BUOI                                                crosa dei buoi

 

 da MVinzoni, 1757. Descrizione qui sotto. In blu la villa del Monastero con proprietà verso levante.

 

Attuale via Stefano Canzio,  più dirittura in piazza VVeneto e nel lato levante (portici) di piazza NMontano.

   La strada- Come si legge nella carta del Vinzoni, dai tempi più antichi e senza data, fu così chiamata popolarmente (lui scrive “crosa dè bovi”); e dalla sua nascita la strada era (in verde) diritta ed unica, dalla zona detta “Mercato” (al centro del borgo) alla Marina (corrispondeva quindi alla somma dell’attuale piazza N. Montano, sottopasso ferroviario, piazza VVeneto, via S.Canzio). Costeggiava le proprietà  (non facilmente leggili le piccole). ponente, per prima la villa e parte del vasto possedimento di Filippo Centurione (in rosso; il suo territorio arrivava al mare, ma facendo come un L rovesciata; per cui dopo aver costeggiato più di un terzo di strada, la abbandonava verso ponente lasciandola costeggiante da altre ssottostanti proprietà); seguita dal rettangolo di terreno, posto proprio al centro del tragitto stradale, attribuito al mag.co Rainero Grimaldi (in fucsia), munito di piccolo dente di terra fino al mare; infine, la proprietà (in giallo) del macg Francesco Maria Rovere. A levante, in angolo esiste (color vino) un piccolo possedimento rettangolare, il cui proprietario è pressoché illeggibile in M.co S...Conti; seguito  dal vastissimo terreno (celeste) del Mag.co Giuseppe Doria,che arrivava quasi sino al mare esclusola palizzata sulla marina nell’angolo della crosa esiste una proprietà altrettanto illeggibile forse di un M.co Giuseppe o Agostino, Centin o Centur ?.

Nell’anno 1901 la città fu obbligata da legge reale a dare una titolazione ufficiale, apponendo una targa ai confini della strada:la Giunta comunale scelse darle in nome del pittore NBarabino. (che raggiungeva passando a levante della villa Centurione-Carpaneto, ora dove finisce via A.Cantore ed inizia via C.Rolando)

   Il lungo rettilineo fu spezzato in due tronconi a metà, quando fu eretto il  biscione della ferrovia (1850) creando nel mezzo uno slargo chiamato  poi piazza V.Veneto.

 e la strada A.Cantore (cento anni fa, dalla marina in linea col cavalcavia di piazza Vittorio Veneto proseguiva nella vecchia via N.Bixio sino a sbucare dove finiva via del Mercato (via N.Daste) per congiungersi con via A.Saffi (via C.Rolando)-  a monte dell’attuale  sottopassaggio A.Cantore).

Cronologia storica  della strada

    Nell’anno 1798, in regime della Repubblica Ligure, la municipalità - al fine di nominare degli ispettori amministrativi (una sorta di vigili urbani, con lo scopo di prevenire disordini , mantenere la tranquillità, e proteggere le proprietà -con presenza anche notturna), divise la città in tre quartieri: la nostra crosa divenne (assieme a vico dei Disperati) la linea delimitante il quartiere centrale del borgo  detto della Fratellanza da quello verso nord detto dell’Eguaglianza (il territorio compreso sino al Campasso). A sua volta il quartiere centrale era separato da quello posto  da quello all’estremo est era “della Libertà” dall’asse viario  vico sant’Antonino (sic-vedi)-san Barborino.

   Da Tuvo si ha notizia che nell’anno 1802 il 4 agosto la Municipalità obbliga tutti gli osti posti dalla crosa dei Buoi al ponte di Cornigliano, di sbarazzare i pubblici recipienti situati nei loro orti che danno esito alle acque.

