culturale, tipico della nostra terra ligure: difficile e diffidente verso  tutto ciò che sia novità. Seppur il Nostro crebbe così ancorato, il nuovo stile fu per lui una felice rivoluzione, una concessione ad una libertà che lo autorizzava senza rimpianti ad esprimersi diverso dalla scuola ma più affine a se stesso.

   Resta evidente quindi che questa scuola classica, lasciò duratura impronta per tutto il suo purtroppo breve percorso artistico. Però - una istintiva genialità - ben presto lo fece scantonare producendo linee e colori inconfondibilmente personali e fuori da quegli schemi.

   Infatti, dopo la maturazione del soggiorno fiorentino, sentì il bisogno di andare a Parigi, per capire di più: entrò in contatto e si fece coinvolgere dalla pittura impressionistica, accettandone la responsabilità di esprimere se stesso con quello stile (Il movimento pittorico francese - specie Cezanne -  influenzò in maniera profonda il suo gusto di dipingere  al punto che  più tardi, giudicando il neonascente futurismo, affermerà “il vero futurismo è l’impressionismo; l’arte del divenire“. Provò anche Londra (là sopravviveva facendo il ritrattista: famoso è quello dell’ambasciatore Rolando Ricci; ma l’incontro con l’ambiente artistico locale fu meno incisivo: unica ad  interessarlo fu la pittura di A.East e di F.Brangwyn).

   Tornato a San Pier d’Arena alla fine del 1906, grazie alla concessione del Municipio aprì uno studio – pare gratuitamente - in una buia stanzetta del palazzo dell’Istruzione (villa del Monastero), che abbandonò ben presto perché non confacente al suo umore depresso ed al suo spirito  dagli spazi più ampi. Finì per prendere in affitto una rustica casetta presso Promontorio in salita Salvator Rosa, vicino all’abitazione del Vernazza,  ove ora è apposta una lapide a memoria.   Pur possedendo un forte e vigoroso talento creativo nonché una sensibilità e cultura eccezionale, iniziò a produrre per necessità di sopravvivenza quasi solo opere, ritratti o paesaggi classicheggianti,  su richiesta di una committenza artisticamente e culturalmente immobile e per lui  di una inquietante mediocrità espressiva.

Il carboncino fu il mezzo espressivo della sua abilità tecnica, nello stesso tempo economicamente il meno impegnativo, usato per studiare le espressioni attraverso pochi e significativi segni, appena appena ombrati.

   Questa situazione, lo fece entrare in grave crisi -  con se stesso e con gli altri - sentendosi incompreso dai  committenti ancora legati ai vecchi schemi pittorici ed assolutamente non aperti alle nuove espressioni dell’arte appena apprese dall’artista. Senza un appoggio familiare specifico, iniziò a precipitare negli stenti e provare privazioni che a spirale lo allontanavano sempre di più dal  concretizzare il desiderio di produrre qualche opera di maggiore rilievo o di più ampio respiro. Sino ad arrivare a condurre una vita prevalentemente ritirata, lontano da quello che potevano essere  mostre, riconoscimenti e mercato (e, l’essere ignorato dalla critica, di conseguenza immediata significò subire un peggioramento della già precaria situazione economica. Per questo,  la sua arte,  proiettata nel futuro, rimase misconosciuta dalla storiografia dell’arte).

   La progressiva e continua indigenza, non lo aiutò ad emergere come dovuto; questo divario, tra le desiderata della committenza ed il desiderio di esprimersi in modo più libero, come già detto, a spirale, aumentò la frustrazione, facendolo precipitare in una crescente depressione. 

impressione di festa campestre

 

   Le suo opere (un centinaio di tele e molti più disegni) divennero necessaria produzione mirata a pagare i debiti sia del sostentamento, che dell’affitto (venti lire mensili), e del mestiere, quando non poté più comprare tele e colori, usò in abbondanza il carboncino, con il quale potè meglio esprimere se stesso fuori dagli schemi, ricercando su fogli ricuperati da quaderni scolastici, - quelli “con le righe di quinta, con la traccia per determinare un’eguale altezza dello scritto“ -  i volti e le espressioni  dei soggetti più vari –operai (facchini; scaricatori; pescatori e marinai - tra questi ultimi, il ritratto di Baggetto–tela conservata alla GAM),  familiari (le sorelle, il fratello Dario), amici (la moglie di Vernazza, dell’avv.Parodi, dell’antiquario De Pasquali), paesaggi  sampierdarenesi, e vari autoritratti nelle più disparate espressioni, dimostrando poveramente ma vigorosamente la sua potente personalità.

 

la madre – Municipio di SPdArena                  la alta villa Scassi – coll. privata

 

   Scoppiata la prima guerra mondiale, fu richiamato e dovette partire per fare l’artigliere, distogliendolo dall’arte pittorica per tutti i tre anni.

