CANTORE                                                  via Antonio Cantore

 

VIA A. CANTORE – CIVICI A MONTE (civici dispari)

La strada inizia in zona san Teodoro, dipartendosi da via Milano. Tutta la prima parte in salita, sino all’autostrada, fa parte di Genova, di san Teodoro, di Genova (fanno testo le varie imboccature delle ferrovie e la Lanterna a dare una linea di dove c’era il fianco della collina sovrastato dalle mura; San Pier d’Arena è a ponente di esse; e Genova –dalle mura ad est- è comprensiva di tutto il pianoro di san Benigno, dalle mura a levante.

A ponente del civico 2Ar di via Dino Col e del 9r di via Cantore, inizia la UU28-san Bartolomeo (che arriva fino a via G.Pittaluga di ponente, con il civ. 15nero, 67Drosso compresi).

Dopo il muro di sostegno del piazzale della Camionale, e dopo via s.Bartolomeo del Fossato, i primi civici sono tutti senza portici. È probabile che gli imprenditori edili molto furbescamente si siano adoperati a costruire appena il piano regolatore fissò l’apertura della nuova strada ma non aveva ancora stabilito per legge questa regola che però aleggiava nelle volontà della pubblica Amministrazione (è chiaro che i portici fanno perdere una non poca area edificata, da dedicare invece a redditizie imprese commerciali – come al civico 30).

 

Via san Bartolomeo del Fossato

 

===L’isolato comprende due palazzi con il civ.7 la cui facciata si vede nelle foto dell’inaugurazione della Camionale, e quindi antecedente agli anni 1930. Posto in curva, fu arrotondato dando l’impressione di uno stile misto tra la fine del Liberty e un vagito di quello  -non ancora definito ma poi chiamato- stile mussoliniano. Il palazzo inizia con il 13r e finisce con il 27r.

Seguono uno stacco, chiuso da due cancelli affiancati, ed il palazzo successivo con il civ. 11 ed il 29r davanti al quale c’è una importante fermata dell’AMT e che fa angolo con

 

via Gerolamo Pittaluga (levante)

 

il secondo isolato comprende anche lui due palazzi con tre portoni: i ===civ. 11A nel primo, con i civv rossi dal 31r al 35r; e 13 con 15 nel secondo, con civv. rossi da 21r al 47r.

 

via Giacomo Balbi Piovera.

 

Il terzo isolato, anche lui con due palazzi, è caratterizzato da non avere i portoni che si aprano sulla strada principale; iniziano d’angolo con il 49r di una tabaccheria (nel 2007, di Baglini Michela) e finiscono con 67Dr di un negozio di sanitari; tra il 597r e 61r ci sono due cancelli che danno adito nello stacco -tra i due palazzi- ad una aia privata.

===civ.  53r   la farmacia Cantore.    Si apre sulla piatta facciata che era il retro di un palazzo, i cui portoni e le decorazioni si offrono sull’attuale retro dove là passava la strada quando ancora non esisteva il progetto di via Cantore (distaccata da salita Imperiale, ed aperta a tornanti per poter salire verso l’ospedale con i carri del matetriale edile e ambulanze a mano). Nel 1911 sul Pagano la farmacia non appare ancora. Compare per la prima volta sul Pagano/1912, in via G.Carducci e titolare il dott. Anselmo. nel /1913 non è citata tra le farmacie; ma ricompare in quello del /1919 è chiamata  ‘farmacia Internazionale’. Non sappiamo quando, divenne di  Chiappori Giuseppe. Il palazzo che la ospita era già presente dal 1910,  preesistente alla attuale via A.Cantore ma il cui tronco stradale però era già stato costruito ed inizialmente  battezzato via G.Carducci: in quello del /1925 ricompare e precisa essere al  civ. 51r. Nel 1933 appare chiamarsi ‘farmacia Chiappori’ ma essere di Saglietto Francesco Inizialmente essa come entrata principale si apriva sull’attuale retro del palazzo, in via Pittaluga a fianco di dove ancor oggi si aprono i portoni dei palazzi: invertì la posizione aprendo l’entrata principale in quello che era il ‘retro’, non so in che data ma quasi sicuramente nel dopoguerra (ed ancora nel 1950 era il civ. 51r di v.Cantore).  ed ancora nel 1950; poi di Buttini Giovenale (titolare ancora nel 2004) che la fece chiamare  -come è oggi- semplicemente ‘Cantore’.

 

via Gerolamo Pittaluga (ponente) Separa la UU28-sBartolomeo (a levante), dalla UU27-Belvedere (a ponente; comprendente la zona dal civ. nero 17 al 39; e dal 65r al 151r)

 

in angolo iniziano i:

  entrata ovest

 

 

=== giardini della villa Scassi. Originariamente iniziavano dal retro della villa (il cui portone principale si apre sul lato a mare, in largo Gozzano, già in via N.Daste) e risalivano la collina quasi sino all’apice di Promontorio.  

(Il taglio creato da via A. Cantore, obbliga  ‘tagliare’ l’antico parco in tre parti separate e non più un tutt’uno con la villa: la prima parte è  a mare di via A. Cantore e viene descritta con la villa, in Largo P.Gozzano (vedi).

Altrettanto una terza, contenuta nel recinto dell’ “Ospedale Villa Scassi”, oramai completamente avulsa –amministrativamente e territorialmente- dal resto. Ritengo opportuno descriverla con l’ospedale, in corso O.Scassi (vedi)).

La parte di mezzo, ormai avulsa dalla villa e posta a monte di via A.Cantore  costituisce i giardini veri e propri attuali, e viene descritta qui sotto. Per essere un vero e proprio parco manca di prati e di suggestionanti zone di passeggio; ma è l’unico rimasto degli innumerevoli giardini che arricchivano ogni villa locale, tutte all’incirca a fasce, arroccate su per le colline. Quindi è altrettanto l’unico spazio verde rimasto al cittadino (assieme ai tre poveri e spelacchiati alberi di piazza Montano lasciati a rappresentanza del parco di villa Carpaneto, ai mai nati giardini di villa Ronco, al microgiardino di via Pedemonte, ai giardini Pavanello e  i due, in alto, a Belvedere).

STORIA  dei giardini

Le terrazze che lo compongono - ancora immerse nel verde totale della collina, vergine da manomissioni, (con spiazzi delimitati da larghe balaustre decorate con grossi vasi in cotto a fioriera e centrati dai ninfei a grotta con statue e fontane, tra loro collegate a mezzo di ampie scale a rampa) sono visibili nello sfondo del famoso quadro che riproduce la famiglia Imperiale (olio su tela, di 266x315, del 1642) attribuito a Domenico Fiasella (1589-1669) e bottega (in particolare il suo collaboratore GB Casone, già del museo di sant’Agostino, ora nella Galleria di Palazzo Bianco;  Nocchiero-GB Derchi-, scrive pag.182 che era attribuito a GioBernardo Carbone ed era custodito nella civ.bibliot.Lercari nel palazzo Imperiale di san Fruttuoso. Vedere in questo testo tante riproduz. del Derchi dei giardini).

particolare

  Boccardo-Di Fabio nel libro di Poleggi scrivono che mentre i giardini dimostravano importanza (“nella qualificazione delle dimore e nell’idea stessa di magnificenza abitativa che caratterizzèò la ‘civiltà dei palazzi’ genovesi...con modello emblematico le scelte compiute da Andre Doria per la propria residenza suburbana di Fassolo...solo nel caso di ville suburbane era possibile organizzarli con larghezza su vasti terrazzamenti in declivio”), essi rappresentano “uno spreco lussuoso” (non siamo d’accordo sull’uso della parola ‘spreco’ in quanto è un minimo ma tutt’ora in atto e godibile da parte di tutti, di quanto ci è rimasto di quell’epoca in San Pier d’Arena).

Coerente con i desideri del committente, il giardino fu arredato come un posto incantato,  dove ogni essere vivente si confonde con la natura e si permea in un tutt’uno fantasioso, stimolato dalle allegorie dell’acqua, dalle  statue dai corpi trasformati fantasticamente, dalle  grotte che aprono ai segreti della potenza creativa della natura, dalle siepi limitanti i trucchi dei labirinti.

Precedentemente sempre gestiti da privati, la villa ed il suo parco, furono acquistati dal Comune di San Pier d’Arena.

   La lettura degli innumerevoli grandi scrittori che dal 1537 in poi (il Giustiniani, il Confalonieri e via via lo Scotti, lo stesso Gio Vincenzo Imperiale, il Sauli, il Biffi, il Fürttenbach, il Duval, il Volckammer, il Vinzoni, il Ratti, il Gauthier, tutti tesi a decantare le meraviglie dei giardini, ci convince sempre più che, quello che rimane della villa e del parco, serve solo a piangere per quello che la pubblica amministrazione dai primi del 1800 ad oggi, è riuscita a distruggere, lasciandoci una città riempita solo di case una addossata all’altra, alla disperata ricerca di un pezzettino di terra ove solo costruire - speculando o no, figuriamoci ! - senza lasciare un briciolo di spazio per convivere; distruggendo - in nome del sociale e dell’assurdo e paranoicamente esaltato manchesterismo - tutto quello che alla città dava un aspetto irripetibile, paradisiaco, a misura d’uomo, elogiato da tutti i visitatori italiani e stranieri.    Faceva comodo ad una ristretta cerchia decisionale, prospettare per tutto il ponente genovese una così orribile fine: nascosta a mo’ di specchietto per le allodole da  una bella ma non duratura fasciatura di lavoro e prosperità, e  con la silente e passiva approvazione di una cittadinanza prevalentemente importata e quindi insensibile, naturalmente opportunista, e spesso realmente affamata. E’  stata portata a termine così una catastrofe ambientale,  artistica, e sociale, di cui  si ha mai -da nessuno politicamente impegnato- avuto pubblicamente vergogna.

Nel 1801 la villa venne acquistata da Onofrio Scassi, che però dovette aspettare una quindicina d’anni per abitarla, essendo ‘in pessime condizioni: dirutam’ dopo l’occupazione austriaca.  Nell’occasione non si cita il parco, come era; si presume che nessuno lo curasse più sino ad allora.

Nel 1861 ed ancora nel 1908, attribuendo erroneamente la villa all’Alessi, venivano definiti “giardino pubblico Galeazzo Alessi, e terreni attigui con entrostanti case coloniche”.

 

 

foto del 1895 – forse la prima in assoluto (ripresentata sotto, del 1901 per cartolina). I giardini in primo piano, ove ora scorre via ACantore, sottolivellata essendo, il primo ninfeo, più alto di essa. Il viale che portava al terzo ninfeo.

A destra in alto la torre e la villa Piccardo  descritta in via GB Botteri.

 

 Vecchie foto, gli acquarelli di GB.Derchi ed alcuni quadri di D.Conte, evidenziano che ancora agli inizi del 1900 era parco pubblico frequentato anche da bambini e ‘gitanti’. Allora, il complesso era attribuito e quindi titolato all’Alessi.

                                      

tre immagini dello stesso posto

    

 

L’apertura in alto di via Roma nel 1910 circa (corso O.Scassi), e il campo sportivo che andò a sovrapporsi alle aiuole retrostanti la villa (con il primo rialzo destinato a tribuna per gli spettatori; prima ancora quindi dell’apertura di via (1930-5) A.Cantore), delimitarono i confini dell’attuale parco  pubblico, ridotto quindi di dimensioni, unico polmone verde nell’inquinamento generale assieme ai giardini Pavanello. Nel tempo però, a causa dell’incuria e del tempo era divenuto sempre più immiserito, con pezze di selciato e poi d’asfalto, con degrado generale delle aiuole: i necessari giochi per i ragazzi arrugginiti ed abbandonati (che nella logica di allora dovevano trovare sfogo altrove!).

  

Già era stato restaurato  nel 1928 per celebrare il sesto anno della marcia su Roma (avvenuta il 28 ott.1922): sulla rivista municipale “Genova” viene descritto che il podestà Broccardi Eugenio fece ripristinare il giardino che era rimasto di 12.000 mq dopo l’occupazione dell’ospedale, e “diviso in due parti separate da una rampa: nella parte superiore il viale era fiancheggiato da statue, fontane ed alberi (querce (quercux), cipressi (cipressus), 4 palme, alloro, pini (pinus palepinsis), lecci (ilex), filari di pitosforo comunque tutti sempreverde (sempervirens) ed a foglia perenne); nella parte inferiore la fontana del Nettuno, grossi vasi e coppe decorative poste su piedistalli; l’accesso era solo in via GB Botteri ma si stava allestendo un nuovo ingresso in basso ove era il campo da pallone, con due rampe nuove”.