   Nel 1819, da pochi anni sotto il regno dei Savoia, un quadro statistico comunale segnala che la strada era “in buon stato” ed altrove aggiunge che nel borgo la macellazione annuale (non dice dove, ma si presume avvenisse nelle singole poche macellerie) era stata di “50 bovi, 120 vacche, 200 vitelli, 40 maiali e 1300 bestie minute. Costo cadauno: bovi lire 200, vacche lire 50, vitelli 50, maiali 60, bestie minute lire 3 quale prezzo medio”; questo quando la popolazione era di 5300 persone (di cui 2310 maschi e 2990 femmine) ed in quell’anno si erano sposate 49 coppie, erano nati 193 bambini, erano morte103 persone. Genericamente erano tempi duri di miseria, indigenza e fame;  la lotta giornaliera era per la bruta sopravvivenza.

    Si legge che il 5 maggio 1821, il Comune stanziò la cifra di 650 lire “per lo sbarazzo del canale nella crosa dei Buoi“, probabile concetto di fognatura a cielo aperto, parallelo alla strada.

   Caratteristica negativa era la strettezza, fonte di continui incidenti tra carri nel loro incrociarsi o superarsi (certo non esistevano allora i sensi unici o il mantenere la destra nel trafficare la strada, e sicuramente  non mancavano i “nuvolari” alla guida dei carri. Il direttore di Polizia di Genova, scrive ai Sindaci “in vista di frequenti funesti o quanto mane pericolosi disastri che occorrono sulle strade pubbliche a motivo dell’incuria dei carrettieri, occorrono energiche misure per reprimere tali inconvenienti. I ricorda che i carri e carrettoni e le vetture dovranno essere guidate in modo che i conducenti possano in ogni tempo signoreggiare i loro muli o cavalli”): fatto è che all’ordine del giorno erano investimenti, incidenti e scontri tra carri, alcuni anche mortali.

Il Consiglio Comunale nel 1823 fa selciare la strada  (a maggio di quell’anno, lo Scaniglia relaziona”effettuato sopralluogo ordinatomi per i lavori eseguiti dall’impresa C.M., ho rlevato che il selciato non è costrutto nella massima parte con ciottoli (non lastre, nda) della dimensione di cm. 0,20 come da capitolato. Né così le ardesie di Lavagna all’imbocco del condotto, sono di piccola grossezza e non come prescritto”); ed -il 16 marzo 1824- propone di allargare la strada alla metà onde permettere nello slargo (oggi, all’incirca, in piazza VVeneto) l’incrocio tra carri;  ed all’uopo di chiedere alla marchesa Maria Doria Cattaneo il terreno necessario a creare lo slargo. In quella data, da poco la strada era stata selciata con ciottoli; ed il sindaco Vincenzo Canale, approvato dai Consiglieri, scrive il 28 settembre all’Intendente chiedendo autorizzazione: «Trovandosi in cassa l’Eccedente di £.500 circa sul prodotto del diritto stabilito per l’estrazione dell’arena ho ravvisato che non potrebbe questo meglio impiegarsi che nello stabilimento di due fanali da porsi uno in questa crosa della Cella e l’altro in quella di Bovi». Così nel 1924, a dicembre, inizia nel borgo l’illuminazione stradale.

