CANZIO                                              via Stefano Canzio

 

TARGHE:

via - Stefano Canzio – antica “crosa dei buoi” – già via N.Barabino

  

 

 

angolo p.zza VVeneto                                        

 

particolare;  non più leggibile in basso a sinistra l’incisione “già via N.Barabino”.

 

 

angolo con via san Pier d’Arena

particolare

 

QUARTIERE  ANTICO: Canto

    da MVinzoni, 1757. In celeste zona dell’attaule piazza VVeneto; fucsia di piazza NMontano; giallo via NDaste; rosso via AScaniglia

 

N° IMMATRICOLAZIONE:   2743   CATEGORIA:  2

  da Pagano/1961

 

 

CODICE INFORMATICO DELLA STRADA - n°:   11680

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

UNITÀ URBANISTICA: 26 - SAMPIERDARENA

in rosso, via Pacinotti; giallo via san Pier d’Arena. Da Google Earth 2007

 

CAP   :   16149

PARROCCHIA   :   s.Maria della Cella

STORIA:   la strada è ubicata nel pieno della ‘zona del Canto’, spiaggia di pescatori e di lavoratori dell’attracco portuale locale (quelli che avevano trovato la Madonna, ora esposta in via Bombrini, che dovettero cedere spazio ai cantieri dell’Ansaldo, che dovettero soccombere all’imperativo del porto, che oggi sopravvivono spiazzati fuori dell’antico ruolo del rione).

1)                   Il primo nome acquisito dalla strada fu “Crosa dei Buoi (vedi): come tale è citata nel regio decreto del 1875 quando il Comune di San Pier d’Arena chiese a Torino l’approvazione per la nomenclatura delle vie ma titolazione risalente a vari secoli prima, fors’anche al medioevo. La strada andava diritta, dalla marina a via Mercato (sino al cinfine di levante del palazzo Centurione-Carpaneto di piazza N.Montano).        

  Non è dato con sicurezza il perché di questo nome;  con la mentalità di tre-quattrocento anni fa, quando le zone venivano indicate secondo l’evento od il personaggio più conosciuto dai più, le versioni offerte da vari studiosi i più accreditabili cercano spiegazione nella presenza di questi animali, le varie ipotesi formulate sono però inconsistenti: o per trainare carri – i tombarelli (dalla/alla marina- con merci da caricare/sbacate via nave o con sabbia), o  perché di lì passavano per andare al macello (difficile perché neanche è tanto pensabile che la popolazione facesse così largo uso di carne da giustificare un intenso traffico di bestie) o al pascolo (difficile, perché non ne esistevano ma era zona solo di orti). Assai improbabili anche le spiegazioni date dagli storici del Gazzettino (11/81), ricalcanti le ipoesi su descritte: di buoi - avviati al macello del Campasso (in altro numero del giornale, i macelli sarebbero stati alla Lanterna) attraversanti mezza città, perché scesi ad uno scalo ferroviario posto alla Crociera (in altro numero, alla ‘stazione fronteggiante Piazza Omnibus’):  assurdo, sia perché il nome precede di secoli i macelli e la ferrovia; e sia perché appare improbabile che - anche se ‘a gruppetti’,  si facesse fare loro il giro dal Canto (via Pacinotti), e scendere lungo poi la crosa dai quali prenderebbe il nome, per attraversare il centro cittadino onde arrivare al Campasso; al limite, fosse vero, sarebbero passati per via Spataro, o scenderli addirittura nel parco del Campasso. Per l’altro numero del Gazzettino, “smistati” alla Lanterna, dove però nessuno cita ci siano mai stati macelli.

   Due altre ipotesi le propongo io: là c’era anticamente una grossa stalla dove non solo si ospitavano questi animali, ma anche si potevano affittare gli animali per i lavori più vari (tanti ne avevano bisogno, il Comune per primo; mica tutti possedevano stalle, bestie e carri propri); oppure che gli animali c’entrano per nulla e bovi proviene dalle barche usate per trasporti marittimi.