   

      

foto  anno 1901

 

foto Pasteris –  aprile 1937                                       idem – maggio 1937

 

foto Pasteris – maggio 1937

   Da allora, più nulla. Furono recintati solo nel 1972 dopo un iter burocratico durato 3 anni, sollecitati dal mal uso che ne facevano i gruppi di sbandati e dei primi drogati in fase di crescita numerica.

  Nell’apr.1982 dei teppisti scalzarono nottetempo tutte le statue posate sul piedistallo e ruppero due ippogrifi ed un grosso vaso: tutto questo materiale fu ritirato nei magazzini comunali in attesa dei restauri (solo il grosso vaso, pesante oltre il quintale, fu rimesso nel recinto del laghetto, le statue giacciono, cataogate, salvate ma dimenticate, a sant’Agostino).

      Dopo dieci anni di progettazione è stato soggetto di completo restauro (restyling rafforzamento dei muri e valorizzazione del parco stesso, alla ricerca dell’antica bellezza),  dal genn. 1998 (con 3,4 miliardi di spesa e tutto secondo i dettami della Soprintendenza alle belle Arti: posare nei sentieri ciotoli e pisanelle come in uso antico; non abbattere gli alberi (ovviamente secondari all’originario parco); per le strutture murarie, delle quali alcune interamente da rifare; statue; irrigazione e deflusso acque; arredamento; più un altro  miliardo per l’illuminazione (attivata dalle officine comunali con proiettori sui campetti e le grotte, 62 nuovi lampioni sullo stile delle antiche lanterne a gas e ad intensità regolabile da garantire un minimo di luce anche di notte per la vigilanza e contrastare il vandalismo, e l’impianto attorno alla vasca); ed altre opere guidate dall’ assessore interessato: dott.ssa Malagoli Chiara) ed affidato all’impresa ‘Giustiniana srl’ di Gavi (AL).    I lavori, divisi in due lotti, permisero la riapertura del parco prima nella parte alta e nell’ottobre dell’anno 2000 fu riaperta al pubblico tutta l’area, con grande festa. Alla fine dell’anno 2001 si annunciò il funzionamento di una nuova illuminazione con 62 punti luce ad alto rendimento, posti su pali in ghisa come in antico; nonché ripristino delle fontane e dei giochi d’acqua.

Dall’anno 2012, l’ associazione dei Carabinieri in pensione, con il luogotenente maresciallo Orazio Messina a presidente, si è assunta l’impegno di tenere in controllo – compresa apertura, chiusura, controllo ed ordine - l’intero parco. Allo scopo hanno avuto in dotazione per uffici, l’antico torrione posto a ponente dei giardini ed una bassa moderna costruzione a levante quale magazzino. Come primo lavoro hanno ripulito i due edifici e riposizionato i ciottoli attorno agli alberi di alto fusto del piazzale superiore.

 

Sul primo muro sormontato da cancellata, e corrispondente ad una fascia dell’ex giardino (oggi separa la strada dalla villa, forse era parte di un primo rialzo dell’antico giardino (ma è più facile sia stato fatto con la strada) è ora il primo confine dove  inizia il parco come se fosse una cosa a sé avulsa dal palazzo sottostante (del quale si vede il retro), fu apposta una lapide a ricordo dei 113 cittadini sampierdarenesi, caduti nella lotta per la liberazione negli anni 1943-45; tra essi spiccano tre medaglie d’oro e due d’argento. Uno scritto aggiunto in basso, ricorda quando nel marzo 1954, ignoti ruppero il marmo scatenarono ampia e sentita  protesta cittadina. (v.Tuvo-SPd’Arena come eravamo-pag.276-80). (vedi via A.Cantore).

 

VISITA ai giardini.


 Ricordare sempre che essi vogliono essere – come voluto dall’Imperiale – un inno alla natura; dagli alberi (la nuova vita) ai ninfei (le ninfe e le muse), dalle pietre contenenti conchiglie preistoriche (la vecchia vita) alle statue (l’Olimpo), dagli animali mostruosi (la fantasia), ai leoni (l’esotico). E da leggersi con lo stesso significato di ‘metamorfosi della natrura’ alla pari della vicina grotta Pavese.


       foto 1976

Entrando da uno dei due ingressi (dei quali, quello a ponente ha avuto distrutta la targa nel 2005 e due anni dopo è ancora vuota la cornice metallica) di via A.Cantore, il primo impatto - che ricorda l’antico - sono i graziosi muretti (con pietra grezza di Finale che delimitano le aiuole e che danno sensazione di pacata luminosità) e l’ acciottolato (fatto di mattoni e pietre bianche nelle scanalature per l’acqua piovana).


Dietro una fila di maestosi platani, troviamo un primo viale di passaggio -parallelo alla strada, trasversale rispetto l’evoluzione in salita - con al


centro un primo ninfeo composto da tre fornici  mancanti delle statue laterali, due di giovani femmine, e una maschile (delle quali ne rimane solo il frammento di una, senza braccia e arti inferiori).


 


 

                                     

 

                                    


Le statue tutte, che erano collocate nei giardini – soprattutto quelle del ninfeo superiore -   hanno storia complessa e non risolta: nel suo ‘Stato Rustico’ edito nel 1611 GioVincenzo mai parla direttamente della villa, ma indirettamente cita i viali, le terrazze, i ninfei ed i marmorei corpi a decorazione di essi. Si pensa che delle statue, alcune siano state collocate  dopo che lui ne comperò una decina di marmo a Roma (5 dic.1629; c‘erano i sei pianeti conosciuti: Saturno, Giove, Marte, Venere, Mercurio e Luna, più altre figure restaurate o addirittura abbondantemente rifatte, di ambosessi, in parte nudi in parte vestiti, in parte singole in parte con amorini); da una piccola vasca e da decorazioni scultoree di telamoni ed altre figure che sorreggono la balconata superiore.

Sopra esso, al secondo piano, una più vasta piazza alberata da alti fusti di bagolari, oggi divisa in due zone: una a ponente adibita a giochi per bambini,

    

l’altra a levante con la rotonda originaria fontana del Nettuno o meglio del Tritone, attualmente arricchita di due palme interrate (questa statua appare mutilata, mentre foto recenti dimostrano che sino a pochi anni addietro era abbastanza completa);

  

in fondo, un secondo ninfeo,  più ampio e più lavorato, anch’esso a tre fornici, con grotta centrale arricchita da vasca d’acqua .

 

 

Esso è sormontato dallo stemma della famiglia Imperiale (nel quale l’aquila appare con le ali spiegate, per concessione del re di Spagna al titolare, grande banchiere e finanziatore delle imprese spagnole di quei tempi) ed ai lati dalle sigle ‘SA’ per Alessandro Scassi (figlio del medico, restauratori; oppure Imperiale di sant’Angelo) ed ‘OS’ per Onofrio Scassi; composto da cinque fornici separati da pilastri -una volta decorati-

       

 

  foto 1912

 

che aprono ad un locale ricco di grossolane stalattiti e stalagmiti e con a terra la presenza del laghetto alimentato da acqua corrente (acqua e statue di dei, ninfe ed Artemide erano tipici arredi dei ninfei a cui davano il carattere sacro e di antichi riti agresti.

 

 Nel fondo della grotta centrale - posteriore al laghetto - il ‘Centro studi sotterranei di Genova’, da un foro aperto sulla parete destra della grotta centrale, ha seguito un cunicolo - molto ben nascosto alla vista dall’esterno - che subito dopo il muro si biforca: un ramo prosegue diritto per 4 metri fino alla completa chiusura per franamento della volta; l’altro un poco più largo e con doppio soffitto a volta sorretto da un pilastro centrale, gira fino dietro il ninfeo e termina anch’esso occluso delimitando piccole stanze laterali, apparentemente senza particolari funzioni se non di probabile natura deposito per i giardinieri o forse per andare a regolarizzare e controllare il decorso dell’acqua che alimentava la vasca). Mancano all’appello due grossi mascheroni, sottratti all’inizio dell’ultimo restauro ed alcune statue di marmo (una maschile con pantera ai piedi; due statue muliebri acefale, trattenute a sant’Agostino per ricercarne un restauro).

Due rampe convergenti portano ad un terzo piano superiore; per primi troviamo due leoni accovacciati, tradizionale punto di riferimento fotografico dei bambini posti a cavalcione, rilevabile dalla lucentezza e levigatezza della pietra . Ad uno di essi è stato  visibilmente spezzato parte del muso. I veri leoni, di marmo, erano stati già da tempo  prelevati e portati al museo di s.Agostino; al loro posto delle copie di gesso fortificato con intelaiatura ferrea; nel 2010 uno di essi è stato rotto e dopo alcuni mesi non restituito. Leggere la polemica  sul Gazzettino sampierdarenese.

  

                                                       2007-dai tondini rimasti, si desume che

                                                                         questa era già una copia

Da questa terza balaustra, la più bella, inizia un viale centrale in salita, mattonato e con ciottoli ai lati. Una volta era affiancato da statue in pietra rosa, calcare conchiglifero (gusci di pecten), di probabile provenienza da FinaleLig., riproducenti animali mostruosi mitologici, deità o ninfe (dei quali solo alcuni si sono salvati dal deturpamento naturale e provocato dal vandalismo incontrollato (o ‘copie perfette ’?, come scritto su Il Secolo XIX), ma per fortuna anche così ‘rotti’, ricollocati (dopo un restauro?). C’erano fino alla fine dell’ultimo conflitto, come è riscontrabile dalle fotografie dell’epoca; poi furono tolte per lunghi anni; infine in piccola parte rimesse nel restauro del 1999, delle quali due all’apice: due leoni ed una statua di un dio).

          

foto anni 1910 – 1920

        

 

 

Ai lati del viale sono stati costruiti altri piazzali per giochi dei ragazzi in particolare a ponente una pista per pattini ed a levante un campetto recintato per pallavolo o basket,

                   

circondati da aiuole ricche di alberi (nel 1978 il Gazzettino elenca d’alto fusto (lecci, cedri, bossi, tassi, allori , e ginepri (che però non sono piante d’alto fusto) e di macchia (l’agrifoglio, mirto, viburno, veronica). Nel 2000 contiamo anche  platani, bagolari, abeti bianchi, cipressi, pini (silvestri, d’Aleppo, domestici, cembri))

Dai Servizi Giardini del Comune, si apprende che vi sono piantati alberi d’alto fusto: cipressi, pini (abeti, larici, cedri), olivi, lecci, falsa canfora, allori, carpini, tassi laurococchi, corbezzoli, lagerstroemia bagolaro, magnolie, platani, oleandri, palme (trachicarpi, palma di san Pietro (camero), palma latania);  arbusti: bossi, osmantus, nandine, allori eleagni, alaterni, azalee, pitosfori, abelie. rose, lauroceraso; e tappezzanti da sottobosco: edera, veronica, acanto, riscus falangium, cotoneaster. Il SecoloXIX nel 2003 segnalò la presenza di pericolosi parassiti delle piante, specie la cocciniglia e la processionaria per le conifere e la corithuca cigliata per i platani

A sinistra troneggia una antica costruzione, un massiccio casino cinquecentesco. Questo l’edificio è visibile nel quadro della famiglia, nel quale, ingrandendo, si può leggere che era decorato dalla scritta ‘Imperialis’ quindi probabilmente anticamente adibito per la caccia o per svaghi signorili. I balconi sono stati murati. Ha come strana caratteristica di esterdersi ‘fuori’ del recinto originale del parco, quale fosse un baluardo; il che lo propone anche come possibile torre di avvistamento (considerato che il palazzo non possiede altra torre, comune invece a molte altre ville dell’epoca) o via di fuga (a quei tempi non tutto era idilliaco come sembra, ed i ricchi signori dovevano prevedere anche il peggio). Negli anni 1891-1908 in un documento comunale viene definito “casa di abitazione detta la Torretta, nel giardino Galeazzo Alessi“ (quando ancora si era convinti che la villa fosse stata disegnata da quell’architetto). Oggi infine è deposito degli attrezzi dei giardinieri. Un altro deposito per  attrezzi, più piccolo, è a levante (posto a ridosso delle scale che scendono da via Balbi Piovera a via Pittaluga).