   Nel dicembre 1851,  ove era la “trattoria del Cagnarin”, alcuni operai meccanici francesi guidati dal patriota Francesco Bardin (che con uno o due suoi fratelli, aprirono nel borgo una delle numerose fonderie, ma che poi trovarono migliore sbocco commerciale interessandosi del gas -vedi a ‘piazza delle Carrozze’-), si riunirono per fondare il 25 dic.1851  l’ Unione Fraterna, una associazione umanitaria,  parallela ad altre create da operai ed artigiani, tutti entusiasti delle nuove idee democratiche-repubblicane di fratellanza, patriottismo,  amore del prossimo, e -seppur indipendenti dalla fede religiosa- tendenzialmente agnostica; e con Mazzini  socio onorarioQuesta, poi, il 24 agosto 1862 disciolta dalla polizia ma il giorno stesso riunita con altre (con l’Umanitaria con sede in via Rolla e con il Gabinetto di Lettura quest’ultima, nata nel 1854 in una sala-teatro di via Goito                     -comunemente chiamata sala Zane dal nome del marionettista che vi lavorava col suo teatrino-aveva quasi esclusivamente finalità politico patriottica: per questo nel 1862 era stata  sciolta pure lei dalla reale polizia),  diede vita con 200 soci all’ “Associazione Generale di Mutuo Soccorso ed Istruzione degli Operai”, con sede in via Mercato 11 al palazzo Boccardo ed istituzione di scuole elementari e di disegno (per adulti e bambini) e scherma ; apertura di una banca e di una biblioteca circolante; organizzazione di varie attività tra cui una sottoscrizione pro Mazzini e con lo stesso scopo mostre d’arte e di manifatture artigianali ed industriali. Nel 1870 i soci erano 500. Nel maggio 1870  la polizia, ritrovando una lettera di Mazzini che ringraziava di una somma inviatagli, chiuse anche questa Associazione, permettendo però ai soci di riorganizzarsi e con un nuovo statuto aprire  l’Associazione Operaia Universale di M.S. di San Pier d’Arena, tutt’ora esistente in via Carzino 2. ( queste righe blu non c’entrano con la strada dei buoi)

   Anche il regio decreto del 1857, che confermava per la prima volta in forma ufficiale  il nome delle strade cittadine, sancì questo nome per una delle strade della “nuova città di San Pier d’ Arena”. Già allora la via era una delle più commerciali, di connessione tra il centro e  la marina. A quell’epoca infatti, il ‘centro’ cittadino stava spostandosi dalla zona Mercato, a quella compresa tra la chiesa della Cella e la piazza creatasi a mare della ferrovia (poi detta degli Omnibus, presso il palazzo dell’orologio).

   Nell’anno 1867, ci fu una epidemia di colera, e nella strada morirono 4 abitanti (su 68 in tutto). 

   Un piano regolatore studiato dall’arch. Scaniglia Angelo nel 1850 (allora sindaco GB Tubino) ed applicato una trentina d’anni dopo, portò negli anni 1880 (forse quando sindaco Luigi Balleydier) all’ampliamento della crosa dei Buoi con demolizione di parte delle case esistenti.

   Nell’anno 1888  fu proposto dedicare al pittore concittadino Nicolò Barabino, lui ancora vivente ma -seppur lusingato- dapprima riluttante all’idea,poi decisamente contrario la parte a mare della ”via”  (ovvero dalla marina, all’intersecazione con via Vittorio Emanuele=via G.Buranello). Solo dopo la sua morte, nel 1901 il nome del pittore fu ufficializzato, con apposizione di una targa in marmo per il  tratto a monte della lunga via (in contemporanea oltre il viadotto ferroviario fu dedicata a Nino Bixio).

     

 illuminazione a gas e non ancora arrivato Balocco

                                                                                                                

                                                               foto anni 1919-20

                                                                   Negli anni a cavallo con l’inizio del  1900-1910, viene descritto nell’angolo con via Mamiani un cinema “Ideal”, ospitato in un capannone e che funzionò per poco tempo.

    Nell’elenco delle vie del 1927 (subito dopo l’unione in unico comune), compare una ‘via Buoi’ in Centro che avrebbe impossibilitato tornare al vecchio nome.   Pertanto, prima del 1933, in una verifica di eventuali confusionari doppioni, locali e con il centro di Genova, fu dedicata a  Stefano Canzio.

DEDICATAorigine del nome- Non è ben chiara, ma tanto fa supporre che si debba risalire al medioevo, anche se –come per tante altre cose, non esistono prove. Come per altri toponimi, il nome dovrebbe derivare dall’uso (o quantomeno in altri casi  da indicazione di manufatti o proprietà principali).

il BUE animale: si può partire da lontanissimo. Addirittura dalla protostoria, nell’età del bronzo, nelle figurazioni rupestri del monte Bego: accanto alle figure dell’ascia e del serpente, c’è -a completamento dei simboli dell’attività agricola- il bue.