Alla prima ipotesi, porta vantaggio anche la vicina ‘via della Catena’, quasi a confermare che da quest’ultima – essendo vicina ad una casa di signori - non dovevano passare, mentre da quest’altra, si; e, considerato che a quei tempi tutto il traffico - e con lui tutta la vita del borgo - si svolgeva via mare, tra i tanti anche l’opera indispensabile e continua dei minolli nel trasportare la sabbia alle navi    A svantaggio, che a quei tempi i carri erano prevalentemente trainati da muli, più raro da cavalli e  buoi (i quali, più lenti, divenivano anche facile preda dei tanti invasori a caccia di cibo).   

 

2) la seconda mia ipotesi deriva da un attento controllo della carta vinzoniana; essa

fa leggere in corrispondenze della strada, la definizione “crosa dé bovi”. Essa allarga la possibilità sull’etimo della parola, non intesa ai buoi animali, ma ai bovi imbarcazioni. Nel campo delle piccole barche a vela latina (oltre i più famosi leudo, pinco, sciabecco), negli anni del ‘700 (della carta vizoniana e del blocco inglese in epoca napoleonica) ed ‘800, era caratterizzato dalla necessità di avere imbarcazioni capaci ma altrettanto veloci e manovriere: con l’antenna di maestra dritta al centro ed alzata da un bozzello, lungo 15-20m., portata <40t., carena quasi piana, prua slanciata a sperone (poi concava), poppa dapprima a specchio (con un prolungamento dell’impavesata) poi tonda. L’avvento del motore fece scomparire tale tipo di bastimento. Di un uso, ne cita Ferdinando Casa.

       Con l’instaurazione della ferrovia (1853) e dei primi impianti siderurgici o comunque industriali già si iniziava a delineare quello che poi definitivamente venne riconosciuto nei primi anni del 1900:  la destinazione ad un ponente industriale, un entroterra mercantile (per il cimitero, mercato, gasometro era stata scelta la zona della val Bisagno) ed un levante residenziale.  

   Sino all’apertura di via Vittorio Emanuele (1853), che dalla Lanterna attraversando il borgo arrivava sino a Rivarolo, la vecchia ‘crosa dei Buoi’ dalla marina arrivava quasi in rettilineo, sino a levante della villa Carpaneto (in piazza N.Montano). La nuova strada longitudinale, parallela alla ferrovia, creò la piazza Vittorio Veneto e spezzò in due la vecchia crosa.

   Ancora vivente il pittore N.Barabino (1832-1891), la municipalità decise di dedicargli una strada; e scelse questa nella sua metà a mare, cambiando l’antico nome di ‘crosa dei Buoi‘ in via Nicolò Barabino. Lui rifiutò l’onore; ma alla sua morte, fu riproposto la titolazione e, nel 1910 appare già eseguita e vi appaiono già presenti civici sino al 14 e 7. Nel 1933 ancora era tale.

   Fu deciso infine, negli anni tra il 1933 ed il 1940, di trasferire il nome del pittore alla ex via C.Colombo (poi divenuta infine via San Pier d’Arena), e concedere quella in nostra considerazione al garibaldino S.Canzio.

   Curioso ricordo personale di un abitante in zona: durante il periodo bellico 1940-1945, segnala lo sbarramento della strada con un muro fatto erigere da parte delle autorità tedesche e col passaggio limitato ad una porticina posta sul lato a ponente. Evidente zona di traffico d’armi e dei ‘banditi’ come descritto sotto al civ.7

   Il Pagano/40  pone la via tra ’piazza V.Veneto e via N.Barabino’, con civici da mare a monte: neri e rossi. 

   Nel 1950 il Pagano cita esistere due osterie: al 10r di Pisterna Romolo ed al 43r di Rava T.; un bar al 23r di Ramolfo Francesco; nessuna trattorie.