    

                                                                                                    sul torrione si legge “ALIS”; ed ha un               

                                                                                                    giardino davanti: luogo di ‘fuga’

 

Alla sommità, oggi finisce il parco, interrotto dalla  strada G.B.Botteri e corso O.Scassi. Le strade e l’ospedale  ne distrussero la continuità, abbattendo  l’ultimo ninfeo e riempiendo il vasto  lago artificiale (vedi a via O.DScassi).

Sul corso Scassi, seppur facente parte dell’ antico giardino,  viene descritto ormai a sé, sul margine a mare del corso, fuori dell’attuale recinto, è rimasto a ponente un grande portale cinquecentesco, che separava ad ovest la proprietà da quella che circondava salita san Barborino e  che forse dava adito ad uscire dalla proprietà nei pressi della chiesa di san Giovanni. Dai quadri del Derchi, si vede che altri archi decoravano le mura del parco, ma furono distrutti. Su questo, è stata posta una lapide***

 

 

===il quarto isolato inizia avendo al fianco di levante. Nello stacco tra i giardini ed il palazzo, l’ingresso dell’ascensore  per salire in corso O.Scassi a livello dell’Ospedale civile.

la gabina di arrivo in alto

 

Dal 31 genn.1977 si può comodamente salire usando un biglietto a tariffa ridotta dell’AMT o sfruttando in tempo utile quello usato in altri mezzi cittadini (il primo mandato del Comune all’AMT per la costruzione di un impianto, risale al genn.1970 ; espletate le necessarie burocrazie, la gara d’appalto fu indetta nel 1972 e vinsero l’azienda ‘Cantieri dello Scrivia’ per le opere murarie ,e la Stigler-Otis per gli elevatori ; i lavori iniziarono nel 1973 ; tra gli intoppi vengono ricordati l’abbattimento di due pini alla sommità avvenuto dopo abbondanti controlli , e la necessità di rinforzare la galleria ferroviaria sottostante che porta al parco del Campasso). Si arriva all’elevatore percorrendo una galleria lunga 175 m.  (in parte aperta e ristrutturata per l’occasione; in parte già esistente come rifugio antiaereo ed in collegamento-via d’uscita di emergenza tramite una scalinata- con la galleria dei Landi. È stato oggetto di lamentele contro il Comune, la gestione del corridoio per l’eccessiva umidità che trasuda dalle pareti nei periodi piovosi, che crea laghetti nel percorso degli utenti e danneggia le macchinette elettroniche di distribuzione biglietti) Il pozzo è di m. 9,35x4,55; contiene delle scale er eventuale risalita a piedi, dei piani di servizio e le corsie per due cabine sollevate da un motore di 29 HP.  L’ascensore è gestito dall’ AMT cittadina, con l’uso degli stessi biglietti dei bus, e colma un dislivello di 26m. alla velocità di 1,75m/sec. Ogni cabina è sorretta da 8 funi ed ha una portata massima di 15 persone, controllate  nella stazione inferiore tramite due monitor  a circuito chiuso da un unico addetto, posto nella stazione superiore; questi è capace di governare tramite un banco di manovra ambedue le cabine, che -affiancate- possono reciprocamente trasbordare i passeggeri in caso di necessità. I primi biglietti costavano lire 30, oppure valeva il biglietto del bus ancora valido nell’orario. Dal 2009 è fermo.

 

Il primo palazzo dopo i giardiani, porta il :


===civ. 17 Vi ha sede la Federazione It. Baseball e Softball; ed alla base,

===civ. 75r un supermercato IN’S, che fa angolo con uno stacco che ha su quel lato tutti i civici rossi il 75Ar→Lr; in fondo il

 


=== civ. 19 eretto nel 1936; a ponente il terzo palazzo con

===il civ. 21 (al quale hanno rifatto la pavimentazione dei portici nel 2002 assieme al civ. 23), e –dei rossi- tutti i civici dal 77r fino all’87r.

===civ. 77 (non specificato; presumo rosso) nel 1950 esisteva la fabbrica dell’aperitivo Bertola, dei f.lli omonimi.

Lo stacco a ponente del palazzo, con il civ. 87r, chiuso da cancello, è privato.

 

Salita san Barborino

 

Il nuovo quinto isolato ha un solo palazzo, che inizia con il 89r, e finisce con il 97r Nel 2005 ospita i segg. negozi: 89r Optical; 91r abbigliamento; 93r bar; 95-97r abbigliamento "Vizi e virtù"...

===civ.23. Il progetto, che porta la firma dell’ing. sampierdarense G.  DegliAmmirati, fu intestato a nome della CEPEP: «soc. Coop. per pensionati e pensionabili dello Stato ed Enti locali», risale al 2 dic.1928 (consegna ufficiale il 10 c.m.) e dato abitabile nel 1932. Il 7 gennaio 1929, il progetto fu inizialmente respinto perché in contrasto con il Piano Regolatore; ma poco dopo furono sanati i dubbi in quanto i lavori edili erano iniziati prima dell'entrata in vigore del P.R. stesso. Si ebbe dapprima l’autorizz. del Civico Reparto di igiene e  sanità (4 marzo 29); poi il 3luglio1930 avvenne la presentazione della domanda alla commissione edilizia rispondendo ai vari requisiti che proponevano tra altri: "un palazzo posto sulla 'nuova circonvallazione di Sampierdarena', presso il preesistente vico san Barborino" e con "un disegno di facciata più organico nel quale i tipi di apertura siano, per quanto possibile, resi uniformi"; infine l’approvazione fu  firmata dal podestà il 29 dic.1930  con indicazione che "i portici fossero di uso comune, i negozi muniti di servizi igienici, i muri perimetrali alla base fossero di  spessore non inferiore ai 35cm.". La costruzione fu finita con il collaudo del cemento armato firmato dell’ing.G.Gugliada;  e pagati i diritti di approvazione, fu abitata.

Dopo sei anni, il  7/7/1938, l’istituto di Igiene e Sanità denunciò due irregolarità. Una, relativa alla costruzione del terrazzo affiancato a levante del secondo piano: era stato abusivamente ampliato nelle misure cosicché gli abitanti del primo piano -sotto i portici- avevano le finestre oscurate rispetto a quanto di diritto per legge (la superficie di una finestra deve corrispondere almeno a 1/8 della superficie del vano); e l’altra fu relativa al cortile aperto intorno all’edificio,  che era stato ridotto abusivamente da quattro a tre metri a seguito dell’ “allargamento” dell’edificio stesso di un metro per tutto il perimetro. Posto a levante di salita s.Barborino, ha uscita anche al civ.1 di via laSpezia. La facciata fu restaurata nel 1985. Sotto i portici, hanno rifatto nel 2002 la pavimentazione

===civ. 25 e 29 – non ho notizie particolari

===civ. 27:  nella foto che mostra il civ.29 appena terminato, appare - a fine anno 1928 - ancora in erezione, con le impalcature in travi di legno.

I civici 27n + 97r, a levante, fanno angolo con

 

via La Spezia

 

Il prossimo isolato è composto di due palazzi, inizia con il


===99r ove una fattura del genn.1939 (XVII) ed il Pagano/61 segnalano la presenza della ditta “Cavo Giacomo & Emanuele” negozio di acciaio, ferro, ghisa e metalli. Tel 41.794 aveva un vasto assortimento di filo di ferro, attrezzi, per asfaltature, articoli tecnici e merci varie (trivelle, oli, lanterne, pirroni, moiette, cartoni catramati, bitumi, asfalti,  punte, leve, carriole, griglie, reggette, cinghie, tubi (di piombo e ferro), incudini,  ecc.

 

,

 


 ==civ. 29: Il caseggiato fu dato abitabile il 19 aprile 1930.

Il terreno faceva parte della villa – dominante dall’alto - Centurione-Pallavicino-NCambiaso-PittalugaVapori di salita s.Barborino (demolita nel 1956; la sua proprietà si estendeva a ponente della proprietà Doria-Franzoniane). L’appezzamento di 2350mq. Era stato comperato il 25 nov. 1927 dalla soc.an.Cooperativa Edile “L’Egida Ligure”, e rivenduto alla soc.an.Cooperativa  Edilizia  sampierdarenese “La Brennero” (che si era costituita il 5 apr.1927, presidente Parodi Attilio),  che costruì il caseggiato economico popolare per i soci della cooperativa e che fu completato nel 1929. Il caseggiato aveva confini: a sud con via GCarducci (poi ACantore); a est con ‘strada privata ai caseggiati 23 e 25 di via A Cantore); a nord  -tramite distacco- con il rimanente della proprietà Pallavicini; a ponente –tramite distacco- con la proprietà eredi Delle piane.  In una foto sulla rivista Genova (2/30.129) appare appena terminato: interessante il muro a ponente preesistente e delimitante una antica proprietà, ed ancora conservato in parte: appena varcato il primo cancello posto ad ovest del palazzo; nella stessa foto si nota vagamente anche il retro casa, ove ora scorre diritta via LaSpezia. Essendo stato eretto prima della apertura di via Cantore, presumibilmente vi si arrivava ancora e solo da via NDaste. Possiede due portoni: uno il civ.29 in via A.Cantore, con due scale (una a ponente ed una a levante); ed uno sulla facciata di levante (oggi via La Spezia 1, allora civ. 27 di via ACantore) con una scala condominiale. Gli appartamenti furono assegnati per sorteggio tra i soci della cooperativa; uno toccò a don Davide Lupi, allora direttore dell’Istituto don Daste di salita Belvedere 2; alla sua morte lasciò l’appartamento in beneficio alle suore dell’Opera di donDaste in cambio di una messa quotidiana; a nome di esse, suor Maria Luisa Provinciali di Biella, lo rivendette a privati. Dei negozi, quello a levante (con una vetrina su v.Cantore e 4 su via LaSpezia) fu acquistato  dai fratelli Cavo (Giacomo ed Emanuele, fu Lorenzo), industriali abitanti in via Imperiale ¼ che lo adibirono alla vendita di materiale agronomo e di muratura (cazzuole, carretti, setacci, ecc.). Il negozio fu poi ceduto alla Piaggio motocicli (soc. Ingenieros)

Inizialmente la costruzione fu progettata senza portici ma con negozi (lo si desume dalla stessa fotografia, nella quale si intravede che dentro -dalle aperture che prospettano sull’ancora da formare via ACantore- parte un muro interno, ogni tre fornaci; a significato che avevano già diviso il pianoterra in negozi); probabilmente fu ingiunto dal Comune di inserirli nel progetto: per questo motivo sono più bassi degli altri palazzi non comprendendo il primo piano; ed anche l’apertura ai due estremi appare più stretta. Questa variazione di progettazione, dovette costare al Comune perché pare infatti che detti portici sono di sua proprietà, e non condominiale; nel riordino del 2002-3 della pavimantazione del portico e relativa spesa, i condomini non sono intervenuti.

Il primo palazzo finisce con il 109r a cui seguono due cancelli affiancati:

===109Br L’intervallo tra i palazzi, è diviso a metà da un muretto che appare antica delimitazione di ville padronali. A levante sembra più un corridoio di fascia al palazzo; 

===111r posto a fianco a ponente, è il  che nel 2007 ospita un supermarket per animali chiamato Arcaplanet. Lo spazio carrabile che passa davanti a questo supermercato, sembra proseguire e scendere nel garage sottostante il palazzo (raggiungibile anche dal lato a ponente del palazzo, dal 133r).

Il secondo palazzo dell’isdolato inizia con

===113r di Quaglia, uno dei migliori pasticcieri locali.

Seguono una serie di civici, tutti 29, dalla A alla F

===civ 29A realizzato dalla cooperativa La Rinascita (di cui faceva parte il famoso Carletto pescivendolo (vedi in via Ghiglione Bruno) fu eretto nel 1948 su progetto dell’ing. Bonistalli Renato e costruito dai fratelli Stura. Nel piccolo atrio d’ingresso, dove inizia la scala A (e, tramite un corridoio, poi la scala B), sulla parete a ponente c’è un dipinto lucido di A.M.Canepa, in stile liberty con tre danzatrici; alla sommità di esso la scritta incisa “questa casa costruita per volontà di cooperatori poi progettata da Renato Bonistalli rimane quale sua ultima opera testimoniaza di alta virtù e fecondo ingegno” 

 

civ.29A

All’estremo di ponente ha il fianco del palazzo con saracinesche che dal civ. 121r arrivano fino al

===133r  del garage che, scendendo dal retro, finisce sotto il caseggiato antecedente.