Anche nelle trincee i ritratti dei commilitoni, sono molto semplici, con l’espressione umanamente rassegnata perché stravolti dagli eventi.

   Tornò dopo la vittoria senza però particolare entusiasmo né migliorata situazione  sociale, sicuramente sempre più sfiduciato. La regressione sociale post bellica  (vittoriosi, ma con le casse dello Stato dissestate. Il rientro dei soldati necessitò  reinserirli nella grande miseria generalizzata;  una fase quindi di riassestamento organizzativo, economico ed industriale assai difficile, e con le più gravi ripercussioni proprio sul ceto debole) non lo aiutò certamente, in un momento in cui la sua opera apparteneva al superfluo. É probabile quindi, che a trent’anni già provò spiritualmente cosa significa essere vecchio; infatti la quotidiana ricerca del bello appare costantemente offuscata da una vena di tristezza e seriosità. Se era depresso, sicuramente le belle parole di Francesca erano per lui altrettante frecce di dolore.

   Così, debilitato, non ancora 34enne,  quello che aveva risparmiato la Grande Guerra, fu distrutto in pochi giorni dall’influenza virale chiamata ‘spagnola’ che devastò l’Europa  nel 1919.

   Lo stesso giorno  4 gennaio, la malattia riuscì ad uccidere  il pittore, ma anche una sua sorella ed il suo più caro amico e collega 33enne Arnaldo Castrovillari (fiorentino, lavorava qui in San Pier d’Arena in via Prato; la sua scarsa produzione rimasta, è praticamente dispersa. La sua tomba è nel cimitero della Castagna). La loro  morte, per ulteriore triste sorte,  passò in un pesante silenzio, scusato solo dall’enormità della calamità influenzale (milioni di morti in Europa), e dal periodo sociale di  gravi incertezze.   

   Una targa nella cripta dell’Arco della Vittoria della piazza omonima di Genova, ricorda il pittore come deceduto per cause di servizio della guerra.                 

   La valorizzazione, nella sua giusta proporzione, avvenne ben dopo la sua morte (iniziò nel 1933 con una retrospettiva che diede  migliore giudizio delle sue capacità di artista, anche se la conoscenza rimase legata al solo ambiente di origine e lontano dalla valutazione dei più grandi circuiti dell’arte.   

Una seconda mostra avvenne nel 1937, ripetuta poi nel 1952; ed a San Pier d’Arena nel 1967 e 1974. Quest’ultima, fu permessa dall’essere riusciti a raccogliere maggior materiale: fino ad una sessantina di dipinti e numerosi disegni. Un gran numero di essi, specie dell’ampia produzione di schizzi, riuscì a trovarli nella casa di Promontorio Chianese Mario,  pittore pure lui, che gestiva un negozio d’arte in via Cantore 198r negli anni 1960, e che riuscì a collezionare anche molte tele ad  olio che rivendette ai privati; famosa è la collezione  della famiglia Bessone, valentissimo primario dermatologo del Gaslini, che possedeva nella casa-studio di via Cantore 30,  intere pareti di quadri disegnati dal pittore, tra cui anche una rara “Natività”).

    Dagli schizzi, si evidenzia che i soggetti preferiti furono sempre la gente comune, disegnati  con pochi tratti capaci di una notevole espressività e di grande rilievo plastico; con il  carboncino, il greve colore permette delle sfumature capaci di mettere  prevalentemente in forte risalto e con particolare densità i tratti fondamentali dei muscoli, dei volti o delle mani. Rare le composizioni religiose (che invece a quei tempi ancora fornivano materia di immediato guadagno e di sopravvivenza:  indice questo di un profondo travaglio interiore, di una cupa depressione che lo portava ad estraniarsi dalle gioie della vita, rintanandosi invece nella sua auto-emarginazione sfuggendo i circuiti che potevano portarlo alla meritata fama). Su questo tema, neppure gli amici, tra essi soprattutti il Castrovillari   che fu il più assiduo, riuscirono a aiutarlo.

   Sue opere, è scritto, sono presenti in Comune a San Pier d’Arena, e nella galleria civica d’Arte Moderna di Nervi. Di privati, sono i ritratti dell’avvocato Gerolamo Parodi e delle figlie, che lo alloggiavano in salita superiore Salvator Rosa, ed ai quali doveva certamente i soldi dell’affitto. In una stanza del padiglione dirigenza, dell’ ospedale civile di Sampierdarena - che è scritto possedeva una “bella quadreria” del pittore (e che sino agli anni 60-70, c’era) -, attualmente pare ne risultano presenti solo pochi, ricuperati e fortunatamente seriamente catalogati dal direttore dr. L.Ferrando;  vari altri, di privati.

 

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