CIVICI

2007 = NERI   = da 1 a 7                   e da 2 a 12

            ROSSI = da 1 a 53 (manca 41)    e da 2 a 56 (aggiungi 14A)

=civ. 1r, è la ‘premiata pasticceria Lorenzo Balocco’. Balocco fu un pasticciere venuto da Cuneo ad abitare di fronte al negozio, subito dopo le docce. L’apice della fama venne raggiunta il 5 giu.1905 in occasione dell’inaugurazione in piazza del Monastero, del monumento a Garibaldi: la regina, venuta a Genova e di passaggio in carrozza davanti alla pasticceria, fu invitata ’al volo’ ad assaggiare gli amaretti qui prodotti; piaciuti, ne ordinò altre confezioni che il proprietario si affrettò a regalare all’augusta sovrana. Dopo pochi giorni, il Balocco ricevette una missiva da corte, che lo autorizzava a fregiarsi del titolo di ‘fornitore della real casa’, degli amaretti da allora ‘della regina’.

Nel Pagano/1911 cita il Balocco, ma alla voce “liquoristi” e “pasticcieri”,  non come “caffettiere”. Nel 1919 e 25 è “caffè-offelleria già Ballocco (sic) Lorenzo ora Garrone e Reverendito” (ed è preferita, come principale, l’entrata di via N.Barabino). Quando tra il 1911 e ‘19 cedette l’attività (non è chiara la successione: si dice andò ad una sua nipote ex dipendente delle poste che si chiamava Pedemonte C. (confermato nel Pagano) Nel  /1931 si vantava essere la più vecchia nel ramo dei servizi nozze e soirée. Nel Pagano/33 non risulta più. Ricompare nel /’61 affermando che ha già ceduto l’esercizio). Altrove si scrive che fu rilevata (probabile in affitto) da Isnardi, Gambino & Mazza (tra loro soci, i quali nel 1933 risultano fossero anche in via C.Colombo all’1r).

Tipico, oltre gli amaretti, era il pandolce genovese, da loro prodotto. Caratteristica l’insegna: in città unica scritta su piastrelle di ceramica in stile liberty; molto elegante, colorata,  raffinata con caratteri flessuosi, in un fascione posto sopra le vetrine e che anticamente appariva su ambedue le strade essendo d’angolo (mentre le piastrelle ai bordi della striscia sono bianche lisce, quelle della linea centrale sono singolarmente decorate con un ripetuto disegno di una pigna stilizzata, circondata da lunghe foglie ad ago, di pino).

===civ. 1:  una edicola sopra il portone con la Madonna Immacolata a braccia aperte.

===civ.5: una edicola sopra il portone. Un vetro ed una grata impediscono un migliore riconoscimento di una Madonna col bimbo in braccio e due putti  sovrastanti.

===Al 5r vengono ricodati i fratelli Barazzoni, lattonieri e stagnini negli anni ’30 circa.

===civ. 7: viene descritta l’esistenza di una galleria, che dai fondi-cantina del palazzo, correva sottoterra parallela alla strada, sino a via San Pier d’Arena, nata non si sa a quale scopo (sicuramente utilizzata in guerra come rifugio antiaereo e come via di fuga da alcuni partigiani; ma da secoli era di interesse anche dei contrabbandieri:  la Dogana genovese, si trovò sempre in accentuate difficoltà a controbattere la piaga del contrabbando sulla spiaggia: il Ministero delle Finanze il 10 ottobre 1800 approvò una restrizione delle zone di imbarco e sbarco delle merci nel tratto tra la crosa Larga e dei Buoi  (specie come il vino, carbone e legna); venivano esclusi i pescatori).  Caratteristica il sopraportone: due volute floreali laterali pongono nel centro un leone accucciato sorreggente uno stemma che ha banda laterale trasversa ed è scalpellato in due direzioni diverse a significato di differente colore non riproducibile nel marmo (o gesso).

===gli ultimi civici pari, hanno  similari balconi delle finestre, con belle e lunghe inferriate che sembrano riportare ad un primitivo unico progetto o proprietario

=== 14r  nel dopoguerra, il negozio era occupato da Angelo Danieli; vendeva materiale elettrico: minuto e lampadari o elettrodomestici; si interessava a riparazioni (delle radio a valvole, per es.) e di impianti industriali; ’iscritto all’albo degli installatori elettrici liguri’;  