 

salita Inferiore s.Rosa 

 

===civ. 29B:    la villa Serra - Doria - Masnata

1613 Fu costruita in quest’anno, in posizione (15 m. slm) lievemente dominante rispetto l’asse stradale (oggi via N.Daste) e lateralizzata verso levante rispetto al terreno a disposizione perché eretta riadattando una precedente costruzione alta e forse anche grossa eguale (Nel capitolato dei lavori, l’arch. B.Bianco precisa che  il tetto di tutta la fabbrica nuova si farà con la stessa pendenza che halsi di già fatto, unendo ed incastrando con molta diligenza il nuovo col vecchio… e dove si congiongeranno le nove radici (l’apice del muro perimetrale ove inizia il tetto) con le vecchie e la colmegna (spigolo del tetto) nuova con la vecchia… sopra il tetto della casa si faranno li parapetti tutto intorno, tanto alla fabbrica nuova quanto al tetto della casa già fatta… tutti gli atratti della vechia casa saranno o riutilizzati o portati via (li zetti si porteranno alla marina si come tutta la terra che si caverà per fare li fondamenti e le stanze sotto il piano del portico) ).

Ordinatario fu il nobile Paolo Maria Serra  (poco si sa di lui; sul libro “i Serra” di Emilio Podestà e altri –pag.499- ci sono 3 Paolo ma nessuno combacia per età;

     Dalla genealogia risulterebbe essere quel Paolo Maria  (figlio di Antonio e nipote –perché fratello del padre, del Geronimo della villa Monticelli; fratello di Battista, Maria, Francesco, Giovanna; sposo di Violante Spinola→dei 5 figli, Giacomo –fratello di Agostino, Antonio, Paola, Elena; sposo di Giovanna Doria q.GioLuca; però non spiegherebbe il passaggio ai Doria avendo –oltre una figlia Elena- un figlio Paolo andato sposo a Paola Spinola.

Nelle ‘memorie di Genova’ di Agostino Schiaffino, esiste nel 1926 un Paolo Serra che andrà con altri ambasciatori ‘in riviera’ –ovvero incontro, su nave- a ricevere il Legato card. Francesco Barberino che sbarcherà a SPdA e vi pernotterà  (con atto notarile del 5 febbraio di quell’anno, stilato  dal notaio Gio Agostino Cabella).  Progettista fu Bartolomeo Bianco (ante1579-1640 (altri scrivono 1590-1657).  Venuto a Genova a 23 anni, nel 1602 appare nell’elenco dei maestri lombardi dell’Arte dei muratori; divenne Architetto Camerale; fu prolifico costruttore anche in a Chiavari, in Corsica, Imperia oltre che in Genova di ville, palazzi, chiese, opere portuali e delle mura dell’ultima cinta quale principale collaboratore del domenicano frà Vincenzo da Fiorenzuola. Per seguire i lavori della erigenda villa, dal notaio fece chiedere una parcella di “vinti duue miliia e cinque sento monete di Gienova e di dete libre ve ne siia mile di darle secondo avera la bona servituu”). Capomastro costruttore, fu Stefano Storasio. 

(Nel 2002 scrissi al prf che aveva scritto il libro sui Serra, per avere notizie di questi nostri, ma presumo per ‘sovraccarico di impegni’ non ha ritenuto opportuno rispondere. Ho saputo poi che, invece, era morto).

Viene descritto che il disegno di Bartolomeo Bianco, servì nel 1622 ad altro architetto (Francesco da Novi) per una  villa eretta per Giacomo Lomellini (q.Filippo, detto il Moro, cugino del doge, a sua volta committente del Bianco).

Lo scopo fu creare un palazzo di magnificenza e di facile raggiungibilità, agibile sia d’estate come villeggiatura, che d’inverno come ‘fuga dallo stress’ cittadino. 

1708     In una carta incisa da Krieger ed inclusa nel volume del Volckammer; la villa è contrassegnata con la lettera E; appare senza le ali laterali; nella successiva del 1757 (del Vinzoni) c’è la terrazza di ponente che poi nel restauro comunale fu abbassata con la contemporanea erezione della controlaterale a levante

    Non si sa quando, divenne proprietà dei Doria, casata molto rappresentata  a SanPierd’Arena (loro erano anche le attuali  Franzoniane, la villa Monticelli  e l’Istituto don Daste).

                   

pianta del piano terra                                                            il gen. Antonio Botta Adorno - 1765

1746    Fu durante la proprietà di  Carlo Doria, che nel vi soggiornò - non certo ospite, ma da superbo dominatore -  il marchese Antonio  Botta Adorno, generale degli austriaci

Il PERSONAGGIO crebbe con un astio verso la Repubblica, per la grama vita che essa fece fare al padre, dal ragazzo giudicato innocente. La vicenda partiva dal matrimonio del genitore, marchese lombardo con la genovese Maddalena Adorno. Questa portò in dote il feudo di Silvano d’Orba, interposto tra Genovesato e Lombardia. Così il Botta divenne feudatario genovese ed iscritto nel libro d’oro della nobiltà, ma personalmente era e si sentiva vassallo del duca di Mantova. Così, quando ambedue le nazioni pretesero le tasse, egli optò rimanere fedele al duca mantovano. Genova gli mandò un capitano di Ovada, che sequestrò i buoi dalla cascina Nova del paese. Saputolo, il marchese andò a Ovada e a mano armata si riprese le bestie. Il Magistrato di giustizia genovese nel 1689 lo condannò a morte per decapitazione; il Senato fece confiscare la sua casa genovese e pose una taglia (cosa quest’ultima che poneva la vita di quest’uomo in perenne minaccia di qualche avventato in caccia dei soldi). Il figlioletto crebbe con l’odio verso chi per lunghi anni ricercò il padre costringendolo ad una vita non serena dovendo schivare di entrare nel Genovesato pena il patibolo. Quindi non traditore, ma certo non devoto suddito della serenissima Repubblica.

Le CIRCOSTANZE storiche= prima del 1746  la Repubblica era in alleanza con l’Austria, ed esente da tassazioni. Ma la cancelleria imperiale, ad ondate, contestava la sua antica ed alta supremazia feudale ai   paesi ex feudi della riviera di ponente e dell’Oltregiogo (comprese Langhe e Lunigiana), antichi ‘feudi imperiali’ (con pratica conseguenza: richiesta di soldi): sistematicamente  minacciandoli di ritorsioni, libertà e ‘spremitura’. Con grande disagio per la Repubblica stessa che aveva assunto il ruolo di proteggere i suoi territori; era una spiacevole situazione, imbarazzante politicamente avvenendo in condizioni di inferiorità militare compensata solo dall’orgoglio. 

 Se queste pretese si erano smorzate nei secoli, con il riaffiorare del potere dalla casa d’Asbugo (Leopoldo, CarloVI, Maria Teresa), la fame di soldi riimpennò le pretese della sovranità dell’Impero. L’Italia verrà a trovarsi così nelle condizioni di pretese ben pressanti, dopo un pignolesco censimento – paese per paese, fuoco per fuoco – fatto fare dall’amministrazione viennese nei primi del 1600 e ripreso pari pari ai primi nel 1730 (anno di stampa della terza edizione dell’elenco dei feudi italiani, indicativa della ripresa dell’attenzione su questa tassazione).

Morto Carlo VI nel 1740, imperatore d’Austria, aveva lasciato erede sua figlia unicogenita Maria Teresa (moglie del Granduca di Toscana Francesco Stefano di Lorena). Questa nomina alla successione dell’impero asburgico ad una femmina (detta Prammatica Sanzione) non piacque ad altri regni che appoggiarono –per interessi- la cugina di M.T. MariaAmalia  (figlia dello zio di M.T. GiuseppeI  e moglie dell’elettore di Baviera che mirava a staccarsi dall’impero. In particolare, la Francia=desiderosa della fine dell’egemonia austriaca; Spagna di FilippoV che mirava al milanese; Prussia che mirava alla Slesia; e la Rep. di Genova –inerte- a rimorchio della Spagna e con il rancore legato al fatto che la futura regina-imperatrice Maria Teresa aveva donato al re di Sardegna il marchesato di Finale Lig., già acquistato dal padre nel 1713, obbligando la Repubblica a spostare l’alleanza verso i franco-ispano-napoletani i quali invece promettevano mantenere l’autonomia e neutralità repubblicana).  Così mossero guerra all’Austria, detta “di Successione austriaca (L’Austria fu aiutata da Inghilterra e da CarloEmanueleIII duca di Savoia.    Dell’armata alleata, il corpo di spedizione genovese era forte di 10mila uomini, e parteciparono alla conquista di Serravalle e di Tortona, Tortona, Pavia e Bassignana. A capo di tutti, un generale spagnolo (che era già impegnato in altra complessa situazione: la regina di Spagna voleva mettere suo figlio al comando del ducato di Milano. Allo scopo inviò una grossa armata di 100mila uomini, arricchita dai 10mila genovesi comandati da Francesco Brignole q.AntonGiulio.    Mentre le truppe si avvicinavano a Milano morì la regina spagnola; il comando passò ad un generale francese che nel 1746 venne sconfitto. Tale guerra durò nove anni - finirà con il trattato di Acquisgrana nel 1748 col quale il marito di MT divenne Francesco I imperatore, ma l’Austria perdette la Slesia ed una fetta della Lombardia, tra il Sesia ed il Ticino). Alla sconfitta militare  seguì il rientro delle truppe in ritirata, passanti per Genova: prima le spagnole (guidate dall’infante D.Filippo), poi i francesi, ambedue inseguiti dagli austriaci. In poco tempo la Lombardia fu invasa dagli Austriaci, ed altrettanto si proposero fare col genovesato.

Qui nasce un non piccolo disguido storico: mentre MT viene descritta come di grande energia ed illuminata regina, che nel tempo trasformò l’Austria -e la Lombardia- con sagge riforme (riorganizzando l’amministrazione laicizzandola, emanando un nuovo e moderno Codice Penale, eliminando la ‘manomorta’ =indipendenza patrimoniale ed economica dei beni ecclesiastici dallo Stato-; nazionalizzando le scuole; ridistribuendo gli strati sociali –con vantaggio della borghesia produttrice, e dei contadini- nonché abolendo la ‘servitù della gleba ancora esistente; prendendo le distanze laiche dal clero –a cui tolse il diritto di censura sui libri, e sciolse i gesuiti- pur restando fervida religiosa);  a Genova, il Botta Adorno fece di tutto per farla temere, ma soprattutto odiare. 

Le truppe galloispaniche, dall’Appennino si spezzò, in parte scendendo a Sarzana, in parte nella riviera di ponente– nessuno che tentasse una resistenza sulle montagne -  pochi vennero a Genova che così rimase indifesa e che poté essere assediata anche se il Senato mandava messaggi all’invasore di essere stata costretta a partecipare causa il trattato di Aranjuez che era contro i piemontesi e non contro l’Austria. I pochi arrivati a Genova, trasmisero paura e terrore nella popolazione che si rifugiò entro le mura creando una confusione tremenda. Si scrive che il re di Spagna lasciò assediare Genova, pur di salvare da una invasione il regno di Napoli ‘a lui più caro’.

Infatti l’esercito –guidato da conte Broune- il 4 settembre 1746  calò dalla Bocchetta ed invase la Polcevera devastando tutti i paesi del percorso (Murta fu occupata dal gen. Piccolomini, e venne distrutta); mentre la flotta inglese andava a bombardare Sanremo, le truppe austriache arrivarono il giorno 7 (in altro libro si scrive che entrarono in SPdA il giorno 4)  a  occupare, attestandosi sia nel borgo di SanPierd’Arena e sia -in buona parte- sulla riva sinistra del Polcevera che in quella stagione era asciutto. Ma un nubifragio (per i genovesi fu la volontà protettrice della Regina di Genova) ed una improvvisa piena del torrente investì e scompaginò le truppe, delle quali “sopra mille uomini vi rimasero annegati”.