Prima dell’invenzione della moneta come mezzo di scambio, ed ancora all’epoca dei romani, in genere la pecora era il valore-base riconosciuto ubiquitario; cos’ un bovino valeva dieci pecore (solo nei paesi anglosassoni, un bue corrispondeva a dodici montoni o pecore, ed il cambio rimase per secoli (fino al 1971) uno scellino per dodici pence.

Con salto millenario, arriviamo nella grotta di Betlemme –non quella in Palestina ma quella in Umbria riprodotta con il paesaggio che c’era ai tempi di s.Francesco: un asino ed un bue; i due animali più in uso ai contadini di allora.

Sappiamo che nel 1300 a Genova e nel territorio attorno, la corporazione dei macellai era divenuta potente, tanto da influire nell’elezione del doge (Simone Boccanegra). Ne è testimonianza il personaggio ricordato in una lapide nel chiostro delle Vigne, Rossi Antonio (su essa è scritto: “Anth.Ruby”), che -macellaio di origine sampierdarenese- era nobile e divenne sia viceduce che ‘anziano della Repubblica’. Sono di quell’epoca manoscritti conservati riguardanti il commercio del bestiame nelle tre podesterie (Bisagno, Polcevera, Voltri) e le regole a cui i macellai erano soggetti, rivelando che la corporazione allora era retta da severissime leggi sia fiscali (uno di loro era incaricato di riscuotere una cifra-gabella per ogni animale introdotto) che sanitarie (l’importazione di animali sia via terra che mare, doveva avvenire solo su licenza degli ‘emptores’ ed essere dichiarata sotto giuramento, pagando una imposta e con l’ingiunta di macellare solo in appositi luoghi. Lo stesso per eventuale imbarco su navi pena il sequestro ed addirittura l’incendio del naviglio. L’unica razza bovina geneticamente autoctona in Liguria è la ‘cabannina’, selezionata dalla natura dei luoghi e dal vantaggio nel rapporto costo-beneficio (basso costo di mantenimento e capaci di tirare l’aratro, carri, lese; e la mucca quale ottima produttrice di latte e presente in tutte le stalle della provincia ed oltre). Nel basso Piemonte la razza ‘varzese’ e quella ‘piemontese’ divennero il bue montanino per eccellenza)).

Sappiamo anche che nel medioevo e rinascimento, il contadino aveva prevalente il concetto arcaico della autosufficienza: quindi piccolo allevamento ed autoconsumo; la commercializzazione di beni alimentari (castagne, grano, mais, vino, legna, frutta) doveva compensare economicamente le spese (tasse, affitto, beni di consumo come vestiario ed attrezzi, reinvestimenti nelle semenze, in beni –anche banali, come il sale-, ecc.).

A fine 1700 dai documenti dell’ASGe si rileva che – con una popolazione di 61.545 - esistevano solo 287 buoi, contro 10508 vacche, 65 tori e 12191 vitelli; 13052 pecore; 3048 agnelli; 1934 asini e 1604 muli; 986 montoni. Statistica questa, che confrontata con Sanremo, Savona, Chiavari fornisce le stesse percentuali, escluso zone di campagna dove i buoi raggiungono cifre quindici volte superiori; se ne deduce che  l’investimento economico in un bue non era alla portata di tutti, e men che mai in un borgo avviato a divenire città.

Relativo al più recente anno 1819, nel borgo sono avvenute macellazione di 50 bovi (valevano £.200 cad.), 120 vacche (£.50 cad.), 200 vitelli (£. 50 cad.), ed a seguire 40 maiali e 1300 bestie minute. Un po’ pochi per titolar loro una strada.