===45r negli anni 60 era in attività il fotografo-ottico Massa Italo, tel. 43741

===civ. 47r  la farmacia Centrale. Si scrive sia stata rilevata nel 1880 –quindi già esistente da prima - dal dott. F.Sommariva, subentrando ad un dottor Delpino Angelo che sappiamo però essere ancora in attività nell’anno 1889. Il negozio allora, non era sulla strada ma nella piazza oggi V.Veneto. Infatti quando a questi subentrò il dottor Pizzorni Giuseppe (che nel 1919, chiamato Pizzorno, divenuto titolare della farmacia chiamata col suo nome (servizio notturno), era ancora localizzata in piazza Ferrer; e nel 1933 in piazza Vittorio Veneto, 58). Nel 1940 appare in via S.Canzio e intestata sempre al Pizzorni quando però questo farmacista non esiste più nell’albo professionale di quell’anno. A tutti, subentrò infine la dott.sa Pedemonte Anna. Catalogata nell’elenco delle botteghe storiche, si scrive che così arredata sia nata nel 1910, con mobili in stile liberty (credenze con vetrine, bancone in legno, credenza a ponte con specchi, soffitto con stucchi a cassettoni e rosone centrale, porta-vetrine-insegna originali. Nonché vasi in vetro, che all’epoca contenevano le varie preparazioni.

 

===Posti nella strada, si ricordano antichi e vecchi negozi tipici : i Traverso-Moretto nell’angolo a ponente a mare. Era cartoleria cancelleria, e loro anche  lavoratori vetrai e di porcellane di produzione propria; gestivano anche commesse per finestre di interi palazzi, lampadari di Murano e cornici (civ.2r). Il Traverso, era un attivissimo repubblicano, divenuto anche consigliere comunale locale: fu uno degli incaricati di andare a raccogliere a Pisa le spoglie di Mazzini ed accompagnarle a Genova.

Il ristorante Tamburelli e la trattoria ‘Lisin’ il cui proprietario andava a pescarsi i pesci personalmente. Un cinema (piccolo, con non più di cento posti e vissuto poco); vicino ai Danieli famosi per materiali elettrici (civ.14r).  Un negozio di tessuti chiamato ‘la città di Genova’, gestito da Bartolomeo Parodi, e poco dopo il caffè Elvetico (civ.51r) gestito dai fratelli Fossati chiamati popolarmente ‘u velenu’ l’uno, e ‘a burrasca’ l’altro. La pasticceria Giacometti; le sorelle Costa (civ.7r) di  frutta e verdura con le primizie; la salumeria fratelli  Prato, con specialità la torta pasqualina e poi credo divenuta Benassi (civ.54);  il Banco di Chiavari (civ39r); droghiere Colosso (civ.42r);  gli idraulici f.lli Barazzone (civ.27);’alla città di Trieste’ tessuti (civ.18r); la lavanderia con l’onnipresente (ancora nel 2003) Argia Semino Morre (lei, sofferente di bronchite cronica, è sempre in negozio; scherzosamente le si diceva: forse… è nata li dentro); il tabacchino Grondona (civ.34r) non più aperto dagli anni 2000 perché lui in pensione; Picchio salumiere (civ 17r), Capriotti Manlio, costruttore di apparecchi radio e loro accessori come valvole, amplificatori, dischi, ecc.; nonché ottica, frigoriferi (civ 32r), Rossi ombrelli (civ 56r).

L’elenco non finirebbe più. Ma la memoria  ‘vede’ anche un parrucchiere, strumenti musicali Alberti, calzaturificio, osteria, giornalaio, coltelleria profumeria, ottica Massa, friggitoria,  calzolaio, merceria, trattoria Ratto , cappellaio, orefice; in cento metri tutti i servizi: un pre-super market completo!

   La strada, dagli anni dopo l’ultimo conflitto mondiale, ha subito dello spostamento del centro vitale, dalla piazza Vittorio Veneto a via A.Cantore; e contemporanea agonia commerciale della marina (destinata al traffico pesante e di scorrimento), subendo un decadimento di movimento e di interesse, dalla proibizione di sosta dei veicoli.

STRUTTURA:   senso unico veicolare, da piazza Vittorio Veneto a via San Pier d’Arena.

Strada comunale carrabile, lunga 129,5 metri e larga 4,2, con due marciapiedi larghi 1,5 metri; con 12 bocche dette ‘di lupo’ per parte, per la raccolta di acqua bianca piovana.