I genovesi non approfittarono di questa confusione nemica e mandarono due patrizi (Marcello Durazzo e Agostino Lomellini) a contattare il generale Botta appena arrivato da Novi (con tutto un seguito, tra cui il fratello maggiore Alessandro, sua moglie ed un figlio) per cogliere il successo della conquista di Genova, e momentaneamente ancora attestato col suo quartier generale nella villa a San Pier d’Arena, sottratta a Carlo Doria (q.Ambrogio il quale era stato magistrato del monte di Pietà o della Casana). Di fronte alla delegazione, il generale fu abbastanza duro ed inflessibile proponendo in tono spietato di diventare ‘padrone della città’ entro l’indomani alle ore 21: la confisca di tutti i beni dei napo-galli-spani; il controllo delle porte e del porto della città; la resa della fortezza di Gavi sino ad allora inutilmente assediata; l’andare il Doge a Vienna (Gio Francesco Brignole Sale 1695-1760; primogenito di Anton Giulio) a chiedere supplica e perdono ed implorare la cesarea clemenza;  il versamento di 50mila genuine (aumentate poi a tre milioni) ‘a titolo di rinfresco e quieto vivere; quattro membri del senato ostaggi a Milano; la scritta di sottomissione; più altri tributi’ quali spese di guerra, come cannoni e mortai da mandare all’assedio di  Savona. Durante la rivolta impose al Doge si sparare sui ribelli ma ebbe la fiera risposta «mai la Repubblica userà sui suoi cittadini le armi destinate alla difesa di essi». 

   Lamponi segnala che il 7 settembre di quell’anno nella villa furono depositati 170 sacchi di monete d’oro ed argento (corrispondenti a 250mila genovini d’oro) pagate come imposta all’Austria dalla Repubblica. Non potendosi difendere, i genovesi lasciarono occupare la Porta Lanterna dai granatieri e, arrogantemente il Botta si impossessò anche della successiva Porta san Tomaso, essendosi già impadronito di considerevolissima quantità di farina, di altri viveri, di armi e suppellettili lasciati da’ Galli-ispani nei loro magazzini di San Pier d’Arena.

   E’ accertato che tra i tentativi di mediazione avvenne anche quello di un frate, padre Visetti, amico del fratello di Botta Adorno. Questi  l’8 settembre una prima volta ed il 10 settembre, gli fece un discorso che aveva del minaccioso: non tirare troppo la corda ché i genovesi erano fieri e non avrebbero subito passivamente. Ottenne solo una breve tregua.

Le truppe acquartierate nella case dei cittadini sia dentro che fuori città si diedero per oltre tre mesi ad estorsioni, violenze, richieste di cibo e vettovaglie e quante altre vessazioni inimmaginabili, sino al giorno 5 dicembre quando avvenne il famoso trasporto del mortaio dalla Cava verso piazza DiNegro ove sarebbe stato imbarcato; nell’attraversare Portoria avvenne il famoso  ‘che l’inse’ del Perasso (parola che nella toscana favella vale a dire : ‘che si incominci’). La folla inseguì il nemico in fuga che era arrivato a 10mila soldati (dalla riviera di ponente, da Albisola in qua, escluso qielle che assediavano Savona) ma che non avevano capi perché fuggiti, arrivando sino ai suoi magazzini di rifornimenti occupati nel nostro borgo, ove si fermarono per fare bottino.

Gli Austricaci, fuggirono da Genova in rivolta; cosicché il Botta -da San Pier d’Arena- studiò la biliosa vendetta e minacciò pesantissima rivalsa:  arrogantemente continuò nelle pretese, mentre però le sue truppe incalzate dal popolo rinunciavano a tutte le occupazioni fatte.

Il generale iniziò tentando di richiamare a raccolta nel nostro borgo tutte le truppe  acquartierate nei villaggi attorno ed anche quelle dislocate nella riviera  di levante, le quali però trovarono grossi ostacoli nel procedere, per l’insurrezione delle popolazioni che riuscirono ad evitare il ricongiungimento e che poi obbligarono queste truppe abbandonate (più di 4000 uomini e cento ufficiali) ad arrendersi.

Genova, mandò a San Pier d’Arena i suoi ambasciatori Agostino Lomellino figlio di Carlo ed il principe d’Oria  per patteggiare non più da umili vinti ma da risorti vincitori anche se ancora non in possesso di armata capace di controbattere definitivamente  l’austriaco che teneva  ancora le due Porte; roso dalla rabbia e dalla vinta sua arroganza, tentò per un giorno come ripicca di trattenere prigionieri gli ambasciatori; ma dovette cedere perché dimostrando inutili i diplomatici tentativi di armistizio o di  tregua, il popolo corse alle armi e con la morte di otto cittadini e trenta feriti cacciò definitivamente le truppe dagli insediamenti (le due Porte e san Benigno) che ancora tenevano ed obbligandoli precipitosamente ad incamminarsi verso San Pier d’Arena.

Il giorno dopo il Botta, temendo gli si chiudesse anche la ritirata, di notte ed in fretta fece convergere le truppe verso la Bocchetta, caricando sui carri quanto più saccheggio aveva potuto fare. L’indomani mattina, il ‘basso popolo’ trovato il borgo libero dai nemici entrò nelle case da loro occupate e nei magazzini, facendo razzia degli equipaggiamenti austriaci e delle scorte abbandonate; il Senato ordinò portare all’ospedale i soldati ammalati ed abbandonati ed bloccò tutti gli accompagnatori che non erano stati avvertiti della fuga.  Nella popolazione genovese si accese il desiderio di andare a liberare Savona; il tentativo fu ostacolato dalla flotta inglese che bombardò Varazze cosicché molto popolo, appena arrivato a Sampierdarena, scoperto nel Palazzo del Sale viveri ed equipaggiamenti,  abbandonò l’impresa militare e si diede a saccheggiare lo stabile. San Pier d’arena fu spettatrice ed attrice di accurato saccheggio del campo lasciato dall’austriaco in ritirata e salvatosi appunto perché gli insorti si erano fermati ai depositi o erano stati corrotti dai tesorieri in fuga che prelevavano a man bassa dai ‘muli carichi di sacchi di monete’.

   Questa guerra,  mentre internazionalmente da nessuno viene descritto il ruolo – evidentemente insignificante - di Genova; in seno alla storia della città, è sempre stata identificata nel gesto del Balilla genovese senza mai sviluppare i risvolti e le conseguenze nei territori della Repubblica  fuori delle mura. Vengono sempre descritte le mosse dei potenti, i movimenti e le grandi strategie militari; ma ben poco si descrive della gente comune dei paesi terreno di battaglia; quelli che non fecero la guerra ma la subirono.  Qualsiasi occupazione militare comporta sempre violenza: da quelle fisiche alle altre di ogni tipo, morali e sessuali;  coprifuoco;  tasse; altre pesantissime condizioni per i civili sconvolti nella loro vita per mancanza di lavoro o traffici commerciali (o costretti alla fuga sui monti o nei paesi vicini); razzie e saccheggiamento della campagna (i raccolti tagliati anzitempo per dare cibo o paglia agli animali da guerra, o animali sequestrati per dare cibo alle truppe nemiche); concessione obbligata di alloggiamento con ruberia di beni e suppellettili; arruolamenti obbligati per essere inseriti assolutamente inesperti tra truppe cosmopolite ed accozzaglia di disertori o transfughi alla caccia di prede e saccheggi più che di vittorie. E alla fine, spesso, punizione per chi aveva collaborato!.

    Si scrive che i Doria, per ancora tre generazioni (un Ambrogio, un Carlo, un altro Ambrogio) la mantennero fino ai primi del 1800 (per cui tradizionalmente i cataloghi danno questo nome alla villa).                                                        1757  Ma nella carta del Vinzoni tutto il terreno –compreso quello della villa soprastante oggi Ronco - viene assegnato ai DeMari principi di Acquaviva (vedi a via N.Ronco). Se tale titolazione è giusta per la villa soprastante, per la nostra molto probabilmente è un errore, sia perché non combaciano né le date né le persone.

   Non si sa se direttamente o tramite altri proprietari,  all’ultimo Ambrogio Doria subentrò il nobile Giuseppe Masnata.

Pur possedendola, probabilmente non la abitava se accettò, approvando lo scopo umanitario del sindaco cav. Nicolò Montano,  di farne il primo ospedale cittadino (secondo, in realtà, se risulterà vero che il complesso monastico di San Giovanni di salita san Barborino fu nel XVI secolo attivo come ricovero ed assistenza ai viandanti: si conosce una bolla del 1570 di papa Sisto V che chiuse questo ed altri ospizi a vantaggio di Pammatone, equivalendoli; ma altri testi sugli ospedali medievali non lo citano ed implicitamente ne escludono la funzione). Accettò così di venderla al  Comune di Sampierdarena nel 1873, seppur essa si trovasse allora in gravissimo stato di degrado, in cambio di una rendita simbolica perpetua anziché un capitale (fu incisa una lapide: «in questo palazzo - del sig. Giuseppe Masnata fu Francesco - ceduto - a vantaggiose condizioni - al Municipio di San Pier d’Arena - è stato eretto - l’ospedale pei poveri - l’anno MDCCCLXXIII’».

lapide nell’atrio

 

In sostanza tre marmi, uno affermante che Masnata era nobile, uno semplicemente signor, un terzo sotto il monumento gli dona il titolo di cav.). In più, non sappiamo se sia un errore il nome diverso: (cav. Giovanni), o sia una persona diversa: nella relazione datata 1920 fatta dal Commissario prefettizio si legge che l’ospedale godeva  della rendita di “beni rustici in Campomorone, di proprietà di questo Pio Istituto, venuti nel patrimonio ospitaliero per liberalità del fu cav. Giovanni Masnata”: egli aveva lasciato una vasta proprietà nelle frazioni Pietralavezzara e Isoverde ai piedi della Bocchetta, nella quale erano ben sette ville (Paustri, Fregherè, Cantone, Viscella, Casevecchie, Fanga, Viscelle), una nevaia, due prati (Fonzo e Maestra),

 

   La scelta di un ospedale locale fu dovuta soprattutto alle quotidiane necessità subentrate all’immigrazione incalzante di persone povere, non sempre sane e le più senza assistenza , nonché all’industria in sviluppo crescente ma con i suoi quotidiani incidenti, ed infine all’eccessiva lontananza da Pammatone specie per le urgenze:  la città si era finalmente  accorta di avere teatri, industrie, un sano bilancio in pareggio, una bassa percentuale di analfabeti (l’8%), le banche, i pompieri, la biblioteca, ma non l’ospedale.

   Fu necessaria una energica opera di ristrutturazione durante la quale come già detto seppur conservando la grandiosa distribuzione spaziale cinquecentesca, l’ala a terrazzo posta a ponente fu abbassata; sulla facciata fu dipinto sopra il portone d’ingresso lo stemma della città di San Pier d’Arena;  e nell’interno -per la destinazione a reparti-   scomparve la cappella privata.

   L’attività iniziò con tre medici: uno per medicina, uno per chirurgia  ed un direttore (il primo si chiamò Paolo Ambrosini , rimasto famoso perché per primo in Liguria applicò una trasfusione di sangue; il secondo fu G.B.Botteri);  tre uomini e due donne i primi infermieri; mentre i servizi furono affidati a 7 suore di sant’Anna (le quali dopo due anni di servizio furono ritirate dalla fondatrice ed il servizio passò alle Figlie della Carità); del servizio farmaceutico fu incaricato il dr. Angelo Raffetto.    L’assistenza spirituale fu affidata nel 1874 a don Giovanni Antola che anche ebbe cura della cappella , allestita al piano nobile del palazzo. Le cure erano gratuite per i poveri e se cittadini ; per i paganti, costava 25 centesimi  una visita ambulatoriale e 1,25 lire al dì  la degenza; il Comune pagava una unica  sovvenzione annua, e l’ospedale si manteneva con donazioni, lasciti e qualsiasi iniziativa cittadina (spettacoli, balli, lotterie).

   Il 26 gen.1873, un regio decreto elesse l’opera ad Ente Morale; anno in cui una nuova epidemia di colera provocò 21 morti..