Wikipedia riporta una inedita curiosa spiegazione, ovviamente falsa: «La Lanterna sorge sul territorio di Sampierdarena, marcando appunto il confine con la città di cui è simbolo. Narra la leggenda che per determinare a quale delle due città appartenesse il Faro, si ricorse ad una gara: due coppie di buoi avrebbero dovuto tirare in senso opposto un pesante macigno. La coppia di animali rivolta verso Ponente ebbe la meglio. I sampierdarenesi, in segno di riconoscenza, dedicarono addirittura una creuza ai propri buoi»

   Diviene quindi ovvio pensare:

----considerato che i toponimi caratteristici traggono pressoché sempre origine da rimarcatura da parte della popolazione di un evento particolare locale, di qualcuno o qualcosa significativo più degli altri, si può pensare che magari - anche per affitto ed uso temporaneo - qualcuno possedesse nella strada una stalla. Esclusi –qui nel borgo- un allevamento e l’uso contadino (soggetto quest’ultimo del famoso “t’amo pio bove, e mite un sentimento...”, però nelle piane del Po, comunque in Piemonte), si può pensare ad essa     -esistente sulla via che collegava la marina col mercato- nelle decadi di fine 1700 o inizio 1800, al finire dell’epoca degli aristocratici.

 ---- o al frequente passaggio di questi animali in questa strada; ma la cosa non è per nulla chiara e semplice perché anche così si offrono due tesi diverse, le più spesso proposte da chi scrive sul tema:

a) Qualcuno giustifica questo transito col fine di trainare i carri con  carichi da e per la marina

(Tombarello (se quadrato, a due ruote, con spalliere, agile, tirato da un solo animale; si scarica sganciandolo ed alzando le due stanghe; la sua portata fissa, divenne unità di misura). Carrozza (se rettangolare e tirata da due o più bestie. Lêza (dialettale=a scivolo), l’ancestrale mezzo di trasporto: un veicolo rustico trainato da buoi ma con gli scivoli al posto delle ruote).

Il trasportato era o materiale appena sbarcato dalla spiaggia, indirizzato al mercato o ai depositi (grossi barili di olio o di vino, altrettanto sbarcati in alta quantità); o anche e spesso la sabbia per lavori edili specie nel periodo di enorme incremento dell’edilizia. 

 Questo transito doveva essere non da poco se fu fatta proibizione passare a fianco del palazzo Centurione “del Monastero”:  perché non  usufruissero di questa strada, essa  fu chiusa da una catena, da cui poi il nome.

 Alternative al trasporto erano: il mulo. Animale duttile, forte e paziente; ma simbolicamente è molto meno valutato del bue e meno utilizzabile per il traino pesante.  Se si vuol  polemizzare, verrebbe da chiedersi  allora “perché ricordare i buoi,  e non chiamarne una anche crosa dei muli?” in quanto dovevano essere altrettanto e forse più numerosi a trainare i carretti. Da ricordare che quando fu autorizzato il taglio della pietra per ricuperare l’effige del SS.Salvatore alla Lanterna, il solenne trasporto fino all’abbazia di san Martino,  fu  compiuto  su  un carro trainato da buoi.   E fuori del borgo, con carri a slitta o scivoloni, divenne tradizione dal medio evo in poi che fosse trainato da buoi, a trasportare prima dalla val Polcevera –e poi solo dalla val Bisagno- al Sindaco, il tronco di lauro da bruciare al confuoco, la vigilia di Natale.  Infine e non da poco, il cavallo. La spiegazione dovrebbe trovarsi nel considerare che l’uso del cavallo per traino locale fu più tardivo rispetto al bue, e questo forse perché –anche se più veloce- era  assai più costoso, e quindi ‘di lusso’ per la manovalanza del basso ceto sociale; o  per il suo maggiore utilizzo in operazioni diverse, giudicate più nobili come  nelle guerre o per spostamenti più vasti;  o comunque perché meno utilizzabile nei mille impieghi di quei tempi. Fosse anche arare i terreni: nei campi, il contadino prediligeva la zappa, e l’animale aveva poco uso -forse per gli spazi angusti di lavoro,