Una disposizione di fine 1998, ha decretato il divieto di posteggio per tutta la via, creando all’inizio strada una “strettoia”, obbligata da uno slargo del marciapiede sormontato da due paletti. Questa pedonalità non ha creato, a mio avviso, beneficio ai negozi ancora presenti.

 

                                                                                       le case a sinistra sono il retro della nostra strada; a destra si intravvede il palazzo delle Poste. Nel mezzo la casupola e due punte come di un ex cancello; fa ricordare antiche proprietà nel terreno non conosciute.

                  

DEDICATA  ad una delle più grandi figure garibaldine. All’indomito militare di non comune coraggio, divenuto poi uomo politico, ed amministratore attivissimo e perspicace.                

    1870 con la moglie Teresita Garibaldi.

  Nato a Genova il 3 genn.1837, da Michele (poliedrico geniale ed arguto personaggio artista: decoratore, pittore, scultore, architetto ed infine anche impresario. Vedi a via Daste-villa Scassi) e da Carlotta Piaggio (figlia di Martin, grande nostro poeta dialettale). Cugino, fu Michele Novaro, il musicista del nostro inno nazionale.

   Crebbe, indirizzato quindi agli studi artistici, studiando al ginnasio Doria, a cui sembrava portato per l’ereditata estrosità, senso dell’umorismo ed irrequietezza comportamentale (come, -costantemente calato sul capo- un personale e caratteristico cappello a staio di vistosissime proporzioni), e per lo spirito (goliardico, gioviale, estroverso, eccentrico, iperattivo).

   Pare però che da giovane ottenesse  risultati culturali poco brillanti.   

   Perché il destino aveva deciso diversamente per lui. Frequentando Antonio Mosto ed Antonio Burlando (creatori dei Carabinieri genovesi, sorti dalla società di tiro a segno) a 22 anni si arruolò con loro come soldato semplice volontario, carabiniere genovese,  per la II guerra di Indipendenza. Subito si distinse, sia a san Fermo (vicino a Como, 27 mag.1859 dove Garibaldi vittorioso poté annettere il territorio e subordinarlo al governo di Vittorio Emanuele II) ove da soldato fu nominato sergente e sia  a Varese (dove, assieme a altri 48 volontari dei Carabinieri Genovesi, compì miracoli di valore respingendo gli austriaci del gen. Urban: le nuove carabine aprivano vuoti spaventosi nelle fila addossate dei soldati nemici avanzanti – e quindi facile bersaglio - con l’inquadramento dell’epoca napoleonica).

   L’anno dopo, partecipò – svolgendo anche un ruolo primario nella primitiva organizzazione – all’avventura dei Mille (con l’impegno di corrispondere al giornale mazziniano genovese “Movimento” le notizie della spedizione); fu nominato ufficiale (tenente) a Calatafimi. Combatté fino a Palermo, dove fu ferito da una fucilata alla clavicola sinistra nella conquista del Ponte dell’Ammiraglio e fu sottratto al fuoco nemico  da un altro carabiniere genovese – Pietro Damele di Diano Castello- che rimase pure egli ferito. Per questa - da lui definita - ‘potentissima frustata’ poté raggiungere i suoi soldati solo quando essi già erano giunti in Calabria; in tempo però per il Volturno, ove per meriti sul campo, fu nominato capitano e per entrare in Napoli a settembre con Garibaldi.

   Dopo Teano, dove fu presente, seguì fedelmente il suo comandante fino a quando  questi si ritirò a Caprera; qui conobbe la diciasettenne  (Badinelli scrive 16enne) Teresita - figlia del generale e di Anita -: «dunque voi amate la mia Teresina? Ebbene, sia vostra sposa. Nessuno meglio di voi è degno di lei...».

 Così, lui ventiquattrenne, si sposò il 25.5.1861, celebrante il parroco della Maddalena.