    Il 15 marzo 1874 fu ufficialmente inaugurato dal primo amministratore, il cav. avv. Nicolò Montano; i primi ammalati vennero ammessi dal 1 apr.1874, ed alloggiati in letti con pagliericci di foglie di mais: il piano terra (dedicato al chirurgo ligure GianLorenzo Botto) adibito per chirurgia uomini, al primo piano per medicina (dedicato a Guglielmo da Saliceto, un padre della medicina storica italiana), e sottotetto gli alcolizzati, epilettici, mentecatti e gli infettivi  (il colera nel giu.1884 da Marsiglia, vaiolo e colera nel 1886, i tubercolosi); i servizi furono destinati nei fondi mentre la chirurgia donne e maternità vennero ospitate in una ‘dépandance’  a due piani, posta a lato est del cancello (dedicata ai dottori Assalini, Paletta e ad Anna Morando, illustri e dotti maestri nella specializzazione).    Nel 1883 aveva sessanta letti, occupati a permanenza, con un movimento di 600 degenti all’anno, più maschi, colpiti nell’apparato respiratorio o feriti per risse o incidenti sul lavoro. Nel 1888 iniziò l’attività l’ INAIL (Cassa nazionale assicurazioni infortuni sul lavoro) .

   Fu messo in atto anche  un servizio idroterapico (dedicato a tal Paganini di Oleggio primo cultore delle virtù di quelle acque, allora vendute a secchi per 12 centesimi )

   Ma nel 1890 già si iniziò a pensare di ampliare la villa, oppure costruire un nuovo ospedale adeguato: quest’ultima idea prevalse e nel 1911  iniziarono i lavori in territorio di proprietà del Comune, all’apice della villa Scassi.

   Nel frattempo, già dal 1902 l’amministrazione aveva deciso di studiare un apposito capitolato per il servizio assistenziale e spirituale, sino ad allora affidato a suore: quando nel 1907 Pietro Chiesa diventò consigliere, siprestò a decidere per la laicizzazione dei servizi interni;   così nel 1909 si aprì la prima scuola infermiere, ma con risultati non brillanti cosicché  -finché l’ospedale  rimase al Masnata,  per difetto di personale laico-, l’assistenza rimase in gestione alle suore.

   La villa fu evacuata dai malati il 14 mar.1916, e tornò così vuota, in mano al Comune. Dapprima fu affidata alle autorità sanitarie militari (dal mag.1916, fino al 1918, per ricoverare i reduci della grande guerra); poi divenne cronicario (dal 1919 al 1926, fino a quando i ricoverati furono trasferiti a Coronata ed il palazzo donato ufficialmente al Nuovo Ospedale).

   Fu forse in questo intervallo, che la villa ospitò un collegio femminile, come attesta una foto che mostra tante allieve, di varie età (5-18anni), intente a giocare davanti alla scalinata, sorvegliate dalle suore cappellone (Lamponi)

   Nel 1932 l’amministrazione fascista gestita dal podestà Broccardi, chiese all’amministratore dell’ospedale dr. Ferdinando Ferretti la restituzione dell’immobile ottenendone un diniego: riuscì a spuntare solo un contratto simbolico d’affitto per la villa (per 25 anni, al canone di una lira), ed il terreno antistante (700 mq) per far scorrere la nuova erigenda via.

   Nel frattempo la Soprintendenza alle Belle arti, nel 1934 pose vincolo e tutela sull’immobile.

   Nel 1935 il piano nobile fu occupato dalla Biblioteca comunale (proveniente dal ‘palazzo Centurione, detto dell’’istruzione’, in piazza XX Settembre, oggi del Monastero): le fu assegnata la cifra di 3mila lire annue e prima fra tutte le biblioteche cittadine fu attrezzata con scaffalatura metallica detta Lips-Vago; anche se non era ben organizzata nei cataloghi (sia quello per autori e per materia). Nelle altre stanze dal 1933 aveva trovato collocazione e vanto il regio Liceo classico intitolato a G.Mazzini, di nuova formazione nell’ambito cittadino. Per esigenze di spazio e di prestigio, la dirigenza del Liceo nel 1939 riuscì a  far traslocare di nuovo la biblioteca ed occupare interamente lo stabile (fu posta una grossa scritta sopra portone; per questa funzione e destinazione ad aule, palestra e servizi, furono necessari ulteriori rimaneggiamenti dei locali ). Quindi nel 1950 risulta totalmente dedicato al Liceo Ginnasio governativo (detto ‘classico’) <G.Mazzini>.

Nel 1957 allo scadere dei 25 anni, l’amministrazione ospedaliera  riuscì a ‘restituire’ il palazzo facendoselo pagare dal Comune ben 50milioni.    Così tornata in mano al Comune, divenne oltre che sede del Liceo classico  Mazzini anche sede di un asilo e infine di una succursale della scuola media statale di 1° grado Nicolò Barabino (che ha –anno 2000/1- due succursali in via NRonco,29 ed in via Daste,8.

Il Liceo traslocò in via PReti 25,  per l’anno scolastico 1967, ove è tutt’ora, con una sede distaccata a Pegli. In settant’anni sono maturati circa settemila studenti, tra cui l’astronauta Francesco Malerba, l’architetto Renzo Piano, lo storico Ferdinando Fasce, il professore Fausto Cuocolo, l’onorevole Bruno Orsini, il prof. Francesco Surdich.

Da allora è sede di una succursale della Scuola Media statale N.Barabino

   All’esterno, il lato ad oriente ha sempre costeggiato anche nell’origine, l’erta salita  Salvator Rosa, prendendone i confini (nella carta vinzoniana il sentiero è aderente alla facciata est del palazzo, mentre poi  ovviamente fu spostato verso levante, per costruire il modulo laterale).

    Il cancello  dell’area giardino si apriva in via sant’Antonio (via N.Daste) al civ. 19 . Appena varcato, questo che era collocato al centro della proprietà, aveva a ponente un terreno ove ora è in via A.Cantore il palazzotto, ex-della banca d’Italia, ed a levante  una costruzione a due piani, forse per le stalle (poi adibita a reparto ostetricia-ginecologia), e vicino la casa del custode.  E’ da quel cancello che entrarono i primi ammalati all’ospedale.

   Tramite un lungo viale, centrale al  giardino, si ascendeva all’ingresso principale, che si apriva direttamente sui giardini ed orto sottostanti senza gli scaloni esterni: appare fosse munito solo di una corta e piccola scala esterna di pochi gradini, essendo il terreno lievemente degradante.

 

ad uso ospedaliero con padiglioni esterni        foto anni 1920 con facciata dipinta

 

                                                                      

anni ‘30; via Cantore in allestimento;                         anni ‘50; tra la villa ed il palazzo si vede

esiste ancora il palazzo “gemello”                               esistere un muretto di divisione

 

     

anni ’50                                                           anni 2000               

                                                                     

                                                                          

 

   La costruzione di via A.Cantore nel 1930,  eliminò  il giardino anteriore (e di conseguenza anche  il cancello d’ingresso), portando il fronte principale della villa direttamente sulla neonata strada: rimanendo così l’ingresso molto più alto rispetto l’asse viario: fu ovvia necessità per raggiungerlo, munire la facciata di due scalinate divergenti  e riattare i fondi divenuti piano terra .  Queste variazioni hanno trasformato le proporzioni estetiche, da uno sviluppo orizzontale, ad uno più cubizzato ed appesantito, seppur snellito dalle due costruzioni laterali.

    Il restante giardino fu interamente lottizzato ed edificato cosicché non rimane all’edificio nessun altro spazio se non un giardinetto nel retro: un minuscolo appezzamento di giardino, che fu dapprima forse giardino a fasce terrazzate (viene descritto un piccolo rudimentale ninfeo sul muro di contenimento del terreno a monte), poi occupato da una costruzione adibita a camera mortuaria del vecchio ospedale (pare che allo scopo dapprima fu usata la sala a piano terra posta nel retro a ponente, perché la più fresca); e poi -dal 1977 durante  restauri comunali- utilizzato con l’aggiunta di un corpo basso costruito su nuove fondamenta, ed adibito  a palestra , a stretto contatto con quello che resta del soprastante giardino della villa Ronco.

    La facciata era dipinta alla genovese, prima del restauro comunale che preferì un intonaco con  uniformità di colore; la balconata centrale ed i balconcini laterali -anche se non appaiono nel progetto iniziale del Bianco- sono tipicamente riferibili ai  primi trenta anni del seicento (palazzo Grimaldi in via san Luca), proprio per la presenza dei mascheroni antropo e zoomorfi posti a decorazione della parte inferiore delle mensole.

   Il 4 giu.1944, l’edificio subì anche l’insulto di un bombardamento che per fortuna distrusse solo parte del tetto.

   Nell’interno. Nel ‘capitolato di costruzione’ B.Bianco definì nei dettagli il materiale e le strutture da innalzare. Nei fondi sotto il piano porticato, praticamente allora previde  che in ogni parte di tutta la fabbrica si faranno cantine, cucine (con relative cappe per le gole dei camini: per 1 o 2 forni più fornelli vari), forse anche al piano nobile per esigenze giornaliere; probabile cisterna con acqua piovana dal tetto o torrentizia ricuperabile con secchi e carrucola; lavelli e scarichi per condurre l’acqua fuori di casa in qualche fossa ,o, vero nel condotto maestro; ‘et altre stanze repartite nel modo che piacerà al signor Paolo, tutte  indalbuzate lastricate di mattoni ferraioli over di pietre in coltello con calcina…’. Il portico sarà lastricato con pietra di finale o di lavagna; nel salotto a ponente si farà un camino incorniciato da lavagna; le finestre basse, con  ferrate di ferro; nelle stanze laterali dell’atrio si ospiteranno i servitori. Le scale saranno due: una per la servitù che potrà scendere nelle cantine o salire nei piani alti, e l’altra di rappresentanza. Al piano nobile ‘si farà un camino di Pietra Lavezzara di bella sagoma e rilievo, ben lustrato e polito; un pavimento di chiapello e di quadretti di Savona; si farà un bagno con due caldare di rame’ una per l’acqua fredda e per quella calda è previsto un fornello sottostante con camino per i fumi: i gabinetti, evidentemente senza scarichi, saranno costruiti ovunque venga richiesto dal padrone committente . Il tetto sarà rifatto a ‘Padiglione’.

   Nel periodo in cui l’edificio fu adibito ad ospedale, si sa fosse stato abbellito con statue e busti marmorei di medici e benefattori cittadini; nella trasformazione a scuola, dette statue furono tolte ed immagazzinate; e là rimasero finché furono riscoperte nel 1984 nel corso di un controllo casuale (furono  ritrovati anche uno stendardo ricamato in oro, alcuni vasi di maiolica e dei quadri). 

     

apice atrio                              sopraporta nell’atrio           salone del piano nobile

  Sull’apice della volta dell’ingresso, è rimasto affrescato solo lo stemma di San Pier d’Arena (guardato da sotto, sovrapposto allo stemma locale sembrerebbe poter leggere la figura di un uccello ad ali spiegate: è una illusione data dal gancio del lampagario); e la nicchia sovraporta centrale, con una Madonna, ritta, col Bambino in braccio.

 

                                             

                                                                                                        atrio - inizio scale

  Dopo l’entusiasmo del ritrovamento e qualche perplessità sul ripristino, le statue sono ritornate nel dimenticatoio, escluso quelle del donatore Giuseppe Masnata, sul cui basamento è riportata la scritta «QUESTA EFFIGE – A - RICORDO PERENNE DEL – CAV. GIUSEPPE MASNATA – CHE SENTI’ – LA PIETA’ DELLE SVENTURE UMANE – DALL’EGOISMO DEI FELICI – NON COMPRESE – O TROPPO SPESSO DIMENTICATE». Al Masnata è dedicata anche una lapide sopra una porta «in questo palazzo – del signor Giuseppe Masnata fu Francesco – ceduto – a vantaggiose condizioni – al – Municipio di SanPierd’Arena – è stato eretto l’ospedale per i poveri – l’anno MDCCCLXXIII». Dietro la statua, una più grossa lapide elenca i nomi dei benefattori: i nomi più importanti della città di allora e nella quale al Masnata viene dato il titolo di ‘nobile’ e non di ‘cavaliere’ come nel basamento e ‘signor’ nella sovraporta.