b) Altri, valuta il passaggio degli animali  per essere condotti al macello  in qualche zona della marina -prima che avvenisse la costruzione degli edifici appositi al Campasso. Qualcun altro rafforza questa ipotesi, riproponendo un vecchio detto, suggerito nell’infanzia a chi oggi è nei più, che diceva “î ammazzi a-o Canto, e o mercôu a-o Campasso”- Alla metà di luglio del 1799 il consiglio municipale annotò i cattivi effetti sulla salute, dei muli e cavalli seppelliti alla Fiumara ed anche dei resti che i macellai dell’esercito francese gettavano dal ponte di Cornigliano; questo dice che alla marina avveniva una specie di mattatoio ma ovviamente non dice che vi fossero macelli ufficiali. Un secolo dopo, si raccontano episodi di ovvi inconvenienti al passaggio delle mandrie nella via; e -non ultimi- di “animalisti” che già allora creavano contrasti ideologici con i rozzi mandriani stessi; il tutto  contribuiva a far giudicare la città, alla fine del 1800,  ancora  paese genericamente inefficiente, anche se il tutto era giustificato come necessario per l’industria  e la cittadinanza locale. Roncagliolo, ‘storico’ del Gazzettino, arriva a giustificare il nome della strada come derivante dal tragitto dei buoi inviati al macello (in uno scritto li fa provenire dalla stazione ferroviaria collocata a terra in piazza poi Omnibus e da lì portati alla marina e poi a via DeMarini ove esisteva un ‘concentramento’; in altro pubblicato, al Campasso, e provenienti dagli scali ferroviari del Canto e della Crociera.

Personalmente- ritengo improbabili tutte queste tesi, innanzi tutto essendo il nome stradale molto più antico della ferrovia,  precedente addirittura di alcuni secoli alla linea ferroviaria, anche quella che dopo –e quindi a maggior ragione- fu portata in via C.Colombo (via San Pier d’Arena) . Lo stesso cronista ricorda due buffi episodi relativi alla crosa: la figura di un furfante, detto “il Murta” che davanti al giudice in tribunale, giustificò il furto di un bovino avviato al macello raccontando aver raccolto una corda per strada e non essersi accorto che all’altro capo era legata una mucca, che ovviamente lo aveva seguito: questa spiegazione destò l’ilarità di tutta la corte. Ed ancora di una squadra di pompieri in sfilata, che marciando per via C.Colombo e dovendo girare per raggiungere piazza degli Omnibus, invece del classico ordine militaresco ‘volt a destr!’  ,  si sentì ordinare dall’ufficiale “zù, pe-a crosa di bô .

In ogni caso –dagli archivi genovesi scritti dalla Prefettura francese- appare che  non esisteva nel genovesato alcun allevamento di ‘bestiame grosso’, mentre nel 1807 era stato valutato che esistevano nel territorio genovese solo  632 buoi, contro 19.976 vacche da  latte (invece netta prevalenza era degli ovini); mentre -entro le mura- la città contava 202 cavalli, 197 asini e muli, 253 vacche, 82 ovini (i buoi non sono citati).

 a destra (‘sul mare’) la scritta “Crosa de bovi” (la parola Crosa si legge male e sembra di sei lettere: o la C nella parte alta ed in quella bassa è spezzata e la o sembra e, e la s sembra r; oppure la o non è chiusa ed  è costituita dalla unione della 3ª e 4ª.lettera). Per la v di Bovi che somiglia ad una u, facciamo riferimento alla sottostante a sinistra (sulla ‘spiaggia’), di Fran.co Rovere

 Per paragone riportiamo la parola Crosa come scritta per altra strada

 

B) IL BOVO barca --- Sulla carta del Vinzoni del 1757 si legge chiaro il nome ‘crosa de bovi’.

Ritengo da non escludere che l’etimo del nome provenga da un tipo di barche chiamate ‘bovi’, assai presenti sulle spiagge liguri (cantieri conosciuti a Varazze), anche se non tipicamente liguri.