   Divenuto genero di Garibaldi, ancor più si sentì fedele braccio destro e luogotenente (succedendo nell’incarico a Francesco Anzani). Irrequieto come l’ Eroe, lo seguì a Sarnico; ad Aspromonte (’62); a Bezzecca (3.a guerra d’Indipendenza, ove meritò i gradi di maggiore, tant’è che venne chiamato ‘il vincitore di Bezzecca’, per aver ripreso la città al nemico; ed una medaglia d’oro  al VM  la cui motivazione dice:nel momento in cui i nostri, sopraffatti dal numero dei nemici piegavano in ritirata, egli raccogliendo intorno a sé parecchi ufficiali, diresse l’azione, animò coll’esempio e, ordinato da ultimo l’attacco alla baionetta, contribuì specialmente all’esito fortunato della giornata. Bezzecca.  26 luglio 1866”).

   Nel ’67, riuscì a far evadere Garibaldi da Caprera con il suo “beccaccino”: impresa quasi da romanzo e che richiese invece audacia e freddo calcolo per sfuggire il blocco navale della marina piemontese. Riorganizzati, partirono - suocero e genero (e lui vestito con i rendigote ed in testa un bislacco cilindro) per la battaglia di Mentana (1867 ove meritò  i gradi di colonnello), nello scontro salvò pure la vita a Garibaldi calcandogli sul capo il suo cilindro ed impedendo che i francesi, armati di carabine a ripetizione (i famosi chassepots’), lo riconoscessero e lo prendessero di mira.

   Nell’anno 1870, a fronte dell’apparente sociale tranquillità, per i patrioti repubblicani erano invece tempi di persecuzione fino all’odio per la loro avversione ai Savoia e l’insaziabile sete di Patria unita: perquisizioni e stretto regime poliziesco erano all’ordine del giorno. Il 23 marzo, Mazzini arrivò a Genova da Lugano e, all’ultimo piano del civico 6 di via san Luca,  si fermò a parlare con il comitato rivoluzionario (comprendente oltre A.Mosto, altri otto ed il Canzio; appreso il fallimento dei moti di Pavia e Piacenza, stigmatizzò la prosecuzione dell’agitazione e l’impegno di ‘o Roma, o morte’). Bloccato così da questo primario impegno, con i volontari italiani inquadrati nella I e V brigata, andò a combattere in Francia nella guerra franco-prussiana, coprendosi di gloria in ogni battaglia (a Présnois caricò il tedesco sul fianco sinistro sbaragliandolo; personalmente si distinse perché condusse l’attacco e la carica dei “chasseurs à cheval” che aveva racimolato, seguiti dai suoi fanti,  con la solita stranezza di non vestire la  divisa ma la palandrana rendigote e sul capo il cilindro, senza armi ma solo con un frustino in mano.  A  Talant, ove resse per dieci ore di seguito ad un cannoneggiamento dell’artiglieria tedesca e poi infine avendone ragione. Al castello di Pouilly dove in gara con i “franc-tireur” di Ricciotti riconquistò per tre volte la posizione finché costrinse il nemico alla fuga. Ed a Digione (qui, trentaquattrenne, fu nominato generale sul campo perché concluse per tutti la battaglia che durava da tre giorni, con una carica risolutrice della prima brigata; con i soldati di Ricciotti conquistò l’unica bandiera  che in quella guerra si riuscì a togliere al nemico. Nel monumento a Garibaldi eretto in questa città, il suo nome è scolpito sul piedistallo)).   Il diario dell’impresa è custodito all’Istituto Mazziniano. Con questa campagna francese, si concluse pure il ciclo delle nostre guerre di Indipendenza.

Ritiratosi allora a vita civile, venne ad abitare in via Assarotti, 31 (ove è apposta una lapide “nell’ottobre MDCCCLXXX/ fu ospite in questa casa/ presso la figlia Teresita/ Giusepper Garibaldi”; La lapide fu rifatta nel 1948 perché andata distrutta durante il regime fascista, aggiungendo pertanto “Il Comune di Genova/ in memoria / MCMXLVIII”). Grazioso episodio di questo soggiorno è raccontato da Maria Vietz sul Bollettino della A Compagna: sua nonna, era a servizio dei coniugi Canzio; un giorno a tavola Stefano notò un piatto non ben lavato ed altezzosamente chiese che lo cambiassero. Il cuoco in cucina ci sputò sopra, lo pulì e, dopo averlo asciugato, lo fece riportare a tavola  ottenendo l’approvazione del padrone.