  Altra statua è della munifica Scaniglia Tubino sul cui basamento è scritto «... – i tesori – d’una beneficenza – senza orpelli e senza vanagloria – irradiando dietro una fulgida luce – faro e guida ai doviziosi»   che tutt’ora troneggiano nell’atrio di ingresso (dal costruttore definito ‘portico’;  l’atrio sembra quadrato per effetto prospettico, ma in realtà è di circa m. 8x6) assieme a quattro lapidi sormontate da medaglioni di altri benefattori (uno  dedicato a «Giambattista Moro del fu Tomaso – di questa opera pia .- già benemerito presidente – largivale con le ultime volontà somma cospicua  --.--  a riucordo perenne – dell’integro carattere dell’onestà – dell’illuminata filantropia – l’amministrazione pose – li XXIV giugno MDCCCC».   Altro dedicato a «Ad eternare il ricordo – della cospicua elargizione con cui – Sebastiano Dall’Orso fu Francesco – per ultima manifestazione dell’animo suo generoso – volle beneficiare questa Opera Pia – l’amministrazione riconoscente – della quale il benefattore fu membro solerte – questa memoria dedica  - addì 1 dicembre MDCCCLXXXVIII» ).

     

 Dall’Orso                                    Moro                Parodi-Croce                          loggia allapice scale

  Altro dedicato a «questo marmo – murato per cura dell’amministrazione – addì 21 aprile 1897 – ricorda un atto generoso – di Clementina Parodi-Croce – che memore  del suo soggiorno nella nostra città – volle giovare a questa pia istituzione – col dono di lire settemila --.—nacque a Novara il 26 maggio 1852 morì in Genova il 21 gennaio 1895».

  All’inizio della scala, si apre una stanzetta verso nord, la quale ai tempi dell’uso ospedaliero era adibita ad obitorio, essendo ‘la più fresca’. 

  La scala inizia in fondo all’atrio a sinistra, e con tre rampe ciascuna a 90° sfocia a nord  nella soprastante stanza della loggia (che il costruttore chiama ‘galarea’ cioè galleria), dalla quale si accedeva verso il lato mare tramite una triplice apertura (un portale centrale con balaustrine laterali sormontate da colonnine) costituito dal grande salone di rappresentanza (descritto essere con proporzioni tipicamente spagnoleggianti di 2/3), affiancato a levante da tre sale, ed a ponente da due. Nel 1929 vennero segnalati in una sala  5 medaglioni affrescati dai Calvi (presenti dopo il 1571 anche alle Franzoniane ed a Serra-Monticelli), raffiguranti le ‘fatiche di Ercole‘; e in altra sala altri affreschi con riprodotti episodi dell’ ‘Orlando Furioso’. In seguito a ristrutturazione, gli affreschi -evidentemente deteriorati- , furono coperti.

===civ. 29C non esiste

===civ. 29D: la ex biblioteca Francesco Gallino (i libri sono stati trasferiti nel 1991 al Centro Civico).

Dal 30 maggio 1992 divennero ospiti alcuni servizi scelti dal Consiglio di Circoscrizione: la centrale operativa regionale di Liguria Emergenza, per coordinamento e chiamate di ambulanze in forma non urgente (tel.010.46.0404) assieme all’Associazione Naz. Pubbliche Assistenze. Esse nel 2009 si sono trasferite altrove senza essere sostituite.

 

 

 lapide appesa nella prima stanza a destra,               2011-il locale nel quale erano

quando i locali erano in uso della biblioteca;           le scafalature metalliche dei libri

e lasciata dopo il trasloco, fino ancora nel 2011.

Dalla stessa data, subentrò in due piccoli locali la sede della SES (società editrice sampierdarenese) che – oltre a libri - edita il Gazzettino Sampierdarenese, gloriosa testata giornalistica seconda a parlare dei fatti locali (il bollettino ‘Corriere di Sestri’ è nelle edicole dal 1951), e dal 1999 inserita in Internet.

Nacque ad opera di un terzetto nell’aèprile 1972. Rino Baselica si stava interessando della sqaudra di calcio locale, la “Sampierdarenese ‘46” (della antica Sampierdarenese, la parte rimasta dissociata dal gruppo dirigenziale che aveva preferito fondersi con l’Andrea Doria e formare una nuova squadra, la Sampdoria che ebbe sede a Genova). La squadra locale aveva innumerevoli problemi, ai quali Baselica cercava un rimedio con gran spreco di energie personali; e quando la squadra raggiunse i 25 anni di età, Baselica pensò di onorarne la tenacia con qualcosa di clamoroso. Si accordò con due giornalisti appassionati della propria città

Ettore Bertieri e Giannetto D’Oria per fare una pubblicazione, al limite numero unico, con questo scopo (la testata portava lo stemma del lupo, simbolo della squadra stessa; solo nel maggio 74 fu cambiata con un purtroppo non perfetto stemma della città di San Pier d’Arena: il sole appariva coricantesi sul mare anziché sorgente da esso; fu giustamente corretto nel 1983 quando fu possibile con l’uso della fotolitografia inserire anche maggiore sponsorizzazione). E così fu edito il primo numero con un articolo di fondo intitolato “Impegno a servire”, foriero della volontà di proseguire nella pubblicazione del Gazzettino Sampierdarenese, nell’intenzione di farne “la voce” della popolazione, foglio libero per tutti, ed indipendente da tutti (specie dai politici anche se ciò avvenne in modo relativo essendo pressoché tutti con precedenti giovanili di partigiani e quindi tendenzialmente – e per alcuni anche decisamente - spostati alla sinistra politica: le critiche nei decenni dopo, erano “troppo di sinistra e troppo sampdoriano”... neanche più sampierdarenese...). Ai due ben presto si associarono  Bruno Palazzo e lo storco Tullio Macciò; la prima sede fu aperta in via Bruno Ghiglione al civ. 10, secondo piano e poi, seconda sede fu in salita inferiore S.Rosa 1. Ebbe subito successo arrivando - da una tiratura di poche centinaia di copie alle attuali (con circa 1000 abbonati enumerosi acquirenti dai giornalai) con vasta e minuziosa descrizione delle notizie a tutto raggio interessanti la delegazione e le viciniori ed il calcio (Sampdoria in primis, ovviamente, ma – che intendano l’antifona i genoani - a pagamento del club locale = da quando esso nel 2009 ha smesso di pagare, resiste la simpatia ma niente più pagina specifica). Con l’entrata –anno 1982- di un sesto collaboratore (Vasco Martellucci), il giornale - periodico mensile – divenne prodotto dalla ‘società editrice Sampiedarenese r.l.’ entrando ufficialmente nel mondo dell’editoria – con pubblicazione di 25 libri - e delle testate ufficiali.

   Vi ha sede anche il Centro Culturale N.Barabino: circolo artistico nato nei primi degli anni 70 per iniziativa di un gruppo di pittori sampierdarenesi quali Andreoli, Barbieri, Campani, Marsili, Fondato, Lippi, Molinari e da loro via via molti altri. Questi, dopo alterne vicende, ottennero dal Comune e dalla Circoscrizione la sede attuale, adatta per sviluppare il loro programma che vuole aiutare ad esprimere la propria personalità attraverso l’arte e disciplina pittorica: mai dimenticare i Massiglio, Rigon, Bagnasco, Galotti, Liberti, ecc.

   La palazzina fu dedicata all’insegnante di matematica Francesco  Gallino, che per trent’anni lavorò in città, ove morì nel 1929, acquisendo così l’onore storico della memoria  per la serietà professionale (vedi a CentroCivico di via N.Daste).

 

La ex via G.Masnata, è oggi una rientranza di via A.Cantore. Vi troviamo pressoché tutti in fondo alla rientranza:

===civ. 29E non ha la targhetta del numero civico, ma è un primo cancelletto che da adito ad una scaletta che scende nei fondi del palazzo 29D

===civ. 29F secondo cancelletto affiancato al precedente, che da adito ad un corridoio tra la palazzina 29D ed il muraglione, che finisce nel retro, a livello dell’ammezzato in un piccolo spiazzo abbandonato ed inutilizzato, sul quale si aprono le finestre del Gazzettino.

===civ. 31, un portone in ferro, dà ingresso pedonale ai box, al lato di levante della grossa saracinesca per le auto, che è segnata

===civ. 133Fr e 133Gr danno ingresso auto e secondo pedonale (simmetrico al precedente che però ha civico nero) ai box-Gadolla (se ne descrive a villa Ronco, via N.Ronco). La facciata, decorata a mattoni, come in salita Inf. S.Rosa, ha un mattone in bronzo con la scritta “10.034 - Le terre di Matilde - 1993 “ ed un simbolo con motivazione sconosciuta. Ha pure una nicchia con una Madonna  che fu restaurata dal pittore Lippi; coperta da una grata e grossolanamente tenuta pulita con una mano di calce; di difficile valutazione storica, è la stessa che sino a pochi anni fa era ospitata tra le pietre del primitivo muraglione ed ivi ricollocata alla ristrutturazione.

  

quando c’era il muro                         dopo fatti i box

===Il 133B  posizionato in fondo alla rientranza, dal lato del civ. 31A, stranamente viene dopo il G, dà adito a posti macchina privati, nel retro del palazzo ‘gemello’ seguente.

===civ. 31A, palazzo senza portici, offre un fianco alla strada principale


essendo la facciata nella ex via Masnata. Era conosciuto come uno dei due “gemelli”; perché ne esisteva uno eguale (vedi foto, sopra, alla villa Masnata) collocato ove ora scorre la strada principale  (in altri testi erano chiamati ‘case rosse’, dal colore dell’intonaco; o ‘Menagiati- Menoagiati’ perché abitati da famiglie indigenti o comunque di ceto operaio, neo immigrati dalle regioni limitrofe per lavorare nell’industria); come detto, dei due quello più vicino all’asse –allora principale- di via N.Daste trovandosi sulla traiettoria della costruenda via A.Cantore, fu demolito.                           

anno 2000


 Il portone di questo palazzo rimasto, è infatti aperto lateralmente, affacciandosi su una strada perpendicolare a via Daste  che –come già detto- si chiamava via G.Masnata, soppressa nel 1960 ed il tratto rimasto inglobato in via A.Cantore. Senza poggioli né decorazioni, era la tipica costruzione popolare per operai. Anticamente mi sembra fosse collocata sulla facciata di levante una nicchia con madonnetta giudicata di trecento anni fa: è stata spostata non si sa perché sopra l’ingresso dei box e l’intonaco appiattito. La facciuata che scorre con via ACantore, ha un cancelletto in ferro, senza civico. A ponente il palazzo finoisce con un terrazzo terrapieno che fa da giardino al primo piano.

Segue uno stacco col palazzo successivo, chiuso da cancello che porta il

===civ. 33: è un cancello che chiude lo stacco tra il 31A ed il 35; dà adito al retro del civ.35 ove esiste uno spiazzo –raggiungibile anche da via NRonco limitato da una sbarra- adibito a posteggio auto. La villa DeMari-Salvago-Ronco: una volta si apriva in via Daste e quindi in via A.Cantore. Ma da alcuni decenni è reggiungibile solo pedonalmente da via N.Ronco, e là viene descritta.

Il palazzo seguente, inizia con il 135r di una banca, ed ha tutti i civici rossi con lo stesso numero (135Ar, fino al 135Gr del negozio di scarpe Roa).

===135D la libreria EUSI.

===civ. 35 è un nuovo palazzo, eretto al posto di una antica villa che, sino al dopoguerra ospitava la ‘mutua s.Giorgio’. Era la villa Cardinale (essa  appare - nella planimetria del Vinzoni del 1757 - proprietà di Angelo Cardinale, del XVI secolo; nella carta è di proporzioni decisamente  piccole,  affiancata a levante al più vasto possedimento dei DeMari.  Vi trovarono sede le Suore di sant’Anna  quando ancora l’edificio si apriva in via Daste (esse, furono trasferite in via Currò e lasciarono la villa  alla Mutua aziendale Ansaldo san Giorgio, finché non venne inglobata negli anni ‘60 nell’assistenza dell’INAM (istituto nazionale assicurazioni malattie, che nel ‘79 divenne USL)).

 a destra l’edificio, quando della mutua.

Qualcuno lo ricorda come sede anche dell’INPS ma come palazzo normale e non villa antica: questo lascia pensare che la antica villa fu distrutta precedentemente e già sostituita con un caseggiato. Ultimo ad occuparla, fu la banca del Credito Italiano, prima che fosse  distrutta nel 1964.