 

a sinistra, disegno, dal libro “Pescatori di corallo” di Durante & DeFerrari ed. Dominici

a destra, disegno dal libro di O.Tinteri: barche nella storia, barche nel mediterraneo-ed.LaLinea

 

Dobbiamo far mente al periodo storico: alla fine degli anni del 1700,  durante l’epoca napoleonica, era in atto il blocco mercantile, con sequestro del naviglio più grosso da parte della flotta inglese (tecnica del lento salassare il nemico almeno laddove – cioè in mare – si era nettamente superiori); quindi,  la non esistenza di navi se non di più piccolo cabotaggio; ma compensato da maggior capienza possibile, e tale che – a vela e remi - potesso fuggire dalla cattura,  preferibilmente bordeggiando sotto costa.

In Italia, le prime menzioni di barche simili, di piccolo cabotaggio, denominate bovi, appaiono nelle statistiche del Regno di Sardegna proprio in quel periodo di fine XVIII secolo; con incremento tale che all’epoca della Restaurazione (1815) essi eranomolto diffusi (circa il 10-15% dei velieri registrati a La Spezia, per esempio). Nella prima metà dell’Ottocento il bovo poteva dirsi un’imbarcazione comunemente usata;  a partire dalla seconda metà,  le statistiche ne mostrano un calo numerico: ne esistevano in Italia 283 nel 1878, 160 nel 1892 e solo 52 nel 1905.  Appare molto difficile spingere l’indagine un po’ a ritroso nel tempo, per chiarire quali possano essere le origini di questa barca che per mezzo secolo era divenuta  tradizionale; ed le sue affinità con altri tipi nei quali è evoluta e modificata. Di tutti questi bellissimi strumenti di lavoro, che diedero da vivere alle generazioni passate delle nostre popolazioni costiere, sappiamo veramente molto poco.

In sostanza, un veliero armato a tartana, ovvero a due alberi: il primo, albero centrale, verticale (mentre nel leudo è inclinato in avanti), grande, a vela latina maestro o di mezzana a proravia, , con un bombresso quasi orizzontale portante una vela aurica o, più spesso due latine (in certi casi sull’albero e sull’alberetto poteva essere bordata una gabbiola); il secondo, albero di mezzana, innalzato a poppavia del timone con una o più piccola vela latina (detta mezzanella) dotata di  lungo buttafuori poppiero). A prua, una lunga asta detta di fiocco, tesa pressoché orizzintale, portava un fiocco o un polaccone.  Non si usavano i terzaroli perché se uil ventyo era suffieintemente teso, bastava la vela latina anche di dimensioni ridotte (come nelle galee).   L’attrezzatura  sembra predisposta per una manovra  molto semplice (che consisteva nel far passare il carro -l’estremità anteriore dell’antenna- a poppavia dell’albero. Dai modelli questa manovra non sempre appare realizzabile; così appare più frequente che, l’antenna restava sempre su un bordo; essa portava bene quando era sul bordo giusto, sottovento rispetto all’albero; meno bene nel caso contrario, ma questo svantaggio non era considerato troppo grave rispetto i vantaggi.

Lo scafo era a in rapporto 3:1 tra lunghezza (da 12 a 21m) e larghezza (da 4 a 6,4m); prua slanciata; sezione maestra ampia; poppa sia quadra che rotonda;  caratteristico, un accentuato ‘bolzone’ (le assi trasverse, da parete a parete, quali tiranti tra le due murate con lo scopo di tenerle costantemente unite, dette bagli. La coperta era molto bolzonata, dato che sottocoperta aveva un carico di botti, essendo assai spesso usata per trasporti vinari.

Nella sezione longitudinale, possiamo vedere la solita suddivisione dello spazio sottocoperta, con la parte centrale riservata al carico, gli alloggi per l’equipaggio a prua e le cabine del comandante (che spesso era anche armatore) e del suo secondo a poppa.

Avevano una portata dalle 15t alle 30t, fino anche a 60t (27 tonnellate di stazza media nel 1905);

Iin genere era  adibito al trasporto o di merci secche o a quello  del vino, ma questi ultimi si distinguevano per la forte curvatura data al balzone ottenuta arcuando verso l’alto i bagli, il che permetteva di ospitare sottocoperta botti rotonde più capienti.