   L’usuale bellicoso guerriero non si sottrasse al nuovo tipo di combattimento. Avversando  i falsi reduci ‘che potevano vantare solo la cicatrice...ombellicale’ o ‘la campagna... in villa a san Cipriano’ proseguì però la sua lotta repubblicana in forma alquanto diversa: accettò l’impegno in politica non schierato da una parte ma affrontando tutti i problemi che a suo personale avviso si presentavano da risolvere. Nel 1872 fu incaricato da Garibaldi con un telegramma di rappresentarlo ai funerali di  Mazzini (morto a Pisa il 10 marzo), portando alta la bandiera dei Mille (era stata confezionata dalle donne di Napoli nel 1860 e consegnata in custodia al Comune di Genova l’anno dopo).       

   Capitanò i moti  popolari  genovesi, per cui fu anche arrestato e condotto nelle carceri di sant’Andrea con l’accusa di ‘attività sovversiva’ (Durante la commemorazione mazziniana del 10 marzo 1879, avvenne un conflitto a fuoco tra la polizia ed alcuni esaltati repubblicani: subì un processo e fu condannato ad un anno di carcere, ridotto a tre mesi dalla Corte d’Appello; così fu arrestato nella sua casa  e tradotto in sant’Andrea. Garibaldi, seppur invalido per l’artrite, cercò di venire a Genova ma cercarono di impedirglielo anteponendo intoppi burocratici imposti dal governo; allora, col solito cipiglio arrivò in lettiga ed inaspettato via mare il 4 ott.1880: col prestigio del suo nome e la deferenza di tutta la popolazione accorsa, ottenne per il genero una amnistia e la scarcerazione. Destino volle che Garibaldi in quei giorni concitati, conobbe la giovane Francesca Armosino nutrice dei nipoti:  se la portò a Caprera per sposarsi la terza volta, non senza una certa  avversione della figla).

   Nel 1884 ricevette un’altra medaglia d’oro al valore civile, per l’opera attiva durante l’epidemia di colera.

   Due figli  del Canzio nel giu 1885 furono giudicati colpevoli assieme ad altri per aver picchiato a morte un operaio cattolico durante una sfilata religiosa; la pena (mitissima, non superando tre mesi e sei giorni di carcere) fu interpretata quale frutto della sottile campagna di odio verso la Chiesa (a Genova era arcivescovo mons.Magnasco; papa era Leone XIII) e comunque anticlericale da parte del governo sabaudo con pretta vocazione laicista. Il commento cattolico fu “i figli d’un padre della patria non potevano che finire nelle patrie galere”. Uno dei due, di nome Michele divenne insigne architetto, e partecipò all’ornamento della villa Scassi e del Municipio locale.


   Fu eletto deputato nel 1891, ma il 4 lug.1903 rinunciò all’impeno romano preferendo la carica di Presidente del neonato Consorzio Autonomo del Porto di Genova (vedi disegno si ‘san Teodoro pag.35-dice agosto-). Con questo incarico di comando - allora chiamato anche ‘sommo magistrato del porto’ oppure ‘generale’ - il Canzio guidò per primo il CAP con la solita identica carica impetuosa ma aggiungendo oculata capacità, alta responsabilità e squisito senso tattico. Si scrive che di fronte alla minaccia  di una rivolta sulle banchine dovuta alle sue prime decisioni, esclamò «vogliono il


sangue? ottimamente, da un bel pezzo non ne vedevo scorrere». Il porto era arretrato rispetto le nuove regole internazionali sia per gli imprenditori, sia sui moli che sulle navi (da vela a motore; da legno a ferro). Riuscì così, malgrado vive opposizioni ed aspre contrarietà, a imporre una legalità basata sul potere di un ente autonomo che se rappresentava lo Stato, non doveva rendergliene conto; uno stato nello stato: palazzo s.Giorgio amministra il territorio, stabilisce le leggi, codifica il lavoro delle categorie con piena giurisdizione, senza controlli superiori. Per primo, si fece riassegnare il palazzo del Banco in cui stagnavano – per mancanza di soldi -  i lavori di restauro guidati da D’Andrade; e si fece carico del completo prosieguo dei lavori. Su sua richiesta furono apportate solo queste modifiche: inversione di orientamento dell’edificio con apertura dell’ingresso sulla facciata a mare, e costruzione ex novo del relativo scalone interno che porta alla Sala delle Compere  e commissione al pittore Lodovico Pogliaghi di ridipingere le facciate deteriorate (dapprima eseguì un bozzetto, dopo che due pittori Ferdinando Bialetti e Gaetano Cresseri avevano fatto studi sui graffiti e sulle cromie rimaste) e nel 1913 completò l’opera.