L’attuale palazzo fu riedificato: alla toponomastica è scritto nel 1968.

 

via Nino Ronco.

 

Il nuovo isolato è composto da due palazzi affiancati in modo tale da apparire unico, ma con disegni decorativi diversi sulla facciata e sulla volta dei portici. Inizia con il 137r e finisce con il 141r il primo; dal 143r fino al 151r il secondo.

===civ. 147-9r la pellicceria Mirabella, in attività dal 1953

===civ. 37-39: con due distinti portoni e due distinte facciate,  appaiono ambedue con stile della prima terza decade del 1900. Furono costruiti sul sedime e terreno della villa Lomellini – Boccardo (antica casa residenziale patrizia, descritta in via Mercato).

===151r (il bar Liz che Cecere Riccardo titolò alla moglie, ed ancor oggi, nel 2007, conserva questo nome pur avendo tentato di cambiare due volte gestione per andarsene in pensione: tentativo fallito per incompetenza (e forse carenza di sacrificio) dei subentrati. Il locale è divenuto negli anni fino ancra nel 2010 un punto di ritrovo specifico per la zona: aperto sino alle ore piccole, con clientela selezionata dal proprietario, serviva specialmente aperititi e cocktail di alta fattura)

 

corso L.M.Martinetti; questo corso separa la UU27-Belvedere (già descritta sopra) dalla UU25-san Gaetano, descritta sotto.

 

Il palazzo inizia con il civ. 153r; non ha portoni direttamente sulla strada; come negozio più conosciuto c’è, al civ. 163r, Maiolino che vende scarpe; finisce con il 167r.

Una sbarra elettronica limita una rientranza tra questo edificio ed il successivo, come fatta a T, con un largo corridoio del loro retro adibito a posteggio dei residenti. Nel 1945, durante l’occupazione ‘alleata’, la zona era “off limits” militare: i segnali erano pitturati sui muri del palazzo, prima della totale cancellazione con un restauro negli anni 90. In questa rientranza ci sono tre civici neri (41, 43 e 45) e molti civici rossi (dal 169r al 239r); nella sua parte più a ovest è delimitato da un muro che: risulta molto antico e quindi originario, facente parte del parco della villa Doria-don Daste oggi di salita Belvedere; sembra a doppio rialzo (probabilmente perché la parte superiore fu effettuata in tempi successivi all’originale, forse per il velodromo); nello scendere verso il garage, si nota che esso ha la forma tendenzialmente ovoidale (come aveva la parte occidentale-inferiore del giardino –fatto a 8- della villa, e che risulterebbe essere limite al velodromo costruito nella zona nel 1910), e che ha -nella discesa- un largo arco di mattoni sovrapposti a pochi metri dal pavimento come ad indicare l’esistenza di un pozzo o di una rientranza a nicchia, ma sembrerebbe non avere alcun significato se non di scarico architettonico del peso.

nella discesa verso il garage, appare una volta di mattoni  semicircolare,. 

===civ. 41  È l’entrata dell’ala di ponente del palazzo delle anfore  (un altro portone, che si apre in corso Martinetti al 4 (e là viene descritto), serve la scala di levante). Come altri, i due portoni non furono aperti sulla strada principale o  perché l’edificio è di poco più vecchio (1930) della via Cantore (1935), o per lasciare sulla grande arteria gli spazi commerciali, decisamente più redditizi di due portoni.  civ. 41 con le anfore

Su disegno dell’ing. Bonistalli (che poi vi venne ad abitare all’int. 12), fu costruito dalla coop. che si autodefinì ‘popolare’, “la Ligure Edilizia” degli Stura su terreno da loro acquistato, e fu chiamato così perché alla costruzione furono poste sul tetto sei grosse anfore che andarono prima rimosse poi distrutte all’inizio della guerra 40-45, per evitare il pericolo di crollo causa bombardamenti. Le facciate, esclusa quello del retro, portano decorazioni post-liberty e grossi mascheroni; quella di via A.Cantore era arricchita nella parte centrale  da un disegno a mattoni che non vennero ripresi nella ristrutturazione del 1970 per ragioni economiche, e rimasero cancellati.

 

===civ. 43 fu costruito dalla  coop. “la Saggia”, su terreno allora appartenente ad un  sig. Bagnasco (vedi alla via omonima, ma non è certo sia la stessa persona).

 

===civ.45 (assieme al 47): delle foto ricordano (vedi via Mercato e via Daste) l’esistenza - sui prati ove ora sorgono i due palazzi (la zona si chiamava Mercato, vicino a dove ora è via Alfieri) - di un edificio a due piani, forse inizialmente casa dei guardiani della villa e poi destinato alla palestra della soc.ciclistica N.Barabino. Dal suo ingresso partiva un velodromo (vedi via Mercato) che aveva la curva di ponente - in corrispondenza del muro a 8 suddescritto dei giardini della villa Doria, e quella di levante a livello dell’attuale corso Martinetti.

 

1910 velodromo                                        a sinistra, l’attuale portone civ. 46 di via Cantore

 


               

Al civico 45 abita Lino Bruzzone, 58enne. Detto “il mancino di San Pier d’Arena” perché pluricampione di bocce, in varie società (Savio, Cornigliano, ADoria, Sampierdarenese, Lancia di Torino, Abg, Colombo, Bolzanetese, Tigullio e, ultimamente socio della Chiavarese (1999-2000), soc. Ferrero e poi della Voltrese.

Nel 2009, risulta 36 volte campione italiano; 75 convocazioni in nazionale e 8 volte campione del mondo; 5 volte vincitore di coppa Italia; 9 in coppa Campioni, e 5 europee.

Nel 2007 incaricato federale del Coni.


Il palazzo, che come detto  ha il portone sulla facciata di levante, dentro la rientranza,  inizia con il 241r, finisce con il 255r ed ha il negozio:

 ===civ.245r   è ospitato il negozio ‘Calderoni’, premiato negozio di cartoleria: il sig. Primo Calderoni arrivò dalla originaria Ravenna per prendere il diploma di macchinista navale (conseguito a Savona); si fece assumere all’Ansaldo s.Giorgio come disegnatore ma preferì iniziare l’attività di riproduzione disegni, aprendo un Laboratorio negli anni 1920 (in via Dattilo). Sempre munito di bombetta in capo, bastone i mano, grassottello-massiccio, veniva chiamato il Churchill i San Per d’Arena; e lui gongolava sentendosi uguale all’inglese, esteriormente ma anche interiormente. L’attività – grazie alle numerose i mprese presenti- ebbe successo e lui provò ad allargarsi al commercio di tutto ciò che può servire ad architetti, geometri, e gente di fantasia artistica. Sposato, ebbe sei figli (5 femmine, Anita poi vedova Scavia; Giuseppina ved. Vergani; Igea ved. Scatassi; Giulia vedova Zanasi e Ginetta in Alfati) ed un maschio Stefano (già presidente nazionale degli spedizionieri).

Tramite il genero Luigi Alfati, succeduto al proprietario -e nell’anno 2000 ancora presente in negozio- esso raccolse consensi, successi e premi,  divenendo un punto di riferimento nella città.

I portici sembrano continuativi nel succedersi, ma in realtà sono diversificati in tre frazioni diverse anche nello stile architettonico: la prima corrisponde al palazzo del civ. 45 su descritto; la seconda corrisponde al terrazzo che separa i due palazzi ed appare come un corto ammezzato a tre fornici (nel quale c’è il portone del civ. 47 e due rossi 257r e il 259r di Montanari, ottico); la terza, con sei fornici aperti su via Cantore, corrisponde ad un ampio terrazzo - senza palazzo sovrastante - contenente i civici rossi dal 261r al 267Ar.

===civ.47  grosso caseggiato, meno decorato del precedente, che all’interno 1 ospitava la Associazione Mutilati ed Invalidi, e che ha nel retro ad ovest, il muraglione su descritto (quello di cinta, divisorio a ponente della proprietà Doria. Oggi a ponente,  c’è il giardino del civ 2 di via Vittorio Alfieri); nello stesso punto in cui il muraglione arriva all’altezza di via Cantore, iniziava la


facciata di ponente dell’Oratorio della Morte e Orazione, poi demolito perché si protraeva verso il mare ‘intasando’ la futura strada (Infatti, la via ACantore nel suo finire, fu costruita con un tracciato che coinvolgeva un terzo della chiesuola:  fu ovvio distruggerla assieme alle casupole a fianco perché pure intralciavano il percorso diritto della nuova arteria. È descritto in via Daste. (vedi carta).(vedi disegno in Gazz.S.6/73.3).


  

civ 47 – verso ponente                                  ingresso villa Doria ora Ist.donDaste -anno 1905        

 

anni 1940 – verso levante                muraglione residuo, verso i box

===civ. 49, non esiste.

Via Vittorio Alfieri

L’ultimo palazzo, inizia –appena discesi cinque scalini- col civ. 269r

===civ. 51 la facciata principale ha il portone posto più basso del livello stradale, perché costruito prima della definitiva sistemazione della via Cantore; quindi in linea con l’antica strada (via Mercato) come anche non parallelo al civ. 50 di fronte a mare  ma un poco in diagonale come era la strada primitiva; e –dal 2006- ha praticamente due marciapiedi: uno quello antico classico, che da est inizia scendendo alcuni scalini; l’altro nuovo –parallelo ed esterno al vecchio- fatto a passerella che discende gradatamente evitando gli scalini. La facciata a est offriva l’appoggio ad alcune casette  –tra esse, l’Oratorio- esistenti prima dell’apertura di via Cantore ed ultime ad essere abbattute  perché aggettanti sulla strada da tagliare: di esse rimane il segno del tetto nella parte alta della facciata. Questa fu utilizzata per  reclamizzare il fascismo in epoca prebellica: vi fu affrescata l’immagine del Duce a cavallo con la spada protesa verso mete di gloria (altri mi dicono che c’era disegnata la sola testa con elmetto); sotto a grossi cubitali le solite scritte che a lungo sono rimaste visibili anche decenni dopo la guerra: Alla  base di questa immagine, nei giorni della Liberazione non pochi civili fascisti o semplicemente simpatizzanti furono tout-court fucilati da sedicenti partigiani (come i sarti Lusuardi (Giuseppe: sicuramente era nel 1933 in via Umberto I, 61. Nel periodo bellico svolgeva anche servizio nella contraerea al forte Tenaglia. Nel 1945 si dice avesse negozio nell’attuale via G.Buranello, altri dicono in via Cantore;  nei giorni di fine guerra appena firmata la resa dei tedeschi, non scappò ritenendosi non coinvolto; invece fu sequestrato da –si dice partigiani in attività di giustizieri- e fucilato sul ponte di Cornigliano; ritrovato poi dai parenti all’obitorio assieme ad altri cento corpi di similari; ai famigli fu proibito fare ed assistere ai funerali) e Soldani di via S.Canzio, che  cucivano le divise antrace. Altri egualmente uccisi non da veri partigiani ma da delinquenti vestiti da partigiani -perché più desiderosi di una propria vendicativa giustizia che di un equo processo ed in spregio alla democrazia ed alla libertà che andavano portando-,  furono lasciati sul marciapiede dove ora è il fotografo Caradossi (tra cui un commissario col suo cane, definito un brav’uomo tendenzialmente portato ad usare la sua carica per aiutare i malcapitati che cadevano nelle mani dei fascisti violenti); ed altri nell’attuale via  Avio davanti al cinema Politeama. Pastine ricorda che nel sedare una rissa, i carabinieri di corso Martinetti fermarono un individuo che teneva in tasca una lista di nomi di ‘borghesi, i più in vista’ della nostra delegazione).

===civ. 277r negozio di parrucchiere Gullaci, finisce via ACantore

via GB.Monti 

===sulla piazza, al termine della strada, non si può non ricordare il Vigile Urbano, negli anni del dopoguerra fino agli anni 1970 ed olre. I Messo al centro della strada, sul piedistallo cilindrico a regolare il traffico quando non esistevano i semafori, al freddo, al vento ed intemperie che in quel punto non riaparmiano; così nelle feste natalizie, ma a Befana in partticolare, era circondato dai doni dei cittadini, che un po' con amore un po' con odio hanno sempre portato rispetto a propri “cantuné”.

===lo sbocco del sottopasso,  è al limite tra zona di piazza Montano e quella di via CRolando.