Fu pressoché l’ultimo tipo di vela che comparve in Liguria, finché fu sostituito con un altro scafo chiamato ‘cotre’.

Nessuna somiglianza con il nostro bovo aveva il “bateau boeuf” provenzale (all’origine, “bouf”) ; il termine indicava non una barca ma una rete da pesca (a strascico). Ancora nel 1769 Duhamel riportava sotto “bouf” il significato di tecnica di pesca; il significato di barca compare solo nel 1830: bouf = barca impiegata per la pesca “aux boeufs” (una evidente similitudine con i buoi appaiati a tirar l’aratro). Invece, il bovo con le paregge è evidente per quanto riguarda lo scafo. Infatti, in Liguria spesso le fonti statistiche sommano insieme paregge e bovi, come se si trattasse di un unico tipo di imbarcazione. Diversi autori sostengono, sulla base dell’iconografia, che la differenza riguardava unicamente l’alberatura. La pareggia aveva l’albero maestro a calcese, inclinato in avanti, mentre nel bovo l’albero era verticale, senza cavatoie per il passaggio degli amanti di drizza, e portava un alberello di gabbia..  L’attrezzatura della pareggia era quella tipica delle barche, sulle quali il passaggio dell’antenna verso il bordo sottovento, quando la barca virava o il vento cambiava direzione, avveniva alla maniera natica. Infatti sulle paregge, come sui leudi e su tante altre imbarcazioni tradizionali del Mediterraneo, il paranco di drizza dell’antenna di maestra era ammarrato sul ponte a poppavia dell’albero. Con questa attrezzatura la manovra era piuttosto impegnativa, occorreva applicare l’antenna (porla cioè in posizione verticale) farla passare di bordo a proravia dell’albero, e condurre la scotta della vela latina, controvento, da un bordo all’altro. Questa manovra era detta “fare il carro” nel Tirreno, e “butar de brazo” dai veneti.

La prof.Gatti scrive che ‘di questo scafo, nel 1815 sono le unità più numerose in tutta la regione’ (anche se molti barche spesso assomigliano ad altre perché “il costruttore riproduce, e insieme, modifica e innova”). Però indirettamente la studiosa pone un freno a questa interpretazione, quando scrive che nelle sue ricerche ‘non abbiamo mai incontrato questa denominazione prima del XIX secolo’  sulla scia di DeNegri che ha descritto più particolareggiatamente alcuni tipi di scafi e che datava la comparsa di questo tipo di scafo al Primo Impero Napoleonico o ai tempi della Repubblica Democratica Ligure.   Però A)= nello stilare la qualità della flotta del Levante (Lerici-Portofino) del 1796 quindi casomai XVIII secolo, riporta esserci 2 bovi da 30-40t cad.;   B)=in tutto il corposo e preciso libro, benché S. Pier d’Arena sia citata molte volte, lo è sempre di rimessa poiché quasi tutta la documentazione presentata, specie quella nei particolari, attinge prevalentemente dai cantieri del ponente (specie Varazze). E nel descrivere il bovo, della cantieristica di SPd’A non ne fa alcun cenno (quindi non ci dice se non ce ne era seppur il più frequente, né cosa c’era di diverso).

 

 

BIBLIOGRAFIA

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-Novella P.-Strade di genova-Manoscritto b.Berio.1900.pag.9.18

-Petrucci VE.-Dizionarietto-Secolo XIX-pag.344

-Tinteri O.-Barche nella storia, barche del Mediterraneo-LaLinea2011-p.32

-Tuvo T.-Memorie storiche di SanPierd’Arena-dattiloscr.inedito-pag 50.87

-Tuvo T.-Sampierdarena come eravamo-Mondani.1983-pag.31foto

-Tuvo.Campagnol-Storia di Sampierdarena-D’Amore.1975-pag.52

 

non citata da Alizeri