Poi, riuscì a coordinare amministrativamente categorie di lavoratori incolti ma eccitabili e fortemente coalizzati in interessi settoriali, a modificare leggi eccessivamente burocratizzate in materia di navigazione di trasporti, di scambi ormai internazionalizzati  e non ultimo di programmare nuovi impianti, consorziare i servizi basilari e sollecitare i grandi lavori.

   Signorilmente povero, in corso Magenta ove era andato ad abitare, morì il 13 genn. 1909 per polmonite poco prima delle ore 23,15  (per altri la data di morte è il  14 gennaio, forse giustificati dalla tardissima ora del decesso; per altri è addirittura il 29 luglio; la malattia – pare una polmonite - fu contratta per essersi buttato in mare per soccorrere un portuale durante un incendio sulle calate.  Gli successe interinalmente il vicepresidente comm. Natale Romairone (dal 15 genn. al  18 aprile 1909 quando fu eletto l’ing. grande uff. prof. Nino Ronco, già rappresentante il Comune di SanPierd’Arena in seno all’Assemblea Generale).

 

 

   Fu sepolto nel Famedio di Staglieno (Pantheon, t.LXX). La lapide dice   “Stefano Canzio / 1837-1909 // fiera tempra di soldato / come Nino Bixio / ebbe di Garibaldi l’affetto / e ne impalmò la figlia // opposto per indole al genitore Michele / la sua vita fu tutta una battaglia / illuminata da passione di Patria / combattuta dovunque / il nome d’Italia / splendesse sui labari / e sulle speranze”.

 

   Dolcino riferisce di una pubblicazione che fa del Canzio un appartenente alla massoneria genovese, in una delle logge del Grande Oriente d’Italia.

   Nel 1904 un curioso episodio riguarda il cerimoniale navale: ospite come presidente del CAP sulla nave francese Jena, non fu salutato con le dovute salve di cannone; dalle rimostranze consolari ottenne, ad una successiva visita, che l’ammiraglio Barnaud  ne ordinasse 13 in suo onore, come dovuto.

   In particolare per noi, l’evento più eclatante del  suo ultimo impegno avvenne il 25 ottobre 1905 quando con grandiosa solennità (presenti i reali d’Italia, e le squadre navali italiana, francese, inglese, americana e germanica) venne calata in mare la prima pietra della grande diga esterna foranea (che sarà lunga 1700m.: un enorme macigno di 40t. tratto dalla cava della Chiappella con scolpita in rosso la data) a difesa del nuovo bacino del Faro riservato al movimento del carbone (o della Lanterna; ma che all’epoca, l’Assemblea del Consorzio aveva assegnato il titolo ‘bacino Vittorio Emanuele III’) che poi sarà inizio della diga verso SanPierd’Arena. I lavori avranno corso regolare dal 1906 secondo il progetto dell’ing. Inglese, poi modificato.

   Mentre l’opera più grande è l’aver dato con intuito geniale il primo serio ordinamento al lavoro operaio nel porto superando le più vive ed aspre opposizioni.  Il regolamento ripartiva i lavoratori in categorie (merci varie, carbone, ecc ...); a loro volta suddivise in compagnie (ad  esempio,  i carbonieri erano a loro volta suddivisi in facchini, scaricatori, pesatori, ricevitori);  all’interno di ogni compagnia, i portuali potevano costituire cooperative di lavoro per strappare via via l’esclusiva delle operazioni di carico e scarico.

   Gli è dedicata una calata nel porto.

 

 

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